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Walter Benjamin tra salvezza e oblio
di Roberto Gilodi
Chi sono i veri maestri e che cosa impariamo da loro? E noi come ci disponiamo dinanzi a colui che eleggiamo a nostro maestro? Il problema sotteso a queste domande può sembrare anacronistico nell’età dell’informazione globale disponibile in ogni momento e in ogni luogo. In realtà è tutt’altro che inattuale, anzi: la relazione maestro allievo è oggi più necessaria che mai perché restituisce al sapere la sua naturale fisiologia, che è fatta di tempi e di luoghi, di durata, di incertezza, di ostacoli, di sconfitte e successi, perfino di tratti fisiognomici, un impasto di situazioni, un’alternanza di stati emotivi, che toccano le esistenze degli allievi restituendo all’acquisizione del sapere quella dimensione umana che l’offerta infinita e gratuita della rete ha cancellato.
La collana ‘Eredi’ di Feltrinelli diretta da Massimo Recalcati promuove ormai da molti anni incontri con i maestri affidati alla memoria degli allievi. Allievi, non sempre per avere frequentato direttamente i maestri, anzi, spesso si tratta di relazioni lontane nel tempo, in cui non sono solo in gioco i contenuti insegnati ma anche, e forse soprattutto, gli stili di pensiero.
Osservando queste relazioni si sono potuti evidenziare i tragitti individuali di apprendimento e con essi la mutazione sostanziale del concetto di magistero nei diversi stadi della Modernità.
A fine Settecento, soprattutto in Germania, non era infrequente incontrare nei romanzi di formazione un Meister, un maestro che insegnava il mestiere ai suoi garzoni di bottega. ’Meister’ non a caso si chiama il protagonista di quello che a torto o a ragione è stato considerato il capostipite dei romanzi di formazione, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe.
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La Yugoslavia ….e la nuova Europa dei fratelli Grimm
di Paolo Di Marco
1- l’intervento all’ONU di Vučić (da l’Antidiplomatico)
Il 20 Settembre, davanti a un’assemblea generale delle Nazioni Unite tutta presa dal conflitto ucraino, il presidente serbo Vučić ha fatto un discorso di grande coraggio e lucidità:
“Sono davanti a voi come rappresentante di un Paese libero e indipendente, la Serbia, che si trova nel percorso di adesione all’Unione europea ma che, al tempo stesso, non è pronto a voltare le spalle alle sue tradizionali amicizie costruite da secoli )”. “Voglio alzare la voce a nome del mio Paese, ma anche a nome di tutti coloro che oggi, a 78 anni dalla fondazione delle Nazioni Unite, credono veramente che i principi della Carta delle Nazioni Unite siano l’unica difesa essenziale della pace nel mondo, del diritto alla libertà e all’indipendenza dei popoli e degli Stati. Ma anche di più: sono la garanzia della sopravvivenza stessa della civiltà umana. L’ondata globale di guerre e violenze che colpisce le fondamenta della sicurezza internazionale è una conseguenza dolorosa dell’abbandono dei principi delineati nella Carta delle Nazioni Unite […] Il tentativo di smembrare il mio Paese, formalmente iniziato nel 2008 con la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo è ancora in corso. Per la precisione, la violazione della Carta delle Nazioni Unite nel caso della Serbia è stato uno dei precursori visibili di numerosi problemi che tutti dobbiamo affrontare oggi, che vanno ben oltre i confini del mio Paese o il quadro della regione da cui provengo. Più in generale, dall’ultima volta che ci siamo incontrati qui, il mondo non è né un posto migliore né più sicuro. Al contrario, la pace e la stabilità globale sono ancora minacciate. […]
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La fragilità di Israele sotto attacco nel vortice della crisi
di Alessio Galluppi
Attaccato da aria e da terra Israele si sveglia fragile e impaurito nelle prime ore del mattino del 7 ottobre 2023 e che vede ancora stamattina l’esercito Israeliano in un disperato tentativo di riconquistare il controllo di almeno ventidue villaggi e cittadine Israeliane prossime al confine con Gaza. Nonostante la reazione criminale di Israele che è e sarà sempre di più di estrema violenza, con un altissimo sacrificio di vite umane tra donne e bambini di Gaza, è chiaro che questa offensiva militare Palestinese era inevitabile, proprio per motivi di sopravvivenza dalla pulizia etnica e uccisione di bambini che l’IDF e le truppe di occupazione Israeliane portano avanti quotidianamente e con crescente violenza da tre anni in tutta la West Bank.
Uno stillicidio quotidiano operato con la collaborazione della direzione della ANP (Autorità Nazionale Palestinese), dei paesi Arabi e dell’Arabia Saudita e legittimata dall’Occidente che non può rinunciare al proprio storico avamposto imperialista in Medio Oriente.
Quello che viene definito come “attacco terroristico di Hamas” è una azione di difesa di massa che parte dalla striscia di Gaza – ovvero una vera e propria prigione, un lager a cielo aperto circondato da alte mura fortificate e armate Israeliane – per far respirare gli sfruttati Palestinesi di West Bank. Non si tratta – come si cerca di far credere – di una azione circoscrivibile a un pugno di miliziani di Hamas, ma si è trattato e si sta trattando di una vera incursione delle masse sfruttate di Gaza, che una volta che il colpo delle milizie ha conquistato militarmente e di sorpresa gli avamposti dell’esercito Israeliano lungo diversi punti del confine militarizzato di Gaza, ha sfondato le recinzioni in più punti e ha dato vita a una invasione verso i centri abitati Israeliani in una sorta di euforia liberatoria di un popolo sfruttato, oppresso e segregato da troppo tempo.
