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La posta in gioco della guerra tra capitali: il risparmio italiano
di Pasquale Cicalese
“..si deve concludere che la disciplina del bail in non è sostenibile. Una prima prova di una parziale applicazione di essa – solo cioè per quel che attiene alla risoluzione delle quattro banche, richiesta dalla Commissione Europea e che comporta il previo addossamento delle perdite ad azionisti e obbligazionisti subordinati - dovrebbe essere idonea a farci capire quel che può avvenire in un prossimo caso. La tutela del risparmio non viene in tal modo pienamente assicurata, in contrasto con l’art. 47 della Costituzione, e, con tale mancanza, può essere travolta anche la tutela della stabilità sistemica”.
Angelo De Mattia, “Le norme Ue sulle risoluzioni bancarie vanno riviste. Il bail in è contrario alla Costituzione”. Milano Finanza 15 dicembre 2015.
“Vedo invece un’Europa che cresce con contraddizioni e che quindi si muove un po’ a zig-zag con figli e figliastri, una specie di Europa matrigna”.
Antonio Patuelli, Presidente ABI (Associazione Banche Italiane), “Tempi lunghi per le fusioni”, Milano Finanza 16 dicembre.
Chi pensa che la vicenda delle quattro banche fallite sia una questione di truffe, malversazioni e raggiri si sbaglia di grosso. Non è solo questo, è ben altro. Ha a che fare con l’assetto europeo, con l’hausmanizzazione monetaria e con il predominio tedesco nell’eurozona.
Partiamo da una decisione presa circa due anni fa, vale a dire l’Unione Bancaria. Con questo nuovo assetto, la Vigilanza è passata alla Banca Centrale Europea, con l’eccezione, guarda caso, delle Sparkassen e delle Landesbanken tedesche, al vortice della crisi bancaria del 2009.
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Maometto e Robespierre
di Giovanni Tomasin
«L’ateismo è aristocratico».
Maximilien de Robespierre
«È tempo di sottrarre queste armi alla reazione. Ancor più, è tempo di mobilitare contro il capitalismo, sotto la guida socialista, le contraddizioni dei ceti non contemporanei. Non si pensi qui di farsi beffe in blocco dell’irratio, ma piuttosto a occuparla, e da una posizione che si intende di irratio un po’ più seriamente dei nazisti e dei loro grandi capitalisti».
Ernst Bloch
«L’Islam per sua natura non è compatibile con i valori di una società laica e moderna». Le diverse incarnazioni di questa massima vengono riproposte con costanza ciclica da schiere di improvvisati esperti di Medio oriente almeno dal 2001 a oggi, in una lunga sequela di facce da Oriana Fallaci fino a Michelle Houellebecq. L’affermazione viene sempre pronunciata con inoppugnabile certezza e supportata da stralci del Corano. Dopo i fatti di Parigi il mantra si è fatto ossessivo.
Un metodo efficace per testare la validità della tesi è sostituire la parola «Islam» con «ebraismo» e «Corano» con «Antico testamento», testo non privo di passaggi sanguinari atti al gioco: il più delle volte si otterrà un’affermazione schiettamente antisemita, che verrebbe condannata con fermezza nelle trasmissioni televisive e sulle pagine dei giornali che non si pongono il problema di ospitarla quand’è riferita alla fede islamica. Tanto per concludere il gioco, qualunque lettore oggettivo del Vangelo saprà facilmente applicare il medesimo ragionamento anche al cristianesimo.
È superfluo specificare che la tesi non è del tutto infondata: in tutte le religioni abramitiche si trovano forme di conflittualità con la modernità e con la visione del mondo scaturita dal secolo dei Lumi. Pensare però che delle tre l’Islam sia l’unica portatrice di una refrattarietà incurabile al moderno impedisce di comprendere i moventi della tempesta in atto.
