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Pulsazioni del comando e conflitto di riproduzione. Note a margine di un incontro di Effimera

di Massimo De Angelis

pulse trace.jpgMassimo De Angelis interviene in merito ad alcuni interventi del convegno di Effimera “Anni di guerra: menzogne, verità, scintille“, che si è svolto lo scorso 15 novembre 2025 al C.S. Cantiere a Milano (e di cui pubblicheremo a breve gli atti). Nel corso del convegno sono state poste questioni dirimenti: “che fare?” e “dove sta Gaia?”. Si tratta di tematiche cui non possiamo sottrarci. Gaia non è un’aggiunta ecologica, un capitolo separato da affiancare a quelli sulla transizione egemonica o sull’economia politica. È il piano di fondo su cui si muove l’intero campo di forze: ciò che precede e condiziona ogni forma di cooperazione, ciò che la pulsazione del comando deve continuamente aggirare, contenere, dislocare o compensare. Ma contro questa pulsazione (aggiungeremmo schizofrenica) si oppone una “contro pulsazione”: “la sfida – dice l’autore – non è scegliere tra geopolitiche alternative. È intervenire nei punti in cui il sistema pulsa: nelle crepe del comando, nelle pressioni della riproduzione sociale, nelle soglie che Gaia impone, nelle forme di comune che emergono come contro-pulsazioni operative”. 

* * * *

Il punto di vista radicale – quello che va alla radice delle cose – non inizia dai rapporti tra gli Stati, né dalle oscillazioni dei mercati globali, e nemmeno dalle strategie delle grandi potenze o degli sviluppi tecnologici. La radice, direbbe il giovane Marx, è l’umano stesso: il modo concreto in cui, cooperando in forme plurime, riproduce la propria vita e le condizioni del proprio agire.

Oggi quella radice si presenta come un conflitto diffuso, trasversale, che attraversa l’intero corpo della cooperazione sociale: da una parte la logica della riproduzione del capitale, dall’altra quella della riproduzione sociale nel senso più ampio — cioè la riproduzione della vita umana e non umana, dei corpi e delle relazioni, degli ecosistemi (Gaia).

Se prendiamo sul serio questa radice, allora parlare di “ordine mondiale”, “crisi egemonica”, “imperialismi”, “impero” non può significare ciò che spesso intendiamo: non solo la competizione verticale tra Stati, né la traiettoria storica più o meno lineare che porta un polo egemonico a sostituirne un altro. La competizione tra Stati — in quanto forme storiche di articolazione tra capitale e territorio — è certamente una delle modalità privilegiate attraverso cui questo processo si manifesta: una superficie visibile, e spesso drammatica, delle logiche più profonde dell’accumulazione.

Ma proprio perché è una modalità e non il fondamento del fenomeno, il nostro sguardo deve andare oltre: si tratta di interrogarsi sulle forme dinamiche e contraddittorie mediante cui il comando capitalistico tenta di regolare e contenere quel conflitto originario tra riproduzione del capitale e riproduzione sociale al fine di promuovere il primo sopra il secondo.

L’egemonia, in questa prospettiva, non è dunque un soggetto geopolitico che dirige dall’alto, bensì una configurazione sistemica di comando: un campo di forze che tenta di “tenere insieme” la riproduzione del capitale contro le derive, le pressioni, i bisogni e le lotte che emergono dal lato della riproduzione sociale.

Soggetto più o meno egemonico del comando e comando come forma egemonica della cooperazione sociale stanno tra loro come parte e totalità sistemica. Il soggetto più o meno egemonico — lo Stato dominante, il blocco geopolitico e geoeconomico, la coalizione di poteri che in un dato momento sembra detenere la direzione — è solo una parte, un nodo che interpreta e prova a guidare un ritmo più ampio di sé. La totalità sistemica, invece, è il modo in cui il comando capitalistico attraversa e struttura la cooperazione sociale nel suo insieme: una trama di forze che si esprime attraverso pulsazioni molteplici, non pienamente controllabili da alcun soggetto, e nella sua operatività agisce come dispositivo.