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L’11 settembre di Israele
di Il Pungolo Rosso
Chi pensava che le esercitazioni militari organizzate qualche settimana fa a Gaza dal comando unificato delle diverse fazioni palestinesi (attenzione: non dalla sola Hamas, come piace dire, mentendo, alla disinformazione di regime) fossero l’ennesima manifestazione di intenti, retorica quanto materialmente impotente, e pertanto incapace di imprimere una svolta nella lotta di liberazione, ha ricevuto una secca smentita.
Da ieri sappiamo che lo Stato israeliano, da sempre raccontatoci (e raccontatosi) come un Moloch invincibile, in virtù dei suoi insuperabili servizi segreti, dei suoi armamenti di ultima generazione e soprattutto delle sue forze speciali, tra le più letali al mondo, non è così invulnerabile come si credeva. Le tante spie presenti a Gaza, gli scudi missilistici e il pattugliamento permanente di terra, cielo e mare da parte di droni, veicoli a controllo remoto e fregate militari non sono bastati per impedire alle forze palestinesi di evadere dalla prigione di Gaza per prorompere militarmente nelle colonie israeliane e restituire un po’ di terrore all’occupante sionista.
Nei tanti video amatoriali che circolavano in rete fin dalle prime ore della mattina si sono visti carri armati Merkava, spacciati come indistruttibili, messi fuori gioco da armamenti non certo sofisticati. Schemi di difesa missilistica completamente nel pallone (la richiesta di ordinativi e commesse militari non ne beneficerà granché!), generali che fino a ieri comandavano battaglioni d’assalto, portati via in mutande come ostaggi.
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La critica del lavoro nel “duplice” Marx
Dialettica “categoriale” e “Wertkritik”
di Afshin Kaveh
Premesse (o “cronache marxiane”)
Quando Roman Rosdolsky scrisse «ist klar, dass eine fruchtbare Anwendung der Marxschen Theorie nur möglich ist, wenn man die esoterischen und die exoterischen Elemente derselben auseinanderhält»[è chiaro che un'applicazione fruttuosa della teoria di Marx è possibile solo se si tengono separati gli elementi esoterici e quelli essoterici]1, quello che lui anticipava come «chiaro» in verità non poteva di certo esserlo all’epoca, in un angusto panorama pullulato da dubbie ortodossie e animato da fedele estimazione per il “socialismo da caserma” (Kurz). Eppure, in riferimento al contesto nostrano, anche oggi, col fioco lamentìo di quegli spettri, la «fruttuosa applicazione della teoria marxiana» possibile solamente «se si distinguono gli elementi esoterici ed essoterici» della stessa, non trova alcuno sbocco per permettersi di prendere respiro, soffocata per mano di decenni di riletture limitate e fortemente problematiche dell’opera dell’agitatore di Treviri.
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Nessuna “fine della storia” in Ucraina
di Scott Ritter* – ConsortiumNews
La visione trionfalista della democrazia liberale post-Guerra Fredda di Francis Fukuyama – pubblicata nel 1989 – aveva un grosso punto cieco. Ha omesso la storia.
“Quello a cui stiamo assistendo non è solo la fine della Guerra Fredda, o il superamento di un particolare periodo della storia del dopoguerra, ma la fine della storia in quanto tale: cioè, il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità e l’universalizzazione dell’Occidente, la democrazia liberale come forma finale di governo umano”.
Queste parole, sono state scritte dal politologo americano Francis Fukuyama, che nel 1989 pubblicò “The End of History”, un articolo che sconvolse il mondo accademico.
“La democrazia liberale”, scrive Fukuyama, “sostituisce il desiderio irrazionale di essere riconosciuto come maggiore degli altri con il desiderio razionale di essere riconosciuto come uguale”.
“Un mondo composto da democrazie liberali, quindi, dovrebbe avere molti meno incentivi per la guerra, dal momento che tutte le nazioni riconoscerebbero reciprocamente la legittimità delle altre. E in effetti, negli ultimi duecento anni esistono prove empiriche sostanziali del fatto che le democrazie liberali non si comportano in modo imperialistico le une verso le altre, anche se sono perfettamente in grado di entrare in guerra con stati che non sono democrazie e non ne condividono i valori fondamentali.“
Ma c'era un problema. Fukuyama ha continuato notando quanto segue:
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Frontiere e diritti
Tra etica, diritto internazionale e politica del potere
di Luca Benedini
Alla luce del recente riesplodere di situazioni cruente e altamente drammatiche nel Nagorno-Karabakh, così come dell’indefinita e tragica prosecuzione della guerra russo-ucraina, appare opportuno ripresentare qui gran parte di due articoli scritti lo scorso anno (rispettivamente nell’aprile e nel maggio) sul tema politico estremamente controverso rappresentato dal rapporto tra popoli e frontiere
I
Un delicato nodo profondamente dialettico
Impegnarsi specificamente nella ricerca della pace nel momento presente, in una tremenda situazione come quella ucraina, non significa dimenticare le contraddizioni storiche che in quella parte del mondo possono aver stimolato delle tensioni culturali, etniche, ecc. dalle quali sono poi emerse le minacce per la pace sfociate infine nella guerra attuale.
Basti ricordare per esempio che nei trattati internazionali è ampiamente riconosciuto un generico (ma non per questo privo di significato) diritto dei popoli all’autodeterminazione: è addirittura l’argomento dell’art. 1 sia del Patto internazionale sui diritti civili e politici che del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, entrati in vigore entrambi nel 1976 e ratificati ormai da quasi tutte le nazioni del mondo (che in tal modo hanno fatto entrare nella loro legislazione quanto stabilito in tali Patti), dopo essere stati approvati nel 1966 dall’Assemblea Generale dell’Onu. Questo diritto consente di guardare, con uno sguardo particolarmente consapevole, a una serie di questioni inerenti proprio alle frontiere tra gli Stati.
