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Ucraina: i tre niet USA alla fine della guerra
di Piccole Note
Articolo storico quello di Ted Snider pubblicato su The American Conservative del 16 agosto. Ne pubblichiamo ampi stralci
“Il 25 febbraio, il giorno dopo l’inizio dell’invasione, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ebbe a dichiarare di essere pronto ad abbandonare l’idea di far aderire l’Ucraina alla NATO”.
Primo tentativo di pace: il primo, Zelensky
Così Zelensky: “Non abbiamo paura di parlare con la Russia. Non abbiamo paura di parlare delle garanzie di sicurezza per il nostro stato. Non abbiamo paura di parlare della possibilità di uno stato neutrale. Non siamo nella NATO adesso… Dobbiamo parlare della fine dell’invasione. Dobbiamo parlare di un cessate il fuoco”.
Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino, aveva confermato: “l’Ucraina vuole la pace ed è pronta per un negoziato con la Russia, anche sullo status neutrale in rapporto alla NATO”. Interpellato dalla alla Reuters il 25 febbraio aveva detto: “Se i colloqui sono possibili, si devono fare. Se a Mosca dicono di voler negoziare, anche sullo status neutrale, non abbiamo timore di farlo. Possiamo parlare anche di questo”.
“[…] Il 27 febbraio, a soli tre giorni dall’inizio della guerra, Russia e Ucraina hanno così annunciato che avrebbero tenuto dei colloqui in Bielorussia. La delegazione ucraina vi giungeva con la volontà di negoziare la neutralità. Infatti, Zelensky aveva dichiarato: ‘Abbiamo concordato che la delegazione ucraina s’incontrerà con quella russa senza precondizioni‘”.
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"Nell'antidogmatismo di Tronti c'è qualcosa di vitale per il marxismo contemporaneo"
Juan Dal Maso intervista Jamila Mascat
In questa intervista con Juan Dal Maso, Jamila discute le principali idee ed esperienze di Mario Tronti, così come l’importanza di un recupero critico della sua opera per la sinistra di oggi
Mario Tronti è una figura chiave del pensiero politico di sinistra in Italia nella seconda metà del XX secolo. Come possono essere periodizzate la sua opera e la sua carriera?
Il lungo corso della traiettoria di Mario Tronti si snoda attraverso i tortuosi tornanti della seconda metà del Novecento. Toni Negri ha parlato recentemente dell’enigma Tronti, per sottolineare quella che a suo avviso è “la discontinuità profonda fra il Tronti di Operai e capitale e quello dell’autonomia del politico”1. In realtà, nonostante i cambiamenti di rotta puntualmente intrapresi nello sforzo di riconfigurare nella congiuntura l’orientamento della sua bussola politica, il percorso di Tronti presenta forti elementi di continuità. Uno per tutti, il primato dell’organizzazione, che è un nodo essenziale della sua esperienza politica nonché della sua riflessione teorica. Non mancano però i salti, cari a Lenin lettore della Logica di Hegel, che in Operai e capitale già definiscono la linea di condotta del metodo di Tronti.
Nel 1951 Tronti si iscrive alla Federazione giovanile comunista e nel 1954 al PCI, a cui resterà iscritto fino allo scioglimento del partito nel 1991. Nel 1956, però, prende posizione con altri giovani militanti e intellettuali a favore degli insorti in Ungheria. La vicenda ungherese segna sicuramente un punto di svolta e scombussola l’adesione ortodossa di Tronti al PCI, rivelando manifestamente ai suoi occhi e a quelli di una generazione le storture dello stalinismo di Togliatti. Parallelamente, sul versante della critica teorica, matura l’avversione di Tronti, influenzato dalla scuola di Galvano Della Volpe, nei confronti del marxismo gramsciano egemone in Italia in quanto filosofia ufficiale del partito.
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Il conflitto ucraino nell’ermeneutica divergente di Nato-Usa e Federazione Russa
di Alberto Bradanini
Jacques Baud, ex membro dell’intelligence strategica svizzera, con un passato nella Nato quale specialista per i Paesi dell’Est Europa e i programmi nucleari (2014-2017), nel suo ultimo libro (Ukraine entre guerre et paix, Max Milo Ed., 2023) rilegge con lente critica la vicenda ucraina attraverso l’analisi delle ragioni sostanziali, insieme agli aspetti di legalità e legittimità internazionali.
In un tempo di filosofica malinconia, le devastazioni intellettuali della macchina della Menzogna vengono digerite da un pubblico frastornato da un impaurito analfabetismo anche quando contraddicono la logica euclidea.
Sfidando una criminalizzazione del dissenso quale fenomeno inedito nelle società occidentali del secondo dopoguerra, Jacques Baud propone con coraggio una diversa esegesi degli accadimenti. E se questa potrà apparire provocatoria, la sua acquisizione ha il pregio di scuotere il torpore di chi, consapevole del Grande Inganno, tende tuttavia a impigrire, volgendo lo sguardo altrove.
La narrativa occidentale alimenta il convincimento – afferma J. Baud – che la guerra in Ucraina sia stata pianificata da V. Putin con il fine di riposizionare la Russia sul quadrante un tempo occupato dall’Unione Sovietica, alla riconquista del suo perduto status imperiale. Essa è tuttavia fallace, poiché dall’implosione dell’Urss[1] (1991) non si registra alcun atto o dichiarazione a suffragio di ciò, nulla! Numerosi osservatori occidentali e larga parte della pubblica opinione (le cui convinzioni sono occultate) reputano invece che la radice della guerra abbia natura strategica e vada collocata nell’intento premeditato di Nato-Usa di accerchiare la Russia, indebolirla e se possibile frantumarla, per saccheggiarne le risorse (gas, petrolio, prodotti agricoli e minerali) e riservare poi analogo trattamento alla Cina, la nazione più insidiosa per l’egemonismo Usa nel mondo.
