Print Friendly, PDF & Email
Print Friendly, PDF & Email

scenari

Capitalismo o neofeudalesimo? Un’introduzione

di Jodi Dean

Come pensare insieme la crisi della riproduzione sociale, l’intensificarsi delle disuguaglianze economiche e la riduzione dell’orizzonte politico? In Capitalismo o neofeudalesimo? Jodi Dean delinea le coordinate per reinterpretare i mutamenti globali del modo di produzione capitalistico e proporre una nuova ipotesi finalizzata a comprendere la fase attuale dello sviluppo del capitalismo stesso. Su Scenari proponiamo un estratto del libro.

Progetto senza titolo 50 1160x480.png1. Panoramica

Che cosa definisce il capitalismo contemporaneo? Come lo descriviamo? Quali sono i suoi tratti salienti? È addirittura corretto descrivere il nostro presente come capitalista? La mia ipotesi è che il capitalismo stia diventando qualcosa d’altro, qualcosa che possiamo proficuamente descrivere come neofeudale. Le dinamiche proprie del capitalismo si stanno avviluppando su se stesse in una sorta di sussunzione assoluta, con nuovi signori e nuovi servi, con una micro-élite di miliardari delle piattaforme e un massiccio settore di servizi, ovvero di servitori. Nel chiederci se l’ipotesi neofeudale abbia senso, se il capitalismo stia veramente diventando qualcosa di diverso, dobbiamo tenere a mente che il capitalismo si è sempre sovrapposto ad altri modi di produzione, su cui ha fatto leva e che ha sfruttato a suo vantaggio. Il capitalismo li deteriora, smantellando le condizioni a cui essi si erano adattati e assoggettandoli a leggi a loro estranee.

Da alcuni anni ormai sono alle prese con la questio ne posta da McKenzie Wark: “e se non fossimo più nel capitalismo, ma in qualcosa di peggiore?” [1]. Sulle prime pensavo che tale questione fosse assurda: certo che siamo nel capitalismo, in un capitalismo veramente orribile, estremo e neoliberale; in un capitalismo che ha abbandonato il compromesso a esso imposto dai movimenti operai nel XX secolo e procede a briglia sciolta nella sua corsa al profitto. Ma più esaminavo la questione, meno l’idea di un capitalismo eterno e sempre in grado di adattarsi diventava convincente. Harry Harootunian, ad esempio, critica l’immagine di un “capitalismo compiuto in occidente”.

Print Friendly, PDF & Email

effimera

La tendenza e il residuo: a partire da Arrighi, Lin Biao, Gosh, Keller Easterling, Liu Cixin, Panzieri e Anders

di Franco Berardi “Bifo”

In vista dell’incontro di presentazione della nuova edizione del libro di Giovanni Arrighi e Beverly J. Silver, Caos e governo del mondo (Mimesis, Milano, 2024), che si svolgerà sabato 6 aprile a Milano (Libreria Aleph, h. 15.00), pubblichiamo un intervento di Franco Berardi “Bifo”

ernst angelo focolare 2.jpg“A partire dagli anni Sessanta Arrighi si era impegnato (nel confronto con Amin, Franck, Wallerstein) nella costruzione di un modello interpretativo che tenesse insieme la questione del dominio spaziale e quella del dominio di classe…” (pagina 12)

Con queste parole, nella sua introduzione al libro Adam Smith a Pechino, Salvo Torre delinea il senso generale dell’azione teorica condotta da Giovanni Arrighi.

L’espressione “dominio di classe” si riferisce alla tendenza fondamentale del capitalismo che è la trasformazione del tempo in valore, e l’accumulazione di valore grazie alla sottomissione del lavoro umano ridotto ad astrazione.

L’espressione “dominio spaziale” si riferisce all’estendersi territoriale del dominio del capitale, nelle forme del colonialismo, dello schiavismo, del genocidio e dell’ecocidio.

Il pensiero di Marx costituisce uno sforzo titanico mirato a ridurre l’infinita varietà degli eventi del mondo a una tendenza iscritta nella relazione tra gli uomini, e più precisamente nei rapporti di produzione che di quella infinita varietà sono la fonte e la misura. Quello sforzo titanico non era (nelle intenzioni del titano) meramente descrittivo, ma implicava l’azione pratica della minoranza cosciente della società, un’azione che definiamo lotta di classe.

Il cuore dell’evoluzione storica sta nell’intreccio di tendenza all’astrazione (trasformazione in valore del tempo concreto) e persistenza del residuo (il proliferare di eventi e di cose esterne al processo di astrazione).

Print Friendly, PDF & Email

carmilla

Il salario minimo non vi salverà

di Nico Maccentelli

Savino Balzano, Il salario minimo non vi salverà, Fazi Editore, Collana Le Terre – 2024, pp. 168, 12 euro

Schermata 2024 03 28 alle 20.53.54.pngLeggere Il salario minimo non vi salverà di Savino Balzano, offre un’infinità di spunti di riflessione per chi ancora oggi voglia proseguire e rilanciare lo scontro di classe e intenda ragionare su una piattaforma che coniughi diritti fondamentali sul lavoro, compreso il salario, e la questione della democrazia e della partecipazione popolare nella lotta di classe. Ottima la prefazione di Lidia Undiemi, che già in precedenza aveva analizzato i tratti negativi dell’operazione salario minimo.

In sintesi, ciò che il libro evidenzia è l’inutilità se non la controproducenza di un salario minimo legale finché le politiche attuate nel nostro paese sono quelle neoliberiste, che mettono al centro la massimizzazione dei profitti, subordinando retribuzioni e qualità della vita a questo desiderata che di fatto è un imperativo indiscutibile per la classe padronale.

Il salario minimo ha a che vedere con il potere d’acquisto? È una prima sostanziale domanda da porsi.

Il potere d’acquisto delle retribuzioni in Italia, con il nostro paese che è diventato il fanalino di coda per livelli salariali in Europa e quindi con una misura come il salario minimo c’entra come la panna nella carbonara. Così ironizza Savino Balzano(1), sostenendo a giusta ragione che la contrazione salariale in questi ultimi trent’anni ha riguardato categorie le cui retribuzioni sono ben oltre la soglia di salario minimo che si vorrebbe introdurre, come i meccanici, i chimici, i bancari, i farmaceutici, il pubblico impiego, solo per fare alcuni esempi. Ciò pertanto non produrrebbe alcun effetto. Il salario minimo legale, nel contesto italiano e per come pensato da chi per decenni ha remato contro gli interessi dei lavoratori, non comporterebbe effetti significativi per la stragrande maggioranza della popolazione salariata.

