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Il lavoro-merce a saldi di fine stagione
di Sebastiano Isaia
La mia attività diventa merce, io sono in tutto e per tutto venale
(K. Marx)
Teoria
Nell’accezione marxiana del concetto l’ideologia rimanda a un pensiero che capovolge il rapporto fra la realtà delle cose e le cose come le vorrebbe il filosofico soggetto della conoscenza sulla scorta di certe idee, di determinati principi etici, politici e via di seguito. La realtà “nuda e cruda” delle cose viene sostituita, attraverso un procedimento “astrattivo” che possiamo definire appunto ideologico, da una realtà fittizia che esiste solo nella testa di chi la pensa e la proietta all’esterno, creando un mondo puramente ideale, assolutamente soggettivo – sempre in un’accezione filosofica del termine. Inutile precisare che il soggetto in questione è lungi dall’essere cosciente di un simile procedimento, e anche questo è un aspetto centrale nel concetto marxiano di ideologia.
Quando ho fatto riferimento a una «realtà “nuda e cruda”» non ho inteso affatto postulare un approccio passivo, puramente ricettivo, da parte del soggetto della conoscenza al mondo oggettivo, che il primo si limiterebbe a riflettere (o rispecchiare) più o meno fedelmente; infatti «la concezione materialistica del mondo non è priva di presupposti ma osserva i presupposti materiali come tali ed è perciò, essa sola, la concezione del mondo realmente critica» (Marx-Engels, L’ideologia tedesca).
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La rivoluzione da Mosca a Cambridge*
di Emiliano Brancaccio
Pareva destinato a diventare una reliquia, un polveroso cimelio del periodo tra le due guerre. Ed invece, dopo il fallimento di Lehman Brothers dell’ottobre 2008 e l’inizio della cosiddetta Grande Recessione, il nome di Keynes è tornato improvvisamente a risuonare nei dibattiti di politica economica. Si tratta, beninteso, di una evocazione ancora spettrale, che per adesso incide solo in termini marginali e confusi sulle azioni pratiche delle autorità monetarie e di bilancio. Ma già il solo fatto che Keynes venga nuovamente menzionato nell’agorà politica appare a molti un segnale minaccioso, un potenziale incentivo all’eversione del precario ordine finanziario costituito.
Il rinnovato interesse per l’eresia keynesiana costituisce un segno del terremoto che dall’inizio della crisi ha iniziato ad agitare il campo di battaglia delle teorie e delle politiche economiche. Come però tipicamente capita alle visioni per lungo tempo sommerse e dimenticate, il pensiero di Keynes risulta oggi appannato da una vulgata approssimativa, per molti versi fuorviante. Si consideri ad esempio una delle sue più celebri affermazioni: «Nel lungo periodo saremo tutti morti». Questa frase viene spesso affiancata ad un’altra sua enunciazione, scritta diversi anni dopo: «Se il Tesoro si mettesse a riempire di biglietti di banca vecchie bottiglie, le sotterrasse ad una profondità adatta in miniere di carbone abbandonate, e queste fossero riempite poi fino alla superficie con i rifiuti della città, e si lasciasse all’iniziativa privata [..] di scavar fuori di nuovo i biglietti [..], non dovrebbe più esistere disoccupazione». Basandosi su queste due frasi giustapposte, svariati commentatori hanno preteso di descrivere Keynes come un intellettuale frivolo, irresponsabile, incurante del futuro, fautore dello sperpero e della dissipazione di risorse produttive.
Con buona pace dei veri esegeti di Keynes, questa chiave di lettura risulta oggi diffusa e influente.
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Tra Schumpeter e Keynes: l'ortodossia di Paul Mattick
Riccardo Bellofiore
[E' uscito in libreria, per le edizioni Jaca Book, il terzo volume di L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Il capitalismo americano e i suoi critici. Per gentile concessione dell’editore, pubblico su questa pagina il mio saggio su Paul Sweezy e Paul Mattick. Quella che segue è la seconda parte, dedicata a Mattick. La prima su Sweezy la trovate qui]
La caduta del saggio di profitto in Paul Mattick
Una figura che potrebbe apparire del tutto opposta è quella di Paul Mattick. Nato nel 1904, giovanissimo operaio diviene spartachista, e partecipa alla fallita rivoluzione tedesca. Nei primi anni Venti, comunista «consiliare» e parte dell’opposizione di sinistra al bolscevismo leninista, abbandona il Partito comunista di Germania per entrare nel Partito comunista operaio di Germania. Emigra nel 1926 negli Stati Uniti, dove contribuì a redigere il Programma degli Industrial Workers of the World a Chicago nel 1933.
Mattick è stato «uno dei tre» del comunismo dei consigli, insieme a Karl Korsch e Anton Pannekoek. Denunciando i limiti e l’involuzione del partito leninista, Mattick ha invece sostenuto l’importanza della nuova forma organizzativa emersa spontaneamente durante la rivoluzione russa del 1905: i consigli operai. Tornati sulla scena con maggior forza nel febbraio 1917, determinarono la natura del processo rivoluzionario, ispirando la formazione di analoghe organizzazioni spontanee nella rivoluzione tedesca del 1918, e poi un pò dappertutto fino ai giorni nostri. Secondo Mattick, con il sistema consiliare nasceva una forma organizzativa capace di coordinare in piena indipendenza le autonome attività di masse molto vaste. Oltre ai saggi di critica dell’economia, ha pubblicato dal 1934 una rivista vicina al movimento dei consigli, l’ «International Council Correspondence», divenuta «Living Marxism» nel 1938, per cambiare ancora nome nel 1942 col titolo di «New Essays». Nel 1936 scrisse per la «Zeitschrift für Sozialforschung» di Horkheimer un saggio sul movimento dei disoccupati dopo il 1929: aveva partecipato alle organizzazioni spontanee per l’occupazione di case, per l’uso proletario del gas e dell’elettricità, per le grandi manifestazioni che la polizia non riusciva più a contenere.
