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Venti tesi su Marx
di Moreno Pasquinelli*
«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Premessa
La dottrina marxista è figlia del suo tempo, dell’epoca in cui la borghesia, malgrado il poderoso sviluppo delle forze produttive, non mantenne la promessa di un umanistico e vero progresso sociale. È in quella temperie che il nascente proletariato venne considerato il soggetto storico destinato a realizzare l’agognata redenzione dell’umanità dal suo stato di abiezione. La dottrina marxista — sintesi ingegnosa di materialismo meccanicistico di matrice nominalista, di storicismo di matrice hegeliana, e positivismo scientista —, nelle vesti di socialismo scientifico, riuscì a imporsi come alfiere della classe proletaria e come araldo di una nuova civiltà. A questo punto, con alle spalle un secolo tremendo, occorre avere il coraggio di riconoscere che anche la dottrina di Marx, malgrado la sua penetrante fisiologia del capitalismo, non ha superato la spietata prova della validazione fattuale. La storia è inflessibile, punisce chi fallisce il proprio scopo, la cui disgrazia è tanto più grande quanto più maestosa la sua profezia.
In virtù del suo carattere sincretico il pensiero di Marx era destinato a dare vita a multipli e opposti “marxismi”. Ognuno di essi si è cimentato nel tentativo di riformare la dottrina. Se tutti questi tentativi andarono incontro allo scacco è anzitutto perché nessuno di essi rinunciò al fondamento teleologico e finalistico della dottrina. Non si tratta di riformare il marxismo, né di compiere una mera decostruzione.
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Attraversando il PNRR. Parte II: politiche energetiche e filiere produttive (I)
di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera
Pubblichiamo la seconda parte dello studio sul PNRR condotto da Emiliano Gentili, Stefano Macera e Federico Giusti. Dopo aver analizzato il contesto economico italiano e la strategia perseguita dall’Unione Europea nella programmazione del Piano, nel nuovo articolo, gli autori analizzano l’idea di politica energetica dell’Ue e dell’Italia ed esaminano alcuni investimenti previsti dal PNRR particolarmente significativi per lo sviluppo dell’economia italiana, con particolare riferimento alla filiera dei semiconduttori e dell’idrogeno.
* * * *
I. Articolazione del Piano e REPowerEU
Missioni, componenti e investimenti
Il Pnrr si articola attorno ad alcuni percorsi di sviluppo settoriali denominati «Missioni». In un certo senso potremmo farli corrispondere ai Programs europei (v. Parte I, Par. II, La strategia della Commissione Europea), solo che le Missioni sono declinate su scala nazionale. Ogni Missione è a sua volta suddivisa in Componenti, per cui ad esempio la Missione 1, Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo, è composta da: Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA; Digitalizzazione, innovazione e competitività nel sistema produttivo; Turismo e cultura 4.0. A voler essere precisi, poi, le Componenti sono a loro volta ripartite in «sotto-componenti». I fondi vengono assegnati «a pacchetti», denominati «Investimenti»[1], che costituiscono una sorta di suddivisione ulteriore di queste sotto-componenti. Ad esempio, la citata Componente 1 della Missione 1 riporta tre sotto-componenti (Digitalizzazione PA; Innovazione PA; Innovazione organizzativa del sistema giudiziario), all’interno delle quali trovano posto ben sette Investimenti differenti (quali «Digitalizzazione delle grandi amministrazioni centrali» o «Processo di acquisto ICT»).
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La CIA e i fascisti russi che combattono la Russia
di Scott Ritter* - ConsortiumNews
Nei giorni precedenti le elezioni presidenziali russe, che si sono concluse domenica scorsa, una rete di tre organizzazioni paramilitari russe che operano sotto l'egida della Direzione principale dell'intelligence del Ministero della Difesa ucraino, o GUR, ha lanciato una serie di attacchi sul territorio della Federazione Russa.
Lo scopo degli attacchi era chiaro: disturbare la tre giorni di elezioni presidenziali russe creando un'atmosfera di debolezza e impotenza intorno al Presidente Vladimir Putin, per minarne l'autorità, la legittimità e l'appeal nella cabina elettorale.
L'operazione è stata pianificata da mesi e ha coinvolto il Corpo dei Volontari Russi (RDK), la Legione della Libertà della Russia (LSR) e il Battaglione Siberia. Tutte e tre queste organizzazioni sono controllate dal GUR, il cui portavoce ha annunciato gli attacchi.
Non è stato detto fino a che punto la C.I.A. sia stata coinvolta in quella che equivale a un'invasione del territorio della Federazione Russa da parte di forze che operano sotto l'ombrello di quella che è apertamente riconosciuta come una guerra per procura tra gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO contro la Russia.
Mentre l'Ucraina sostiene che gli attacchi dell'RDK, dell'LSR e del Battaglione Siberia sono azioni di "russi patriottici" che si oppongono a Putin, il coinvolgimento del GUR nell'organizzazione, nell'addestramento, nell'equipaggiamento e nella direzione di queste forze rende il loro attacco al territorio russo un'estensione diretta della guerra per procura tra la Russia e l'Occidente.
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Il bellicismo dell’Europa disarmata
di Gianandrea Gaiani
L’attenzione di politica e media si è concentrata negli ultimi giorni sulle elezioni presidenziali russe (il cui esito era scontato) e al dibattito circa l’impegno diretto di truppe europee al fianco di quelle ucraine e l’invio di maggiori e più potenti armamenti a Kiev.
Un dibattito aperto dalle dichiarazioni del presidente francese Emmanuel Macron circa il possibile invio di truppe francesi in Ucraina, ravvivato dall’invito del Papa a Kiev a negoziare la pace con la Russia ora che la situazione per le truppe ucraine si fa sempre più precaria, il tutto in un contesto un po’ isterico di continui proclami di sostegno all’Ucraina “fino alla vittoria” e di moniti all’opinione pubblica in Europa affinché si prepari alla guerra contro la Russia.
L’incontro trilaterale dei giorni scorsi tra i leader di Francia, Germania e Polonia si è svolto in questo clima “bellicista” pur con il cancelliere Scholz che si oppone all’invio dei missili da crociera Taurus e di truppe tedesche in Ucraina.
Un “triangolare” che ha mostrato ancora una volta le divisioni interne alla UE ma che soprattutto ha voluto evidenziare quali siano oggi le “potenze di riferimento” del Vecchio Continente: il fatto che l’Italia non sia stata invitata ha offerto il destro al vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani per lanciare un monito. “Ognuno è libero però non dà un messaggio forte a Putin il fatto che due-tre-quattro Paesi si riuniscano quando invece dovrebbe riunirsi tutta l’Unione Europea. La coesione dell’Europa dà un messaggio di compattezza e determinazione all’Ucraina e a Putin, invece di rinforzarci così ci indeboliamo anche politicamente”.