Print Friendly, PDF & Email

petiteplaisance

Il capitalismo genocidiario si cela dietro la cortina della società dello spettacolo

Il suo linguaggio è divenuto finzione filmica

di Salvatore Bravo

il massacro dei comunisti in indonesia 1.jpgCapitalismo genocidiario

Il capitalismo non è mai sufficientemente compreso nelle sue dinamiche distruttive e negatrici della natura umana e della vita. La sua azione globale non può che incontrarsi e scontrarsi con i limiti delle conoscenze personali e, specialmente, con le censure dirette e indirette a cui siamo sottoposti. Riorientarsi in una realtà organizzata secondo la forma del capitale mediante il “velo dell’ignoranza” è operazione non semplice. Se ci poniamo nell’ottica del cittadino medio e delle nuove generazioni possiamo ben comprendere quanto “il capitalismo dello spettacolo” riduca il pianeta a uno strumento da usare e da consumare: in tal modo la vita dei popoli e la storia del capitalismo sono obliati. Il capitalismo senza la mediazione umana della storia può continuare la sua corsa nelle comunità e negli individui; può continuare a bruciare vite e popoli e a percepirsi come “assoluto”.

Il capitalismo si autopresenta come “assoluto” e costruisce di sé una immagine ipostatizzata, in quanto coltiva l’ignoranza di sé. Le esistenze organizzate in stile “reality” consentono ai crimini del passato e del presente di perpetuarsi. Il capitalismo dello sfruttamento e genocidiario si cela dietro la cortina della società dello spettacolo. Anche il linguaggio è divenuto finzione filmica, non a caso la parola “capitalismo” è stata abilmente sostituita con le espressioni “liberale e liberista”, le quali ammiccano alla libertà. Si ha l’impressione di essere dalla parte giusta, e di vivere nella libertà: naturalmente la libertà “capitalistica” deve essere intesa come la possibilità di affermare il proprio “io” usando il mondo e riducendo ogni incontro a mezzo per accrescere l’ego-idolatria. La storia del capitalismo riportato alla sua verità storica e ai suoi crimini è paideutica per accrescere qualitativamente la crescita umana e politica delle soggettività e delle comunità.

Print Friendly, PDF & Email

lafionda

La fiducia nelle istituzioni e i dividendi di guerra

di Fabio Vighi

Banksy Israel Palestine Peace Poster 53148484 1.png‘La morte dell’Occidente non ci ha privato proprio di nulla di vivo ed essenziale e la nostalgia è quindi fuori questione.’ (Giorgio Agamben)

Anche se quasi nessuno lo vuole ammettere, il nostro “sistema” è obsoleto, e per questo si sta trasformando in “sistema chiuso”, ovvero totalitario. È altrettanto evidente che i pochi che continuano a trarre vantaggio materiale dal sistema capitalistico – il famigerato 0,1% – sono disposti a tutto pur di prolungarne l’obsoleta esistenza. Alla radice, il capitalismo contemporaneo funziona in modo molto semplice: si emette debito da una porta e lo si riacquista da un’altra grazie all’emissione di nuovo debito; un loop all’apparenza inattaccabile da cui origina la maggior parte dei fenomeni distruttivi con cui ci troviamo a convivere.

Gli esecutori del meccanismo sono una classe di funzionari-profittatori il cui principale tratto psicologico è la psicopatia. Sono talmente devoti al meccanismo da esserne diventati delle estensioni – come automi, lavorano indefessamente per il meccanismo, senza rimorso alcuno per la devastazione di vita umana che dispensa. La dimensione psicopatica (disinibita, manipolatoria, e criminosamente antisociale) non è però una prerogativa esclusiva della cricca finanziaria transnazionale, ma si estende a macchia d’olio sia sulla casta politico-istituzionale (dai vertici dei governi agli amministratori locali), che sull’apparato cosiddetto intellettuale (esperti, giornalisti, scrittori, filosofi, artisti, nani e ballerine). In altre parole, la mediazione politico-culturale della realtà è oggi interamente mediata dal meccanismo stesso. Chi entra nel sistema non solo deve aprioristicamente accettarne le regole ma, ipso facto, ne assume lo specifico carattere psicopatologico. Così, la folle oggettività capitalistica (il suo spietato congegno riproduttivo) diventa indistinguibile dal soggetto che lo rappresenta.

Print Friendly, PDF & Email

effimera

Imperiarcato e sociopatia

di Piero Pagliani

Stormtruppe geht unter Gas Vor Otto Dix 1924. 800 759x511 1.jpgDopo aver preparato la trappola ucraina per anni e anni, per lo meno da quando lo stratega statunitense della Guerra Fredda, George Kennan, scongiurava di non farlo, di non allargare la Nato a Est, ed era il 1997, e dopo averne accelerato la messa a punto a partire dal golpe nazista della Maidan nel 2014, gli Usa, la Nato e tutto l’Occidente ci sono cascati dentro. Da soli. Ripeto: sono cascati dentro la trappola che avevano accuratamente preparato.

E ora non sanno come uscirne.

Si agitano senza un piano e continuano a chiedere agli ucraini di immolarsi per non fargli perdere del tutto la faccia, alimentare ancora un po’ il business della loro industria militare e dargli tempo per capire come scappare fuori dal pantano.

Nel frattempo per consolarsi si raccontano le favole da soli, come ha recentemente fatto su Foreign Affairs il capo della CIA, William Burns:

«L’obiettivo originale [di Putin] di conquistare Kiev e soggiogare l’Ucraina si è dimostrato folle e illusorio. Il suo esercito ha sofferto immensi danni. Almeno 315.000 soldati russi sono stati uccisi o feriti» [1].

Ex analisti militari americani e persino della CIA, preoccupati che ormai da tempo i servizi di intelligence raccontino solo quello che i politici neo-liberal-con voglio sentirsi raccontare, dicono tutt’altro, in base ai dati: la Russia non ha mai cercato di prendere Kiev (aveva dislocato lì meno di un ventesimo delle truppe necessarie a farlo).