Ci sono confini di Stato che sono stati tracciati d’autorità da qualcuno senza avere alcun riguardo per la situazione etnica e culturale dei popoli coinvolti. Il caso più drammatico è forse quello del territorio curdo, diviso tra quattro nazioni diverse (Turchia, Iraq, Iran e Siria) dopo la caduta dell’impero ottomano: una divisione – decisa in pratica dai governi britannico, francese e turco nel 1923 – che continua da un secolo a provocare tensioni e conflitti, senza che nessuna autorità politica o giurisprudenziale abbia mai riconosciuto ai curdi un qualsiasi diritto all’autodeterminazione.
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Sulla condizione dei comunisti in Italia. Un contributo collettivo alla lettera aperta di Fausto Sorini
a cura di: Demostenes Floros, CER-Centro Europa Ricerche, Orestis Floros, medico psichiatra e ricercatore in Neuroscienze, Stoccolma, Luigi-Alberto Sanchi, CNRS Parigi (Centro Nazionale di Ricerca Scientifica), Andrea Zirotti, docente
Ringraziamo il compagno Fausto Sorini per la proposta di un forum di discussione tra comunisti e speriamo che essa inneschi una risposta adeguata.
Il periodo critico dei “comunismi” in Italia, comunque lo si voglia individuare, dura ormai da molto tempo e l’assenza dal Parlamento, non certo ricercata e iniziata ben quindici anni fa, è riflesso di una condizione di enorme debolezza, quando non di sostanziale irrilevanza.
Ci pare che le recenti accelerazioni della storia abbiano reso ancor più urgente l’esigenza di una discussione e di un chiarimento di cui crediamo siano non pochi a sentire la mancanza, specialmente di fronte alla risposta che nell’insieme abbiamo dato in questi anni. A sospingere questo processo possono essere compagne e compagni, cui è rivolta la proposta, che come anche noi “ritengono del tutto insoddisfacente la situazione attuale” (Sorini); pensiamo però che una tale esigenza possa oggi essere avvertita, e magari trovare sbocco in percorsi diversi ma comunicanti, da tutti i comunisti in Italia: almeno i molti in cui non prevale la “boria di partito” o di gruppo (incluso quello dei non-partito, cui a malincuore apparteniamo, che può anche essere vissuto con boria). Non sarebbe, questo, un modo appropriato per interloquire con le nuove generazioni, piuttosto diverse dalle precedenti?
I profondi e vasti cambiamenti intercorsi in questi ultimi decenni, con un salto di qualità negli ultimi tempi, pensiamo impongano, a coloro che vorrebbero far vivere in Italia un marxismo non rituale, una riflessione di fondo; allo stesso tempo, pongono già su un nuovo terreno la discussione in cui le passate e presenti inadeguatezze, divisioni, separazioni dovrebbero essere passate al vaglio.
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L’invasione russa è stata un atto razionale
È nell’interesse dell’Occidente prendere Putin sul serio
di John Mearsheimer e Sebastian Rosato
È opinione diffusa in Occidente che la decisione del presidente russo Vladimir Putin di invadere l’Ucraina non sia stata un atto razionale. Alla vigilia dell’invasione, l’allora primo ministro britannico Boris Johnson suggerì che forse gli Stati Uniti e i loro alleati non avevano fatto “abbastanza per scoraggiare un attore irrazionale e dobbiamo accettare al momento che Vladimir Putin forse sta pensando in modo illogico e non vede il disastro che lo attende”. Il senatore statunitense Mitt Romney ha fatto un ragionamento simile dopo l’inizio della guerra, osservando che “invadendo l’Ucraina, Putin ha già dimostrato di essere capace di decisioni illogiche e autolesioniste”. L’assunto alla base di entrambe le affermazioni è che i leader razionali iniziano le guerre solo se hanno la probabilità di vincere. Iniziando una guerra che era destinato a perdere, Putin ha dimostrato la sua non razionalità.
Altri critici sostengono che Putin non era razionale perché ha violato una norma internazionale fondamentale. Secondo questa visione, l’unica ragione moralmente accettabile per entrare in guerra è l’autodifesa, mentre l’invasione dell’Ucraina è stata una guerra di conquista. L’esperta di Russia Nina Khrushcheva ha affermato che “con il suo assalto non provocato, Putin si unisce a una lunga serie di tiranni irrazionali” e sembra “aver ceduto alla sua ossessione guidata dall’ego di ripristinare lo status della Russia come grande potenza con una propria sfera di influenza chiaramente definita”. Bess Levin di Vanity Fair ha descritto il presidente russo come “un megalomane assetato di potere”; l’ex ambasciatore britannico a Mosca Tony Brenton ha suggerito che la sua invasione è la prova che egli è un “autocrate squilibrato” piuttosto che l'”attore razionale” che era un tempo.
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Inflazione da imperialismo
di Renato Caputo
Non potendo gli Stati Uniti e le altre potenze imperialiste competere con la Cina su un piano paritario, di libero mercato, hanno proprio loro tradito le politiche liberali e liberiste, imposte fino a quando gli facevano comodo con ogni mezzo necessario, per ripiegare su posizioni protezioniste tipiche della tradizione fascista
Come è noto l’aristocrazia operaia ha avuto due nefasti effetti di fondamentale importanza: sbarrare durevolmente la strada alla rivoluzione in occidente e consentire un consenso di massa, nei paesi a capitalismo avanzato, alle politiche imperialiste. Tali politiche hanno garantito al proletariato e alla piccola borghesia dei paesi imperialisti delle condizioni di vita indubbiamente superiori a quelle dei loro omologhi nei paesi sotto attacco imperialista e ha tolto alla classe che non aveva altro da perdere che le sue catene la sua potenzialità rivoluzionaria. In tal modo, le forze della sinistra rivoluzionaria hanno avuto e ancora oggi hanno scarsa capacità di incidere, come del resto le forze antimperialiste nei paesi a capitalismo avanzato. Perciò è essenziale per le forze antimperialiste e rivoluzionarie far emergere le strette connessioni fra la politica estera imperialista e il peggioramento delle condizioni di vita delle classi subalterne e, persino, della piccola borghesia e del ceto medio. Come è noto un po’ ovunque, ma in modo particolare nei paesi a capitalismo avanzato e, in primis, in Italia da diversi mesi l’inflazione sta facendo perdere potere d’acquisto a chi vive di un reddito fisso, proletari, ceti medi e pensionati, colpendo i risparmi di una vita della piccola borghesia.