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La legge vieterà di manifestare contro Israele
di Francesco Cappello
1. Il ddl 1004 proposto dalla lega intenderebbe impedire le manifestazioni di dissenso “antisemite” dei cittadini italiani
2. Le “Disposizioni di legge per l’adozione della definizione operativa di antisemitismo, nonché per il contrasto agli atti di antisemitismo“ del 30 gennaio 2024
Si tratta di articoli pienamente coerenti con la progressiva chiusura degli spazi politici, atti a limitare, controllare e impedire manifestazioni in cui si criticano le istituzioni israeliane. Esso vorrebbe tutelare le istituzioni e la storia ebraica.
Così si apre il ddl [1]
ONOREVOLI SENATORI. – Alla luce del conflitto armato attualmente in corso in Medio Oriente e delle ripercussioni che tale guerra ha sul nostro Paese, anche sul piano civile, visto l’interesse mediatico dimostrato dagli organi di informazione e le numerose manifestazioni di cittadini, nasce l’esigenza della presente proposta che è finalizzata ad adottare nell’ambito della legislazione vigente la definizione operativa di antisemitismo.
La parola antisemitismo entra così nel linguaggio giuridico italiano; un po’ come la parola mafia che fu sdoganata per la prima volta in un documento ufficiale nel 1865 dal prefetto di Palermo, Cesare Mori, in un rapporto inviato al governo centrale italiano, essa permise poi di parlare di antimafia e di istituire le prime Commissioni Parlamentari di inchiesta sulla mafia del ’63 e del ’72.
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Attentato a Mosca
Traduzione integrale del discorso di Putin alla nazione dopo l'attacco terroristico
di La Redazione de l'AntiDiplomatico
Traduzione in italiano del messaggio rivolto alla nazione dal presidente Vladimir Putin dopo l'attacco terroristico di Mosca, pubblicato dal quotidiano russo Komsomol'skaja Pravda.
Cari cittadini della Russia!
Mi rivolgo a voi in relazione al sanguinoso e barbaro atto terroristico, le cui vittime sono decine di persone pacifiche e innocenti - nostri compatrioti, tra cui bambini, adolescenti e donne. I medici stanno lottando per la vita delle vittime, che sono in gravi condizioni. Sono sicuro che faranno tutto il possibile e anche l'impossibile per salvare la vita e la salute di tutti i feriti. Un ringraziamento speciale va agli equipaggi delle ambulanze e delle ambulanze aeree, alle forze speciali, ai vigili del fuoco, ai soccorritori che hanno fatto di tutto per salvare vite umane, per tirarle fuori da sotto il fuoco, dall'epicentro dell'incendio e del fumo, per evitare perdite ancora più gravi.
Non posso ignorare l'aiuto dei comuni cittadini che, nei primi minuti dopo la tragedia, non sono rimasti indifferenti e, insieme a medici e agenti di sicurezza, hanno fornito i primi soccorsi e consegnato le vittime agli ospedali.
Forniremo l'assistenza necessaria a tutte le famiglie le cui vite sono state colpite da questo terribile disastro, ai feriti e alle vittime. Esprimo le mie profonde e sincere condoglianze a tutti coloro che hanno perso i loro parenti e i loro cari. Insieme a voi tutto il Paese, tutto il nostro popolo è in lutto. Dichiaro il 24 marzo giorno di lutto nazionale.
A Mosca e nella regione di Mosca e in tutte le regioni del Paese sono state introdotte ulteriori misure antiterrorismo e antisabotaggio. La cosa principale ora è impedire che i responsabili di questo sanguinoso massacro commettano un nuovo crimine.
Per quanto riguarda le indagini su questo crimine e i risultati dell'operazione di ricerca, al momento possiamo dire quanto segue. Tutti e quattro gli autori diretti dell'attacco terroristico, tutti coloro che hanno sparato e ucciso le persone, sono stati trovati e arrestati. Hanno cercato di fuggire e stavano viaggiando verso l'Ucraina, dove, secondo i dati preliminari, era stata preparata per loro una finestra sul lato ucraino per attraversare il confine di Stato. In totale sono state arrestate 11 persone. Il Servizio di Sicurezza Federale russo e le altre forze dell'ordine stanno lavorando per identificare e scoprire l'intera base ausiliaria dei terroristi: coloro che hanno fornito loro i mezzi di trasporto, hanno pianificato i modi per allontanarsi dalla scena del crimine, hanno preparato cache e nascondigli con armi e munizioni.
Ripeto, le agenzie investigative e di polizia faranno tutto il possibile per stabilire tutti i dettagli del crimine. Ma è già evidente che non ci siamo trovati di fronte a un semplice attacco terroristico attentamente e cinicamente pianificato, ma a un omicidio di massa preparato e organizzato di persone pacifiche e indifese. I criminali avevano intenzione di uccidere a sangue freddo e di proposito, di sparare a bruciapelo ai nostri cittadini, ai nostri bambini, come facevano i nazisti che commettevano massacri nei territori occupati, e progettavano di organizzare un'esecuzione spettacolo, un sanguinoso atto di intimidazione.
Tutti gli autori, gli organizzatori e i mandanti di questo crimine saranno giustamente e inevitabilmente puniti, chiunque essi siano e chiunque li abbia diretti. Ripeto, identificheremo e puniremo tutti coloro che stanno dietro ai terroristi, che hanno preparato questa atrocità, questo attacco contro la Russia e il nostro popolo. Sappiamo qual è la minaccia del terrorismo.
Contiamo qui sulla cooperazione con tutti gli Stati che condividono sinceramente il nostro dolore e sono pronti a unire realmente le forze nella lotta contro il nemico comune, il terrorismo internazionale, con tutte le sue manifestazioni. I terroristi, gli assassini, i subumani, che non hanno nazionalità e non possono avere una nazionalità, hanno solo un destino poco invidiabile: la punizione e l'oblio. Non hanno futuro.
Il nostro dovere comune adesso, i nostri compagni al fronte, tutti i cittadini del paese è quello di stare insieme in un'unica formazione. Credo che sarà così, perché niente e nessuno potrà scuotere la nostra unità e volontà, la nostra determinazione e coraggio, la forza del popolo russo unito. Nessuno potrà seminare semi velenosi di discordia, panico e discordia nella nostra società multietnica.
La Russia è passata più volte attraverso le prove più dure, a volte insopportabili, ma è diventata ancora più forte. Così sarà anche adesso.