Per questo l’egemonia non coincide mai con il soggetto che la vorrebbe incarnare: quest’ultimo è un operatore storico di un processo più grande, un interprete parziale di una coerenza che non possiede. Le strategie statuali, le dottrine geopolitiche, i piani industriali sono dunque espressioni locali e temporanee della forma egemonica del comando, tentativi di inscriversi dentro una totalità che pulsa, si ricalibra e produce scarti, eccedenze, contro-tempi. In altri termini, il soggetto egemone è la figura attraverso cui il sistema tenta, per un momento o una fase storica, di darsi un volto e una direzione, al fine di preservare la propria egemonia sulla cooperazione sociale.

In questa prospettiva, la tendenza non è una direzione impressa dall’alto, ma l’effetto provvisorio del modo in cui le diverse pulsazioni del comando si sincronizzano — o entrano in attrito — con le contro-pulsazioni della riproduzione sociale e con i limiti posti da Gaia. La tendenza non è ciò che il soggetto più o meno egemone decide di voler perseguire, ma ciò che emerge dall’interazione complessa tra queste pulsazioni e le contro-pulsazioni della vita.

 

Le pulsazioni del comando

Gli interventi di Sandro Mezzadra e Raffaele Sciortino al recente convegno di Effimera (15 Novembre) illuminano molti aspetti della nostra fase storica. Mezzadra mostra come ci troviamo dentro una transizione egemonica aperta, senza garanzia di un unico sbocco, segnata da un regime di guerra diffuso e da processi di centralizzazione che riecheggiano intuizioni leniniane. Insiste inoltre sul tema cruciale della transnazionalità delle lotte. Sciortino, dal canto suo, legge il trumpismo come un esperimento di “socialdemocrazia perimetrata”: sostituzione delle importazioni, rilancio della produzione militare, redistribuzione selettiva. Una ricomposizione che, tuttavia, si fonda su una crescente militarizzazione e su un irrigidimento autoritario delle fratture sociali. In questo quadro, gli Stati Uniti sembrano avvicinarsi a una modalità regolatrice più vicina al modello cinese — centralizzazione statale, pianificazione strategica, collocazione dell’industria all’interno della competizione militare — mentre l’Europa, al contrario, accelera un processo di americanizzazione: tagli alla riproduzione sociale, disciplina fiscale, crescente militarizzazione delle priorità politiche.

Sono letture che aprono prospettive importanti soprattutto se le inquadriamo dentro una prospettiva che non pensa il comando come una direzione che si irradia dall’alto, ma a un campo di forze che attraversa e struttura la cooperazione sociale ben oltre le mosse visibili degli Stati. Spostare lo sguardo dal piano delle geostrategie statuali al piano della cooperazione sociale planetaria significa non negare l’importanza dei governi o delle rivalità tra Stati, ma collocarle nel luogo in cui realmente operano: come modalità storiche attraverso cui le pulsazioni del comando si incarnano, si modulano o si distorcono.

Lo si è visto chiaramente nelle recenti decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sulla Palestina: il “piano Trump” è stato approvato non perché rappresenti una nuova egemonia statunitense, ma perché diversi Stati — inclusi Russia e Cina, con astensioni strategiche — si muovono dentro un campo di interdipendenze che va oltre le loro intenzioni dichiarate. Ogni voto è apparso come una scelta sovrana, ma è stato in realtà l’effetto di scambi incrociati, vincoli energetici, interessi commerciali, posizionamenti nel mercato globale delle armi, timori di destabilizzazione regionale.

Lo stesso vale per il piano statunitense sull’Ucraina o per la politica dei dazi: gli Stati agiscono come se imponessero una direzione, ma finiscono per essere trascinati dal sistema che li struttura — dalle catene globali del valore alla centralità finanziaria del dollaro, dal ritmo della guerra alla crisi climatica. In tutti questi casi, ciò che appare come “linea geopolitica” è, più profondamente, una modulazione delle pulsazioni del comando: la strumentalità (armi, sanzioni, dazi), la ricalibrazione delle soglie (tolleranza alla guerra, ai costi sociali), la gestione della crisi (guerra, inflazione, migrazioni), lo spostamento dei costi (energia, debito, ricostruzione). La transazionalità di Trump è esemplare: ogni decisione viene presentata come un “deal” sovrano, come se bastasse scambiare concessioni per ridefinire l’ordine mondiale. Ma in realtà questi scambi non producono effetti lineari: vengono risucchiati dal campo di forze sistemico — finanza, catene del valore, guerra, energia — che li riorganizza secondo logiche che eccedono le intenzioni. Anche la diplomazia del baratto diventa così una modulazione delle pulsazioni del comando: non determina il sistema, ma viene determinata da esso.