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La sentenza della Corte e la lezione della Fiom
Paolo Ciofi
Non si tratta solo del soldato Brunetta, sempre sull'attenti di fronte al Supermanager soddisfatto di sentirsi dire che gli interessi della Casa torinese sono quelli dell'Italia. Sulla sentenza della Corte costituzionale, che ha dato ragione alla Fiom e torto alla Fiat, è necessario fare chiarezza respingendo ogni interpretazione riduttiva. E smontando la sperimentata tecnica del «sopire troncare, troncare sopire» in vista di nuovi misfatti farisaicamente onesti, che il manzoniano Conte zio oggi impersonato dai poteri dominanti si appresta ad apparecchiare con la copertura della "libera stampa" e dei camerieri di turno. Come dimostra il trattamento a dir poco scomposto cui è stata sottoposta la presidente della Camera Laura Boldrini per aver declinato l'invito di Marchionne. E per aver detto con parole di verità che «non sarà certo nella gara al ribasso sui diritti e sul costo del lavoro che potremo avviare la ripresa», bensì percorrendo la via «della ricerca, della cultura, dell'innovazione».
La sentenza della Corte non è affatto equivoca su una questione di fondo, che ci riguarda direttamente come cittadini di questa Repubblica fondata sul lavoro. Semplicemente, ha dichiarato incostituzionale, né più né meno, quel comma dell'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori strumentalmente usato da Marchionne per cacciare dagli stabilimenti Fiat i rappresentanti della Fiom perché il sindacato di Landini, respingendone i contenuti, non aveva sottoscritto il contratto: instaurando così il principio che nelle fabbriche e negli uffici dei rispettosissimi e ben educati eredi Agnelli possono operare solo i sindacati che condividono il punto di vista dei padroni. Gli altri sono out, non esistono.
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Autodeterminazione dei popoli e indipendenza di classe per la prospettiva del Socialismo nel XXI secolo*
LAB e Fondazione Ipar Hegor (Paesi Baschi) intervistano Rita Martufi e Luciano Vasapollo
Come definirebbe l'imperialismo del XXI secolo? Come si è evoluto?
Luciano Vasapollo (L.V.): La questione inerente l'imperialismo è complessa e relazionata al metodo di produzione capitalista. Il XXI secolo è caratterizzato da una forte competizione globale inter-imperialista nella quale gioca un ruolo centrale quello degli USA, ma va rafforzandosi anche l'imperialismo europeo che oggi come oggi, per noi, ha un forte impatto economico, commerciale e sociale. Secondo la nostra analisi, la costruzione della moneta unica europea, ha coinciso con la costruzione di un polo imperialista concorrenziale a livello globale dal punto di vista economico, commerciale e monetario all'interno del quale, l'euro, rappresenta la moneta forte dell’area valutaria europea che coincide con la forza economica e finanziaria tedesca.
Attualmente la Germania sta imponendo a tutta l'Europa, e non solo, il suo modello d'esportazione e l'euro può essere considerato come un super marco, proprio come l'Unione Europea può considerarsi una super Germania.
Una forma di imperialismo e neo colonialismo perciò nati dall'interno, che hanno canalizzato verso la disindustrializzazione i Paesi dell'area mediterranea denominati PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), obbligandoli a divenire Paesi importatori colpiti in seguito da debiti interni, esterni, pubblici e privati.
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Come uscire dall'euro?
(tre osservazioni sulla tesi di Brancaccio)
Leonardo Mazzei
Il ragionamento di fondo svolto ormai da tempo da Emiliano Brancaccio, e riproposto in ultimo nel suo articolo Uscire dall'euro? C'è modo e modo, ci trova assolutamente concordi. In sostanza Brancaccio evidenzia tre cose: l'elevata probabilità della fine dell'eurozona, i problemi che essa comporterebbe in considerazione delle diverse modalità di uscita dall'euro, la totale impreparazione della sinistra di fronte a questo scenario.
Sul primo punto - la fine dell'eurozona - Brancaccio è più prudente di noi, ma la centralità che egli assegna ai due punti successivi si giustifica solo con la convinzione che, pur non potendone prevedere i tempi, sarà questo lo scenario più probabile che determinerà il nuovo assetto economico, sociale e politico del Paese.
La sua insistenza sulle diverse modalità di fuoriuscita dalla moneta unica pone il problema dei problemi, cioè quello del programma. Un nodo che a sinistra viene allegramente sfuggito, scambiando per «programma» la solita lista della spesa, fatta di obiettivi giusti ma sganciati dal percorso concreto per raggiungerli. E' il classico vizio massimalista, che gioca al più uno, senza mai porre concretamente la questione del potere.