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Il Piano B degli Stati Uniti
di Observer R
Il termine “Piano A” è comunemente usato per indicare la strategia attuale; il termine “Piano B” definisce invece una strategia di riserva o alternativa nel caso in cui il Piano A non dovesse funzionare.
Piano A
Sin dai tempi dalla Guerra ispano-americana, il Piano A degli Stati Uniti (USA) è sempre stato una qualche forma di imperialismo. All’epoca (1898), negli Stati Uniti esisteva una Lega Anti-imperialista, ma non riscuoteva molto successo. Per molti anni, essere imperialisti era stato politicamente corretto, ma, dopo la Seconda Guerra Mondiale, sia l’imperialismo che le colonie erano passati di moda. Alla fine, come termine sostitutivo, gli scienziati politici e gli articolisti delle riviste di relazioni internazionali avevano iniziato ad usare la parola “egemonia”. I riferimenti più generali al Piano A degli Stati Uniti utilizzavano i termini “democrazia liberale” e “ordine internazionale basato sulle regole”. I critici hanno spesso usato il termine “impero americano” per infastidire l’establishment. Negli ultimi anni, uno degli obiettivi del Piano A statunitense era stato il cambio di regime in Russia, per creare un governo simile a quello di Eltsin.
La guerra in Ucraina, come parte del Piano A degli Stati Uniti, ha avuto un lungo periodo di gestazione, con una “rivoluzione arancione” nel 2004 e un’alternanza di cambi di regime tra chi propendeva per gli Stati Uniti e chi per la Russia. Prima del 2014, il governo ucraino aveva optato per un pacchetto economico più vantaggioso da parte dell’Est (Cina e Russia) rispetto all’offerta dell’Ovest (Stati Uniti e Unione Europea).
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Gli ucraini non sfondano: in Occidente inizia lo scaricabarile?
di Gianandrea Gaiani
Sui fronti di Zaporizhia e Donetsk in oltre due mesi di controffensiva gli ucraini vantano di aver liberato un’area di 360 chilometri quadrati, meno dell’estensione del comune di Ferrara (402 kmq) e una superficie pari allo 0,02% del territorio ucraino controllato dai russi (nella mappa qui sotto in blu le aree conquistate dagli ucraini in due mesi di attacchi sul Fronte di Zaporoizhia).
Successi territoriali a dir poco limitati a qualche villaggio raso al suolo nella “terra di nessuno” dove peraltro i russi hanno riguadagnato posizioni contrattaccando negli ultimi giorni. Piccoli successi inficiati soprattutto dall’avanzata delle truppe di Mosca tra le regioni di Luhansk e Kharkiv, specie nel settore di Kupyansk dove le truppe di Mosca sarebbero a meno di 7 chilometri dalla città e avrebbero ammassato ampie riserve, forse per lanciare una più ampia offensiva.
Pesanti le perdite subite da Kiev. Secondo i russi i caduti tra il 4 giugno e ine luglio sarebbero tra 36mila e 42 mila a seconda delle stime oltre a 1.700 mezzi corazzati e blindati e 350 pezzi d’artiglieria distrutti, danneggiati o finiti in mani russe. La distruzione di molti mezzi non ha scoraggiato i comandi ucraini che continuano a rinnovare gli assalti sui fronti di Zaporizhia e Donetsk affidandoli soprattutto alla fanteria con conseguenze sulle perdite ben evidenziate da molti canali Telegram militari sia russi che ucraini.
La controffensiva a lungo preannunciata e poi scatenata il 4 giugno aveva l’obiettivo (più politico che militare) di strappare a ogni costo quanto più territorio ucraino alle truppe russe per continuare a ottenere il supporto militare e finanziario dell’Occidente: impossibile infatti ritenere che l’obiettivo di riconquistare tutti i territori perduti (inclusa persino la Crimea) fosse alla portata delle forze di Kiev.
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La sconcertante parabola dell’operaismo italiano
di Maria Turchetto
L'articolo Dall’operaio massa all’imprenditorialità comune: la sconcertante parabola dell’operaismo italiano, tratto da Intermarx, rappresenta una versione ampliata della voce “operaismo” destinata al Dictionnaire Marx contemporain, a cura di J. Bidet e E. Kouvélakis, PUF, Paris, 2OO1
Non è difficile, almeno in Italia, trovare un accordo linguistico sul termine “operaismo”. Non ci sono dubbi sulle principali riviste intorno a cui si è formato questo filone di pensiero negli anni ’60 e ’70 (Quaderni Rossi, Classe Operaia, Potere Operaio), né sugli autori che ne sono i principali esponenti (Raniero Panzieri, Mario Tronti e Antonio Negri hanno senz’altro una posizione di spicco sui molti altri che hanno dato contributi anche molto importanti [1]). Soprattutto, è impossibile non riconoscere un “operaista”, se ne incontri uno: a quasi quarant’anni dalla sua nascita (che ritengo sia lecito far coincidere con la pubblicazione del primo numero di Quaderni Rossi, nel giugno del 1961), l'”operaismo” si è sedimentato in “mentalità”, atteggiamento, lessico.
In effetti, nonostante sviluppi, correzioni, svolte e varianti abbiano ormai prodotto al suo interno una varietà di posizioni, l'”operaismo” ha mantenuto, se non un’autentica coerenza teorica, almeno una marcata fisionomia. Alcuni assunti di fondo, diventati nel tempo veri atteggiamenti mentali, l’uso di certi passi di Marx (l’arcinoto frammento sulle macchine dei Grundrisse [2], citazione ormai rituale), alcune “parole chiave” (general intellect, composizione di classe, autonomia) funzionano ancora oggi come un forte dispositivo di riconoscimento. Dispositivo forse più linguistico che teorico, più evocativo che realmente propositivo, e che tuttavia serve da riferimento a vari spezzoni di quello che è stato il “movimento” (altra parola chiave) degli anni ’70.