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Dal programma minimo al fronte anticapitalista
di Renato Caputo
I comunisti hanno bisogno oggi in Italia di definire un programma massimo, sulla cui base rifondare un partito comunista all’altezza delle sfide del XXI secolo, e di un programma minimo a partire dal quale costruire un fronte unico antiliberista e anticapitalista. Tale fronte deve essere costruito a partire dai conflitti sociali e non nella prospettiva di semplice occupazione degli incarichi nelle istituzioni borghesi. Altrimenti i comunisti non potranno vincere la decisiva lotta con le forze democratiche piccolo-borghesi con cui dovranno necessariamente fare i conti nel fronte unico
Il senso comune del popolo di sinistra ritiene un valore essenziale per battere le destre, da troppi anni dominanti, l’unità della sinistra. Troppo spesso, però, il termine “sinistra” proprio perché noto non è in realtà conosciuto. Dal punto di vista empirico, al quale si ferma il senso comune sotto l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, è di sinistra chi si autodefinisce tale. Tanto più che storicamente il termine, come una parte significativa degli elementi costitutivi della filosofia moderna, è sorto con la consuetudine sviluppatesi durante la Rivoluzione francese, per cui gli esponenti più progressisti del parlamento occupavano l’ala dell’assemblea legislativa posta a sinistra del suo presidente.
In tal modo però l’identità della sinistra resta piuttosto incerta, in quanto è troppo soggetta ai diversi rapporti di forza fra le classi sociali e alle diverse forme di selezione dei deputati nelle assemblee legislative. Così, già nel corso della Rivoluzione francese, a seconda del prevalere nelle sue diverse fasi delle componenti più radicali o moderate e del conseguente mutare delle modalità di selezione dei rappresentanti mutava in modo sostanziale il contenuto concreto dei termini destra e sinistra. In altri termini, in fasi molto progressive anche alla destra del presidente dell’assemblea prenderanno solitamente posto esponenti del centro sinistra, mentre in fasi come la nostra di Restaurazione anche nei banchi di sinistra troveranno posto esponenti del centro destra.
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L’Europa e le terre bruciate
Michele G. Basso
Si parla, spesso a sproposito, di liberismo, mentre è in corso la più complessa operazione protezionistica di tutti i tempi. Gli Stati Uniti, autonominatisi protettori del libero commercio, in realtà hanno quasi sempre mantenuto tariffe doganali altissime e le hanno abbassate quando l’Europa era in macerie per la seconda guerra mondiale. Se nel 1945 avevano l’assoluto predominio militare, finanziario, industriale, hanno visto eroso questo vantaggio, e cercano di conservare la supremazia con ogni mezzo, sabotando rivali attuali o futuri. Non c’è, nella classe dirigente statunitense, distinzione tra falchi e colombe, perché – a parte differenze di linguaggio, più diplomatico in Obama e nella sua fazione – lo scopo è sempre l’egemonia USA. Anzi, troviamo frammenti di verità nei discorsi dei “cinici”, come Brzezinski o Luttwak, piuttosto che nelle suadenti espressioni dei presunti pacificatori.
Era chiaro, per chi non ha mai creduto a Obama, che il “pivot to China” era una formula propagandistica. Altrimenti, come spiegare questa notizia di “Il Sole 24 Ore?
“Il Fondo monetario ha approvato oggi l’inclusione dello yuan, la moneta cinese, nel paniere delle valute di riserva. La decisione è stata presa dal consiglio esecutivo, che riunisce i rappresentanti dei Paesi membri dell’istituzione di Washington, e ha aggiunto lo yuan a dollaro, euro, yen e sterlina come componente dei diritti speciali di prelievo, la valuta di riserva dello stesso Fmi.”... “…l’inserimento dello yuan nei dsp ha alcune importanti conseguenze pratiche: dovrebbe infatti produrre un graduale flusso di fondi sullo yuan da parte delle banche centrali, dei fondi sovrani e delle altre istituzioni multilaterali, flusso che in parte è già cominciato (una settantina di banche centrali hanno investito parte delle loro riserve ufficiali in yuan). La sola riallocazione di un 1% delle riserve internazionali sullo yuan significherebbe un flusso di 80 miliardi di dollari l’anno”.(1)
Se gli USA fossero stati contrari, la Cina sarebbe ancora in attesa.
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I danni della “buona scuola” e la crisi della sinistra
di Marco Magni
Inquietudine
Io sono contrario alle occupazioni delle scuole che stanno avvenendo in questi giorni (anche se ovviamente contrario anche agli sgomberi). Non ho neppure scioperato il 13 novembre con i Cobas. Non ho neanche partecipato a mobilitazioni e convegni sulla LIP. Non perché “tanto non c’è niente da fare”, e neppure perché mi sia convertito all’idea renziana di scuola.