Nel nostro piccolo, come Mpl, abbiamo più volte indicato i punti essenziali sui quali dovrebbe nascere un governo popolare d'emergenza in grado di gestire, nell'interesse del popolo lavoratore, l'uscita dall'euro e dall'Unione Europea.
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Prospettive economiche per i nostri (pro)nipoti?
di Giorgio Gattei
Nell'era della "disoccupazione tecnologica", il reddito di cittadinanza dovrebbe essere quella parte di profitto a cui il capitale rinuncia per garantirsi la domanda di merci
Piuttosto che intervenire sulle condizioni di fattibilità pratica del reddito di cittadinanza, su cui non ho competenza, vorrei interrogarmi sul significato storico che può assumere il dibatterne oggi. Infatti io lo giudico un argomento economico cruciale posto dalla mutazione radicale che sta subendola “maniera capitalistica del produrre”.
Finalmente, dopo un anno di passione sulla tenuta dei conti pubblici, si è arrivati a discutere della disoccupazione, di cui però si possono dare due tipi. C’è la disoccupazione provocata dalla “insufficienza di domanda effettiva” (ossia dalla domanda assistita da moneta): essendo necessaria manodopera per produrre le merci, se queste non trovano domanda adeguata, l’occupazione necessariamente calerà. Da qui il rimedio a simile disoccupazione - che è detta “keynesiana” perchè riconosciuta magistralmente da J. M. Keynes - che consiste nel rilancio della domanda tramite aumento dei consumi delle famiglie e/o dello Stato.
C’è però anche un altro tipo di disoccupazione, di cui poco si parla e di cui aveva ben detto Giorgio Lunghini oltre un decennio fa quando ha osservato che «la relazione biunivoca e stabile tra produzione di merci e occupazione di lavoro vivo è mutata: è ancora vero che, se la produzione cala l’occupazione cala, ma non è più vero l’inverso, che se la produzione riprende anche l’occupazione riprende» (1).
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Imperialismo e antiamericanismo
di Elisabetta Teghil
Lenin, L’imperialismo come fase suprema del capitalismo
Per Lenin , l’imperialismo non è altro che la fase monopolistica del capitalismo. Non è la dimensione dell’impresa e la sua collocazione, ma le sue capacità di essere monopolio che fa l’imperialismo.
L’attuale stagione è caratterizzata dalla supremazia degli Stati Uniti che si propongono e, per molti versi, ci sono riusciti, di assumere il ruolo di Stato del capitale assoggettando con ogni mezzo a disposizione tutte le potenze rivali.
Dice Istvan Meszaros in Socialismo o barbarie:
”Così data l’inesorabilità della logica del capitale, era solo questione di tempo prima che il dinamismo del sistema si dispiegasse fino a raggiungere anche a livello dei rapporti interstatali lo stadio in cui una super potenza egemone arrivasse a dominare su tutte quelle meno potenti, per quanto grandi, ed affermare la sua pretesa esclusiva di essere lo Stato del sistema del capitale in quanto tale, pretesa infine insostenibile e la più pericolosa per l’umanità nel suo insieme.”
E’ falso che, in questo momento, la politica e lo Stato si sarebbero ritirati. Il sistema del capitale, in questa stagione che si manifesta con il neoliberismo, non potrebbe sopravvivere una settimana senza l’appoggio massiccio che riceve dallo Stato.
Gli Stati Uniti hanno 300 basi militari fuori dai confini nazionali e più di 200 Agenzie e possono contare su una miriade di Ong, Onlus e società di Think Tank.
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Tra Schumpeter e Keynes: l’eterodossia di Paul Marlor Sweezy
Riccardo Bellofiore
[E' uscito in libreria, per le edizioni Jaca Book, il terzo volume di L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Il capitalismo americano e i suoi critici. Per gentile concessione dell’editore, pubblico su questa pagina il mio saggio su Paul Sweezy e Paul Mattick. A questa prima parte, dedicata a Sweezy, seguirà, nei prossimi giorni, la seconda parte, dedicata a Mattick. rb]
Il dibattito di Sweezy con Schumpeter
Paul Sweezy è stato assistente di Schumpeter. Il rapporto di amicizia e la distanza intellettuale sono tali per cui la parola discepolo suona stonata. Come scrisse al fratello Al, benché interessato dalle teorie dell’economista austriaco, non se ne sentì granché influenzato. La relazione personale fu però molto forte, quasi fosse il sostituto del figlio mai avuto. Tra i due si svolse un memorabile dibattito, di cui è rimasta memoria grazie al «ricordo» di Paul Samuelson su «Newsweek»il 13 aprile1970, e ai materiali resi disponibili da John Bellamy Foster sulla «Monthly Review»nel maggio 2011. Era l’inverno del 1946-47. IlSocialist Party di Boston aveva chiesto al dipartimento di economia di Harvard di ospitare un dibattito su capitalismo e socialismo. Schumpeter ritenne poco appropriato che la discussione si svolgesse all’interno delle lezioni, e suggerì senza successo che il Graduate Student Club se ne facesse promotore. Il dibattito ebbe luogo senza sponsor, protagonisti appunto Schumpeter e Sweezy. Dal racconto di Samuelson, più di vent’anni dopo, traspare ancora l’eccitazione per l’evento:
"Schumpeter era il rampollo dell’aristocrazia austriaca all’epoca di Francesco Giuseppe. Aveva confessato di avere tre desideri: di essere il più grande amatore a Vienna, il miglior cavallerizzo in Europa, il più grande economista del mondo. «Sfortunatamente», aggiungeva con modestia, «il posto che mi è stato dato [ad Harvard] non era di primo livello».…
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Cosa è un atomo (ammesso che sia qualcosa)?