Di fatto, oggi l'”operaismo” italiano è soprattutto questo riferimento impoverito, questa raccolta di parole che tiene il posto di una teoria e che regala unità e identità apparenti a posizioni confuse, ostaggio di volta in volta delle mode culturali o delle nostalgie.
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Collasso
di Enrico Tomaselli
L’Ucraina si rifiuta di accettare l’impossibilità di vincere. La NATO è intrappolata nel suo investimento politico e propagandistico in questa guerra e la Russia non ha fretta di porre fine al conflitto. A questo punto, forse la via d’uscita più rapida (e soprattutto sicura) sarebbe un crollo improvviso dell’esercito ucraino. Ipotesi per nulla infondata.
* * * *
Già lo scorso anno mi chiedevo quanto ancora avrebbe resistito l’esercito ucraino prima di collassare. Ritenevo infatti che l’impatto delle forze russe – sia materiale che psicologico – unito alla consapevolezza dell’impossibilità della vittoria, avrebbe finito col determinare una rottura del fragile equilibrio che sempre tiene in piedi un esercito.
Nell’antichità, a porre fine alle guerre era quasi sempre una battaglia decisiva; ed a decidere quella battaglia era a sua volta, quasi sempre, il momento in cui uno dei due eserciti riusciva a spezzare lo schieramento nemico, producendo dapprima lo sfondamento delle linee nemiche, poi la fuga disordinata delle schiere avverse – o, nel migliore dei casi, la loro ritirata. Battaglie e guerre, quindi, erano assai spesso decise nel momento in cui si determinava un collasso in uno dei due schieramenti.
Ovviamente, oggi questo tipo di determinazione è pressoché ormai scomparso. Le guerre non si vincono solo sul campo di battaglia. Ma, se l’esercito collassa, qualsiasi altro elemento cessa di avere valore, e ne consegue la sconfitta.
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Diverso parere su Oppenheimer e la bomba degli USA
di Giorgio Ferrari
Dubito che questo ultimo intervento – cfr H come Hiroshima, Oppenheimer e lingue biforcute – di cui non condivido nulla, se non il giudizio su Christopher Nolan, sia attribuibile a Vincenzo Miliucci (*).
Non so se chi lo ha scritto abbia visto il film (io non l’ho visto) e se la trama del film, a sua volta, abbia qualche corrispondenza con il profilo di Oppenheimer che si evince da questo testo, ma limitandomi alle cose che vi sono scritte, lo ritengo diseducativo e fuorviante.
Ci sono due eventi nella storia della II guerra mondiale che hanno segnato dei punti limite nella storia dell’umanità: i lager nazisti e l’uso della bomba atomica da parte degli Stati Uniti.
Del primo è stato detto e scritto praticamente tutto, risultandone una condanna definitiva in quanto rappresentazione del male assoluto.
Del secondo persiste invece una sorta di sospensione di giudizio (da parte degli storici e da una larga schiera di intellettuali) che va lentamente risolvendosi in una assoluzione per mancanza di prove o, secondo il diritto penale americano, per l’esistenza di ragionevoli dubbi.
Perché? Cosa c’è che impedisce di emettere, nei confronti del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, un verdetto analogo a quello applicato ai lager nazisti? Forse perché gli ebrei uccisi sono molto di più dei giapponesi? O forse perché a questi ultimi la morte è giunta istantaneamente, risparmiando loro quelle sofferenze che invece furono inflitte agli ebrei?
Non credo che siano questi i distinguo sufficienti ad impedire il pronunciamento di un giudizio, anche perché sofferenze atroci ci furono eccome per i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki.
Trattandosi di “strategie di annientamento” viene da chiedersi -cinicamente – se non siano le “tecniche” impiegate a fare la differenza.
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Dite il suo nome: è la Terra (con premessa polemica)
di Massimo Zucchetti
C’è un mio articolo di due anni fa (11/09/2021) sul cambiamento climatico nel quale ho cercato di imitare lo stile di uno dei miei divulgatori scientifici preferiti, Carl Sagan.
Questa ondata recente di negazionismo becero, su un problema che è davvero serio, mi spinge a riproporvelo, con una “brevissima” premessa. Abbiate pazienza, seguitemi.
È ovvio a chiunque abbia non dico un minimo di cultura, ma anche solo un pizzico di sano buon senso, che un conto è il clima, un conto è il meteo. Ovvero: che quest’estate faccia più o meno caldo, non ha nessuna rilevanza sulla “dimostrazione” che i cambiamenti del clima esistano oppure no.
Bisogna avere la stessa visione a lunga distanza di una talpa per associare i due fenomeni. Così come gli appunti sul taccuino di ‘tuo cuggino’, che ha una “stazione meteo” sul balcone da alcuni anni, e si segna le temperature, sono utili, sì: ma il balcone di ‘tuo cuggino’ non è il mondo intero.
Sono utili anche per vedere come negli anni cambia la grafia di ‘tuo cuggino’, come l’effetto della senilità negli anni cambi la sua scrittura.
Ma è ovvio che vi sono migliaia e migliaia di ‘cuggini’ scienziati che da secoli rilevano le temperature e quegli altri cento parametri che servono per poter banfare di clima, no?
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Per Mario Tronti: il pensiero rimane
di AA. VV.