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Larry Johnson (ex analista CIA): "Gli USA sapevano che l’Ucraina stava tramando qualcosa"
di La Redazione de l'AntiDiplomatico
Un recente rapporto secondo cui gli Stati Uniti sono preoccupati per le “azioni palesi” dell’Ucraina contro la Russia suggerisce che Kiev sia coinvolta nell’attacco terroristico a Mosca, e gli Stati Uniti lo sapevano molto bene. Questa opinione è stata espressa dall'ex analista della CIA Larry Johnson su Judging Freedom. Anche la loro rapida negazione del coinvolgimento, ancor prima che Mosca stessa venisse a conoscenza di informazioni precise su quanto accaduto, solleva interrogativi.
Queste le parole dell'ex analista della CIA: "Non è stata l'Ucraina - possiamo esserne certi perché il Dipartimento di Stato ce lo ha appena detto! Ma pensate a questo: non sappiamo ancora quanti siano stati gli attentatori, quali armi siano state usate... Abbiamo sentito parlare di spari, di esplosioni, ma non sappiamo nulla di concreto. L'FSB parla ancora di 40 morti e 100 feriti. Eppure il Dipartimento di Stato è proprio lì: 'Questa non è l'Ucraina! Questa non è l'Ucraina!'.
Sanno che è stata l'Ucraina. Ed ecco perché possiamo esserne certi: il 7 marzo, l'ambasciata statunitense e quella britannica a Mosca hanno emesso un avviso, un consiglio di viaggio per tutti gli americani e i britannici: state lontani, ci sarà un attacco terroristico entro 48 ore. Non è successo.
Ma questo era il mio lavoro, faceva parte del mio lavoro quando ero nell'antiterrorismo: questo tipo di avvisi vengono emessi solo quando si hanno informazioni specifiche e credibili e non si può prevenire un attacco. E di solito in questi casi, se le informazioni sono abbastanza specifiche e credibili, le trasmettiamo a un altro governo affinché intervenga per prevenire il pericolo.
Ma in questo caso, solo un giorno fa, l'outlet di intelligence open source OSINTdefender - che è uno di quei feed Twitter che fanno molto parte degli sforzi di propaganda della CIA - ha riferito che il Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti e la Casa Bianca erano sempre più frustrati per le "azioni plateali non autorizzate" intraprese dall'Ucraina contro la Russia.
Ciò significa che gli Stati Uniti sapevano che l'Ucraina stava tramando qualcosa, avevano un'idea di ciò che stava per fare. E c'è una buona probabilità che l'Ucraina non solo l'abbia fatto, ma l'abbia fatto con armi e supporto forniti dagli Stati Uniti. Questo è ciò di cui la Casa Bianca era così spaventata".
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Attentato a Mosca. Si firma ISIS, si legge NATO
di Fabrizio Marchi
Sconfitti sul campo in Ucraina, sconfitti politicamente perché il popolo russo ha fatto fronte comune votando in massa per Putin facendo chiaramente capire che ogni velleità di dividere o destabilizzare la Russia è mera illusione, i vari cosiddetti “deep state” (servizi segreti, apparati di sicurezza ecc.) della NATO ricorrono al terrorismo. Non a caso la firma è dell’ISIS che non ha mai sfiorato neanche con una pallina di carta tirata da una cerbottana Israele e i suoi alleati in loco e che, guarda caso, fu scatenato contro la Siria, difesa proprio dalla Russia e, naturalmente, dall’Iran e da Hezbollah.
A mio parere la chiave di lettura dell’attentato di Mosca è questa. Poi si tratterà di vedere quale fra i diversi “deep state” è stato il mandante, ma non è determinante saperlo. La domanda che bisogna sempre porsi, come ripeto sempre in questi frangenti è “cui prodest?”, a chi giova?
Seguendo questo metodo di indagine si comprendono i perché e i percome di un qualsiasi evento.
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Gli Stati Uniti e il pareggio catastrofico nel sistema mondo
di Carlos Eduardo Martins1
Il testo di Carlos Eduardo Martins che qui pubblichiamo grazie alla segnalazione e traduzione di Herta Manenti e Francesca Staiano, merita di essere letto e studiato attentamente per diverse ragioni.
1. Per l’ipotesi che qui affaccia sulle tendenze e il quadro della situazione mondiale attuale. In essa è evidente la crisi di egemonia dell’unipolarismo degli USA e del blocco imperialista occidentale, ma, al contempo, le nuove potenze emergenti della Cina, della Russia e del “Sud globale”, dirette alla costruzione di un mondo multipolare, non sono ancora in grado di prevalere, per cui si ha un “pareggio catastrofico tra due tendenze contrapposte che non riescono a imporre alcun ordine mondiale”. Una situazione analoga a quella che un secolo fa Gramsci definiva – in un contesto ovviamente diverso – con l’aforisma: “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. Scrive Martins: “Tutto indica che stiamo entrando in una lunga situazione di pareggio catastrofico, dove la struttura di potere dell’imperialismo anglosassone non riesce più a reggere la possibilità di stabilire un ordine globale, e nemmeno la struttura di potere emergente, ancora incipiente, ha forza, sviluppo e organicità sufficienti per sostituire ampiamente le potenze declinanti, che ancora possiedono forza considerevole e ampiezza per limitare e restringere, ma sempre meno per determinare o dirigere”.
Se questo è il quadro mondiale delineato dall’autore, la questione della strategia dei comunisti e del movimento operaio in questa fase diviene di primaria importanza.
2. Il testo ci presenta una sintesi, corroborata dall’esposizione di dati eloquenti, dell’economia e della politica statunitensi e delle tappe e cause del declino, nonché delle basi materiali dello scontro interno ai gruppi dirigenti nordamericani, che si manifesta nell’antagonismo Biden/Trump nelle prossime elezioni presidenziali, sul cui esito l’autore non vede la possibilità di una via d’uscita progressiva.
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I canoni superiori della giustizia morale: Aaron Bushnell nella storia
di Alberto Bradanini
1. Con intelligenza ed empatia, l’australiana Caitlin Johnstone ci invita a meditare sugli orrori del nostro tempo, restando lontani dal megafono della propaganda e meditando sulla circostanza, da quest’ultima sistematicamente omessa, che la violenza israeliana contro i palestinesi non è certo iniziata oggi.
Negli anni 1947/48, un tempo che i palestinesi chiamano non a caso Nakba, la catastrofe, quando su una popolazione di 1,9 milioni, oltre 750.000 palestinesi furono cacciati con la violenza, mentre bande armate sioniste s’impadronivano del 78% della Palestina storica, dopo aver distrutto centinaia di villaggi e città e massacrato oltre 15.000 poveri palestinesi disarmati, che avevano provato a difendere i loro beni, le loro famiglie e la loro vita.
