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effimera

Il Politico nella storia dell’analisi economica. Una discussione sulla nuova edizione di “Filosofia Economica” di Adelino Zanini

di Stefano Lucarelli

Ebook 4 Effimera.jpgIn questi tempi terribili cimentarsi con un testo dedicato alla relazione fra fondamenti economici e categorie politiche può sembrare il vezzo di un Don Ferrante, l’erudito manzoniano che dinanzi alla pestilenza si rifugia nelle riflessioni filosofiche: “Non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera […] un accidente non può passare da un soggetto all’altro”. Ma il mio intento non è indicare la strada del letto dove andare a morire “come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle”[1]. La nuova edizione di Filosofia Economica (DeriveApprodi, 2025) suscita alcune questioni che meritano di essere approfondite e sciolte in un linguaggio comune. E la mia lettura dell’opera di Adelino Zanini – non solo del suo ultimo libro[2] – è sempre stata sorretta dalla necessità di renderla intellegibile, innanzitutto a me, negli anni della mia formazione, poi, oggi, alle nuove generazioni. Ecco alcune ragioni per compiere questo sforzo interpretativo:

  1. penso che un libro che si preoccupa della dyscrasia fra Politico ed Economico debba poter parlare ai più giovani; una generazione che ha vissuto buona parte della sua vita dopo la crisi economica globale, nel pieno della crisi climatica e, ora, in un tempo in cui esiste fortissimo un discorso pubblico che torna a normalizzare la guerra, quasi a farne nuovamente la “sola igiene del mondo”;
  2. penso anche che Filosofia Economica – la cui prima edizione apparsa nel 2005 si basava su ricerche preliminari che erano cominciate venti anni prima – sia il frutto di un lavoro molto serio da parte di un accademico che ha fatto della smithiana prudence la sua regola. Zanini cela dietro la sua colta prosa una eccezionale sensibilità politica. È questa eccezionalità che mi ha sempre spinto a seguire tanti suoi suggerimenti negli anni della mia formazione: è stato un utile esercizio alzare il velo dell’erudizione dietro alla quale lo studioso protegge la sua immagine in società. È davvero importante ritrovare una cultura che proviene da tempi e luoghi in cui “i maestri si bruciavano le mani con le fiamme che avevano acceso”[3]. Quei maestri – che oggi sono innominabili nelle aule universitarie e che non hanno più nemmeno un Sergio Zavoli interessato a raccontarne le ragioni[4] – vivono nelle categorie analitiche che Zanini utilizza.
  3. Si giunge così a scoprire che il messaggio più prezioso di questo testo è che non esistono principi trascendenti che rendono inevitabile l’ubbidienza al comando, non c’è alcun sistema economico naturale cui corrisponde un insieme di decisioni politiche indiscutibili. Ma si scopre anche che esiste una forte propensione a rappresentare il mondo come se esso fosse “fatto e predisposto per chi comanda e per chi obbedisce, per chi ammira e non si indigna”.

La parola dyscrasia indica infatti una cattiva mescolanza, uno squilibrio nella composizione di elementi fondamentali; nel campo delle scienze amministrative essa può essere impiegata per segnalare la presenza di disfunzioni dentro gli apparati governativi. Nel suo libro Zanini ci ricorda innanzitutto che nel pensiero economico esiste un gioco di sovrapposizioni e slittamenti fra Politico ed Economico. Ne dà conto a partire da quattro grandi pensatori (Smith, Marx, Schumpeter e Keynes) che oggettivamente rappresentano dei riferimenti epocali in grado di cogliere le caratteristiche specifiche del mondo in cui vissero. Ciascuno a loro modo tenta di risolvere le disfunzioni che ravvisano[5]:

“La sovrapposizione smithiana opera una mediazione essenziale tra il paradigma antropologico hobbesiano e quello hutchesoniano. Un approccio squisitamente teologico-politico viene integrato […] e disinnescato, per così dire, nel mare magnum delle passioni umane, dal quale riemerge un’idea storico-politica di governo […] la political economy è da considerarsi ‘as a branch of the science of a stateman or legislator’. […] La critica di Marx alla political economy classica invoca da sé la propria politicità […] mezzo atto a confutare la pretesa naturalità dei rapporti sociali capitalistici […]. Di qui [a partire dalla separazione tra proprietà e lavoro] l’importanza d’interpretare il plusvalore come una differenza che non si risolve affatto nel sovrappiù economico diversamente ‘misurato’. […] Marx punta a risolvere politicamente la sovrapposizione tra economico e politico; Schumpeter ne persegue invece la disgiunzione analitica. […] L’impossibile rappresentazione del politico è relativa alla sua indicibilità economica e, per converso, alla sua irriducibilità pratica.