Non è facile reggere la sequenza di perdite che il presente ci impone. Tanto più se ad andarsene è un gigante come Mario Tronti. Comunque la si veda, Mario Tronti è stato un maestro per noi tutti. Ricordarlo è terribilmente complesso e così abbiamo pensato di mettere insieme una pagina di Effimera che si articola su più piani.
Per primo: due estratti di Operai e Capitale, un testo basilare, la Genesi dell’Operaismo italiano, un’opera pubblicata nel 1966 da cui tutto ha avuto origine. Chiunque voglia capire fino in fondo il rapporto tra capitale e lavoro, chiunque voglia vedere la potenza del lavoro – nonostante tutto – deve passare da qui. Tanti sono i brani che potrebbero essere ripresi. Il primo che abbiamo scelto riguarda il concetto centrale di “autonomia” dell’operaio massa. È ciò che abbiamo imparato da Tronti: il lavoro è autonomo rispetto al capitale, nel senso che può farne a meno. Mentre il capitale non può fare a meno del lavoro. Come già notato dallo stesso Marx, il rapporto lavoro-capitale si presenta come rapporto tra due soggetti, di cui il primo (il lavoro) è quello più forte.
Per questo il capitale ha bisogno di sussumere il lavoro, per renderlo a lui dipendente: è il passaggio che il capitalismo disegna tramite il processo di salarizzazione e ricattabilità che ha trasformato il lavoro in “desarmata manu”: “il proprietario (della forza-lavoro, ndr.) non è solo libero di venderla, ma si trova anche e soprattutto nell’obbligo di farlo” (K. Marx, Il Capitale, Cap. XVII, Editori Riuniti Roma 1972). Oppure: “Il capitalista compera agli stessi operai, a quanto sembra, il loro lavoro con del denaro. Per denaro essi gli vendono il loro lavoro.
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Il paradosso di Oppenheimer: il potere della scienza e la debolezza degli scienziati
di Prabir Purkayastha* Globetrotter - Newsclick
Il nuovo film di successo su Oppenheimer ha riportato alla memoria il ricordo della prima bomba nucleare sganciata su Hiroshima. Ha sollevato domande complesse sulla natura della società che ha permesso lo sviluppo e l’uso di tali bombe e l’accumulo di arsenali nucleari in grado di distruggere il mondo molte volte.
L’infame era McCarthy e la ‘caccia ai rossi’ ovunque hanno qualche relazione con la patologia di una società che ha soppresso il senso di colpa per il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, sostituendolo con la convinzione del proprio eccezionalismo?
Cosa spiega la trasformazione di Oppenheimer, che era emerso come l'”eroe” del Progetto Manhattan che costruì la bomba atomica, in un cattivo e poi dimenticato?
Ricordo il mio primo incontro con il senso di colpa americano per le due bombe atomiche sganciate sul Giappone.
Nel 1985 partecipavo a una conferenza sui controlli informatici distribuiti a Monterey, in California, e i nostri ospiti erano i Lawrence Livermore Laboratories. Si trattava del laboratorio di armi che aveva sviluppato la bomba all’idrogeno.
Durante la cena, la moglie di uno degli scienziati nucleari chiese al professore giapponese presente al tavolo se i giapponesi avessero capito perché gli americani avevano dovuto sganciare la bomba sul Giappone.
Che ha salvato un milione di vite di soldati americani? E molti altri giapponesi? Cercava l’assoluzione per il senso di colpa che tutti gli americani portavano con sé? Oppure cercava la conferma che ciò che le era stato detto e in cui credeva era la verità? Che questa convinzione era condivisa anche dalle vittime della bomba?
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L’origine dell’inferiorità della donna nella dialettica tra natura e cultura
di Alessandra Ciattini*
Nell’articolo si tenta di sciogliere il groviglio formato da fattori materiali e culturali su cui si è fondata l’inferiorità della donna, che nonostante le trasformazioni sociali più recenti non è stata ancora superata. Allo stesso tempo, si tenta di valorizzare la differenza femminile, non annullandola con l’applicazione dei diritti che valgono per l’uno e l’altro sesso. Tale valorizzazione consiste nel pieno riconoscimento della funzione riproduttiva della donna, che dovrebbe essere tutelata con istituzioni ad hoc per permetterle di partecipare in prima persona alla vita sociale, politica e culturale.
* * * *
Introduzione
Credo che oggi, dopo decenni di femminismo di vario genere, si possa affermare che esso nella sua complessità e mutevolezza costituisca ormai un’ideologia ufficiale adottata da tutte le forze politiche, con l’esclusione delle più retrive, che intendono deviare l’attenzione generale dalle questioni strutturali della società attuale (la subordinazione sempre più alienante dei salariati) al problema pur importante, ma non risolutivo, dei diritti umani. Per questa ragione ritengo che occorra concentrarsi sull’origine dell’inferiorità della donna per ricalibrare la sua reale natura politica, mostrando come alcuni aspetti primordiali abbiano continuato a influenzarla e come solo il realizzarsi di certe condizioni consentano la sua effettiva soluzione. Mi muoverò quindi sempre secondo lo schema interpretativo della continuità/rottura.
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Impedire che il cerchio si chiuda
di Elisabetta Teghil
Per un obiettivo di controllo così profondo, totalitarismo è un termine possibile, un controllo così completo da non accontentarsi più dell’asservimento esterno-ottenere le azioni volute-ma che rivendica l’intera sottomissione dell’<interiorità>.