La Nakba è il frutto malsano dell’ideologia sionista, sviluppatasi in Europa Orientale alla fine del XIX secolo, nel cui nucleo ideologico troviamo il radicalismo politico-religioso e la pretesa che gli ebrei (nazione, razza e/o religione) avessero diritto a un proprio stato, un diritto invero estraneo a qualsiasi norma nazionale o internazionale, ma derivato esclusivamente dalle cosiddette sacre scritture, vale a dire quanto di più farfaleico si possa immaginare.
Nel 1880, la popolazione degli ebrei palestinesi non supera il 3% dei residenti. A differenza degli ebrei sionisti che sarebbero arrivati in Palestina successivamente, l'Yishuv originale non aspirava a costruire un moderno stato ebraico. A partire dal 1882, però, migliaia di ebrei iniziano a stabilirsi in Palestina, fuggendo dalle persistenti persecuzioni ai loro danni (pogrom e altro), ma anche attratti dal fascino sionista della costruzione di uno stato religioso.
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Lavoro povero con vita digitale o vita povera con lavoro digitale?
di Lelio Demichelis
Il lavoro ha subito tali trasformazioni da renderne necessario un profondo lavoro di revisione e ridefinizione sia dal punto di vista economico e legislativo, sia nelle sue forme e nel suo ruolo sociale. Accanto agli studi relativi ai singoli ambiti disciplinari è opportuno ampliare la visuale cercando di far interagire le indagini, anche per gettare luci differenti sui risultati da esse ottenuti. Abbiamo pertanto provato a mettere in relazione due libri molto diversi tra loro, eppure legati da molti elementi, che insieme aiutano a capire il mondo degli ultimi quarant’anni e di quelli a venire.
Il primo è un saggio critico contro l’attuale “mortificazione e mercificazione del lavoro”, scritto da Alessandro Somma, docente di ‘Diritto comparato’ alla Sapienza di Roma. La sua è sia una analisi storica, politico-economica e in punta di Costituzione di come il lavoro sia stato deliberatamente ri-trasformato da diritto dell’uomo a merce di mercato dall’ideologia neoliberale, sia un programma sociale e politico, immaginando “un sistema di sicurezza sociale saldamente in mano pubblica, di piena e buona occupazione rispettosa dei vincoli ambientali”: tutto esplicitato fin dal titolo: Abolire il lavoro povero, pubblicato da Laterza nella Collana Anticorpi. Il secondo è invece un manuale di Davide Bennato, che insegna ‘Sociologia dei media digitali’ all’Università di Catania, pubblicato sempre da Laterza, dal titolo: La società del XXI secolo. Persone, dati, tecnologie.
Leggerli e commentarli in coppia ci permette soprattutto di provare a capire se il lavoro povero è solo l’effetto della flessibilizzazione neoliberale del lavoro per adattarlo alle esigenze del capitale, oppure se è anche l’effetto necessario (voluto) – come noi crediamo e anche Somma – delle tecnologie oggi digitali (che hanno permesso la esternalizzazione dei processi produttivi e “accelerato la deregolamentazione del mercato del lavoro”) e della razionalità che predetermina neoliberalismo e tecnica.
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Gaza: Israele usa l’arma della fame per completare il genocidio
Il piano di aiuti alimentari dal mare è solo un diversivo
Riprendiamo e traduciamo dal magazine +972 un articolo di Samer Badawi che mette in luce come il piano statunitense di aiuti alimentari via mare non sia altro che un’arma di distrazione di massa, nei fatti una vera e propria copertura della decisione dello stato sionista di usare l’arma della fame per ampliare al massimo la portata dell’operazione genocida in corso a Gaza. Infatti, se davvero si volesse impedire l’affamamento della popolazione di Gaza, bisognerebbe imporre l’immediato cessate il fuoco, la totale ritirata dell’esercito di occupazione e l’altrettanto immediata apertura di tutti i valichi di accesso al territorio di Gaza dal Nord e dal Sud. Ma le democrazie “umanitarie” impegnate (si fa per dire) negli “aiuti alimentari” via cielo e via mare, non muovono un solo dito in questo senso, totalmente complici della politica dello stato sionista. Che, peraltro, non è successiva al 7 ottobre, dal momento che l'”insicurezza alimentare” della popolazione di Gaza data da quasi due decenni, dal momento in cui è iniziato “l’assedio più lungo della storia” deliberato con lo scopo di punire la popolazione di Gaza per aver votato maggioritariamente per Hamas nelle prime elezioni democratiche della loro storia (e non per al-Fatah, come ordinato dalle potenze occidentali).
Dopo il 7 ottobre tale politica di assassinio di massa ha conosciuto un salto di quantità e di qualità, ed in questo articolo (e in altri) se ne forniscono alcuni “dettagli”. Uno dei principali è la criminalizzazione e la distruzione sistematica delle strutture dell’UNRWA con l’uccisione del suo personale – l’agenzia dell’ONU finora incaricata degli aiuti alimentari alle popolazioni palestinesi di Gaza e del vicino Oriente, a cui anche l’infame governo Meloni ha deciso di tagliare i fondi.
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Alla ricerca di Federico Caffè
di Pierfranco Pellizzetti
"Dove la luce" (La Nave di Teseo, 2024) di Carmen Pellegrino è un intreccio, a tratti autobiografico a tratti di fantasia, caratterizzato dalla delusione esistenziale a ridosso di due epoche: quella dei "trenta gloriosi", del welfare state e dei diritti sul lavoro, e quella degrado dello Stato sociale dato dal neoliberismo. L’autrice elabora un dialogo ipotetico con un anziano Federico Caffè, apostolo del pensiero keynesiano in Italia, sulle promesse mancate della crescita economica degli anni d’oro del capitalismo e sull’amarezza della decrescita causata da uno Stato sconfitto dalle forze predatorie del mercato.
«La disperazione è una forma superiore di critica.
Da oggi noi la chiameremo: felicità»
Leo Ferré
«Solitaire, solidaire».
Albert Camus
Una civiltà possibile, ormai cancellata
Più che un romanzo – quello di Carmen Pellegrino – è un crocevia, dove si incontrano e intrecciano biografie e autobiografia. In qualche misura creazioni letterarie? Invenzioni – come si premura di suggerire l’autrice al termine della sua narrazione?