Di questa medesima irriducibilità rende diversamente conto la sintesi operata da Keynes, per il quale economico e politico devono invece procedere insieme, avendo, quale loro comun denominatore, la somma di razionalità e irrazionalità dell’agire umano.” (pp. 12-14).

Da studioso di economia politica e cultore della storia dell’analisi economica, credo che valga la pena dare una immagine emblematica al percorso concettuale proposto da Adelino Zanini. Pensiamo allora al modo in cui Smith, Marx, Schumpeter e Keynes trattano la teoria della distribuzione dei redditi, e in particolare riflettono sul salario: il salario di sussistenza è condizione per essere parte della società civile, in Adam Smith, laddove la dimensione politica e quella economica sono sovrapposte e partecipano entrambe di un’etica; il salario è invece residuo necessario di un prodotto netto di cui si appropriano i capitalisti perché i lavoratori non possono vivere di sola aria. Tuttavia Marx – attraverso la critica – denuncia lo scandalo nascosto sotto l’apparenza borghese svelando la differenza che demarca il Politico e l’Economico e offrendo al contempo a la possibilità di fare dello stesso salario uno strumento di rivendicazione per la classe dei subalterni; vi è poi la visione impolitica del salario, quando esso viene ridotto a variabile che nel ragionamento schumpeteriano sembra segnata, in termini reali, da un vantaggio che quasi automaticamente ad essa offre la dinamica innovativa: al termine del processo innovativo – innescato dal credito concesso agli imprenditori – non appena le innovazioni si diffondono nella struttura produttiva i profitti allora si esauriscono, mentre i salari reali aumentano dal momento che le innovazioni spingono in basso i costi di produzione, dunque i prezzi delle merci. Così si perdono le ragioni delle rivendicazioni operaie sui salari; infine, ecco il salario come mediazione tutta politica che Keynes ravvisa alla luce del fatto che esso è innanzitutto reddito in grado di sostenere la domanda effettiva[6]. Questo esercizio pedagogico conduce molto lontano dall’aspirazione di separare nettamente i pregiudizi ideologici e i risultati dell’analisi economica. D’altronde, seguendo le tracce di uno dei più attenti studiosi delle diseguaglianze, Branco Milanovic, si può scoprire che non solo gli strumenti teorici, ma anche le grandezze statistiche sono questioni dibattute su cui agisce la “coscienza pubblica”. Quest’ultima – ricorrendo alle parole di Schumpeter – “riflette sempre, in modo più o meno equivoco, e in certi tempi in modo più equivoco che in altri, la struttura di classe della società che si considera e le mentalità o gli atteggiamenti di gruppo che in essa si formano”[7]. Si pensi ad esempio alla costante distributiva di Pareto [secondo cui la distribuzione del reddito era dettata da una legge di natura tale che nessuna politica economica e nessun cambiamento di qualsiasi genere che si potesse apportare a un sistema sociale (coma sostituzione del capitalismo con il socialismo) avrebbe potuto alterarla], e la si metta in relazione con la sua teoria delle élite, ma anche con il suo entusiasmo per la marcia su Roma, “legge” economica le cui fragilità empiriche sono svelate dallo stesso Milanovic: “Oggi sappiamo che la ‘costante’ di Pareto cambia da una distribuzione all’altra (e cioè che non è sempre la stessa a prescindere dal tempo e dal luogo), ma anche che, all’interno della stessa distribuzione, il coefficiente assume valori differenti a seconda di quale porzione della distribuzione del reddito prendiamo in considerazione”[8].