Mladen Dolar
Mladen Dolar, benché ancora poco noto in Italia, è uno degli esponenti più lucidi e significativi di quella che correntemente viene chiamata “Scuola di Lubiana” (con Slavoy Žižek, Alenka Zupančič etc.). In questo saggio, Dolar sviluppa alcune delle vedute che distinguono questa scuola in rapporto alla questione della costituzione “ontologica” dell’atomo e del den
L’atomismo, così dice la storia, è stata la prima apparizione del materialismo nella storia della filosofia, nonostante la parola “materialismo” abbia fatto la sua comparsa soltanto nel diciottesimo secolo. Le battaglie filosofiche che infuriavano in precedenza, e non sono state di certo poche, sono state combattute sotto bandiere di diverso tipo e l’imposizione retroattiva della grande contrapposizione antagonistica tra materialismo e idealismo potrebbe presentare problemi, come vedremo, nonostante chiami in causa delle poste in gioco molto alte. Hegel, l’arci-idealista, o almeno così si dice, sembrerebbe quindi essere un sostenitore dell’atomismo piuttosto improbabile: eppure ogni qualvolta abbia toccato la questione, cosa che ha fatto in poche occasioni, ha trattato la posizione atomistica con entusiasmo, considerandolo come il presagio di un’idea speculativa profonda e di ampia portata emergente all’alba della filosofia, un’intuizione da tenersi stretta anche se insufficiente, una visione del mondo che ci riportasse indietro alle basi, al minimo, alle condizioni preliminari del pensiero.
La rivendicazione dell’atomismo al materialismo non dipende dalla celebrazione della materia come sostanza ultima, con la pretesa che lo spirito e l’anima siano materiali allo stesso modo della natura: piuttosto implica un’operazione che va molto oltre. Per metterla nei termini più semplici e scusandomi per questa considerazione breve ed estremamente semplificata, la filosofia prende le mosse da una tesi fondamentale: tutta la diversità dell’essere può essere spiegata da un solo principio.
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Non moriremo per l'euro
di Andrea Ricci
Dietro gli inni di "vittoria" lanciati da Letta per la fine della procedura di infrazione Ue, si avvicina il precipizio della manovra finanziaria d’autunno.
Dopo l’ultima riunione del Consiglio Europeo, il Presidente del Consiglio Enrico Letta ha cantato vittoria e lanciato messaggi di grande ottimismo sul futuro dell’economia e delle finanze pubbliche italiane. Purtroppo, si tratta soltanto di una pura operazione propagandistica tesa a guadagnare qualche settimana di relativa tranquillità prima della bufera.
Alla vigilia delle ferie estive il clima politico è dominato dall’incertezza. La maggioranza delle “larghe intese” sembra turbata dalle vicissitudini giudiziarie di Berlusconi. In realtà, le questioni vere sono ben altre. La mina che sta per esplodere sotto le poltrone del Governo è la manovra finanziaria del prossimo autunno, che allo stato attuale si annuncia imponente e difficilmente realizzabile senza un massacro sociale senza precedenti. Si sta facendo di tutto per nascondere il problema ma basta fare un po’ di conti, avendo in mente il quadro complessivo della situazione macroeconomica, per capire la situazione. Il deterioramento tendenziale del bilancio pubblico, che dovrà essere corretto a settembre con la prossima legge di stabilità, deriva da due fattori, il primo legato all’andamento macroeconomico e il secondo ai vincoli programmatici sulla cui base il Governo Letta si è costituito.
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La fragile società del non lavoro
di Benedetto Vecchi
La parabola intellettuale di Robert Castel non è comprensibile senza il suo coinvolgimento nel Maggio parigino. È a partire dalle barricate del quartiere latino che la sua produzione subisce una svolta inaspettata. Sociologo di formazione in debito con la tradizione delle scienze sociali francesi, condivideva le riflessioni sulla modernità di Emile Durkheim, laddove sottolineava la fragilità del legame sociale rispetto il carattere tellurico, «rivoluzionario» dello sviluppo capitalistico. Ma a differenza di Durkheim, era interessato anche alle istituzioni sorte dalle ceneri dell'ancien régime che mostravano una grande capacità di tenuta e performatività dell'ordine sociale rispetto a quelle tendenza del capitalismo di rendere voltatile ciò che prima era solido, per parafrasare una famosa frase di Karl Marx. Così il primo, importante saggio Robert Castel lo ha dedicato all'istituzione psichiatrica, che aveva e ha la funzione di garantire la riproduzione sociale, in una prospettiva «pastorale» tesa a prevenire, rendendola inefficace, la devianza dalla norma.
In quel saggio Castel non nasconde la sua sua fonte di ispirazione - La storia della follia di Michel Foucault -, ma prova ad alimentarla con una inchiesta sul campo. È con quel libro che avviene la svolta teorica, che lo ha fatto diventare, anno dopo anno, un intellettuale eterodosso. Vicino al partito socialista, si è confrontato con le posizioni teoriche più radicali de marxismo post-Sessantotto, accogliendone la pretesa di una politicizzazione integrale dei rapporti sociali. Così, dopo la critica dell'ospedale psichiatrico, e in sordina anche della psicoanalisi, intesa come una forma di un diffuso controllo sociale, ha concentrato la sua attenzione sull'altra grande «istituzione» del capitalismo, la fabbrica.