Print Friendly, PDF & Email

comedonchisciotte.org

Da Neoliberismo a Caosliberismo: Una malattia sociale di lunga durata

di Glauco Benigni

neoliberismo.jpgIl Neoliberismo è al tempo stesso un’ideologia politica e una teoria economica. La sua comparsa risale alla fine degli anni ’70. Il suo effetto apparve sin da subito subdolo e persuasivo e cominciò a influire non solo sui mercati finanziari e del lavoro, ma anche sull’organizzazione degli stili di vita e di pensiero. Il suo ideologo Friedrich von Hayek, che ricevette il Nobel per l’economia nel 1974, era assolutamente convinto che la Società si regge solo e unicamente grazie alle azioni di singoli individui. Una certezza che “risuona” con alcune affermazioni del Calvinismo: “la vocazione di ognuno si lega in positivo con la predestinazione e da vita a una nuova etica della Società e del lavoro“. Una “chiave morale” che vede la crescita del capitale individuale quale “opera buona e giusta”, da cui molti studiosi vollero interpretare il messaggio calvinista quale modello ideale della borghesia occidentale contemporanea. Alcuni opinion makers di regime arrivano a sostenere che il Neoliberismo è “la fonte dei nostri valori“, alludendo con “nostri” ai valori di quelli che hanno un reddito annuo piuttosto importante e conti bancari nei paradisi fiscali.

L’ordine che tiene la società, secondo von Hayek, si genera spontaneamente dalla confluenza delle imprese e delle finalità dei singoli, e non ha niente a che vedere con qualsiasi forma di progettazione collettiva e/o di economia pianificata  Ogni forma di controllo dall’alto, tipica delle visioni stataliste, è superflua, anzi dannosa. Talvolta si potrebbe confondere il Neoliberismo con l’anarchia del Potere – e infatti spesso le due pratiche si intersecano – ma von Hayek e i suoi seguaci puntualizzano che: invece no! la società – dicono – è regolata dalla proprietà privata: un fondamento naturale, un argine al caos.

Print Friendly, PDF & Email

iltascabile

Guerre culturali e neoliberismo di Mimmo Cangiano

Recensione di Rachele Cinerari

abe9fcbd 865f 4edc b334 d261f60deed3 large.jpgLe prime righe di Guerre culturali e neoliberismo, scritto da Mimmo Cangiano e in uscita per Nottetempo, chiariscono cosa il libro vuole, ma soprattutto non vuole, fare.

Questo non è un libro sulla cancel culture (anche se ogni tanto si parla di cancel culture), e neanche un libro sul politicamente corretto (anche se qualche volta si parla di politicamente corretto); è invece un volume che tenta da un lato di ricostruire il dibattito – e la sua genealogia – su tutta una serie di temi che sono diventati il centro delle attuali culture wars (questioni identitarie, di classe, anti-razzismo, anti-sessismo, prospettive liberal, postmodernismo, ruolo della Theory), dall’altro di proporre alcune soluzioni interpretative in un quadro di analisi che, fortemente propenso a prestare orecchio alle nuove questioni emerse, resta ancorato al materialismo storico. Questo libro non è scritto per criticare la cosiddetta woke (…), ma per provare a superare quel non piccolo quid di liberalismo e di culturalismo che le culture wars mi paiono portare con sé; è dunque un libro che mira a sottrarre la woke a sospette derive liberal materializzando i suoi temi attraverso la loro dialettica con i processi socio-materiali (produzione, mercato, lavoro, consumo) in atto.

I nove capitoli del libro si muovono attraverso numerosi esempi, attraversando teorie almeno degli ultimi vent’anni, statunitensi ma anche italiane, per ripercorrere ciò che è accaduto nelle università statunitensi e di come certi processi siano stati inglobati, già masticati e digeriti, da quelle italiane. Partendo dall’esperienza che Cangiano ha fatto lavorando dieci anni nelle università statunitensi ed elaborandole, il libro ricostruisce infatti in modo conciso la culturalizzazione accademica statunitense e il progressivo spostamento delle lotte su un piano esclusivamente simbolico e sovrastrutturale, l’analisi erroneamente a-storica e la naturalizzazione del capitalismo, l’inglobamento (e fraintendimento?) della cosiddetta French Theory.

Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Adam Smith a Pechino

di Salvatore Bravo

ascesa cinese ott.pngIl comunismo nella formula cinese è nell’Occidente motivo di discussione. Non pochi comunisti ritengono che in Cina il montante capitalismo del dragone sia soltanto mera apparenza, in quanto lo Stato cinese usa e incentiva gli appetiti borghesi e capitalistici per sollecitare la produzione e risolvere la piaga della povertà. I risultati sono strabilianti, la Cina è oggi avviata a superare gli Stati Uniti nella produzione ed è concorrente temibile in campo tecnologico, funge da katechon all’onnipotenza a stelle e strisce.

Nel testo di Arrigo Giovanni Adam Smith a Pechino, l’autore dimostra che la via cinese al comunismo passa attraverso la formula smithiana. Adam Smith con la sua “La ricchezza delle nazioni” è spesso citato, ma nei fatti pochi sono i lettori del testo di Adam Smith. Due sono gli obiettivi che si desumono dal saggio di Arrigo: rimuovere i pregiudizi su Adam Smith e dimostrare come la via cinese verso il benessere collettivo passi attraverso il mercato efficacemente controllato e non certo dal pensiero marxista e marxiano.

Adam Smith non è stato il fautore dell’autoregolamentazione del mercato, ma dello Stato forte che regola il mercato. La Cina applica la formula smithiana inconsapevolmente. Il mercato in Cina è solo un mezzo, i capitalisti e la borghesia sono al servizio del benessere collettivo. Non vi sono monopoli, ma capitalisti in competizione, per cui la Cina comunista risulta essere più liberale nei principi degli Stati che si dichiarano baluardo del sistema liberale e liberista:

Print Friendly, PDF & Email

lantidiplomatico

I poveri non lo sanno

di Michele Blanco*

720x410c50mniuyxse.jpgGiulio Marcon con una precisa e puntuale ricognizione tratta dalle principali fonti economiche e statistiche italiane: Istat, Banca d’Italia e Agenzia delle Entrate, ricostruisce, non solo i reali numeri della ricchezza in Italia, ma anche i suoi tipici tratti distintivi, come le modalità di accumulazione e di trasmissione ereditaria, il sempre più stretto rapporto tra il potere e la politica, gli stili di vita, la formazione dei figli dei ricchi nelle scuole esclusive e nelle università d’élite, gli enormi interessi spesso nascosti della filantropia, l’elevata evasione italiana dal pagamento delle tasse e i paradisi fiscali, che permettono di nascondere all’erario enormi quantità di ricchezza da tassare.