Di certo non è un personaggio di fantasia Federico Caffè, il celebre economista che percepisce come una ferita la sua crescente inattualità, mentre non solo l’Italia ma l’intero Occidente – come si diceva – “industrialmente avanzato” prende tutt’altra direzione rispetto agli assetti democratici e inclusivi del secondo dopoguerra. Gli anni che i francesi definirono Les Trente Glorieux e lo storico inglese Eric Hobsbawm “l’Età dell’oro”. Il periodo in cui l’ortodossia in materia di governance politico-economica trovava il proprio riferimento intellettuale primario nella lezione profetica di John Maynard Keynes; i destinatari del cui messaggio erano le moltitudini degli ‘ultimi’, quelli che bussavano a porte che potevano schiudergli l’accesso a migliori condizioni di vita.
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Dall'Ucraina a Gaza: la crisi definitiva dell'imperialismo USA
di Alfred McCoy - TomDispatch
Gli imperi non crollano semplicemente come alberi abbattuti. Invece, si indeboliscono lentamente man mano che una serie di crisi ne prosciuga la forza e la fiducia, fino a quando non iniziano improvvisamente a disintegrarsi. È stato così per gli imperi britannico, francese e sovietico; così è ora per l'America imperiale.
La Gran Bretagna affrontò gravi crisi coloniali in India, Iran e Palestina prima di precipitare a capofitto nel Canale di Suez e nel collasso imperiale del 1956. Negli ultimi anni della Guerra Fredda, l'Unione Sovietica affrontò le sue sfide in Cecoslovacchia, Egitto ed Etiopia prima di schiantarsi contro un muro invalicabile nella guerra in Afghanistan.
Il giro di vittoria dell'America post-Guerra Fredda ha subito la sua crisi all'inizio di questo secolo con le disastrose invasioni dell'Afghanistan e dell'Iraq. Ora, all'orizzonte della storia si profilano altre tre crisi imperiali a Gaza, Taiwan e Ucraina, che potrebbero trasformare cumulativamente una lenta recessione imperiale in un declino troppo rapido, se non in un collasso.
Per cominciare, mettiamo in prospettiva l'idea stessa di crisi imperiale. La storia di ogni impero, antico o moderno, ha sempre comportato una successione di crisi - di solito superate con abilità nei primi anni dell'impero, per poi essere gestite in modo sempre più disastroso nell'era del declino. Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando gli Stati Uniti divennero l'impero più potente della storia, i leader di Washington gestirono con abilità crisi del genere in Grecia, Berlino, Italia e Francia, e in modo meno abile ma non disastroso nella guerra di Corea che non finì mai ufficialmente.
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Cattivi maestri e maestri del dove tira il vento
Considerazioni inattuali per un caso attuale (di cui non parlo)*
di Gaspare Nevola
C’è un abisso tra un amante deluso e chi è incapace di amare
(Koestler)
S’alza il sipario
Prof.ssa Tizia: Le sue parole mi suscitano sconcerto…
Prof. Caio: Mi scusi, ma è mio mestiere e dovere è cercare di capire le cose e offrire spiegazioni, come lei ben sa. Mi sconcerta il suo sconcerto, cara collega…
(Frammento di un confronto mancato. L’ennesimo nel discorso pubblico dei nostri tempi. Ah… Ma su cosa? La risposta al lettore, o nel vento…).
1. Del mito, o delle “grandi narrazioni”
Per una collettività e la sua cultura politica, il mito (mythos) è una “narrazione”: classicamente, una “grande narrazione”[1] che esprime una “visione del mondo” (nel senso weberiano), o anche un’”ideologia” (nel senso di Karl Mannheim, più che di Marx). Il mito è uno strumento culturale, cognitivo e valoriale che opera per conferire, come è antropologicamente necessario, un “senso” al mondo, alla vita collettiva di una comunità e dei suoi membri. Il mito non è solo “racconto” ma anche “costruzione del racconto” o dei racconti, “processo del raccontare”: vale a dire, un meccanismo antropologico-culturale che forgia narrazioni, e per loro tramite delinea significati, identità e valori collettivi. Il mito, insomma, è anche mytho-moteur[2], intrinsecamente mitopoietico. In quanto tale, il mito produce “sue verità”, verità che sfuggono al paradigma “vero/falso”[3]. Il mito, inoltre, attinge al passato, “attualizza” il passato, lo porta nel presente e orienta il futuro, indicando direzioni per l’azione umana collettiva[4].
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Il caso del caso Moro. Parte 3: La trattativa
di Davide Carrozza
Sulla scia dei miei due articoli precedenti (qui e qui) sul “caso del caso Moro”, ripresi da Sinistra in Rete e Minuti di Storia, volevo tornare su un argomento poco dibattuto e appena sfiorato dagli stessi: Moro, poteva essere salvato? Quanto siamo stati vicini alla sua liberazione? Dal momento che tutti i commenti agli stessi articoli (non gli articoli stessi) lascerebbero intravedere una mia presa di posizione lapidaria sui misteri della vicenda Moro, chiarisco che essere anti complottista non significa di per sè credere che sul rapimento, prigionia e omicidio dell’On. Moro sia tutto un libro aperto e niente debba essere più risolto.
Se c’è un aspetto infatti poco dibattuto sia dalla storiografia, che dalle commissioni parlamentari, che dai numerosi procedimenti giudiziari riguarda quella trattativa sotto traccia, che attraverso numerosi canali riuscì a mettere in comunicazione neppure tanto indiretta, ma segretissima, le Brigate rosse e lo stato durante i 55 giorni. Anziché elucubrare su quello che fu e sarebbe potuto essere proverò a ricostruire quella trattativa con una cronistoria il più possibile precisa, proverò quindi a dipanare gli eventi senza aggiungere commenti od opinioni di parte per provare a rispondere a domande che, a 47 anni di distanza, a mio avviso hanno ancora tutto il senso del mondo: C’è mai stata la speranza di salvare Moro in quei giorni maledetti? Se si, quanto concreta? Quanto siamo stati vicini alla sua liberazione? Chi avremmo dovuto ringraziare? Domande metafisiche da sliding doors potrebbero sorgere: cosa sarebbe accaduto poi alla storia del nostro paese? Avrebbe preso un altro corso? Proviamo a riordinare le idee e a ricostruire tutto a bocce ferme, per poi tirare le somme alla fine.
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Elezioni europee. Non ricadere, ancora una volta, nella trappola dell’elettoralismo
a cura della segreteria nazionale MpRC
La confusione politica di aggregati elettorali estemporanei e l’arroccamento identitario sono le due opposte sfaccettature di una sinistra frammentata e in grave difficoltà, che perde contatto con i luoghi del conflitto di classe e investe le sue energie in un elettoralismo che diventa un circolo vizioso di insuccessi e perdita di credibilità.