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L’imbroglio europeo di Letta
di Alfonso Gianni
Nell’ultimo sondaggio conosciuto, risalente al 1 luglio e realizzato dall’istituto Piepoli, le quotazioni del governo sembrano tornare ad essere in salita presso la pubblica opinione. In particolare è elevato l’apprezzamento verso gli ultimi provvedimenti economici emanati dal governo, quelli che dovrebbero favorire in particolare l’occupazione giovanile – obiettivo che in sé non può non essere popolare – e soprattutto la fiducia nel premier Letta riguarda il 51% degli intervistati con un incremento di ben otto punti in un solo mese. Quindi la luna di miele fra il “giovane” Letta e la nostra vecchia Italia procede senza screzi né problemi? Non sembrerebbe del tutto vero, se si distoglie un attimo l’attenzione dai sondaggi e si guarda alle reazioni dell’intelligentsia del paese, se così la vogliamo chiamare.
Ed è il caso di farlo, dal momento che sono assai in pochi coloro che conoscono il merito specifico dei provvedimenti economici del governo al di là delle copertine televisive. Del resto gli apprezzamenti nei sondaggi scendono se la domanda è se l’intervistato si aspetta reali miglioramenti nella situazione occupazionale e economica da questi provvedimenti.
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Che fare con l'euro?
di Mimmo Porcaro
Il compito che oggi sta di fronte a quel che resta della sinistra italiana è dei più difficili. La situazione è chiara, per chi sappia guardarla: ma per affrontarla è necessaria, dopo tante piccole innovazioni più predicate che praticate, una netta e dolorosa rottura con l’europeismo dogmatico che da troppo tempo ci accompagna.
E’ chiaro infatti che ogni libera espressione elettorale della volontà degli elettori sudeuropei rende inattuabile il patto che ha consentito finora la sopravvivenza dell’euro, perché impedisce di fatto la tranquilla attuazione delle restrizioni previste dal Fiscal Compact, anche in eventuale versione light. E’ chiaro quindi che l’euro, come moneta che unisce nord e sud Europa, è ormai irreversibilmente finito, perché anche se restasse in vita ciò avverrebbe contro il volere di una massa crescente di cittadini europei. Ma è altrettanto chiaro che la sinistra italiana e continentale non è capace di un pensiero che sia all’altezza della situazione, perché non è capace di prendere atto della fine della globalizzazione e del riemergere degli stati nazionali (o meglio degli stati nazionali più forti) come attori principali della politica. Non è capace di capire che l’Europa è ancora fatta di nazioni, che le nazioni più forti dettano la direzione di marcia e che, anche a causa della persistente crisi economica, questa marcia conduce ad un gioco in cui il nord vince ed il sud perde. E che quindi una coerente difesa dei lavoratori italiani si identifica, oggi, con la costruzione di un discorso che sappia legare in maniera inedita questione di classe e questione nazionale.
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L'inedita pericolosità dello scandalo Obama-Snowden
L'economia dei big data
nique la police
Tempi duri per l'ideologia Emergency, quel corpo di suggestioni e convinzioni che considera come invariabilmente positivi, degni di un incondizionato medium fiducia, gli elementi di pensiero e pratiche progressiste sparsi a giro per il pianeta. In pochi giorni due duri colpi, per chi li vuol vedere, a questo genere di ideologia arrivano da due paesi, gli Usa e il Brasile, che nella prima e nella seconda metà della scorsa decade avevano nutrito la punta di diamante di quell'immaginario e di quel corpo di convinzioni. Il primo viene da Obama, il nobel per la pace più bombardiere della storia, che è partito dall'alleanza con il social network alle elezioni per arrivare a spiarli come pratica prevalente e intensiva. Il secondo viene dal partito dei lavoratori (sic) al potere in Brasile, dove il governo che si voleva entro un processo di mediazione tra movimenti, bilancio partecipato, grande business industriale e delle infrastrutture e crescita della borsa di Rio si è trovato di fronte a manifestazioni imponenti composte da praticamente ogni strato della società brasiliana escluso quello dei ricchissimi.
E' finita, per adesso, con la polizia a tentare di reprimere i manifestanti in un centinaio di città indossando, solita ironia della storia e potenza rappresentativa di youtube, anche un bel casco bianco con stampati sopra i colori dell'arcobaleno.
Ma mentre la questione brasiliana ha una propria evidenza e fornisce immediatamente chiavi di lettura, la portata storica del Datagate che ha coinvolto l'amministrazione Obama è molto più profonda di quanto possa immaginare l'ideologia italiana.
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I trattati internazionali soppiantano le costituzioni
Ma con il consenso delle stesse
Comidad
Le notizie di stampa sullo scandalo spionistico denominato "datagate", hanno determinato in Europa lo scatenarsi di ipocriti rituali di sorpresa e di indignazione. Tra le autorità europee la parola d'ordine è stata quella di cadere dalle nuvole, di dichiararsi stupefatti o "allibiti", come se l'attività spionistica a tutto campo della National Security Agency non fosse già arcinota. A Sigonella è persino in allestimento un mega-impianto di spionaggio elettronico, il MUOS, con il quale gli USA avranno il territorio europeo sotto un controllo ancora più capillare; ed è chiaro che si tratta non soltanto di spionaggio militare, ma anche nel settore industriale e finanziario, sino alla sfera dei vizi privati, utilissimo strumento di ricatto.