Dei ricchi e della loro ricchezza, in realtà, sappiamo poco o niente, e anche quando vengono pubblicate inchieste internazionali, che scoperchiano enormi giri finanziari illegali, società create fittiziamente in paradisi fiscali per evadere le tasse, liste infinite di ricconi evasori, sembra incredibile che l’interesse dei nostri media duri poche ore, nonostante si stimi che l’8% del patrimonio finanziario globale sia in paradisi fiscali. Diversamente dal mondo anglosassone, in Italia non ci sono molti studi che analizzano chi sono i ricchi nella nostra società, che cosa pensano, leggono, vivono, chi detiene la maggior parte della ricchezza in un dato periodo e per quali ragioni. Tutti noi italiani dovremmo saperne di più delle dinamiche economiche e sociali del Paese, capire come si esercita effettivamente il potere economico e finanziario, che influenza ha sul potere politico, come si formano le élite, perché in Italia ci sono tante ingiustificate diseguaglianze e tanta insopportabile povertà.

Print Friendly, PDF & Email

tropicodelcancro

La scelta della guerra civile

di Christian Laval, Haud Guéguen, Pierre Dardot, Pierre Sauvêtre

Il testo che segue è un estratto dall'Introduzione al volume La scelta della guerra civile. Un'altra storia del liberalismo, di Christian Laval, Haud Guéguen, Pierre Dardot, Pierre Sauvêtre, edito da Meltemi

9788865481813 0 500 0 0.jpg1. Le strategie di guerra civile del neoliberalismo

Il neoliberalismo muove sin dalle sue origini da una scelta effettivamente fondativa, la scelta della guerra civile. Questa scelta continua ancora oggi, direttamente o indirettamente, a comandare gli orientamenti e le politiche neoliberali, anche quando questi non implicano l’uso di mezzi militari.

È questa la tesi sostenuta da un capo all’altro del libro: attraverso il ricorso sempre più manifesto alla repressione e alla violenza contro le società, ciò che si sta realizzando oggi è una vera e propria guerra civile. Per comprendere correttamente questo fenomeno, conviene innanzitutto tornare su questa nozione. È molto diffusa l’idea che vede la guerra civile come guerra interna opporsi alla guerra interstatale come guerra esterna. In virtù di questa opposizione, la guerra civile si fa tra cittadini di uno stesso Stato. Mentre la guerra esterna è una questione di diritto, alla quale tutti i soggetti belligeranti sono sottomessi, la guerra interna è rigettata nella sfera del non-diritto. Alla rivendicazione di Courbet nell’aprile del 1871 in favore di uno statuto di belligeranti per i comunardi, che invocava “gli antecedenti della guerra civile” (la guerra di Secessione del 1861-1865) è stato opposto che “la guerra civile non è una guerra ordinaria”1. A questa antitesi bisogna aggiungerne una seconda, che raddoppia la prima, quella della politica e della guerra civile: mentre la politica è la sospensione della violenza attraverso il riconoscimento del primato della legge, la guerra civile è dispiegamento sregolato della violenza, di una collera “che mescola indissolubilmente furore e vendetta”, per dirla con Tucidide2. Tutte queste antitesi, e altre ancora, ostacolano la presa in esame del neoliberalismo a partire dalla sua stessa strategia. Adottando questo punto di vista, apprendiamo che la politica può perfettamente far suo l’uso più brutale della violenza e che la guerra civile può essere combattuta attraverso il diritto e la legge.

Print Friendly, PDF & Email

altraparola

Il corpo e il tempo nel soggetto produttivo delle piattaforme

di Stefano Rota

The politics of invisibility involves not actual invisibility, but a refusal of those in power to see who or what is there.

Robert JC Young, Postcolonial remains

digitale.pngSimonetta, la driver di Amazon che ha contribuito alla stesura de “La fabbrica del soggetto. Ilva 1958 – Amazon 2021“, ha portato la sua testimonianza a due presentazioni del libro organizzate a Genova tra luglio e novembre ‘23.

Senza giri di parole, Simonetta ha detto sostanzialmente di sentirsi a suo agio in Amazon, di lavorare in un ambiente amichevole e rispettoso, dove tutti si prendono cura dei problemi dei colleghi e dove gli standard di sicurezza sul lavoro sono molto elevati.

Inutile dire che queste dichiarazioni hanno suscitato qualche perplessità tra i presenti. Almeno alcuni di loro si aspettavano una posizione incentrata sulla critica alle forme di neo-taylorismo digitale, al dominio impersonale e onnipresente dell’algoritmo nel governare il lavoro in Amazon. In altre parole, la lettura più comune che si trova nelle riviste e nelle pubblicazioni che adottano un approccio radicalmente critico all’economia delle piattaforme, che sottoscrivo.

Niente di tutto questo. Simonetta è soddisfatta del suo lavoro in Amazon.

Di fronte alla comprensibile difficoltà di una parte del pubblico ad accettare quel discorso, ho tentato di riflettere sulla verità che quello stesso discorso enuncia, prendendo come punto di partenza un film dell’anno scorso, Nomadland, della regista Chloé Zhao.

La disincantata donna di mezz’età interprete del film di Zhao gira da sola negli spazi immensi del Mid West con un camper, fermandosi per lavorare nei magazzini di Amazon, ma subito pronta a ripartire alla volta del successivo parcheggio dove incontra amici in perenne movimento come lei. Non traspare nessuna particolare tensione o rivendicazione: ciò che Amazon propone a Fern, la protagonista del film, è né più né meno quello di cui lei stessa ha bisogno per il tipo di vita – nomade – che ha scelto, o che si è trovata costretta a scegliere.

Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Capitalismo woke

di Salvatore Bravo

Capitalismo woke.jpgPopulismo aziendale

Il capitalismo woke è la nuova frontiera del capitale. Le metamorfosi sinuose del capitalismo sono in linea con il nichilismo che lo sostanzia. La capacità di sopravvivere del modo di produzione capitalistico ha la sua ragione profonda nel vuoto metafisico del capitale. L’economia si autofonda, non ha verità sul suo fondo, è causa sui. Tutto è solo valore di scambio: la vita e la morte valgono fin quando producono PIL. Solo in tal modo riusciamo a comprendere la via che sta battendo il capitale: dal 2024 sarà possibile in Canada per i malati psichici chiedere il diritto “alla dolce morte”. Non si investe per sanare gli effetti sulla psiche e sul corpo di un sistema che nega la natura umana e sociale, si incentiva l’autoeliminazione. Coloro che non sono resilienti possono chiedere il diritto alla morte. Nessuna indagine o analisi sulla causa del male di vivere, si procede per “la libera eliminazione degli ultimi”.