Si avvicina la data delle elezioni europee, il passaggio è importante perché l’Unione europea (Ue), da molti anni in qua, ha un ruolo sempre più preponderante e sempre più impositivo su buona parte delle politiche nazionali.
Intendiamoci, non è vero che gli Stati nazionali non possono più avere voce in capitolo; abbiamo visto che, su alcuni passaggi, Stati con un minore peso sul piano economico e di popolazione hanno bloccato decisioni importanti e non ne hanno avuto conseguenze poi così gravi.
Certamente l’Ue ha tutto il potere che appare perché le classi dominanti e i loro rappresentanti politici accettano, o meglio condividono, le scelte che, sui vari terreni, economico, sociale, militare ecc. la Commissione (cioè il “governo” della Ue) e la Bce assumono, anche se a volte queste scelte favoriscono di più alcuni Stati rispetto ad altri – ovviamente si parla di Francia e Germania –, ma complessivamente le scelte che assume l’Ue tutelano e garantiscono le classi dominanti di tutti i paesi europei a danno dei lavoratori e dei ceti popolari (e anche dei ceti medi).
Riguardo allo spazio di autonomia che gli Stati possono avere, se vogliono, nell’Ue citiamo un esempio significativo: il governo Sanchez ha fatto delle leggi sul mercato del lavoro che vanno in senso opposto alla liberalizzazione selvaggia che, su questo tema, l’Ue ha promosso praticamente da sempre, a cominciare dalla Bolkestein.
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La "forza della debolezza" e il piano inclinato di Israele
di Giacomo Gabellini
A dispetto delle previsioni secondo cui l’imminenza del Ramadan incrementava le possibilità che rappresentanti israeliani e leader di Hamas concordassero quantomeno una tregua, i combattimenti nella Striscia di Gaza proseguono regolarmente. Simultaneamente, il tentativo dell’amministrazione Biden di indebolire la posizione di Netanyahu attraverso l’“incoronazione” di Benny Gantz, ex capo di Stato Maggiore dell’Israeli Defense Force e membro d’opposizione del gabinetto di guerra israeliano, si è risolto in un colossale fallimento. Individuato da Washington come una figura “moderata” da appoggiare per scalzare l’attuale primo ministro israeliano dal suo ruolo, Ganz si è rivelato perfettamente allineato a Netanyahu riguardo alla linea d’azione da portare avanti nella Striscia di Gaza.
Segno che Israele intende proseguire per la sua strada, nonostante il prezzo sempre più elevato che il Paese è chiamato a sostenere. Le inchieste condotte dai quotidiani «Haaretz», «Yedioth Ahronoth» e «The Times of Israel» hanno messo in luce l’entità assai ragguardevole – di molto superiore a quella ricavabile dai dati forniti dal governo – delle perdite, in termini di morti e feriti gravi, riportate dall’Israeli Defense Force. Di converso, stando a quanto riportato dall’analista Yitzhak Brik sulla base di informazioni ricevute da soldati e ufficiali di Tsahal impegnati nei combattimenti nella Striscia di Gaza, «il numero effettivo di miliziani di Hamas eliminati dalle nostre forze sul campo di battaglia è di molto inferiore rispetto ai dati ufficiali comunicati dal governo […]. L’Israeli Defense Force non dispone attualmente di soluzioni rapide per condurre una lotta efficace contro Hamas […]. La distruzione dei tunnel richiederà molti anni e un prezzo molto elevato in termini di vite israeliane».
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Sul fascismo e le sue metamorfosi
di Alberto Burgio
Vorrei dar seguito ai miei due interventi di «scatola nera» che hanno suscitato reazioni diverse, tutte feconde di ulteriori riflessioni. Credo che la sede opportuna di questa nuova riflessione sia «spigoli» perché vorrei a questo punto ragionare prendendo maggior distanza dagli accadimenti di questi mesi e anche di questi ultimissimi decenni.
Oggi vorrei tornare sulla questione del fascismo – del suo connotato essenziale, quindi dei suoi rapporti con la modernità, il capitalismo, il dominio borghese, lo Stato di diritto, la democrazia. Non mi dispiacerebbe concentrarmi in un successivo intervento sul problema del razzismo, riservando particolare attenzione alla tragedia specificamente moderna e specificamente europea dell’antisemitismo, riemersa con tragica attualità in connessione con il nuovo capitolo dell’infinita guerra israelo-palestinese (A.B.).
* * *
Due questioni
Nell’ultimo articolo pubblicato in «scatola nera» ho scritto che, dopo i 30-40 anni di reazione alle conquiste realizzate dal movimento operaio nel trentennio post-bellico, siamo in una fase di «neo-fascistizzazione» di buona parte dei paesi occidentali; e ho suggerito che la fase attuale è probabilmente la «verità» della precedente: non un semplice, transitorio, incidente di percorso. In questo senso la regressione verso regimi autoritari, «populistici» (pongo tra virgolette per l’ambiguità del termine), sostanzialmente post- o neo-fascisti in parte dell’Europa non dev’essere ottimisticamente intesa come un inciampo più o meno accidentale ed episodico, ma come un compimento, come l’istituirsi di un assetto stabile destinato a consolidarsi nel prossimo futuro.
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Stellantis, l’auto elettrica e i cinesi
di Vincenzo Comito
Il governo vorrebbe che l’Italia tornasse a produrre un milione di veicoli e apre all’ingresso di partner cinesi, che finora ha ostacolato. Un’operazione difficile, considerando gli investimenti già annunciati di Byd in Ungheria, la scarsa appetibilità del mercato elettrico italiano, la nebulosa dei piani di Stellantis
Il settore dell’auto, data la sua persistente importanza per la gran parte delle economie del nostro continente e considerando le grandi trasformazioni in atto, si è negli ultimi tempi conquistato un posto importante nella cronaca economica dell’Unione Europea e anche del nostro paese, in particolare per quanto riguarda i rapporti con la Cina, per la questione dell’auto elettrica e per le difficoltà dell’Italia sul tema; tali questioni sono tra di loro interconnesse.
Alcuni dati di base
Può essere utile ricordare preliminarmente alcuni dati di base relativi al settore.
Quella dell’auto è una delle tante attività economiche nelle quali il primato produttivo, tecnologico e di mercato si è andato spostando sempre più verso l’Asia e verso la Cina in particolare. Così nel 2023, rispetto a una produzione totale di veicoli a livello mondiale pari a circa 82 milioni di unità, in Asia ne sono uscite dalle fabbriche per un volume vicino al 60% del totale e nella sola Cina si è superato un terzo del totale. Anche per quanto riguarda le esportazioni, nel 2023 la Cina si è collocata al primo posto nel mondo, con 5.1 milioni di unità vendute all’estero, seguita peraltro nella classifica da un altro paese asiatico: il Giappone.