Ma ad indicare la serietà di queste recite in Europa, basterebbe anche solo il fatto che ci si è immediatamente dimenticati che lo scandalo spionistico aveva coinvolto poche settimane fa un Paese europeo, cioè il Regno Unito, il cui servizio segreto, MI6, nell'aprile del 2009 aveva allestito addirittura dei falsi internet cafè per spiare i diplomatici stranieri ospitati a Londra per il G20.
Se questo è il grado di memoria degli avvenimenti, si può facilmente prevedere che tutta questa bolla di indignazione verso gli USA svanirà molto presto, e ciò vale anche per le dure dichiarazioni di monito del commissario europeo Viviane Reding, che ha minacciato conseguenze sui negoziati tra USA e UE per il mercato transatlantico (indicato dall'acronimo TTIP) che dovrebbe andare in vigore dal 2015.
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Implosione
di Elisabetta Teghil
L’implosione dell’Unione Sovietica, nella lettura che va per la maggiore, viene attribuita a due ordini di problemi che non aiutano a capirne il motivo e, pertanto, la comprensione di quello che è accaduto richiede una riflessione.
Da un lato questa implosione viene attribuita ad una gestione dell’economia errata e, paradossalmente, per sostenere questa tesi, si usano i parametri del capitalismo assunti come i soli validi e possibili.
Dall’altro, si chiamano in causa motivi politico-istituzionali: assenza di democrazia, burocrazia, totalitarismo.
In tutti e due i casi, si rovescia il rapporto tra cause ed effetti e non si affronta l’intreccio tra vizi formali e contenuti di classe che è alla base del fallimento del primo esperimento di socialismo.
La soluzione sovietica è stata un tentativo di superare il capitalismo con l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ma questa scelta non ha sradicato il capitale dal sistema di riproduzione del metabolismo sociale.
La società sovietica era impostata sulla convinzione che il nodo principale fosse il modo di produzione e non la contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione.
Pertanto è caduta in una forma di economicismo che leggeva il capitalismo fondamentalmente come produzione di merci e non, come in effetti è, in primo luogo produzione e riproduzione del capitale in quanto rapporto sociale.
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Startup, classe creativa e capitalismo delle “relazioni”
Note per una discussione
di Vincenzo Cuomo
Le riflessioni che seguono sono relative alla lettura di due libri sulle nuove “forme del lavoro” e sul “capitalismo digitale”. Il primo di questi libri, il più importante, serio e stimolante, è quello di Carlo Formenti, intitolato Felici e sfruttati. Il capitalismo digitale e l'eclissi del lavoro1. Il secondo, molto meno stimolante, ma a suo modo utile come “oggetto” teorico su cui riflettere, è il libro a più (troppe) mani, curato da Gianni Vattimo, Pasquale Davide de Palma e Giuseppe Iannantuono, dal titolo Il lavoro perduto e ritrovato2.
La discussione di tali libri mi ha dato l'opportunità di rileggere l'importante saggio di Jean-Luc Nancy, La création du monde ou la mondialisation3, pubblicato in Francia nel 2002. Tale rilettura mi ha portato a porre in questione l'ideologia della creatività che è il presupposto (in parte non ancora indagato) sia delle teorie neo-liberiste relative alla “classe creativa” (Florida4) sia delle teorie che (apparentemente) si oppongono alle attuali forme del capitalismo tecno-globalizzato.
1. Lavoro produttivo-lavoro improduttivo
Ancora negli anni Settanta dello scorso secolo, nella fase di inizio della profonda crisi dell'economia capitalistica fordista e pre-informatica, la distinzione/opposizione tra “lavoro produttivo” e “lavoro improduttivo” sembrava teoricamente e politicamente sostenibile.
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Per una sana e consapevole economia di mercato
Sebastiano Isaia
Da quando la virtù, istruita dalle malizie politiche, aveva appreso i mille felici raggiri dell’astuzia,
e da quando si era legata di amicizia col vizio, anche i più scellerati facevano qualcosa per il bene comune
(B. de Mandeville, La favola delle api) [1].
Massimo Amato e Luca Fantacci si sono messi in testa (in realtà in numerosa compagnia: vedi i tanti sacerdoti del keynesismo in circolazione) di «salvare il mercato dal capitalismo». Obiettivo davvero notevole, ma quanto fondato? A occhio, pochino. E sento già la caustica risatina del Moro di Treviri, il quale a suo tempo massaggiò perbene le schiene di non pochi economisti «triviali», soprattutto quelli in guisa progressista (tipo Proudhon), i quali non riuscivano a cogliere il rapporto sociale che fa del Capitalismo una sola compatta e inscindibile totalità economico-sociale.
In effetti, porre la distinzione, anche solo sul terreno puramente teorico, tra economia di mercato e Capitalismo significa non aver compreso nulla della vigente economia e della società che la presuppone sul piano storico e fattuale e che ne è il prodotto. Se una simile distinzione, questo vero e proprio non-senso storico ed economico, irritava «le vigliacchissime e solenni emorroidi» del comunista tedesco, il quale non finiva di ripetere che produzione e circolazione erano momenti diversi di uno stesso processo economico sottomesso alla bronzea legge del profitto, figuriamoci che cosa può accadere alla salute “intima” di un comunista basato nella società-mondo del XXI secolo, ossia nell’epoca della sussunzione totalitaria di tutto (a cominciare dal lavoro) e tutti («funzionari del capitale» compresi) al Capitale.