In questa seconda edizione, Zanini va ancora più lontano. Decide di ampliare la sua riflessione e di avvicinarsi di più ai tempi in cui viviamo. Pertanto, l’autore dedica molte pagine ad affrontare la cattiva mescolanza fra Politico ed Economico dentro la tradizione ordoliberale (pp. 350-439). L’ordoliberalismo, reazione potente al ragionamento di Keynes che faceva della regolamentazione del ciclo economico non un evento contingente ma strutturale, appare in fondo come una filosofia economica disorganica. In essa non emerge nessun grande pensatore, ma si affannano alcuni ambiziosi giuristi che, quasi per caso, si sono trovati ad influenzare considerevolmente gli assetti istituzionali – incompleti e incoerenti – dell’attuale Europa. L’attribuzione delle funzioni politico-sociali agli istituti giuridici privatistici e il riconoscimento del fatto che siano essi a costituire i presupposti di un ordinamento economico non sottoposto a dominio, lascia aperta la possibilità che il regolatore – cioè lo Stato – sia influenzabile da specifici gruppi di interesse, quanto meno nell’ambito delle politiche sociali, cioè nella definizione degli interventi redistributivi che pur sono ammessi dagli ordoliberali. Lo Stato ordoliberale dovrebbe essere una potenza ordinatrice in grado di smantellare i gruppi economici di potere, ma è anche vero che questo starker Staat deve prima identificare chi siano questi gruppi di potere. L’autorevolezza formale dello Stato non è messa in discussione dalla Scuola di Friburgo, che riconosce legittima persino la preservazione del ruolo guida che esso deve mantenere, esprimendo questo concetto con un termine in uso anche nella teoria nazionalsocialista dello Stato (Fuhrertum). Insomma è forte la tentazione di riconoscere dietro questa filosofia politica la necessità di plasmare le norme che regolano il mercato a uso e consumo di gruppi di interesse che nel concreto vanno a restaurare il ruolo guida di un centro egemonico sulle periferie.

Eppure – sembra suggerire Zanini – è proprio questo lo spirito dei tempi con cui soprattutto i più giovani dovranno fare i conti. Un’epoca fatta di tutele giuridiche privatistiche che prepotentemente cercano legittimazione in “costrutti politici ed economici altamente ibridi, che debbono adeguarsi a un oltre lo Stato” (p. 437).

Una questione mi sta particolarmente a cuore: l’ordine cronologico che Filosofia Economica segue – presentandosi così anche come una storia del pensiero economico e politico occidentale – indica l’adesione a una visione teleologica della storia delle idee? So per certo che la risposta di Zanini sarebbe negativa. Eppure resterebbe aperta un’altra questione: è inevitabile l’esito ordoliberale che risolve la relazione fra Politico ed Economico realizzando nel concreto un rinnovamento dello “stato d’eccezione amministrativo, statisticamente legittimato da un data-driven policy making infarcito di algorithmic-technologies e supportato da AI” (p. 430-431)?

Personalmente auspico che esista sempre una possibilità epistemologica se non anche pratica: come insegnava Giorgio Lunghini, la scienza economica può essere vista come “l’insieme delle teorie economiche rivali nella spiegazione del valore delle merci e della distribuzione del prodotto sociale”[9]. In essa punti di vista sommersi e dimenticati possono tornare in auge. Perché mai non sarebbe possibile uscire dalle sovranità amministrative ibride, soprattutto in un mondo in cui esistono logiche diverse e inesplorate per affrontare problemi politici urgenti su scala internazionale (compresi i problemi relativi alle nuove tecnologie) che potrebbero sorgere da un confronto multilaterale? Penso evidentemente ai BRICS e al modo in cui lì si affronta la relazione fra Politico ed Economico. [E questo mio pensiero è giustificato dallo stesso Zanini quando scrive che “è fuori di dubbio che il rapporto discrasico tra politica ed economia si dia oggi in contesti geopolitici ibridi, tutt’altro che stabili, men che meno prevedibili, in cui la circolarità ordoliberale garantita da uno starker Staat appare esausta” (p. 17).]