Il capitalismo è ateo, poiché non contempla la verità, ma la avversa. L’ateismo del capitalismo è libertà da ogni vincolo veritativo.

Tutto è spettacolo e tutto “deve fare PIL”.

Il capitalismo è assoluto, in quanto ab solutus, sciolto da ogni vincolo etico e da ogni progettualità politica. La comunità non è contemplata, essa è solo “mercato”.

L’ultima frontiera del capitale è Il capitalismo woke (progressista), è dunque la nuova metamorfosi, tale mutazione genetica non cambia la sostanza del capitalismo, anzi ne accentua la pericolosità.

Print Friendly, PDF & Email

lafionda

Capitalismo woke

di Matteo Bortolon

Carl Rhodes: Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia, Fazi, 2023

imagesmoigbnk.jpegIl capitalismo è diventato di “sinistra”? Quello che parrebbe un paradosso, più che una provocazione, è un quesito al centro di un testo, (C. Rhodes, Capitalismo woke, Fazi 2023) di estrema attualità, e forse persino anticipatore per quanto riguarda il dibattito italiano ed europeo. Si dedica a un fenomeno tipicamente statunitense, che ancora pare non abbia lambito significativamente il Vecchio Continente, e cioè l’attitudine delle aziende a sostenere cause progressiste quali l’ambiente, le cause LGBT, l’antirazzismo, i diritti delle donne e simili.

Il libro in poco più di 300 pagine svolte il tema in 13 capitoli, leggibili quasi indipendentemente dal resto; il primo di essi enuncia la questione in termini generali, e ciascuno dei seguenti lo specifica e arricchisce in base a esempi specifici.

L’elemento di riferimento centrale è il termine woke, di cui l’autore fornisce una essenziale ma completa illustrazione: come si descrive nel terzo capitolo (Il capovolgimento dell’essere woke), la parola (che letteralmente significa “risvegliato” o per estensione semantica “consapevole”) nel suo senso politico deriva la sua accezione da un discorso di Martin Luther King e dal milieu del movimento per i diritti dei neri negli Usa, ma è stata resa celebre al di là di tale ambiente dalla cantante soul Erykah Nadu nel 2008, finché il movimento Black Lives Matter l’ha consacrata nel 2013 come parola chiave del progressismo contemporaneo.

Successivamente woke da termine molto connotato in una radicalità sociale (antirazzismo ma anche anticapitalismo, antimperialismo ecc.) ha avuto uno slittamento semantico per designare una attenzione un po’ ipocrita e ostentativa a cause progressiste di moda quali il razzismo, il cambiamento climatico, la parità femminile, e simili.

Print Friendly, PDF & Email

marx xxi

Nel mondo “democratico” uno Stato sempre più autoritario

di Ascanio Bernardeschi

parlamento.jpgLa pulsione presidenzialistica di questo governo non è sorprendente perché rientra nel disegno di portare a termine il processo di attuazione del “piano di rinascita democratica” di Licio Gelli. Tutte le altre indicazioni sono state realizzate nel tempo dai governi sia di centrodestra che di centrosinistra: il concentramento in mani sicure dei grandi media, il sistema elettorale maggioritario, l’eliminazione o lo snaturamento dei grandi partiti di massa, la deriva corporativa dei maggiori sindacati, lo stesso cambiamento della natura della Repubblica, ridotto a uno Stato minimo di tipo ottocentesco che rinuncia a intervenire nel governo dell’economia, o meglio torna a essere il comitato d’affari della borghesia intervenendo sì, ma solo per redistribuire la ricchezza e il potere a favore del capitale. Insomma si è avuto lo stravolgimento della nostra costituzione materiale e di buona parte di quella formale. La legge viene scritta in funzione del “diritto” del Governo a governare e non, come invece dovrebbe, della garanzia contro lo strapotere del Governo. Le opposizioni vengono marginalizzate insieme al ruolo del Parlamento. Pertanto si tratta di un progetto pericoloso e da contrastare con ogni mezzo perché comporta l’ulteriore abbattimento dei già ridottissimi spazi di partecipazione delle classi lavoratrici e una nuova compressione della stessa democrazia.

Prima di analizzare il le cause strutturali di queste trasformazioni sovrastrutturali è opportuno dare un’occhiata al senso della proposta del Governo Meloni. Intanto un elemento non secondario di gravità è sul piano del metodo che segna una torsione di tipo autoritario: la Costituzione, cioè il patto fondativo della nostra Repubblica fra diverse forze antifasciste, verrebbe a essere cambiato profondamente non attraverso un nuovo patto ma su proposta di un governo installatosi a seguito di una legge elettorale che gli ha conferito una larga maggioranza parlamentare pur non godendo esso della maggioranza assoluta dei consensi.

Print Friendly, PDF & Email

jacobin

«I veri cannibali sono i capitalisti»

Giorgio Fazio intervista Nancy Fraser

«La società capitalista dipende da ciò che non era e talvolta ancora non è considerato lavoro». Da questo presupposto Nancy Fraser prova a trovare punti di congiunzione tra le diverse lotte

capitalismo jacobin italia 1536x560.jpgCon il suo ultimo libro Capitalismo cannibale (Laterza, 2023) Nancy Fraser ci ha consegnato una delle diagnosi più ampie e penetranti, oggi in circolazione, del capitalismo contemporaneo e delle sue tendenze autodistruttive. Intrecciando diverse linee di ricerca e tradizioni teoriche Fraser ha messo a disposizione un aggiornato vocabolario critico, che punta a rendere visibili i potenziali di trasformazione emancipativa che stanno emergendo nell’«interregno» in cui ci troviamo, infestato dai più disparati «fenomeni morbosi».

Questa intervista è stata rilasciata a margine della lezione pubblica che ha tenuto presso il dipartimento di filosofia dell’università La Sapienza di Roma, nell’ambito del ciclo di conferenze dedicato alle nuove frontiere della teoria critica contemporanea: «Technology, Work and Democracy».

* * * *

Il tuo ultimo libro si intitola Capitalismo Cannibale. Perché dovremmo parlare di «capitalismo cannibale» per comprendere le logiche e le dinamiche del capitalismo?