Ancora più rilevante il predominio cinese nel comparto delle vetture elettriche. Su una produzione totale di circa 9,5 milioni di unità nel 2023, con un aumento del 33% sull’anno precedente, la quota della Cina si è collocata vicino al 60%.
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Gli Stati Uniti non riescono a gestire Israele
di Alastair Crooke - Strategic Culture
Alon Pinkas, ex diplomatico israeliano di alto livello, ben collegato a Washington, ci dice che una Casa Bianca frustrata ne ha finalmente "abbastanza". La rottura con Netanyahu è completa: Il Primo Ministro non si comporta come dovrebbe fare "un alleato degli Stati Uniti"; critica aspramente le politiche mediorientali di Biden, e ora gli Stati Uniti hanno capito questo fatto.
Biden non può permettersi che un ulteriore effetto-Israele metta a rischio la sua campagna elettorale e quindi - come chiarisce il suo discorso sullo Stato dell'Unione - raddoppierà i quadri politici mal interpretati sia per Israele che per l'Ucraina.
Cosa intende fare Biden in merito all'atto di sfida di Netanyahu contro il "Santo Graal" delle raccomandazioni politiche statunitensi? Beh, ha invitato a Washington Benny Gantz, un membro del gabinetto di guerra israeliano, e lo ha avvolto in un'agenda "riservata a un primo ministro, o a qualcuno che si pensa possa o debba diventare premier". A quanto pare, i funzionari hanno pensato che, avviando una visita al di fuori dei consueti protocolli diplomatici, avrebbero potuto "scatenare una dinamica che potrebbe portare a un'elezione in Israele", osserva Pinkas, con il risultato di una leadership più favorevole alle idee statunitensi.
È stato chiaramente inteso come un primo passo verso un cambio di regime "soft power".
E il motivo principale della dichiarazione di guerra a Netanyahu? Gaza. A quanto pare, Biden non ha apprezzato l'affronto ricevuto alle primarie del Michigan, quando il voto di protesta per Gaza ha superato i 100.000 "voti non impegnati". I sondaggi - soprattutto tra i giovani - stanno lanciando segnali di allarme per novembre (in gran parte a causa di Gaza). I leader nazionali democratici cominciano a preoccuparsi.
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La fine del mondo
di Marco Calamari
Virtuale
Sarà un bug informatico usato come arma a provocare la fine del mondo? Per adesso sappiamo che poteva succedere nel mondo virtuale, e che stavolta è andata bene. Ma domani?
CVE-2024–22252–3–4–5.
Quando scritto qui sopra da Cassandra è incomprensibile al 99,9% delle persone normali, e probabilmente anche ai suoi 24 intelligentissimi lettori.
Tradotto in italiano, con una buona traduzione, di quelle che spiegano il significato più profondo, suonerebbe così:
“Abbiamo evitato che qualcuno potesse provocare la fine del mondo delle macchine virtuali”.
Ma ancora per molti non sarà chiaro, o almeno non ne sarà chiara l’importanza. Riproviamo.
“La maggior parte dei server al mondo potevano essere bloccati o distrutti da un singolo atto di guerra informatica, ma questa volta ce ne siamo accorti e l’abbiamo impedito”.
Chiaro, no? E veniamo al fatto.
CVE-2024–22252–3–4–5 è il nome assegnato ad una serie di falle informatiche che consentono di penetrare l’ipervisore dei sistemi VMware ESX, permettendo di accedere al server fisico sottostante, e di fare qualsiasi cosa, incluso bloccare o “distruggere” il server fisico, e con esso tutte le macchine virtuali che vi girano sopra.
Non molti sanno che la maggior parte dei server che costituiscono il tessuto della Rete odierna non sono “ferro”, macchine fisiche, ma “macchine virtuali” che funzionano tutte insieme su un unico server specializzato. Diciamo tipicamente 10–100 macchine che condividono un unico computer.
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Il guaio con la scienza
di Paolo Di Marco
1-La presbiopia dei sondaggisti
Iniziamo dal livello forse più basso dell’indagine scientifica, il sondaggio politico;
scoprendo però che anche qui valgono le regole base della logica su cui si fondano i pilastri della scienza, Matematica e Fisica, e chi non le rispetta lo fa a suo rischio e pericolo.
‘Quando gli viene chiesto da cosa è guidata l’economia molti americani hanno una sola e semplice risposta che viene loro in mente immediatamente: ‘L’avidità’. (greed) Ritengono che i ricchi e potenti abbiano progettato l’economia in modo da beneficiare loro lasciando agli altri troppo poco o niente del tutto.’
Katherine J. Cramer and Jonathan D. Cohen, Many Americans Believe the Economy Is Rigged, NYTimes, Feb. 21, 2024
Sappiamo che gli americani pensano questo perché gliel’abbiamo chiesto. Nel corso degli ultimi due anni un nostro (AAAS) gruppo ha condotto più di 30 conversazioni con piccoli gruppi di americani da ogni angolo del paese.
Mentre gli indicatori nazionali possono suggerire che l’economia è forte, gli americani con cui abbiamo parlato non sono in buone condizioni; non pensano che l’economia li sostenti. Piuttosto tendono a vederla come un ostacolo, un insieme di forze esterne fuori dal loro controllo che tuttavia controllano le loro vite. ‘Mi sento come un perdente che non riesce ad andare avanti, e dipende tutto da avidità e profitto’.’
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Postdemocrazia o de-democratizzazione?
Alcune riflessioni tra storia e politica sul dibattito contemporaneo
di Elia Zaru -This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it. Università di Bologna
Abstract. Il saggio ricostruisce e analizza alcuni snodi del dibattito contemporaneo sulla crisi della democrazia, alla luce delle idee di «postdemocrazia» e «de-democratizzazione» e del legame tra crisi della democrazia e neoliberalismo rispetto al rapporto tra politica, democrazia, uguaglianza e azione collettiva. Il primo paragrafo è dedicato al lemma «postdemocrazia» e ne rintraccia le radici storico-teoriche nella «semantica del post». Il secondo paragrafo mostra il modo in cui in ottica neoliberale la crisi della democrazia non rappresenti un problema (come inteso dalla «postdemocrazia»), ma una soluzione a un problema rappresentato dall’eccesso di democratizzazione della società. A questo scopo, si traccia un collegamento tra le considerazioni espresse nel Report della Commissione Trilaterale (1975) e le proposte epistocratiche più recenti. Infine, dopo una breve analisi delle critiche all’epistocrazia, esposte nel terzo paragrafo, il quarto delinea alcune conclusioni che riallacciano il discorso della crisi della democrazia alla questione dell’uguaglianza e dell’azione collettiva.