E’ perché mi pare che, una volta perso il riferimento che coagulava la lotta, l’iter parlamentare della legge “La buona scuola”, sembra che nessuno voglia interrogarsi sulla sua insufficienza. Sì, anche quando a migliaia si scendeva in piazza, anche quando si scioperava in massa, era il nemico che ti offriva il terreno su cui agire. Era lui a porre le domande, e proprio nei confronti di quelle si agiva di riflesso. Di rimessa, quindi in modo subalterno.
Ma, adesso, il punto è che, mentre la “buona scuola”, nelle sue diverse articolazioni (quelle che necessariamente provocheranno, senza dubbio, ancora rabbia, come la perdita della titolarità di cattedra nella scuola dove si insegna, non valgono ancora per la maggioranza dei docenti) viene implementata, non è che la scuola si converta unanime al nuovo credo, anzi è il contrario, ma il malessere e il disagio si disperdono in mille rivoli. Si torna, immediatamente, ad una visione corporativa, che era quella dominante anche il 5 maggio 2015, anche se non sembrava, viste le piazze piene e le scuole chiuse.
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Armi e Bagagli, un diario dalle Brigate Rosse
Cause ed effetti
di Emanuele Trevi
Pubblichiamo di seguito la prefazione di Emanuele Trevi a Armi e Bagagli (il memoir di Enrico Fenzi ripubblicato da Egg Edizioni) e un estratto dal primo capitolo del libro. La prefazione di Emanuele Trevi, che ringraziamo, accompagnava l’edizione Costa & Nolan. L’illustrazione è di Pietro Corraini
Per introdurre Armi e bagagli di Enrico Fenzi mi sarà necessario condividere almeno in parte gli stessi rischi che l’autore ha affrontato scrivendo la sua opera. A farmi accettare questi rischi non basterebbe nemmeno la profonda amicizia che mi lega a Enrico: l’argomento decisivo, in questi casi e di fronte a una materia così spinosa, non è, non può essere che il grande valore di questo libro, non a caso arrivato alla sua terza edizione (ora alla quarta, ndr). Ma è proprio intorno e in conseguenza a questa nozione di “valore” che iniziano i guai. A primo impatto, infatti, potrebbe anche suscitare fastidio e addirittura ripugnanza l’elogio delle qualità letterarie di un libro che ha per sottotitolo Un diario dalle Brigate Rosse.
È inutile negare che su un discorso che abbia questo tipo di intenzione pende come una spada di Damocle l’accusa di un cinismo sordo al male e al dolore reali evocati in Armi e bagagli. Ma questo rischio (l’accusa infamante di “fare della letteratura” di fronte a tragedie reali) è corso, in maniera molto più radicale, dall’autore in prima persona. Che al danno fatto avrebbe pure aggiunto la beffa di scriverci su un “bel libro”. Questa diffidenza per la letteratura e per il “fare della letteratura” ha radici antiche e profonde, e può vantare anche, non costa nulla ammetterlo, dei buoni argomenti.
Scegliendo nonostante tutto la letteratura, a Enrico Fenzi non è rimasta che la più svantaggiosa delle scommesse: si è affidato alla sua opera, le ha delegato interamente il compito di parlare per lui. Il che significa, prima di tutto, rinunciare all’ombrello protettivo delle proprie intenzioni.
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Oltre l’austerità, il futuro dell’Euro
In margine a una lezione di Paul De Grauwe
di Mario Tiberi
Mario Tiberi dà un resoconto delle “Lezioni Federico Caffè 2015”, tenute da Paul De Grauwe, sul futuro dell’Eurozona. Tiberi ricorda le critiche di De Grauwe alle politiche di austerità, nate da un‘analisi inadeguata della recessione, troppo centrata sulla crisi dei debiti sovrani, e responsabili di molte conseguenze negative. L’alternativa è una politica fiscale espansiva, sorretta dalla piena affermazione della BCE come prestatore di ultima istanza. Tiberi conclude sottolineando la sintonia del ragionamento di De Grauwe con valutazioni presenti nei lavori di Caffè
Gli allievi di Federico Caffè, appartenenti al Dipartimento di Economia e Diritto della Università di Roma “La Sapienza”, hanno deciso, oramai da molti anni, di onorare la sua memoria con una serie di lezioni annuali, a lui intitolate e rivolte a studiosi e studenti. Le lezioni – che si avvalgono del contributo della Banca d’Italia, dove Caffè ha ricoperto importanti incarichi – sono tenute da autorevoli economisti stranieri ed italiani e intendono approfondire argomenti cari a Caffè: economia del benessere e teoria della politica economica; problemi epistemologici; moneta e finanza; occupazione e politiche sociali; questioni internazionali. Le lezioni sono state tenute, tra gli altri, da tre premi Nobel (Solow, Stiglitz ed Arrow) e da alcuni dei più prestigiosi economisti italiani (Sylos Labini, Graziani e Pasinetti).