I diretti colpevoli di tale espropriazione delle classi subalterne da parte dei ceti sociali dominanti sono naturalmente gli speculatori e il capitale finanziario. D’altra parte, entrambi questi fattori erano presenti anche prima che iniziasse l’inflazione e nonostante ciò per diversi anni, almeno i paesi a capitalismo avanzato, avevano avuto un’inflazione molto bassa.
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Le spiacevoli implicazioni della crescita trainata dal turismo
di Salvatore D'Acunto
Immaginate di vivere in un Paese dotato di una robusta struttura industriale. Senza esagerare con l’immaginazione, niente di fantascientifico. Non stiamo parlando di giganti della moderna tecnologia come NASA, Apple o Google, né di aziende in grado di realizzare fatturati multimiliardari. Parliamo di un tessuto di unità produttive di dimensioni piccole e medie, animate da imprenditori competenti e ingegnosi. Imprese a volte molto innovative, ma anche fragili. Non di rado sottocapitalizzate. Magari bisognose di protezione per crescere e consolidarsi, ma in ogni caso un tessuto industriale in grado di garantire un contributo rilevante all’occupazione e di permettere alla gran parte della popolazione di vivere dignitosamente.
Un giorno arrivano in visita alcuni pezzi grossi delle principali istituzioni di governance continentale, con al seguito economisti e banchieri di fama mondiale. Si fanno un giro di perlustrazione, raccolgono dati, fanno un po’ di calcoli e alla fine sputano un’infausta diagnosi. Vi dicono che impiegate male le vostre risorse. «State sbagliando strada, non è così che vi arricchirete». A voi, che per la verità nei trenta anni precedenti vi siete arricchiti molto senza alcun bisogno dei loro consigli, ma che per motivi misteriosi coltivate da tempo un profondo complesso di inferiorità, non sembra vero di avere l’occasione per farvi spiegare dal Gotha della politica e della finanza internazionale che cosa è meglio per voi.
I vostri blasonati ospiti vi spiegano che l’industria non è la vostra vocazione produttiva, che dovete lasciarla fare a chi la sa e può fare meglio.
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Presentata all’ONU la Mappa geopolitica delle “sanzioni”
di Geraldina Colotti
Ottimamente rappresentata da una delegazione di alto livello, diretta dall’ambasciatore all’ONU, Samuel Moncada, dal ministro degli Esteri, Yvan Gil e dal viceministro per le Politiche anti-bloqueo, William Castillo, la Repubblica bolivariana del Venezuela ha illustrato all’Assemblea generale dell’Onu la Mappa geopolitica delle sanzioni. Un lavoro di ricerca formalizzato nell’ambito della Legge antibloqueo e che si va ampliando. Ora, il Venezuela ha deciso di mettere la Piattaforma a disposizione dell’ONU (che considera illegali le misure coercitive unilaterali), affinché ogni organismo, ogni paese, ogni giornalista, ogni politico o ogni ricercatore possa cogliere natura e portata di queste armi di nuovo tipo, utilizzate dall’imperialismo per imporre il proprio predominio alle nazioni considerate più deboli, abusando del controllo esercitato dagli Usa sul sistema economico-finanziario mondiale.
Il dibattito si è svolto come parte dell’agenda di eventi paralleli della 78ma Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che si è conclusa a New York il 26 di settembre, e che ha discusso intorno al tema: “Ricostruire la fiducia e riattivare la solidarietà mondiale: Accelerare le azioni nel quadro dell’Agenda 2030 e dei suoi Obiettivi di Sviluppo Sostenibili fino al conseguimento della pace, della prosperità, del progresso e della sostenibilità per tutti”. In questo scenario, il Gruppo di Amici in Difesa della Carta dell’ONU, ha organizzato l’importante dibattito sulle “sanzioni”.
Il Gruppo si è formato a partire da un’iniziativa del Venezuela presso l’ONU, messa in moto nel 2020 insieme alle delegazioni di Bolivia, Cina, Cuba, Iran, Siria e Russia, alla quale si sono successivamente aggiunti altri Stati di diverse regioni del mondo.
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Il primo e l’ultimo
di Enrico Tomaselli
Se Russia e NATO si possono considerare player dello stesso livello (e quindi il conflitto in atto può essere definito come simmetrico), le concezioni strategiche di fondo sono antitetiche, e affondano le proprie radici nelle differenze storico-culturali che contraddistinguono le parti. Sotto questo profilo, quindi, si può senz’altro affermare che il conflitto è assolutamente asimmetrico. E questo rende tutto più complicato.
Si sta facendo sempre più strada, tra gli osservatori politici e militari occidentali, la convinzione che la guerra ucraina sia a un punto di inflessione strategico [1], insomma a un punto di svolta, oltre il quale le cose cambiano. “In questo punto di svolta, i leader più abili e creativi riconoscono e accettano questa sfida, facendo progredire le loro organizzazioni per affrontarla. I leader rigidi, esitanti o avversi al rischio non accettano la sfida, portando all’irrilevanza e, in ultima analisi, al fallimento della loro organizzazione” [2].