Per definizione un cannibale è colui che mangia la carne di un altro essere umano, quindi più o meno di qualcuno della sua stessa specie. Nella storia razziale è stata proprio l’Europa imperialista a utilizzare questo concetto nei confronti delle persone africane. Io dico che i veri cannibali sono i capitalisti, non riferito ai singoli individui ma all’intero sistema. In qualche modo possiamo dire che questo sistema incentiva e invita i grandi investitori, le grandi corporation e altri soggetti con forti interessi economici ad accumulare profitto mangiando, cannibalizzando, le risorse che non sono necessariamente parte dell’economia ufficiale, come il lavoro di cura, il lavoro coatto e servile, i beni pubblici.

Print Friendly, PDF & Email

sinistra

L’urlo di rabbia

di Luca Busca

step into your place propaganda poster 1915 low.jpgUn “urlo” questo che prolunga l’urlo di dolore, un post pubblicato su Facebook circa un mese fa in cui piangevo la scomparsa della mia amata compagna di vita. Un grido di sofferenza che esprimeva l’impotenza nei confronti dell’ingiustizia di veder morire chi è ancora troppo giovane per andarsene. Un dolore che stravolge con forza l’intera sfera privata soprattutto in virtù della condivisione di una figlia di appena tredici anni. Il poco tempo passato è del tutto insufficiente a placare il dolore, ma è stato abbastanza per indurmi ad urlare di nuovo al fine di manifestare, però, una diversa emozione, l’ira. Una rabbia profonda che valica i confini del privato per irrompere nella sfera sociale, luogo dove il senso di impotenza assume caratteristiche diverse, ma altrettanto devastanti. Nel piano personale l’incapacità di affrontare l’impari lotta metafisica con la morte è comune all’intero genere umano. Anche chi si appella a vite ultraterrene o a reincarnazioni cicliche finisce per soffrire la perdita dei propri cari, né più né meno degli atei come me. Sul piano pubblico, però, per chi non crede in alcuna forma postuma di giustizia divina, perdere la battaglia contro l’iniquità sociale non è sopportabile, e per questo genera collera, ira, indignazione.

Per comprendere bene l’entità e le ragioni di questa rabbia è necessario ripercorre il percorso della malattia di mia moglie. La prima diagnosi di tumore alla mammella arrivò a fine settembre del 2011. Il percorso fu quello classico dell’epoca: chemioterapia neo-adiuvante, intervento chirurgico (aprile 2012) e lunga radioterapia postoperatoria. Sono seguiti anni di terapia ormonale, molto pesanti in virtù della giovane età (34 anni). Proprio in considerazione di questa l’equipe medica preferì effettuare un intervento conservativo.

Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Effetti culturali dell’economia neoliberista

di Luca Benedini

I pesanti impatti del neoliberismo e della sua intrinseca mentalità patriarcale sulla vita quotidiana delle persone e sulla loro sfera interiore

(prima parte: un intreccio di precarietà e consumismo, con le facilitazioni fornite dalla pesantissima caduta qualitativa della “politica di sinistra” nel ’900)

neo lib.jpgCi vuole tempo per amare
E libere menti per amare,
E chi è che ha tempo nelle mani?

– Jorma Kaukonen
dalla canzone Star track, incisa nell’album Crown of Creation (1968), dei Jefferson Airplane

Qui nella Buona-Vecchia-Dio-Salvi-L’America
La patria della gente coraggiosa e libera
Siamo tutti dei codardi, oppressi senza speranza
Da qualche dualità
Da una molteplicità senza posa

– Joni Mitchell
dalla canzone Don Juan’s reckless daughter, incisa nell’album omonimo (1977)

Si è già accennato – nel precedente intervento Il neoliberismo non è una teoria economica [1] – che il neoliberismo tende a trasformare nei fatti la società in una scoordinata aggregazione di persone mosse soprattutto da interessi materiali di tipo egoistico. Ciò innanzi tutto come effetto del fatto che i neoliberisti vedono il mondo come un’arena gladiatoria in cui le élite economiche possono utilizzare e manipolare pressoché a proprio piacimento le altre classi sociali – fino anche, come spesso accade, a logorarle sino allo sfinimento o a sostanzialmente stritolarle – usandole come ingranaggi, servi, oggetti, giocattoli oppure scarti [2]: un’arena in cui ciascuno è spinto ad arrangiarsi per sopravvivere e cavarsela, a titolo individuale o al massimo famigliare. E la realtà sociale degli ultimi decenni mostra che, di fatto, attualmente le élite in questione non solo valutano di poterlo fare, ma solitamente prendono anche in pratica la strada del farlo con grande applicazione....

Print Friendly, PDF & Email

lafionda

Un “nuovo 11 settembre”: il paradigma della guerra permanente come deterrenza finanziaria

di Fabio Vighi

BANSKY COPERTINA.jpgNon sorprende che i media occidentali abbiano etichettato gli attacchi di Hamas del 7 ottobre come un “nuovo 11 settembre”. Naturalmente, si riferiscono al racconto ufficiale dell’11 settembre, indelebilmente impresso nella sua terrificante iconografia (che però tende a escludere la risposta scatenata dagli Stati Uniti in Medio Oriente nei due decenni successivi, una prolungata operazione genocida nota come “guerra globale al terrore”). Ciò che l’etichetta “nuovo 11 settembre” dovrebbe evocare, in realtà, è l’opposto di quanto i mass media lasciano intendere: e cioè che dall’11 settembre 2001 a oggi, le emergenze globali si susseguono senza soluzione di continuità affinché il proverbiale barattolo (il fallimento del sistema economico globale) possa essere calciato un po’ più in là.

Se cerchiamo un indizio rispetto a cosa potrebbe aver scatenato la più recente iterazione della crisi israelo-palestinese, potremmo iniziare dalle parole di Joe Biden dell’11 ottobre: ​​‘Quando il Congresso ritornerà, chiederemo loro di intraprendere azioni urgenti per finanziare le esigenze di sicurezza dei nostri partner strategici.’ Com’era prevedibile, aumentano le commesse per il warfare (inteso come deficit spending per la guerra), che aveva già spiccato il volo con i primi finanziamenti ucraini, funzionando così anche da moltiplicatore del PIL americano. Perché il mercato del debito è il primum movens, l’asse attorno a cui girano le cose di questo mondo, e dev’essere tenuto costantemente lubrificato. Il 19 ottobre, in un discorso dallo Studio Ovale trasmesso in prima serata, Biden ha messo i panni dell’imbonitore televisivo per dichiarare: ‘Hamas e Putin rappresentano minacce diverse, ma hanno questo in comune: entrambi vogliono completamente annientare una democrazia vicina… E continuano a farlo.