Il relatore di quest’anno, è stato il Professor Paul De Grauwe. Belga di nascita, De Grauwe ha ricoperto incarichi prestigiosi, prima all’Università di Lovanio e, attualmente, come John Paulson Chair in European Political Economy, presso la London School of Economics. Egli è ben conosciuto anche in Italia, in parte grazie al suo manuale “Economia dell’Unione monetaria” che è un testo d’esame in numerosi corsi universitari. Non è un caso, quindi, che molti studenti abbiano contribuito ad affollare l’Aula della Facoltà di Economia, dove De Grauwe, il 10 e 11 dicembre, ha svolto le sue lezioni su un tema a lui congeniale: ”Il retaggio della crisi dell’Eurozona e il futuro dell’euro”.
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Considerazioni sul marxismo e la filosofia
Un piccolo tentativo
Mauro Tozzato
In Materialismo ed Empiriocriticismo Lenin cita il teorico marxista, operaio autodidatta, Joseph Dietzgen, giudicato con apprezzamento anche dallo stesso Marx:
<<All’”equivoco” degli universitari liberi pensatori, Dietzgen avrebbe preferito volentieri “l’onestà religiosa”: qua almeno “c’è un sistema”, ci sono degli uomini completi che non separano la teoria dalla pratica. Per i signori professori “la filosofia non è una scienza, bensì un mezzo di difesa contro la socialdemocrazia”. “Professori e ordinari, tutti coloro che si dicono filosofi, cadono, più o meno, malgrado la loro libertà di pensiero, nei pregiudizi, nella mistica … Nei riguardi della socialdemocrazia tutti costoro non formano che una massa reazionaria. Occorre, per seguire il buon cammino senza lasciarsi smontare dalle assurdità religiose o filosofiche, studiare la più falsa delle vie false (den Holzweg der Holzwege), la filosofia”>>.
In Lenin e la filosofia Althusser interpreta la posizione di Lenin come un modo alternativo di fare della filosofia, in corrispondenza allo spunto fornito da Marx: invece di “ruminare nella filosofia” si tratterebbe, infine, di praticarla. Questo diverso modo di “professarla” porterebbe come conseguenza a riconoscere che la filosofia non è <<altro che politica investita in un certo modo, politica proseguita in un certo modo, politica rimuginata in un certo modo>>. A questo punto Althusser pone il problema cruciale su cui ci si è scontrati innumerevoli volte che concerne la natura prevalentemente filosofica o scientifica del marxismo. Per questo blog il problema sembrerebbe ormai superato: tutti noi, che condividiamo l’impostazione di base centrata sulle riflessioni teoriche di La Grassa, pensiamo che Marx sia stato un teorico (scienziato) della società che soltanto in gioventù si è anche un pochino occupato di filosofia.
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La violenza torna sempre a casa
Intervista ad Arun Kundnani
A seguito degli attacchi di Parigi, quali sono le tragiche e più logiche conseguenze di una guerra senza confini fisici? Arun Kundnani, autore di The Muslims are coming! edito da Verso, si occupa di terrorismo e di politiche di contrasto all’estremismo nel Regno Unito e negli Stati Uniti. In questa intervista spiega e critica le ramificazioni della guerra al terrore, partendo dalla retorica – liberale o conservatrice – utilizzata da intellettuali e commentatori, e arrivando alle teorie sul radicalismo che hanno alimentato i programmi antiterrorismo in Occidente. Secondo Kundnani, l’unica vera alternativa al jihadismo è rappresentata da una politica anti-razzista, anti-imperialista e anti-capitalista.
***
Il mondo intero è adesso una zona di guerra? E come si relaziona questa idea con la retorica della guerra al terrore?
La promessa della guerra al terrore era che noi saremmo andati ad ammazzarli “laggiù” così che loro non ci avrebbero ucciso “quaggiù”: la violenza di massa in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Palestina, Yemen e Somalia – è stata compiuta in nome della pace in Occidente. “L’autorizzazione a utilizzare la forza militare”, approvata dal Parlamento americano dopo l’undici settembre, aveva già identificato nell’intero globo il campo di battaglia per la guerra al terrore; e Obama continua a farsi forte di ciò per conferire una parvenza di legalità al suo programma di uccisione tramite droni.