La questione veramente importante è che, ovviamente, superato il punto di svolta le cose possono andare appunto sia bene che male, tutto dipende dalle scelte assunte dalla leadership. Ed in questo momento, le leadership occidentali non sono univocamente coese e concordi sulla rotta da seguire. Per quanto l’esigenza di sganciarsi in qualche modo dalla precipitosa corsa verso il disastro sia sempre più forte, l’idea che si possa in qualche modo ribaltare lo stato delle cose è dura a morire; e quindi, la propensione a mantenere l’investimento sull’Ucraina resta al momento predominante.
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Marcuse nell’Antropocene. Alcune note su guerra, ecologia e rivoluzione
di Luca Mandara
se non ci lavorate fin da ora, non avrà luogo fra 75 anni, non avrà luogo tra 100 anni, non avrà luogo affatto
(Marcuse, Lezioni parigine del 1974)
1. Padre dell’Eco-Marxismo
Sfatato da qualche anno il “mito” di un capitalismo green capace di conciliare la crescita del PIL con la sostenibilità ambientale, il movimento ecologico sembra orientarsi sui temi della “giustizia climatica”, legando questione ambientale e questione sociale e scontrandosi con quei governi che fino a pochi anni fa non disdegnavano di cooptarne i leader alle famigerate Conferences of Parties sul clima (COP)[i].
Mi sembra lecito ipotizzare che buona parte dell’incredibile successo riscosso dall’eco-marxista Kohei Saito sia dovuto anche allo sviluppo di una maggiore coscienza socialista nel mainstream ecologista, così come, a sua volta, la maggiore coscienza ecologica sta contribuendo a sdoganare la proposta di un Degrowth Communism, impensabile fino a qualche anno fa.
Si è creata un’atmosfera positiva, insomma, anche per ritornare su autori del passato che, precorrendo i tempi, nel bel mezzo del consenso bipartisan verso il «modernismo tecnologico» osavano criticarlo. È il caso di Herbert Marcuse, a cui viene attribuita una delle prime «critiche ecologiche del capitalismo» per le sue radicali prese di posizione contro il produttivismo di entrambi i blocchi e per il concetto di natura come una «non-identità»[ii], limite ultimo ai fini di appropriazione.
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Le origini della guerra russo-ucraina
Introduzione
di Salvatore Minolfi
Salvatore Minolfi: Le origini della guerra russo-ucraina. La crisi della globalizzazione e il ritorno della competizione strategica, Istituto Italiano per gli studi filosofici, 2023
La matrioska della guerra
L’epoca del dopo guerra fredda – quella iniziata con le speranze dell’89 – è stata costellata di conflitti. Alle sue origini doveva essere, nella narrativa dominante, un’epoca pacifica, poiché la fine della competizione strategica tra le due superpotenze e il collasso dell’URSS avrebbero rimosso l’ultimo ostacolo all’avvento di un ordine nuovo, garantito dalla supremazia incontrastata degli Stati Uniti che, rimodulando la sovranità nell’universo degli Stati – e ponendo alla sua cuspide un egemone benevolo – li avrebbe privati di quei caratteri hobbesiani che condannavano il mondo a essere il teatro di una guerra di tutti contro tutti1.
Dacché quella dottrina fu lanciata molta acqua è passata sotto i ponti e la realtà si è mostrata sensibilmente differente. La nuova epoca si apriva con una guerra, quella combattuta nel Golfo Persico, e avrebbe continuato a dipanarsi in un serie inesauribile di conflitti – dai Balcani al Medio Oriente alle province più remote dello spazio post-sovietico – in un contesto aggravato da “un processo di rilegittimazione surrettizia dell’uso della forza”, tale da condurre “alla dissoluzione di ogni chiara distinzione tra pace e guerra”2. Una ricerca del “Watson Institute for International and Public Affairs” (Brown University) stima che la sola costellazione di conflitti legati al disordine mediorientale abbia mietuto oltre novecentomila vittime.
Non è questo il luogo per dar conto dell’ampia e articolata geografia della guerra degli ultimi trent’anni. Ciò che preme qui sottolineare è che, malgrado quei terribili precedenti, la guerra russo-ucraina ci trasporta in un’altra dimensione.
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La temperie moderna sullo sfondo de L’uomo senza qualità
di Alvise Marin
La parabola del moderno, il cui delinearsi lasciava intravedere esiti trionfalistici, tende invece a chiudersi con un momento terminale di crisi. Quest’ultima si manifesta nel cambiamento della percezione che l’individuo ha di sé, ma altresì nel modificarsi del tessuto connettivo della società. L’uomo tende a non cogliere più il proprio Ego come il centro delle proprie azioni e queste ultime, orfane di un autore, gli accadono suo malgrado e lo sorprendono quasi non gli appartenessero. Eccentrico rispetto a un centro che non c’è, egli cerca la sua vera identità nel rifrangersi di quest’ultima negli innumerevoli ruoli che la società gli confeziona addosso. Società, che del resto, è diventata un palcoscenico, sul quale si avvicendano ruoli, idee e visioni del mondo diversi, nessuno dei quali possiede però la forza di impadronirsi della scena; di qui il continuo stato di sommovimento in cui essa si trova e la sua tendenza a destrutturarsi.
Se questa è la temperie in cui langue la modernità dei primi decenni del Novecento, questo è anche il panorama della Vienna descritta da Robert Musil nel suo capolavoro incompiuto, L’uomo senza qualità. Ulrich, il personaggio principale del romanzo, è proprio un uomo come quello descritto sopra e la società in cui vive è proprio sul punto di disgregarsi.
Per spiegare questa trasformazione sociale e mentale, è necessario partire, in ambito filosofico, dal soggetto cartesiano, il quale nasce radicando la sua certezza nel Cogito e pensandosi nella sua unità sostanziale. In Cartesio il soggetto è l’autore dei propri pensieri e delle proprie azioni ed è dotato di un centro inamovibile.