F. Lordon, Capitalismo, desiderio e servitù
Nella città di Roma il Comune ha programmato l’entrata in vigore, a novembre di quest’anno, di una nuova ZTL, chiamata fascia verde, che comprende una zona estremamente vasta, grande quasi quanto la città all’interno del raccordo anulare, in cui sarà vietato l’accesso e la circolazione ai mezzi che sono considerati inquinanti. Non sto qui a farvene l’elenco, lo potete tranquillamente andare a vedere sul sito del Comune, ma la gamma è vastissima, comprende anche moto e motorini e mezzi di lavoro anche a GPL e a metano e praticamente chiama in causa quasi tutto il parco macchine degli abitanti escluse chiaramente, per il momento, le auto più nuove. Già, perché il progetto ha l’obiettivo, alla fine, di permettere solo la circolazione dei mezzi elettrici. Un progetto simile è già attivo a Milano e in altre città si stanno sperimentando varianti adattate alle realtà locali come a Venezia e a Trento dove stanno mettendo in opera un sistema di controllo ancora più inquietante. A Milano il sindaco ha pensato bene di aumentare il costo dei pedaggi d’ingresso e di chiudere il centro per tutta la settimana quindi compresi i sabati e le domeniche. Ormai da mesi qui nella capitale si susseguono i lavori per l’impianto dei varchi di controllo elettronici per l’accesso con sofisticate telecamere di riconoscimento e con spese faraoniche ed è stato dato il via dal Comune alla gara per 1000 telecamere e per la realizzazione di un unico polo operativo “Smart Police Support” (SPS) in uso alla Polizia Locale e alla Protezione Civile di Roma Capitale per la gestione della sicurezza pubblica.
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Niger e dintorni: Africa ribelle, Occidente in panne
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Ancora una volta un grido di lotta che si ode in tutto il mondo viene dall’Africa – questa volta dall’Africa “nera” occidentale.
Questo grido di lotta non è in nulla paragonabile, per potenza, estensione, protagonismo degli sfruttati, ai sommovimenti del 2011-2012 che percorsero in lungo e in largo come un’unica onda sismica l’intero mondo arabo, in Africa del nord e in Medio Oriente. Allora milioni di operai, sfruttati, diseredati, giovani senza futuro, donne senza diritti, riaprirono nelle piazze il processo della rivoluzione democratica ed anti-imperialista in una regione strategica del globo, dando un formidabile scossone alla stabilità del capitalismo globale a egemonia occidentale già alle prese con la più grande crisi finanziaria della storia – prima di essere sconfitti dalla reazione delle borghesie locali in combutta con le grandi potenze. E neppure è lontanamente paragonabile, quanto a diretto protagonismo proletario e a contenuti di classe, alle potenti lotte dei minatori del Sud Africa, con epicentro a Marikana, che nel 2012 diedero il via ad un biennio di scioperi “selvaggi” in agricoltura, nella metalmeccanica, nei trasporti, in edilizia, mettendo in luce la trama di interessi che lega, e subordina, il regime bianco-nero “post-apartheid” di Pretoria alle multinazionali delle vecchie potenze coloniali, e approfondendo il solco tra questo regime borghese e la sola forza che potrà portare a compimento la liberazione dell’Africa dal fardello dei vecchi e nuovi colonialisti: il suo giovane proletariato – e non si tratta solo del giovane proletariato sud-africano: al 2017 tra i primi trenta paesi al mondo per livelli di attività sindacale, dodici erano paesi africani.
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Fuori norma. Lo “stile” operaista
Ida Dominijanni intervista Mario Tronti
“Un consiglio: mai scrivere un libro di successo da giovani. Si rimane per tutta la vita quella cosa lì”, scrisse Mario Tronti in una breve autobiografia filosofica del 2008 che conteneva tutte le chiavi necessarie, autoironia inclusa, per cogliere tutt’intero il suo percorso al di là dell’icona del “padre dell’operaismo italiano” cui il successo internazionale di “Operai e capitale” lo ha consacrato. Quell’icona, certo, gli apparteneva, eppure non mancava di irritarlo quando faceva velo al resto e al seguito della sua ricerca: il pensiero negativo e la cultura della crisi, l’autonomia del politico e il corpo a corpo con gli autori e le categorie del pensiero politico moderno, il confronto con il pensiero teologico e mistico, e, dopo l’’89-‘91, il pensiero della fine – fine del Novecento, finis Europae, fine della politica moderna – che, in polemica con le letture democratico-progressiste del cambio di stagione, apre il fronte della critica trontiana della democrazia politica. In questa intervista – una delle molte – che facemmo per “il manifesto” (20/06/2006) in occasione della ripubblicazione di “Operai e capitale” quarant’anni dopo la sua prima uscita, Tronti ripensa l’esperienza operaista non come scuola ma come stile di pensiero, ne restituisce la dimensione collettiva e ne ricostruisce i nessi inscindibili con il proprio percorso filosofico e politico successivo.
* * * *
“Operai e capitale”, che in questi giorni viene riproposto da Deriveapprodi quarant’anni dopo la sua uscita einaudiana nel ’66, è considerato il libro di culto dell’operaismo. In poche parole, proviamo a restituire il messaggio e la dirompenza di quel libro?