Print Friendly, PDF & Email

carmilla

Il morbo neoclassico

di Sandro Moiso

Steve Keen, L’economia nuova. Moneta, ambiente complessità. Pensare l’alternativa al collasso ecologico e sociale, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 220, 18 euro

hawaii 2023.jpgAl contrario di quanto riguarda il Covid 19 e altri virus e morbi manifestatisi sul pianeta negli ultimi decenni, vi è un morbo altrettanto pericoloso, e forse ancor più devastante dal punto di vista sociale, di cui si può affermare con certezza che si è diffuso a partire dai laboratori universitari, in questo caso americani, nel corso degli ultimi cinquant’anni: quello dell’economia cosiddetta neoclassica.

Steve Keen, professore di Economia alla Western Sidney University e Distinguished Research Fellow alla University College di Londra, importante critico della scienza economica convenzionale e uno dei pochi economisti ad aver previsto la crisi economica del 2007-2008, in questo testo appena uscito per Meltemi, nella collana «Rethink», cerca di dimostrarne l’infondatezza soprattutto sulla base dell’attuale e più che evidente cambiamento climatico di cui la suddetta teoria non ha mai tenuto sufficientemente conto.

Il giudizio espresso dall’autore sull’insieme degli assiomi del paradigma neoclassico è netto e tagliente:

Ripensando ai cinquant’anni trascorsi da quando mi sono reso conto dei difetti dell’economia neoclassica, il termine che esprime al meglio i miei sentimenti a riguardo è, come Marx disse del proto-neoclassico Jean-Baptiste Say, “insulsa” (Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica,1857). Al meglio, il capitalismo è visto come un sistema che evidenzia l’armonia dell’equilibrio, dove ognuno viene pagato il proprio giusto salario (secondo il suo “prodotto marginale”), la crescita procede senza intoppi secondo un tasso che massimizza nel tempo l’utilità sociale e tutti sono mossi dal desiderio di consumare, invece che dall’accumulazione e dal potere, perché, per citare Say, “i produttori, benché abbiano tutti l’aria di chiedere soldi in cambio dei loro prodotti, in realtà vogliono scambiarli con altri prodotti” (Say, Catechisme d’economie politique, 1821, capitolo 18).

Print Friendly, PDF & Email

linterferenza

La pèsca: la famiglia etero pescata nella rete

di Giacomo Rotoli

380825551 871119867714891 3810163388395234662 n 672x600.jpgPremetto che non sono d’accordo che i bambini vengano usati nelle pubblicità, si tratta di sfruttamento capitalistico gratuito dato che non sono in grado di capire cosa muove e quali sono gli interessi che sono dietro il sistema neoliberista. La pubblicità è uno dei molti generatori di plusvalore del sistema, essa non solo induce all’acquisto dei beni ma produce redditi in una enorme catena di filiere, detta anche gli schemi comportamentali che vengono veicolati attraverso i media, soprattutto definisce quasi esattamente cosa sia il mainstream e dove il sistema cerca di trovare il punto di equilibrio tra concezioni del mondo differenti per riproporsi come l’unica cosa naturale e giusta.

Vengo ora al motivo di questo articolo: lo spot è quello della pèsca di Esselunga [1], ma il mio vuole essere un commento non tanto allo spot in se, che può piacere o non piacere da un mero punto di vista estetico o etico, ma al bailamme che è nato sulla rete persino provocando una serie di prese di posizione addirittura ai vertici della politica. I commenti sono interessanti in se per il motivo che essi delineano molto bene alcune delle tendenze in atto nella concezione attuale della famiglia mononucleare di natura borghese, che è a tutt’oggi il modello dominante, ma come ho già scritto, è in crisi da almeno un cinquantennio. Questo articolo vuole quindi essere una naturale continuazione di “Gens Murgia” che scrissi riguardo alla presunta queerness della così detta famiglia non di sangue auspicata dalla nota scrittrice femminista.

Lo spot Esselunga penso che l’abbiano visto moltissimi, da questo punto di vista è un successo per i suoi creatori e per la nota catena di supermercati. Ma cosa ha di tanto speciale? Nulla di particolare, viene messa in scena una famiglia di separati, padre, madre e figlia, piuttosto che la solita unione stile “Mulino Bianco” alla quale nessuno fa più caso.

Print Friendly, PDF & Email

chefare

Come il Neoliberalismo ha cambiato le città

Abitare in Italia e in Europa: un confronto

di Alessandro Coppola

La casa e quartieri, esiti e squilibri di un grande esperimento di neoliberalizzazione. Milano e l’Italia in un confronto europeo

gentrification 2 jacobin italia.jpgRicorre spesso in Italia una discussione sulla maggiore o minore pertinenza dell’uso della categoria del “neoliberalismo” nell’analisi della traiettoria delle politiche pubbliche degli ultimi trent’anni. Per alcuni c’è stato eccome, per altri si tratta invece di un inganno ideologico. Per i primi, le privatizzazioni, l’austerità, le esternalizzazioni di politiche e servizi pubblici sarebbero la riprova della pertinenza dell’uso di quel concetto. Per i secondi, il persistere di un livello elevato di spesa pubblica viceversa ne smentirebbe la pertinenza. Complessivamente, chi scrive concorda con chi – e sono molti, e autorevoli – pensa che il neoliberalismo non sia stato un progetto di mera de-statizzazione della società, bensì di profonda riarticolazione del ruolo dello stato, delle sue finalità come della sua strumentazione. E che quindi il permanere di una spesa pubblica elevata, o di un ruolo rilevante da parte dello stato, non siano di per sé dimostrazione della non pertinenza di quella categoria nell’analisi del caso italiano. Al di là di come ci si collochi in questa tenzone, è tuttavia possibile osservare come se c’è in Italia un ambito di politica pubblica dove si è potuta misurare una chiara ed inequivoca torsione neoliberale questo è la politica delle città, latamente intesa.