Sono state poste due domande dal pubblico agli interventi di Mezzadra e Sciortino: “che fare?” e “dove sta Gaia?”. Sono domande che diventano intelligibili solo dentro questo quadro. Gaia non è un’aggiunta ecologica, un capitolo separato da affiancare a quelli sulla transizione egemonica o sull’economia politica. È il piano di fondo su cui si muove l’intero campo di forze: ciò che precede e condiziona ogni forma di cooperazione, ciò che la pulsazione del comando deve continuamente aggirare, contenere, dislocare o compensare.

In questo senso, Gaia non è un soggetto, né un’esternalità: è il limite vivente della cooperazione sociale. Un limite che il capitale tenta costantemente di spostare — attraverso estrazione, displacement, espansione delle soglie, negazione dei vincoli ecologici — ma che ritorna come pressione sistemica, come crisi climatica, come disordine materiale, come policromi della riproduzione sociale. Le lotte ambientali degli ultimi anni hanno mostrato non solo l’insostenibilità della traiettoria attuale, ma anche il punto in cui la pulsazione del comando si infrange contro una soglia che non può essere ulteriormente ricalibrata senza compromettere la possibilità stessa della vita.

Il che fare d’altro canto non può nascere da una pura analisi geopolitica — che resta sempre in superficie — né dalla ricerca di un nuovo centro egemonico più benevolo. S’imposta solo intervenendo nei punti in cui il sistema pulsa: nei suoi scopi, nei suoi attori legittimi, nella produzione di crisi, nelle soglie che definisce, negli strumenti che attiva, nei costi che sposta.

Ogni azione che rafforza la riproduzione sociale, ogni forma di autorganizzazione, ogni istituzione dal basso, ogni alleanza tra movimenti climatici, femministi, indigeni, del lavoro, ogni pratica quotidiana di cura e cooperazione genera contro-pulsazioni.

Contro-pulsazioni che non si limitano a “resistere”, ma che ricalibrano diversamente le funzioni stesse del comando: ridefiniscono gli scopi, allargano il campo degli attori legittimi, spostano risorse, riposizionano soglie, contestano strumenti.

Il che fare è dunque un’azione sistemica: non la conquista del centro, ma la pressione diffusa che altera il ritmo stesso della riproduzione sociale.

Chiamo pulsazioni queste dinamiche ricorrenti attraverso cui il comando sistemico del capitale tenta di mantenere la propria coerenza di fronte alle contraddizioni e alle policrisi che esso stesso genera: battiti irregolari che non sono sincronici per natura, ma funzioni diverse del comando che orientano scopi, strumenti, soglie e attori, attraversano la cooperazione sociale, si intensificano o si affievoliscono, ed entrano in risonanza o in conflitto con le forze che provengono dalla vita e dalle sue esigenze di riproduzione. Tendono a sincronizzarsi solo nella misura in cui prende forma un certo “ordine” mondiale, cioè una configurazione egemonica capace di armonizzare — spesso forzatamente — questi battiti entro un ritmo relativamente comune.