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Un momento cruciale del marxismo italiano: il contrasto tra Panzieri e Tronti
di Rino Malinconico
Dopo i fatti di Piazza Statuto del luglio ‘62, si avviò all’interno del gruppo–rivista dei Quaderni Rossi un dibattito serrato, che via via assunse toni aspri e alla fine determinò la rottura. Nel giugno del 1963 la contrapposizione si esplicitò plasticamente con due editoriali sul terzo numero. Il primo, firmato direttamente Quaderni Rossi è da attribuire a Panzieri. In esso veniva colta la progressione in avanti della coscienza operaia, ma mettendone in risalto anche le parzialità. Poi, a proposito del ciclo di lotte aperto dalla stagione contrattuale del 1962, si metteva in guardia dai pericoli di un’interpretazione immediatista delle potenzialità rivoluzionarie:
Un aspetto importante nella situazione di oggi è nel pericolo di scambiare in modo immediato la «feroce» critica verso le organizzazioni implicita, e spesso esplicita, nei comportamenti operai, o il grado più alto di consapevolezza che vasti gruppi di operai rivelano delle condizioni politiche delle lotte a livello di capitalismo organizzato e pianificato, per una immediata possibilità di sviluppo di una strategia rivoluzionaria globale, ignorando il problema dei contenuti specifici e degli strumenti necessari alla costruzione di tale strategia. Una strategia operaia non può essere preparata dall’accumularsi di una serie di rifiuti frammentari, non collegati tra loro in un disegno politico unitario virgola ma soltanto idealmente unificati in uno schema interpretativo del funzionamento del capitalismo contemporaneo. In tal modo diviene indifferente se l’esigenza operaia di «trascendere» il contenuto delle singole rivendicazioni si manifesti in forma anarchizzante, o nel senso di predisporre una linea anticapitalistica globale, secondo una dinamica controllabile.
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Atena sulla terra
di Emilio Quadrelli e Lidia Triossi
Misurarsi su un piano politico e teorico su come i comunisti si debbano organizzare in un contesto come l’attuale è sicuramente un compito di estrema difficoltà. D’altra parte le opzioni oggi esistenti non ci sembrano soddisfacenti e, soprattutto, crediamo che vadano riviste alla luce di una elaborazione e confronto approfondito. Sulla questione del partito (organizzazione), della strategia politica e militare, è chiaro che abbiamo, nel movimento comunista, un piano teorico e di dibattito quanto mai arretrato che non possiamo ignorare. Provare a affrontarlo, qui e ora, ci pare un compito non più rimandabile.
L’obiettivo della nostra elaborazione è quello di cogliere quelle tendenze del movimento comunista che si sono affermate e che hanno ancora un carattere di validità e capire, invece, quegli elementi che sono stati superati e ai quali è inutile rimanere aggrappati. Infine gli elementi che riteniamo validi vanno collegati al nuovo contesto in cui ci muoviamo. Naturalmente da queste riflessioni non possiamo pensare di trovare una “formula perfetta”, che peraltro non esiste, però possiamo utilizzarle per capire la direzione in cui muoverci e quali debbano essere i passi da fare per adeguare le attuali forme d’organizzazione alle necessità e soprattutto alle possibilità che vengono dalla realtà. È quindi centrale per noi capire il ruolo e il nesso tra «il partito» e l’»autonomia del proletariato», la composizione dei movimenti di protesta rispetto all’attuale organizzazione del lavoro e dimensione metropolitana, le contraddizioni della fase imperialista: guerra, fascistizzazione, multipolarismo, ecc…
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Quando il capitalismo si è messo in quarantena
La crisi del Covid-19 secondo la critica del valore
di Afshin Kaveh
Anselm Jappe, Sandrine Aumercier, Clément Homs e Gabriel Zacarias: Capitalismo in quarantena. Pandemia e crisi globale, ombre corte, Verona 2021, pp. 128
Al momento la prima parvenza di un dibattito pubblico sul Covid-19 – che poi si è a lungo perso polarizzandosi nel tracciare una linea di demarcazione tra chi, di fronte alla nascita, alla diffusione e alla gestione del virus si pretendeva ragionevole, accusando invece di irragionevolezza la fazione opposta e così viceversa – sembra oggi essersi completamente disinteressato di sé, svanendo nel nulla. Di quel poco che ha prodotto ciò che sembra cadere sempre di più nel dimenticatoio è l’accrescimento del livello di coscienza e consapevolezza che, successivamente a quella che riguardandoci indietro viene ricordata come “prima ondata”, sembrava già poter ridisegnare le pratiche necessarie verso vere e proprie rotture emancipatrici: la tragica portata dell’evento aveva illuminato determinati angoli bui della logica del funzionamento del modo di produzione capitalistico tanto che in un primo momento sembrava prendere piede una lettura abbastanza radicale della deforestazione, dell’agricoltura industriale, degli allevamenti intensivi, dell’inquinamento, degli scambi commerciali, della relazione animale umano, animale non-umano e natura e il nesso di questi specifici fattori alla malattia del Covid-19.
A questo proposito il libro Capitalismo in quarantena. Pandemia e crisi globale (ombre corte, Verona 2021, pp. 128) è uno strumento prezioso per poter riaccendere quella luce. Composto a più mani da alcuni dei membri redazionali della rivista francese Jaggernaut ruotante attorno alla corrente internazionale della “critica del valore”, Anselm Jappe, Sandrine Aumercier, Clément Homs e Gabriel Zacarias ne iniziarono la stesura in concomitanza al primo confinamento nel marzo 2020 e poco dopo, verso la fine di agosto, veniva stampato dalle edizioni Crise&Critique col titolo De virus Illustribus. Crise du coronavirus et épuisement structurel du capitalisme, mentre contemporaneamente veniva tradotto ed edito in Brasile come Capitalismo em quarentena, titolo poi ereditato sia dall’edizione uscita in Portogallo che da quella italiana.
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La Guerra del Trent’anni del XXI Secolo
di Fulvio Bellini*
Le similitudini tra la Guerra del Trent’anni e l’attuale scontro dal carattere strategico tra fronte imperialista in crisi e fronte antimperialista in ascesa
Premessa: sono le guerre (purtroppo) che mutano i paradigmi
In questi giorni si sta concretizzando un fatto evidente fin dall’inizio: il velleitarismo della tanto proclamata controffensiva ucraina di primavera. Alcuni osservatori stanno supponendo che si vada incontro ad una fase di negoziazione tra le parti, che sono Stati Uniti e Russia, non certamente l’Ucraina che è uno stato fantoccio, e tanto meno la NATO che un’organizzazione che coordina le attività dell’esercito imperiale, attualmente quello americano, con le forze armate ausiliarie dei vassalli, come è sempre stato fin dai tempi antichi.