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La pèsca: la famiglia etero pescata nella rete
di Giacomo Rotoli
Premetto che non sono d’accordo che i bambini vengano usati nelle pubblicità, si tratta di sfruttamento capitalistico gratuito dato che non sono in grado di capire cosa muove e quali sono gli interessi che sono dietro il sistema neoliberista. La pubblicità è uno dei molti generatori di plusvalore del sistema, essa non solo induce all’acquisto dei beni ma produce redditi in una enorme catena di filiere, detta anche gli schemi comportamentali che vengono veicolati attraverso i media, soprattutto definisce quasi esattamente cosa sia il mainstream e dove il sistema cerca di trovare il punto di equilibrio tra concezioni del mondo differenti per riproporsi come l’unica cosa naturale e giusta.
Vengo ora al motivo di questo articolo: lo spot è quello della pèsca di Esselunga [1], ma il mio vuole essere un commento non tanto allo spot in se, che può piacere o non piacere da un mero punto di vista estetico o etico, ma al bailamme che è nato sulla rete persino provocando una serie di prese di posizione addirittura ai vertici della politica. I commenti sono interessanti in se per il motivo che essi delineano molto bene alcune delle tendenze in atto nella concezione attuale della famiglia mononucleare di natura borghese, che è a tutt’oggi il modello dominante, ma come ho già scritto, è in crisi da almeno un cinquantennio. Questo articolo vuole quindi essere una naturale continuazione di “Gens Murgia” che scrissi riguardo alla presunta queerness della così detta famiglia non di sangue auspicata dalla nota scrittrice femminista.
Lo spot Esselunga penso che l’abbiano visto moltissimi, da questo punto di vista è un successo per i suoi creatori e per la nota catena di supermercati. Ma cosa ha di tanto speciale? Nulla di particolare, viene messa in scena una famiglia di separati, padre, madre e figlia, piuttosto che la solita unione stile “Mulino Bianco” alla quale nessuno fa più caso.
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Il Kosovo e la Serbia scivolano verso la guerra?
di Enrico Vigna
Cinque morti, quattro serbi e un albanese, numerosi feriti, nuovi arresti e retate nella aree serbe, non accadeva dal 2004
Nella notte tra sabato 23 e domenica 24 settembre, membri della polizia del Kosovo, hanno tentato di rimuovere le barricate erette da un gruppo di serbi armati, all'ingresso del villaggio di Banjska. Sono seguiti violenti scontri a fuoco per tutta la giornata con 500 uomini delle KPS, Forze Speciali Kosovo. Poi sul terreno sono rimasti uccisi quattro serbi (tre assassinati da cecchini) e un poliziotto albanese. Ecco dove hanno portato nella regione, le politiche terroristiche e vessatorie contro la popolazione serba kosovara del fanatico sciovinista Albin Kurti, reggente le autorità illegittime di Pristina e le strategie de stabilizzatrici della NATO e degli USA. La guerra è sempre più all’ordine del giorno e potrebbe essere devastante per tutti i Balcani e non solo.
Il quarto serbo assassinato è stato ritrovato a 1,5 km dal luogo degli scontri.
Premettendo che la dinamica complessiva della vicenda, degli obiettivi e delle finalità ha molte lacune e punti incerti e che forse, solo nei prossimi giorni o mesi si avranno risposte più certe, qui cerco solo di informare e documentare i fatti conclamati e provati, con grande cautela e attenzione, senza entrare negli aspetti tuttora dubbi o interpretabili sotto diverse o contrastanti letture. Questo, per non incorrere in letture o interpretazioni personali o virtuali, che, come nel caso della crisi ucraina, poi si rivelano nei fatti scombinate. Saranno i prossimi eventi e passaggi fattuali ad avvicinarci agli aspetti più profondi e congrui, per ora non accertabili.
Pertanto qui espongo alcuni punti fermi e fatti che sono a oggi fissati e riscontrati, utilizzando i contatti e le relazioni sul campo, queste sono sintesi e letture, di analisti, politici e militari serbi, tutte aperte a varie ipotesi in divenire, soprattutto politiche, come loro stessi confidano.
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Comunismo di guerra: ne vuoi un altro po'?
di Sandrine Aumercier
Negli ultimi anni - per aggirare i crescenti rischi planetari, primo fra tutti la catastrofe ecologica - una parte della sinistra si è convertita alla difesa di uno stato di eccezione permanente. Nel corso delle loro cene, in nome dell'emergenza climatica, i grandi "democratici" non hanno più alcuno scrupolo nel sostenere la dittatura ecologica, e sono arrivati persino a prendere la Cina come esempio. Infatti, la Cina è il primo produttore mondiale di energie rinnovabili (e per inciso, anche il più grande produttore mondiale di carbone, ma in questo caso ciò non conta). Ora, questa tendenza sembra essere del tutto compatibile con quello che è il posizionamento dei nuovi rivoluzionari climatici. Nel 2017, Andreas Malm, riprendendo la formula da Alysa Battistioni, ha detto: «D'ora in poi, ogni problema è un problema climatico» [*1]. In effetti, questa sintesi lapidaria dei problemi del presente, sembra che stia imponendo una ben precisa direzione alla lotta. e vediamo quale. Dire che «ogni problema è un problema climatico», consente di individuare un nemico chiaramente identificabile nella sfera delle infrastrutture "fossili" e nella persona di coloro che queste industrie le posseggono. Per Malm - così come egli lo sviluppa nel suo libro "Fossil Capital: The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming" (Verso Books) - il capitale è intrinsecamente fossile. Pertanto, Malm definisce il capitale a partire da quello che è il tipo di energia che è stata privilegiata ai fini della sua espansione storica, e non a partire da quelle che, per il capitale, sono le sue categorie operative. Non è forse semplice, quasi fosse una passeggiata? Prendendo di mira le infrastrutture fossili e i loro detentori, stiamo perciò prendendo di mira il capitale stesso.