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Uscire dall'euro? C'è modo e modo
di Emiliano Brancaccio
Il tentativo di salvare la moneta unica a colpi di deflazione salariale nei paesi periferici dell’Unione potrebbe esser destinato al fallimento. L’eventualità di una deflagrazione dell’eurozona è dunque tutt’altro che scongiurata. Il problema è che le modalità di sganciamento dalla moneta unica sono molteplici e ognuna ricadrebbe in modi diversi sui diversi gruppi sociali. Esistono cioè modi “di destra” e modi “di sinistra” di gestire un’eventuale uscita dall’euro. Ma esiste una sinistra in grado di governare il processo?
La crisi dell’Unione monetaria europea è stata interpretata in vari modi. Una chiave di lettura particolarmente feconda analizza il travaglio dell’eurozona alla luce di un conflitto irrisolto tra i capitali delle nazioni che ne fanno parte: in particolare, tra i capitali solvibili situati nei paesi “centrali” e i capitali potenzialmente insolventi situati nei paesi “periferici” dell’Unione. Tra i numerosi indicatori di questo scontro va segnalata l’accentuazione delle divergenze tra i tassi d’insolvenza. Stando ai dati di Credit Reform, nel 2011 in Germania le insolvenze delle imprese sono diminuite del 5,8% e in Olanda si sono ridotte del 2,9%. Al contrario, in Italia, Portogallo, Spagna e Grecia registriamo una crescita continua delle aziende dichiarate insolventi, con aumenti rispettivamente del 17, 18, 19 e 27%. Queste divaricazioni, senza precedenti, trovano ulteriori conferme nel 2012. Al divario tra i dati sulle insolvenze segue poi, logicamente, un’accelerazione dei processi di acquisizione dei capitali deboli ad opera dei più forti. [...]
[...] Chi parlava in tempi non sospetti di un rischio di “mezzogiornificazione” europea aveva visto giusto: nel senso che il dualismo economico che si riteneva essere un mero caso speciale, caratteristico dei soli rapporti tra Nord e Sud Italia, sembra oggi essersi elevato al rango di caso generale, rappresentativo delle relazioni tra i paesi centrali e i paesi periferici dell’intera Europa.
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Non sempre è oro quel che luccica
di Sergio Bruno
Tutti i limiti del decreto appena varato sull'occupazione giovanile. Perchè a scoraggiare le assunzioni non sono solo il costo del lavoro o il cuneo fiscale ma soprattutto le prospettive di vendita. E senza domanda aggiuntiva le imprese non creeranno occupazione aggiuntiva
“Ora tocca alle imprese che possono assumere giovani”. Questa l’opinione del Presidente Letta dopo il varo del decreto sull’occupazione giovanile e a conclusione del vertice europeo. Questo riferimento alle responsabilità delle imprese è divenuto una parola d’ordine dei principali esponenti politici nei giorni successivi.
Ai provvedimenti oggetto del decreto giovani, annunciati con molta enfasi, vanno mosse alcune obbiezioni di un certo rilievo. La prima è che stiamo parlando non di circa 800 milioni di euro, ma di 200 milioni all’anno, il valore di qualche centinaio di appartamenti. La seconda è che non è chiaro come si arrivi a stabilire questa spesa, visto che molti dei provvedimenti non prevedono fondi chiusi, esauriti i quali i provvedimenti non vengono più concessi o vanno rifinanziati (ciò che, incidentalmente, dovrebbe sollevare ulteriori obbiezioni dal punto di vista della affidabilità della previsione di spesa e, quindi, della copertura). La terza è che tutti i riferimenti agli aspetti formativi sono vaghi e non sembrano fare i conti con lo stato attuale della capacità di fare formazione professionale in Italia. La quarta infine, sulla quale intendo qui aprire delle riflessioni, riguarda l’enfasi, sbagliata, posta nei richiami alle responsabilità delle imprese nel determinare il successo della strategia governativa.
Queste riflessioni sono importanti perché si annunciano ulteriori provvedimenti che dovrebbero essere meglio delineati in una ulteriore riunione dei ministri del lavoro europei.
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I polli di Renzo e l'aquila tedesca
Opposizione a Berlino o l'Italia rischia tutto
Sergio Cesaratto
1. Come recentemente denunciato da Giorgio La Malfa su Il Sole, nel governo e nel paese appare emergere una mesta rassegnazione a un futuro in cui ci si dovrà adeguare a standard di vita sempre più modesti e in cui l’emigrazione sarà il premio per i più bravi. Le contorsioni della politica, dalle fumosità di Enrico Letta, alle purghe del M5S, alle sparate di Berlusconi, testimoniano un mix d'impotenza e d'ignoranza, i polli di Renzo che si beccano fra di loro. Gli elettori percepiscono questo senso d’impotenza della politica e di qui l’esteso sentimento di anti-politica. Finché la politica aveva risorse da distribuire gli elettori italiani non si erano sentiti così diffusamente Soloni. Ma errato sarebbe concluderne, come si fa spesso soprattutto in area PD, che troppo si è sperperato nel passato per cui la crescita potrà solo tornare quando avremo tutti imparato a scialare meno. E’ un moralismo pernicioso che non porta da nessuna parte. Sostenere che se fossimo stati virtuosi come la Germania ora non saremmo nei guai è un ragionamento da “se mio nonno avesse le ruote”. E trascura il fatto che se tutti i paesi si comportassero come la mercantilista Germania solo l’apertura di mercati su Marte consentirebbe un generalizzato sviluppo export-led. Le vere occasioni il nostro paese le ha probabilmente perdute quando mezzo secolo fa, per inadeguatezza della classe dirigente, i frutti del boom economico non furono utilizzati per indirizzarlo su un sentiero di sviluppo moderno e socialmente equo. Ma basta piangere, ognuno a modo suo, sul latte versato. Guardiamo ai problemi dell’oggi.