Ovviamente vi è la speranza che questi negoziati inizino presto, ma non è detto che ciò accada e non è detto neppure che il ritorno alla diplomazia chiuda lo stato di ostilità globale, anzi vi sono elementi che giocano in senso contrario come cercherò di spiegare nel presente articolo. I conflitti militari sono importanti nella storia dell’uomo perché, fino alla determinazione di nuovi modi di composizione dei conflitti tra le potenze, che indubbiamente l’introduzione dell’arma atomica sollecita, sono le guerre che stabiliscono chi siano i vincitori, i vinti e le regole del gioco a beneficio dei primi. Quando il premier italiano Giorgia Meloni dichiara pomposamente davanti al Congresso americano il 27 luglio scorso che: “L’Occidente è unito e difende le regole”, intende quelle scaturite dalla Seconda Guerra mondiale, le ultime stabilite e vigenti. Ma di quali regole si parla? Nel 1945 i benefici dei vincitori si tradussero in norme ascrivibili al cosiddetto diritto internazionale il quale, non bisogna mai scordarlo, non ha nulla a che fare con il cosiddetto diritto delle genti (Ius gentium), e tantomeno con criteri di giustizia, che al contrario sono spesso contraddetti: il rapporto tra Stato d’Israele e palestinesi è più che sufficiente per dimostrare questo assunto.
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Se ne è andato Mario Tronti
di Antonio Cantaro
Uno dei padri dell’operaismo italiano. Fuori di noi e dentro di noi. Così lo sentiva emotivamente chiunque abbia militato nella seconda metà del 20° secolo. Un grande pensatore nel senso che lo stesso Tronti dava al termine. Un pensatore non occidentale, ma europeo. Un teorico dell’attesa

Il primo è una sorta di autobiografia, recentissima e toccante, La saggezza della lotta edito nel 2021 da DeriveApprodi. Un breve profilo nel quale Mario Tronti ripercorre le tappe più importanti della sua formazione politica e teorica, traccia la sua personale interpretazione del Novecento, si interroga sulla “saggezza della lotta.” Lo trovate ancora agevolmente in libreria.
Il secondo, un testo praticamente introvabile ed è per questa ragione che abbiamo deciso di pubblicarlo integralmente. Si tratta dell’intervento ad una tavola rotonda tenutasi all’Università di Urbino il 21 ottobre 2010 in occasione del seminario Il nomos della Terra 60 anni dopo. L’Europa di Carl Schmitt nell’ambito dei seminari promossi da “Critica europea” e pubblicato nel numero 1-2 del 2011 nella Rivista “Teoria del diritto e dello Stato”.
Nel corso della tavola rotonda dedicata al tema “Il nomos e il nuovo ordine europeo” Mario Tronti interviene due volte. Interloquisce con i promotori del seminario e gli altri partecipanti alla tavola rotonda (Antonio Baldassarre, Domenico Losurdo, Guido Maggioni, Stelio Mangiameli), cimentandosi con l’interrogativo tipicamente trontiano del perché oggi “non si pensa più l’Europa”. Una denuncia, una profezia, come era nel suo stile abituale.
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Decrescita pianificata: ecosocialismo e sviluppo umano sostenibile
di John Bellamy Foster
Tutti i concetti importanti hanno contorni dialetticamente vaghi.
Herman E. Daly [1]
Il termine decrescita indica un insieme di approcci politico-economici che, di fronte all'attuale accelerazione della crisi ecologica planetaria, rifiutano la crescita economica esponenziale e illimitata come definizione di progresso umano.
Abbandonare la crescita economica nelle società ricche significa azzerare la formazione di capitale netto. Con il continuo sviluppo tecnologico e il miglioramento delle capacità umane, il mero investimento di sostituzione è in grado di promuovere un costante progresso qualitativo della produzione nelle società industriali mature, eliminando al contempo le condizioni di sfruttamento del lavoro e riducendone l'orario. Unitamente alla ridistribuzione globale del surplus sociale e alla riduzione degli sprechi, ciò consentirebbe di migliorare notevolmente la vita della maggior parte delle persone. La decrescita, che si rivolge specificamente ai settori più opulenti della popolazione mondiale, è quindi diretta al miglioramento delle condizioni di vita della grande maggioranza, mantenendo le condizioni ambientali dell'esistenza e promuovendo uno sviluppo umano sostenibile.[2]
La scienza ha stabilito senza ombra di dubbio che, nell'odierna “economia del mondo intero”, è necessario operare all'interno di un budget complessivo del Sistema Terra rispetto alla portata fisica consentita.[3]
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Il Niger e il Ribollire Africano
di Alessio Galluppi
Che succede in Niger, fra i paesi confinanti come il Burkina Faso, il Mali e tutta l’area del Sahel?
Dai giornali occidentali apprendiamo ci sarebbe stato un nuovo colpo di Stato diretto da una giunta di militari che comanda la Guardia Presidenziale dell’Esercito del Niger. Poi però le immagini mandate in onda su tutti i canali televisivi ci mostrano manifestazioni popolari di sostegno al “colpo di Stato”, non solo, ma che i manifestanti innalzano cartelli di condanna nei confronti della Francia e inneggianti a Putin. I riflettori dei media Occidentali si accendono sull’Africa commentando i fatti con serissima preoccupazione. Intanto, a Niamey c’è un fuggi fuggi generale di civili stranieri Francesi, Italiani ed Europei che si trovano in Niger, mentre le forze militari in missione di Stati Uniti, Francia e Italia si barricano nelle rispettive basi militari presenti nel paese. Gli Stati Uniti, che hanno decuplicato il numero delle basi militari in Africa dagli anni di Obama ad oggi (almeno una dozzina concentrata nella regione del Sahel e sei proprio in Niger), temono di perdere il loro migliore ed ultimo avamposto nel West Africa.