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"Il golpe silenzioso": come il capitalismo ha sconfitto la decolonizzazione
di Chris Hedges* - Scheerpost e Matt Kennard
Il XX secolo ha visto una grande rivolta globale contro l’imperialismo europeo quando gli ex paesi coloniali si sono liberati delle loro catene e si sono sollevati per l’indipendenza. Più di mezzo secolo dopo, la disuguaglianza globale è più acuta che mai. Per comprendere l’attuale situazione difficile della stragrande maggioranza della popolazione mondiale, dobbiamo comprendere i decenni successivi. Il libro di Matt Kennard e Claire Provost , Silent Coup: How Corporations Overthrew Democracy, esamina l’architettura internazionale della governance aziendale globale che esiste per deridere e schiacciare qualsiasi tentativo da parte dell’ex mondo coloniale di attuare lo sviluppo alle proprie condizioni. Matt Kennard si unisce a The Chris Hedges Report per dare uno sguardo a questa storia intrigante ed essenziale.
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TRASCRIZIONE:
Chris Hedges: Gli Stati Uniti, come molti paesi industrializzati, hanno subito un colpo di stato aziendale al rallentatore, cementando un sistema di controllo che il filosofo politico Sheldon Wolin chiama “totalitarismo invertito”. Il totalitarismo invertito conserva l’istituzione, i simboli, l’iconografia e il linguaggio della vecchia democrazia capitalista, ma internamente le multinazionali hanno preso tutte le leve del potere per accumulare profitti e controllo politico sempre maggiori. Claire Provost e Matt Kennard, nel loro libro Silent Coup: How Corporations Overthrew Democracy, traccia il modo in cui è stato orchestrato il colpo di stato aziendale. Esamina l’uso di un sistema legale internazionale per controllare e saccheggiare le risorse nei paesi in via di sviluppo, compreso il rovesciamento dei governi che sfidano il dominio aziendale.
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Diario della crisi | Classe senza organizzazione di classe
di Gianni Giovannelli
Il lavoro e le manovre fiscali in Italia dentro la crisi
Una nuova puntata del Diario della crisi, condivisa con Machina e con El Salto. Nel testo, Gianni Giovannelli si sofferma a riflettere su come la classe precaria, “turba divisa, disunita, frammentata, insoddisfatta”, priva di forme di organizzazione di classe, oggi utilizzi forme di resistenza passiva. Nel frattempo viene tagliato il reddito di cittadinanza e il governo della destra spinge sulla coazione al lavoro. Da un lato, dunque, si allarga la platea dei bisognosi, dall’altro si sottraggono alternative a chi già vive nell’incertezza: “Un esempio, fra i molti possibili, […] è il caso Alitalia: quasi duemila lavoratori sono stati estromessi dall’organico, licenziati, individuando nella scelta l’area di quelli che per età o condizioni di salute avevano maggior costo e minor rendimento”. Infine, “per colpire chi già mal se la passa un ruolo centrale lo ha l’inflazione; gas, luce, cellulare, alimenti erodono le scarse risorse disponibili”. Questi i problemi di fronte ai quali si trova “la classe senza organizzazione di classe”…
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E la crisi in Ucraina è quindi arrivata
in un momento in cui qualcuno
ne aveva bisogno
(Qiao Liang, La bacchetta magica della finanza, 2015)
In data 3 luglio 2023 è stato convertito in legge, con modifiche, il decreto-legge n. 48 del maggio precedente, il primo in tema di lavoro varato per iniziativa del governo di destra guidato da Giorgia Meloni. Come di consueto il pacchetto normativo ha seguito un copione ormai collaudato, eredità degli esecutivi precedenti, nel segno di una continuità quanto meno procedurale.
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Samir Amin: eurocentrismo, malattia congenita del capitalismo
di Monica Quirico*
Nel 1988 usciva Eurocentrismo, di Samir Amin. La casa editrice La città del sole ha reso disponibile in italiano la seconda edizione dell’opera – Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi, a cura di Giorgio Riolo, traduzione di Nunzia Augeri, Napoli/Potenza, 2022) – uscita in francese nel 2008 con una Prefazione e un capitolo conclusivo che aggiornano la versione originale.
Trentacinque anni fa (1988) usciva Eurocentrismo di Samir Amin (1931-2018) che, sfidando la rappresentazione dominante della storia e della cultura occidentali (introiettata anche da una parte del marxismo), contribuiva a innovare radicalmente le categorie interpretative del capitalismo. In un’epoca contrassegnata da movimenti e partiti identitari (in Occidente come altrove), bene ha fatto la casa editrice La città del sole a rendere disponibile in italiano la seconda edizione dell’opera (Eurocentrismo. Modernità, religione e democrazia. Critica dell’eurocentrismo, critica dei culturalismi, a cura di Giorgio Riolo, traduzione di Nunzia Augeri, Napoli/Potenza, 2022), uscita in francese nel 2008 con una Prefazione e un Capitolo conclusivo che aggiornano la versione originale. Tra la prima e la seconda edizione la storia è sembrata prima “finire”, con il crollo del socialismo reale, e poi regredire verso la barbarie generalizzata, con l’attentato alle torri gemelle preso a pretesto dagli USA per imporre il loro controllo militare sull’intero pianeta; un’involuzione che per Amin non è affatto una sorpresa: “l’ideologia borghese, che in origine avanzava ambizioni universalistiche, vi ha rinunciato per sostituirvi il discorso postmodernista delle ‘specificità culturali’ irriducibili (e, in forma volgare, lo scontro inevitabile delle culture)” (p. 32).