Gli Stati, infatti, non sono i soggetti sovrani del comando, ma i suoi operatori storici. Attivano, modulano o deformano le pulsazioni, ma non le controllano pienamente; sono nodi attraversati da forze più ampie, costretti a confrontarsi tanto con le pressioni del capitale sempre più forti attraverso i meccanismi di centralizzazione, quanto con le contro- e alter-pulsazioni provenienti dalla riproduzione sociale e dalle lotte. La loro azione è sempre parziale, contraddittoria e spesso destinata a produrre effetti inattesi proprio perché interviene in un campo di forze che li oltrepassa. In altre parole. Se guardo alle strategie degli Stati Uniti, della Cina, o dell’Europa, cosa vedo? Vedo mappe, piani industriali, dottrine militari, obiettivi dichiarati o nascosti: la linearità di progetti che pretendono di dar forma al mondo. Ma se guardo alle stesse strategie dentro il campo di forze in cui si muovono, cosa vedo? Vedo scopi che cambiano ritmo nel contatto con la cooperazione sociale; vedo strumenti che producono effetti inattesi; vedo soglie che cedono sotto la pressione della vita; vedo crisi che, invece di essere controllate, diventano materia viva che rilancia il caos; vedo Gaia che riaffiora come limite materiale e simbolico; vedo contro-pulsazioni che incrinano ogni pretesa di coerenza. Vedo che nessuna strategia è mai solo ciò che intende essere: è ciò che il campo di forze la costringe a diventare.

 

Il comando come campo sistemico

Se prendiamo sul serio il conflitto tra la logica della valorizzazione capitalistica e quella della riproduzione della vita, allora l’egemonia non è un soggetto geopolitico ma l’effetto di una macchina sistemica che pulsa, si ricalibra, tenta di regolare la cooperazione sociale nella sua interezza, anche producendo rotture nei precedenti modelli di regolazione.

Il comando capitalistico è un dispositivo stratificato che opera attraverso funzioni fondamentali della cooperazione sociale. È composto da una serie di pulsazioni: quelle che definiscono i fini della regolazione, quelle che stabiliscono chi è autorizzato ad agire, quelle che producono e gestiscono la crisi, quelle che spostano selettivamente i costi sociali ed ecologici, quelle che scelgono e ampliano gli strumenti del comando, e quelle che ricalibrano le soglie di ciò che la società può sopportare. E attorno a queste funzioni che si costruiscono narrative, si delineano strategie, e si producono effetti.

Queste pulsazioni non sono strumenti nelle mani di un solo attore egemonico: sono il modo in cui il sistema stesso pulsa, attraverso l’azione di soggetti più o meno egemonici che si muovono dentro un campo di forze. Sono il modo in cui il sistema si riequilibra, tenta di compensare le proprie contraddizioni e cerca di governare la cooperazione sociale planetaria.

Alla luce di questa prospettiva, la transizione egemonica non è un cambio di polo o una successione tra potenze, ma un processo di ricalibrazione delle pulsazioni del comando. La questione non è chi governerà domani, ma come viene gestito – o lasciato degenerare – il conflitto tra riproduzione del capitale e riproduzione della vita.

È proprio per questo che la guerra non può essere intesa come un “regime” eccezionale o come un semplice strumento geopolitico. La guerra è una manifestazione interna alla pulsazione dell’ingegneria della crisi e della selezione strumentale del comando: un modo specifico di produrre, incanalare e governare la crisi sistemica, e di riorientare le energie della cooperazione sociale quando le pressioni della riproduzione — ambientale, sociale, democratica — diventano troppo intense per essere assorbite. La guerra, in altre parole, è un dispositivo privilegiato per trasformare le crisi in risorse di comando, soprattutto quando le pressioni provenienti dal lato della vita – crisi climatica, movimenti ecologisti, lotte sociali – diventano o rischiano di diventare troppo intense.

Allo stesso modo, il trumpismo non è un’anomalia nazionale: è una modulazione specifica delle pulsazioni del comando a scala imperiale. Non va interpretato come il ritorno di un protezionismo ottocentesco né come semplice populismo reazionario: è un tentativo di ricalibrare le soglie di ciò che la società può sopportare pur di ristabilire un controllo sul campo di forze della riproduzione. Ogni domanda che proviene dalla riproduzione sociale — salari più alti, diritti, welfare, protezioni ambientali, tempo di vita, sicurezza climatica — dal punto di vista del capitale è un costo, un freno alla valorizzazione. Il trumpismo è un tentativo di “risolvere” questo problema restringendo l’ambito dei diritti e irrigidendo i confini della vita sociale; non allargando la sfera della vita, ma irrigidendone i confini attraverso privilegio razziale, nazionalismo, militarizzazione e guerra commerciale.