E allora cerchiamo di capirci di più, senza nasconderci dietro il dito e da subito diciamo che l’esultanza di masse di oppressi e sfruttati africani è un ulteriore segnale della fase di destabilizzazione del modo di produzione a egemonia occidentale, altrimenti detto: la rivoluzione procede il suo inarrestabile corso.
Questo colpo di mano di una unità d’élite dell’Esercito del Niger – di cui molti comandanti ed esponenti della nuova giunta militare sono stati addestrati dal Comando Operazioni Speciali dell’Esercito degli Stati Uniti presso la Base Aerea 201 o a Fort Benning in Georgia – è parte del medesimo processo caratterizzato da eventi improvvisi dello scorso anno, accaduti nei confinanti Burkina Faso e Mali.
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“L’Occidente in Ucraina ha sabotato i negoziati”
Aaron Malè intervista John Mearsheimer
Il professore dell’Università di Chicago John Mearsheimer ha notoriamente messo in guardia nel 2014 rispetto alle provocazioni della NATO contro la Russia in Ucraina, avvertendo che la politica della NATO in Ucraina stava portando al disastro.
In questa intervista risponde alle domande del giornalista freelance Aaron Maté sullo stato della guerra per procura in Ucraina e sui pericoli futuri.
* * * *
AARON MATE’: Benvenuto. Sono Aaron Mate. Con me c’è John Mearsheimer. È professore emerito di scienze politiche all’Università di Chicago e attualmente scrive su Substack. Professor Mearsheimer, grazie mille per essere qui.
JOHN MEARSHEIMER: È un piacere per me essere qui, Aaron.
Vorrei la tua reazione a questo articolo del Wall Street Journal. È appena stato pubblicato. Sullo stato della tanto pubblicizzata controffensiva dell’Ucraina e sugli sforzi dell’Occidente per incoraggiarla, dice questo, e cito: “Quando l’Ucraina ha lanciato la sua grande controffensiva questa primavera, i funzionari militari occidentali sapevano che Kiev non aveva tutto l’addestramento o tutte le armi – dai proiettili agli aerei da guerra – necessarie per sloggiare le forze russe.
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Neoliberismo all’italiana
di Nicola Melloni
L’ideologia che difende e rilancia gli interessi del capitale contro il mondo del lavoro come si è adattata al nostro paese?
Nelle ultime settimane si sta sviluppando un interessante dibattito sull’influenza avuta dal neoliberismo in Italia negli ultimi trent’anni. Curiosamente queste riflessioni partono da un articolo di Angelo Panebianco sulla rivista Il Mulino che nega che il nostro paese abbia mai vissuto un periodo «(neo)liberale». Nelle settimane successive sono arrivati i contributi di Norberto Dilmore, sempre sul Mulino, che, appropriatamente, mette il caso italiano all’interno del contesto internazionale, nella lunga stagione della globalizzazione di marca liberista cui l’Italia non poteva certo sottrarsi. Su questa falsa riga è anche la risposta di Luciano Capone e Carlo Stagnaro sul Foglio, dove si ammette parzialmente l’influenza non tanto del pensiero neoliberale, quanto piuttosto del vincolo esterno dell’Unione europea che ha imposto politiche cui la classe politica, un po’ obtorto collo, ha dovuto adeguarsi.
Ma cosa è questo neoliberismo di cui tanto si parla? Dilmore si concentra, nuovamente non a torto, sulle politiche simbolo di quel periodo: privatizzazioni, liberalizzazioni, deregolamentazioni, politiche fiscali a favore del capitale.
Il neoliberismo in Italia
Usando questi criteri è davvero difficile negare che non si sia avuta in Italia una fase storica di pura marca neoliberista. Andiamo con ordine: la politica economica è stata sottoposta a un fortissimo vincolo esterno che ha tolto, di fatto, molto della discrezionalità dei governi nello stabilire gli obiettivi di politica economica – esattamente quanto richiesto dalla critica neoliberale.
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Una guerra ipocrita e cinica
di Enrico Tomaselli
Segnata sin dal principio dalla manipolazione propagandistica occidentale, e dallo spregiudicato utilizzo degli ucraini come carne da cannone, la proxy war ingaggiata dalla NATO contro la Russia è probabilmente destinata a trovare il suo epilogo sotto il segno della medesima ipocrisia e dello stesso cinismo. Come hanno chiaramente mostrato in Vietnam ed Afghanistan, gli Stati Uniti non si fanno scrupoli a voltare le spalle ai propri vassalli.
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Il fallimento della guerra ibrida
La contraddizione più stridente in questa guerra, persino più di quella generica tra la narrazione occidentale e la realtà effettuale, è quella tra la propaganda NATO sull’importanza dell’impegno al fianco dell’Ucraina, e la effettiva natura di questo impegno.
Ovviamente, i media mainstream ci soverchiano di informazioni sulla quantità di denaro impiegato per sostenere Kiev, così come su quella dei vari trasferimenti di armi, enfatizzando al massimo entrambe, ma dimenticando di ricordare che la gran parte dei soldi erogati sono prestiti (i cui fondi assai spesso vanno direttamente alle industrie militari occidentali, e che un paese messo in ginocchio dalla guerra dovrà restituire), e che contemporaneamente i grandi fondi finanziari stanno saccheggiando quel che resta dell’economia ucraina. Ma ancor più stridente è lo scarto laddove si osservano gli aiuti militari.
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