Nella mia recensione alla prima edizione di questo libro mi soffermavo in particolare su un passaggio del ragionamento di Zanini a proposito delle relazioni esistenti fra i quattro modi in cui Smith, Marx, Schumpeter e Keynes risolvevano la dyscrasia fra sovranità politica e sfera economica: il loro accostamento potrebbe generare un circolo virtuoso grazie al quale dovrebbero apparire più chiare le ragioni per le quali, modernamente, il rapporto fra Economico e Politico non può che essere un rapporto critico. Mi sembrava allora e mi sembra ancora oggi, che solo la risoluzione della relazione fra Economico e Politico attraverso la figura concettuale della differenza – introdotta da Marx – possa compiutamente dar conto di una relazione critica. Torno quindi a riproporre all’attenzione dell’autore un problema pedagogico sempre urgente: se è vero che, come anche egli afferma, nella relazione critica tra Economico e Politico è possibile cogliere il destino cui soggiace ogni pretesa di decidere, allora ogni sovranità – comprese le ibridazioni ordoliberali – poggia su criteri non oggettivi.  Marx parlava di una vera e propria dismisura (che della differenza è il risultato politico).

Coloro che sanno che la libertà senza eguaglianza e fraternità si riduce a sfruttamento dovrebbero farsi carico di questa verità. Sarà mai possibile pervenire ad un assetto istituzionale che parta dall’assunzione che la relazione instabile fra Economico e Politico è foriera di diseguaglianze? Esiste forse fuori dalla tradizione del pensiero occidentale una strada da percorrere fatta di fondamenti economici e categorie politiche in grado di dar forma a un altro esercizio del potere[10]?


NOTE
[1] Si veda Manzoni, A., I Promessi Sposi, capitolo 37, https://liceoberchet.edu.it/matdidattici/manzoni/ps37.htm.
[2]  Zanini, A., Filosofia economica. Fondamenti economici, categorie politiche, forme giuridiche, Nuova Edizione Ampliata, DeriveApprodi, 2025.
[3] Cfr. Negri, A., Apologia del cattivo maestro, 2008, https://www.nazioneindiana.com/2008/01/23/i-cattivi-maestri-toni-negri-per-luciano-ferrari-bravo/
[4] E i più giovani potrebbero apprender molto da quei colloqui: cfr. Zavoli, S., La notte della Repubblica, Mondadori, 1992. Si potrebbe cominciare dalla visione di una intervista in particolare: https://www.youtube.com/watch?v=GmyBbbkIY3Y
[5] Su questo rinvio alla mia recensione alla prima edizione del libro di Zanini: Lucarelli, S., Il vincolo della dismisura: sovranità politica e sfera economica. A proposito di Filosofia economica di Adelino Zanini, “Fenomenologia e Società”, 28(1), pp. 139-151, 2005. Si veda anche Fumagalli, A., Sfera politica e sfera economica: un rapporto difficile. A proposito di “Filosofia economica” di Adelino Zanini, “Economia Politica”, XXIII (2), 2006.
[6] Si veda Milanovic B., Visioni della disuguaglianza, Laterza, 2005.
[7] Si veda il primo capitolo di Schumpeter, J.A., Storia dell’analisi economica, versione ridotta a cura di Claudio Napoleoni, Boringhieri, 1972.
[8] Milanovic B., Visioni della disuguaglianza, Laterza, 2005, pp. 172-178.
[9] Si veda Lunghini, G., Prefazione a Maurice Dobb, Storia del pensiero economico: teorie del valore e della distribuzione da Adam Smith ad oggi, Editori Riuniti, 1999.
[10] Nella sua recensione alla prima edizione di Filosofia economica, Toni Negri dopo aver notato che dal punto di vista politico il percorso di Zanini conduceva alla distruzione del concetto di società civile “dal di dentro dello sviluppo dell’economia politica” concludeva: “Quello che si esige qui  […] è una teoria dell’esercizio del potere da parte delle moltitudini, ovvero, per dirla semplicemente, un ‘esercizio del comune’”. Cfr. https://www.carmillaonline.com/2005/06/29/toni-negri-su-filosofia-economica-di-zanini/
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