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1. Crisi della democrazia e semantica del «post»
Che esista, nelle società occidentali, una «crisi della democrazia» è acclarato. Il primo e più immediato indicatore di tale crisi consiste nel calo costante della partecipazione elettorale1, a cui si affiancano altri fenomeni come, per esempio, lo sbilanciamento dei poteri in favore dell’esecutivo a scapito dei Parlamenti, o quella che in ambito giuridico è stata definita «decostituzionalizzazione»2. Sul piano materiale si assiste da alcuni decenni al progressivo smantellamento dei diritti sociali acquisiti nel contesto del welfare state, un processo che ha determinato «la drastica compressione della libertà e dell’uguaglianza dei lavoratori, e degli spazi di partecipazione reale dei cittadini»3.
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Gli ultimi rantoli del fascismo ebraico
di Thierry Meyssan
Chiunque in buona fede si rende conto che l’uccisione di 30 mila innocenti non può essere il prezzo per eliminare Hamas.
Per cui l’operazione Spade di Ferro si rivela per quello che è: una copertura per realizzare il vecchio sogno dei fascisti ebrei, da Jabotinsky a Netanyahu: espellere la popolazione araba dalla Palestina. Questo crimine di massa, commesso per la prima volta in diretta tivù, sconvolge lo scacchiere politico mondiale. Sentendosi minacciati, i suprematisti ebrei minacciano a loro volta gli Stati Uniti. E questi, intenzionati a rimanere i padroni del «mondo libero», si preparano a far cadere i suprematisti ebrei.
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L’amministrazione Biden assiste paralizzata alla reazione di Israele all’attacco della Resistenza palestinese – comprensiva di Hamas – denominata Diluvio di Al Aqsa (7 ottobre). L’operazione Spade di Ferro inizia con il bombardamento a tappeto della città di Gaza, d’intensità mai vista nel mondo e nella storia, nemmeno durante le due guerre mondiali. Il 27 ottobre, ai bombardamenti, si aggiungono l’intervento di terra, i saccheggi e le torture di migliaia di civili di Gaza. In cinque mesi i civili uccisi o scomparsi sono 37.534, di cui 13.430 bambini e 8.900 donne, 364 tra medici e personale sanitario, e 132 giornalisti [1].
Inizialmente Washington reagisce sostenendo senza esitazioni «il diritto di Israele a difendersi», minacciando di opporre il veto a ogni richiesta di cessate-il-fuoco e fornendo le bombe necessarie alla distruzione generalizzata dell’enclave palestinese. Gli Stati Uniti non possono infatti permettersi un’altra sconfitta, dopo quelle di Siria e Ucraina. Ma sui cellulari gli statunitensi assistono in diretta agli orrori compiuti da Israele.
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Keynes “sovranista”: contro l’internazionalizzazione della finanza e per l’autosufficienza nazionale
di Enrico Grazzini
Pochi amano ricordare un fatto indiscutibile: John Maynard Keynes, il più grande economista del secolo scorso, era assolutamente contrario alla libera circolazione dei capitali e al dominio della finanza sull’economia, ed era anche decisamente a favore del “nazionalismo economico”, ovvero dell’autosufficienza delle nazioni. Il suo pensiero oggi è tornato di grande attualità: infatti tutte le più grandi economie, quella statunitense, quella cinese, quella russa, e buona ultima anche quella europea, puntano all’autosufficienza o, in ultima analisi, alla “non dipendenza”. L’autosufficienza che Keynes invoca nei suoi scritti era però finalizzata alla pace e allo sviluppo; l’autosufficienza che oggi cercano le grandi potenze è invece per prepararsi alla guerra.
In un suo articolo scritto nel 1933 – quando Mussolini e Stalin erano già al potere e Hitler cominciava a diventare capo assoluto della Germania – intitolato “National Self-Sufficiency”, Keynes non ebbe timore di valutare in maniera molto positiva il nazionalismo economico[1]. Scrisse infatti: “Io simpatizzo di più con coloro che vorrebbero ridurre al minimo le relazioni economiche tra le nazioni che non con quelli che le vorrebbero aumentare al massimo. Le idee, il sapere, la scienza, l’ospitalità, il viaggiare – queste sono le cose che per loro natura dovrebbero essere internazionali. Ma lasciate che le merci siano prodotte in patria ogni qualvolta è ragionevolmente e praticamente possibile, e soprattutto lasciate che la finanza sia prevalentemente nazionale”. Per Keynes moneta, credito e finanza dovevano essere gestite innanzitutto a livello nazionale. Certamente il “nazionalismo economico” di Keynes non ha nulla a che vedere con l’autarchia di marca fascista o sovietica, che Keynes critica nel suo articolo.
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Libere di vendere il proprio corpo a pezzi
di Carlo Formenti
Nel mondo esistono due industrie che sfruttano i corpi di milioni di donne esponendole ad altissimi tassi di nocività (non di rado con conseguenze mortali). La condizione di queste "lavoratrici" non è molto migliore di quella dei neri nei campi di cotone del Sud degli Stati Uniti prima dell'abolizione della schiavitù. Sono l'industria della prostituzione e l'industria della maternità surrogata. Vediamo alcuni dati. L’industria della prostituzione impiega 400.000 donne nella sola Germania, dove coinvolge 1,2 milioni di clienti e genera un flusso annuo di denaro pari a 6 miliardi di euro. Il tasso di mortalità è 40 volte superiore alla media e le prostitute corrono un rischio18 volte maggiore delle altre donne di essere uccise nell'esercizio della propria "professione". Secondo l’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro) i profitti della tratta di esseri umani (donne e minori) sono valutabili in 28,7 miliardi dollari anno. Infine una ricerca condotta su 800 donne in nove paesi ha appurato che il 71% ha subito aggressioni dai clienti, il 63% sono state violentate, il 68% soffre di disturbi post traumatici da stress, l'89% ha dichiarato che vorrebbe cambiare vita se ne avesse la possibilità. Passiamo all'industria della maternità surrogata. Solo in India (il maggior fornitore mondiale di uteri in affitto) il giro d'affari è stato di 449 milioni di dollari nel 2006. Qui la nocività fisica è minore (anche se non trascurabile) ma è assai elevata sul piano psicologico: la brusca separazione dal figlio/a che si è portato in grembo per nove mesi, del quale non si potrà mai più avere notizia è per molte un'esperienza traumatica che i miseri compensi non bastano a lenire.
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