2. A fronte di questi problemi il governo Letta appare persino più inetto del governo Monti – che ci aveva addirittura illuso a un tratto di voler alzare la voce con Berlino, prima di relegarsi nella spazzatura della storia.
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Lavorare senza padrone
Suggerimenti per un prossimo futuro
di Cybergodz
Nel 2001, come è noto, una crisi epocale travolse l'Argentina, disastrandola sia socialmente che economicamente. Le cause possono farsi risalire essenzialmente a due:
- una pedissequa quanto cieca osservanza delle disposizioni del FMI, tutte tese ovviamente a salvaguardare i livelli di estrazione di plusvalore necessari per mantenere in piedi il sistema, e del tutto indifferenti agli effetti di tali manovre sul corpo sociale.
Non tutto però, se ci è lecito dire così, è venuto per nuocere. L'Argentina in quegli anni si è rivelata essere uno straordinario laboratorio sociale, capace di dare indicazioni anche adesso, e anzi forse soprattutto adesso, che la crisi si è estesa a livello globale e molti paesi si sono ritrovati, o hanno molte probabilità di ritrovarsi, nelle condizioni dell'Argentina di allora.
Un libro uscito nel 2011 per le edizioni EMI dal titolo “Lavorare senza padroni”, scritto da un'abile giornalista free-lance, Elvira Corona, raccoglie molte di queste indicazioni, e le riporta in modo fedele, usando la tecnica dell'intervista e andando a scavare nell'Argentina di oggi, paese che molto deve alla capacità di autogestione nata in quegli anni di picco della crisi.
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A cosa serve realmente Prism?
pierluigi fagan
Il Datagate si allarga a macchia d’olio ma qualcuno ancora non vede a cosa realmente serva questa forma di spionaggio a grana grossa. La grana grossa sono i meta-data, l’oggetto concreto che il programma PRISM produce, dove siamo, dove andiamo, chi contattiamo, quante volte, di cosa ci interessiamo, le nostre “cerchie” etc. . Apparentemente non c’è ascolto di alcun contenuto, cioè di nessuna conversazione o scrittura privata, solo di comportamenti, interessi, relazioni. Per farne cosa?
Ce lo disse in parte, in un pubblico libro, Albert-László Barabási, fisico di origine rumeno-ungherese conosciuto per la sua teoria delle reti. Il libro è tutt’altro che uno scoop complottista, ma un saggio di divulgazione scientifica pubblicato nel 2011 da Einaudi (Albert-László Barabási, Lampi, Einaudi, Torino, 2011) che segue un precedente dello stesso autore, per lo stesso editore (Albert-László Barabási, Link, La scienza delle reti, Einaudi, Torino, 2004), più o meno sullo stesso argomento.
Il giovane professore (Indiana, Boston) è conosciuto nell’ambito della Teoria delle reti che è un di cui della più vasta cultura dei Sistemi e della Complessità, per aver centrato il concetto di “reti ad invarianza di scala” soggette alla legge di potenza. Non è nostro specifico interesse inoltrarci qui nella spiegazione precisa del concetto.
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Declino o fine della sinistra?
di Nino Lisi
Più che di declino credo che si debba parlare di fine della sinistra che abbiamo conosciuto e nella quale abbiamo militato nel secolo che è passato. Lo dico chiaramente, forse brutalmente, perché sono convinto che sbaglieremmo di grosso se volessimo tentare di rianimare gli insignificanti e inincidenti resti della sinistra, che sono sopravvissuti sino ad ora: non faremmo che prolungarne l’agonia. Peggio faremmo se provassimo a far nascere qualcosa che le somigliasse: nascerebbe morta Il mondo è radicalmente cambiato ed una sinistra come quella che ha segnato il novecento non è riproponibile, è superata, non servirebbe.
Per evitare fraintendimenti, dico subito che non sono di quelli che sostengono che la distinzione tra destra e sinistra non abbia più senso. Secondo me ne ha di senso, eccome! Non è infatti che le classi siano scomparse; tutt’altro; ma si sono scomposte e ricomposte altrimenti. Non è che la lotta di classe non vi sia più: è ben presente, eccome; ma è combattuta da una parte sola (con una veemenza maggiore di prima e con forme e mezzi anche nuovi). Ma non c’è l’altra parte che si contrapponga.
Di una sinistra quindi c’è un disperato bisogno. Ma ne va fondata una nuova, all’altezza dei tempi, capace di “leggere” il mondo come è oggi, comprenderne le logiche e le dinamiche dominanti, individuare ed organizzare i soggetti che possono essere oggi protagonisti di cambiamenti in seno alla società;
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