Tale torsione ha qui assunto una forma tradizionale di drastica riduzione del ruolo sia regolativo sia di intervento diretto dello stato e di contestuale apertura al mercato. A partire dagli anni 90, il trattamento pubblico di diversi oggetti che hanno a che fare con la vita delle città è stato ri-organizzato attorno al principio della preminenza dello scambio di mercato in una misura che, come vedremo, non ha sostanzialmente paragoni fra i paesi europei a noi più vicini.

Print Friendly, PDF & Email

lafionda

Il Digital services act. Addio articolo 21 della Costituzione?

di Carlo Magnani

Digital Services Act MisterGadget Tech.jpgIl 25 agosto è entrato in vigore il Digital Services Act, per ora per le piattaforme online più grandi (quelle con più di 45 milioni di utenti), sino a che sarà applicabile a tutti gli operatori di servizi online a partire dal 17 febbraio 2024. I soggetti interessati sono tutti gli intermediari online, i motori di ricerca e le piattaforme di comunicazione sociale (mercati online, social network, piattaforme di condivisione di contenuti, app store e piattaforme di viaggio e alloggio online) che saranno soggetti a obblighi specifici e crescenti in ragione della dimensione della impresa.

Tanto i lavori preparatori di adozione che l’entrata in vigore sono stati accompagnati da una enfasi – la solita, quando si tratta di prodotti confezionati dalla Unione europea – che non ha lesinato toni entusiastici ed euforici. Finalmente nuove regole e nuovi diritti sul web, maggiore tutela per gli utenti per ciò che attiene la protezione da contenuti illegali (terrorismo, pornografia, truffe online, vendita prodotti pericolosi), dall’incitamento all’odio (ovviamente, immancabile), ma anche da contenuti non illegali ma qualificati come dannosi (la disinformazione).

Il metodo prescelto per attuare tali regole – che rimandano comunque alle legislazioni nazionali per ciò che va considerato illegale, cioè penalmente o amministrativamente rilevante – è quello della co-regolamentazione. Quindi, non una vigilanza esterna da parte di soggetti istituzionali terzi, ma il coinvolgimento diretto delle piattaforme attraverso procedure concertate con organismi tecnici dipendenti direttamente dalla Commissione europea.

Print Friendly, PDF & Email

comuneinfo

Privatocrazia sanitaria

di Nicoletta Dentico

Fino al Duemila l’Organizzazione Mondiale della Sanità collocava al secondo posto nel mondo, in quanto a qualità, il sistema sanitario italiano. Oggi almeno il 60% dei fondi pubblici finisce in mano ai privati; più della metà delle strutture che si occupano di malattie croniche sono private. I tagli della prossima legge di bilancio assecondano questa metastasi

vaccination 7729882 1280.jpgParecchi anni fa, in taxi per le strade di Nairobi, ricordo lo sbalordimento quando il taxista dichiarò en passant, ma con sarcastico sollievo, che nell’eventualità di un incidente con la macchina, la mia presenza a bordo avrebbe garantito la disponibilità di una carta di credito per accedere al pronto soccorso anche per lui.

Già la privatizzazione della salute in Kenya rivelava le sue aberranti manifestazioni, incluso il fatto che – come raccontava il taxista con angoscia – anche partorire in ospedale comportava un costo che la maggior parte della popolazione non poteva permettersi. I parti difficili finivano male, perlopiù, era accaduto anche a sua figlia.

Oggi, nel paese che nel 2000 si collocava al secondo posto al mondo (dopo la Francia) per la qualità del servizio sanitario nazionale secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), ci stiamo dirigendo – un passo alla volta, neppure tanto lentamente – nella stessa paradossale direzione. La brutale esperienza italiana della pandemia è stata rimossa in un soffio, un fastidioso ricordo del passato, malgrado le molteplici perduranti e visibili conseguenze.

Ritorna in voga invece la stagione dei tagli alla sanità pubblica, come se non bastasse lo schiaffo in faccia delle insufficienti risorse del PNRR assegnate ai servizi sanitari devastati da Covid-19.

I tagli al comparto della salute fanno capolino già dalle prime bozze della legge di bilancio, in stupenda sintonia con le proiezioni del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che prevede 143 paesi sotto la morsa di nuove riforme di austerity entro la fine del 2023 (Ortiz e Cummins, 2022): l’85% della popolazione mondiale!

Print Friendly, PDF & Email

euronomade

Mutazioni del capitalismo globale: un’analisi congiunturale

di Sandro Mezzadra e Brett Neilson[1]

Malevic.jpg1. In questione è per noi ancora una volta il capitalismo. La “distruzione creativa” ne caratterizza e ne sospinge lo sviluppo, diceva Schumpeter. Ma già Marx aveva inscritto il capitalismo, nei Grundrisse, nel segno della “rivoluzione permanente”. Nella crisi dei primi anni Settanta del secolo scorso questa rivoluzione ha assunto un ritmo nuovo, tra finanziarizzazione, “rivoluzione logistica”, nuove geografie produttive, trasformazione dello Stato e di modelli sociali consolidati in molte parti del mondo. Cominciava a delinearsi quella che, dopo la fine dell’Unione Sovietica, si sarebbe chiamata globalizzazione. Il pensiero critico e rivoluzionario ha tentato di afferrare queste trasformazioni e di fissarle in un concetto, spesso focalizzandosi su quel che il capitalismo non è più (“postfordismo”, ad esempio) ma tentando anche di offrire nuove definizioni, “capitalismo cognitivo” o più di recente “capitalismo delle piattaforme”, per dare soltanto due esempi. Non intendiamo qui discutere i meriti e i limiti di queste e altre formalizzazioni teoriche, che quantomeno nei casi più interessanti hanno comunque il merito di portare l’attenzione su nuove composizioni emergenti del lavoro, su una nuova figura dell’antagonismo costitutivo del rapporto di capitale. Solo, registriamo un ritardo, come se ci fosse uno scarto rispetto alla velocità e al carattere per certi aspetti proteiforme del capitalismo contemporaneo, le cui trasformazioni spiazzano continuamente i modelli, l’“esposizione” potremmo dire ancora con Marx, costringendo a riaprire la “ricerca”.[2]

Per affrontare questo “ritardo” scegliamo di collocare il nostro lavoro nella congiuntura, consapevoli del fatto che, come ha scritto Louis Althusser, prendere seriamente questo concetto comporta un azzardo (considerata la mutevolezza che caratterizza la congiuntura) e al tempo stesso richiede di “tener conto di tutte le determinazioni, di tutte le circostanze concrete esistenti, passarle in rassegna, farne il rendiconto e il confronto”.[3]