Così, il suo esperimento di “socialdemocrazia perimetrata” — qualche beneficio fiscale selettivo, promesse di rilocalizzazione produttiva, sostegni mirati ad alcuni segmenti della forza-lavoro bianca — è inseparabile da un poderoso rilancio della produzione militare; dalla subordinazione della politica industriale alla competizione bellica e tecnologica; dall’uso sistematico della paura, del risentimento e della frammentazione sociale come dispositivi regolativi. È un progetto che tenta di contenere le pressioni della riproduzione, e in particolare quelle provenienti dal limite ecologico, innalzando progressivamente il livello di ciò che viene reso tollerabile: più conflitto, più rischio, più esclusione, più violenza tollerata come “normale”. Il trumpismo è una modulazione delle pulsazioni a scala imperiale che non amplia i diritti, ma tende a restringerli; non allarga la sfera della vita, ma irrigidisce i suoi confini; non risolve i limiti ecologici, ma spinge le soglie più in alto. Una politica di comando “emergenziale” che tenta di ristabilire un controllo sistemico irrigidendo gerarchie, militarizzando il quotidiano e trasformando il conflitto globale dell’intero dispositivo sistemico.

 

Cambiare le domande, non solo le risposte

Se il comando è un campo di forze immanente all’organizzazione della vita comune e non una tendenza verticale, una traiettoria imposta dall’alto, allora anche il modo di formulare le domande deve cambiare.

Il linguaggio ereditato dell’egemonia separa geopolitica e riproduzione sociale; guarda agli Stati invece che alle logiche della posizione sistemica; immagina il comando come una catena lineare di decisioni, anziché come un processo a pulsazioni; isola Gaia come tema ecologico anziché come condizione ontologica che attraversa tutte le altre sfere.

Mettere al centro la questione delle pulsazioni del comando rompe questa eredità.

Non ci chiede: chi governerà domani?

Ci chiede: come pulsa oggi il comando?

Quali scopi si stanno ridefinendo?

Quali attori vengono legittimati e quali esclusi?

Quali crisi vengono prodotte, incanalate o utilizzate come risorsa?

Quali soglie della vita vengono rese più dure?

Quali strumenti vengono attivati?

E soprattutto:

dove, dentro questa architettura, emergono contro-pulsazioni?

in quali punti la riproduzione sociale incrina la logica del comando?

dove Gaia impone un limite che non può più essere spostato?

dove le pratiche di comune rendono possibile un altro ritmo della vita?

Cambiare le domande significa iscrivere politica, economia, ecologia e soggettività dentro un’unica dinamica sistemica, fatta di scontri ritmici tra pulsazioni del comando e contro-pulsazioni della riproduzione.

l problema non è stabilire se l’egemonia americana crollerà o se emergerà un nuovo centro. Il punto è comprendere come si riorganizza il campo di forze che tiene insieme – sempre più precariamente – le pulsazioni del comando capitalistico, soprattutto in un mondo in cui la crisi climatica, la crisi sociale e la crisi democratica si intrecciano in modi inediti.

La sfida non è scegliere tra geopolitiche alternative; è intervenire nei punti in cui il sistema pulsa: nelle crepe del comando, nelle pressioni della riproduzione sociale, nelle soglie che Gaia impone, nelle forme di comune che emergono come contro-pulsazioni operative.

È lì, in quegli interstizi vivi e contraddittori, che si gioca la possibilità di una transizione non egemonica ma ecologica e cooperativa, una possibilità che non nasce dall’alto ma dalle pratiche diffuse che riorganizzano la cooperazione sociale dal lato della vita. E lo vediamo quando la vita esonda, come nelle piazze per la Palestina: un’onda che rompe gli argini del comando e rimette in circolo un’altra misura del mondo. La domanda è come trasformare quell’esondazione in qualcosa di sempre più sistemico, capace di spostare davvero il ritmo e le finalità della cooperazione sociale.

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