Nella sua Introduzione, Riolo ripercorre la vita di Amin dalla nascita in Egitto agli studi in Francia, suo paese di adozione. Il giovane ricercatore, che a Parigi si iscrive al PCF, si trova a lavorare alla sua tesi di dottorato in una fase in cui la Conferenza di Bandung (1955) e successivamente la Conferenza di Belgrado (1961) pongono all’ordine del giorno il processo di decolonizzazione e insieme l’emergere del movimento dei paesi non allineati.
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Giù la testa
di Pierluigi Fagan
Più l’Occidente perde potere demografico, economico, geopolitico in favore del resto del mondo, più questo “resto” reclama e reclamerà una gestione più democratica delle istituzioni del mondo comune.
Più il resto del mondo reclama e reclamerà una condivisione maggiore dei poteri che decidono le cose del mondo, più l’oligarchia del sistema occidentale dissolverà ogni residuo di democrazia interna al proprio sistema.
Più il mondo si avvia a nuovi ordini multipolari, meno democrazia ci sarà in Occidente. Questo perché la “ricchezza delle nazioni” che ordina le nostre società, dipende spesso direttamente, altre volte indirettamente, da quanta porzione di mondo controlliamo come “sistema occidentale”. Meno controllo, meno ricchezza distribuibile, più problemi sociali, più problemi di governabilità -quindi- meno democrazia.
L’adattamento a questo potente movimento storico richiederebbe qui da noi una revisione molto profonda dei nostri modi di essere, dagli individuali ai sociali, dalle istituzioni sociali e giuridiche alle forme politiche, ma soprattutto, le forme mentali, le immagini di mondo. Stiamo passando a una nuova epoca storica, ma senza una democrazia ogni cambiamento strutturale sarà impossibile.
La democrazia non è un sistema a interruttore che c’è o non c’è. Nelle società complesse dovrebbe essere un “tendere a…” con vari gradi di intensità, il continuo rischio di regressione, una lunga scala ascensionale di espansione e intensione da sperimentare, correggere e riproporre con passi indietro e qualcuno avanti, lungo decenni e decenni.
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Blinken: eccezionalismo USA, scontro fra grandi potenze, e guerra a oltranza in Ucraina
di Roberto Iannuzzi
Col tramonto dell’egemonia unipolare americana, il manicheismo di Washington richiede un mondo diviso, e un conflitto armato di lunga durata che perpetui questa divisione
“Ciò che stiamo vivendo oggi è ben più di una messa alla prova dell’ordine mondiale post-Guerra Fredda, è la sua fine”.
A pronunciare queste parole è stato il segretario di Stato USA Antony Blinken, in un discorso tenuto il 13 settembre alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies (SAIS), uno dei “templi” del pensiero strategico americano.
La SAIS fu fondata nel 1943 da Paul Nitze, considerato uno degli architetti della politica di difesa americana durante la Guerra Fredda. Nitze fu il principale autore dell’NSC 68, un documento del Consiglio per la Sicurezza Nazionale che pose le basi per la militarizzazione della Guerra Fredda dal 1950 in poi, con l’espansione del bilancio del Pentagono, lo sviluppo della bomba all’idrogeno e l’incremento degli aiuti militari agli alleati di Washington.
Settantatré anni dopo, Blinken ci pone di fronte alla prospettiva di una nuova, e forse più pericolosa, guerra fredda contro non una, ma due potenze nucleari: Russia e Cina.
Quella di Blinken non è una visione personale, ma riflette quanto già affermato nella Strategia di Sicurezza Nazionale formulata dall’amministrazione Biden nell’ottobre del 2022.
Una crisi senza cause apparenti
Di fronte alla platea della SAIS, Blinken ha decretato la fine dell’era unipolare americana, e l’inizio di una cupa fase di conflitto.
Secondo il segretario di Stato, la fine della Guerra Fredda aveva “portato con sé la promessa di una marcia inesorabile verso una maggiore pace e stabilità, cooperazione internazionale, interdipendenza economica, liberalizzazione politica, e diritti umani”.
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Come il Neoliberalismo ha cambiato le città
Abitare in Italia e in Europa: un confronto
di Alessandro Coppola
La casa e quartieri, esiti e squilibri di un grande esperimento di neoliberalizzazione. Milano e l’Italia in un confronto europeo
Ricorre spesso in Italia una discussione sulla maggiore o minore pertinenza dell’uso della categoria del “neoliberalismo” nell’analisi della traiettoria delle politiche pubbliche degli ultimi trent’anni. Per alcuni c’è stato eccome, per altri si tratta invece di un inganno ideologico. Per i primi, le privatizzazioni, l’austerità, le esternalizzazioni di politiche e servizi pubblici sarebbero la riprova della pertinenza dell’uso di quel concetto. Per i secondi, il persistere di un livello elevato di spesa pubblica viceversa ne smentirebbe la pertinenza. Complessivamente, chi scrive concorda con chi – e sono molti, e autorevoli – pensa che il neoliberalismo non sia stato un progetto di mera de-statizzazione della società, bensì di profonda riarticolazione del ruolo dello stato, delle sue finalità come della sua strumentazione. E che quindi il permanere di una spesa pubblica elevata, o di un ruolo rilevante da parte dello stato, non siano di per sé dimostrazione della non pertinenza di quella categoria nell’analisi del caso italiano. Al di là di come ci si collochi in questa tenzone, è tuttavia possibile osservare come se c’è in Italia un ambito di politica pubblica dove si è potuta misurare una chiara ed inequivoca torsione neoliberale questo è la politica delle città, latamente intesa.
Tale torsione ha qui assunto una forma tradizionale di drastica riduzione del ruolo sia regolativo sia di intervento diretto dello stato e di contestuale apertura al mercato. A partire dagli anni 90, il trattamento pubblico di diversi oggetti che hanno a che fare con la vita delle città è stato ri-organizzato attorno al principio della preminenza dello scambio di mercato in una misura che, come vedremo, non ha sostanzialmente paragoni fra i paesi europei a noi più vicini.
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