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Il fondatore di Pirate Bay: "Mi sono arreso"
J. Mollen intervista Peter Sunde
“Oggi giorno internet fa schifo. È un progetto fallito. Probabilmente lo è sempre stato, ma oggi è più fallito che mai.”
La mia conversazione con Peter Sunde, uno dei fondatori e portavoce di The Pirate Bay, non è cominciata con toni particolarmente ottimistici. E c’è un buon motivo: nell’ultima manciata di mesi, la cultura contemporanea del download ha mostrato gli evidenti segni di una sconfitta nella battaglia per la libertà di internet.
Lo scorso mese abbiamo visto scomparire Demonii. Era il più grande torrent tracker presente su internet, responsabile di oltre 50 milioni di tracker all’anno. Inoltre, l’MPAA ha oscurato YIFY e Popcorn Time. Dopodiché si è venuto a sapere che il Dutch Release Team, un grosso collettivo di uploader, era invischiato in una battaglia legale con il gruppo anti-pirateria BREIN.
Anche se sembra che gli utenti del protocollo torrent stiano ancora combattendo questa battaglia, per Sunde la realtà è molto più dura: “Abbiamo già perso.”
Nel 2003 Peter Sunde, assieme a Fredrik Neij e Gottfrid Svartholm, ha aperto The Pirate Bay, un sito internet che sarebbe diventato il più grande e famoso nucleo di file sharing del mondo. Nel 2009, i tre fondatori furono condannati per avere “assistito [altre persone] nell’infrazione del diritto d’autore” in un processo molto discusso.
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Le operazioni militari che si stanno preparando in Siria e dintorni*
di Thierry Meyssan
La stampa occidentale parla poco delle operazioni militari in Siria se non per dire senza alcuna prova che la Coalizione avrebbe bombardato con successo i jihadisti dell'Isis (Daesh), mentre la Russia avrebbe ucciso dei civili innocenti. È davvero difficile farsi un'idea della situazione attuale, tanto più che ogni parte prepara le sue armi in vista di un confronto più ampio. Thierry Meyssan descrive qui lo scenario che si sta profilando
Il silenzio che circonda le operazioni militari in Iraq e in Siria non vuol dire che la guerra si sia interrotta, ma che i diversi protagonisti si stanno preparando a un nuovo round.
Le forze della Coalizione
Sul versante imperiale rimane la più grande confusione. Sulla base delle contraddittorie dichiarazioni dei leader americani è impossibile comprendere gli obiettivi di Washington, se ce ne sono. Al massimo risulta che gli Stati Uniti lasciano che la Francia prenda l'iniziativa a capo di una parte della Coalizione, ma ancora se ne ignorano gli obiettivi reali.
Certo, la Francia dichiara di voler distruggere l'Isis (Daesh) per rappresaglia dopo gli attacchi del 13 novembre a Parigi, ma l'aveva già affermato prima degli attentati. Le dichiarazioni precedenti rientravano nella comunicazione, non nella realtà. Così la petroliera Mecid Aslanov, proprietà della società BMZ Group di Bilal Erdoğan (figlio del presidente turco), il 9 novembre 2015 ha lasciato il porto francese di Fos-sur-Mer dopo aver impunemente consegnato del petrolio che si garantiva essere stato estratto in Israele, ma che in realtà era stato trafugato dall'Isis in Siria. Nulla autorizza a pensare che oggi le cose siano cambiate e che si dovrebbero prendere sul serio le ultime dichiarazioni ufficiali.
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Dormire meglio, dormire tutti!
Nota sul sonno, il neoliberismo e l'immaginazione
Nicolas Martino
Nel suo visionario They Live del 1988 John Carpenter raccontava di alieni che tenevano il nostro mondo sotto controllo colonizzando il desiderio e l'immaginario di milioni di americani: comprate, obbedite e, soprattutto, dormite! erano queste le ingiunzioni trasmesse da un flusso ininterrotto di informazioni e persuasioni occulte diffuse nella metropoli e che solo occhiali forniti di lenti speciali riuscivano a disvelare. Eravamo in piena epoca reaganiana e thatcheriana, la controrivoluzione neoliberista andava all'assalto dei cuori e delle anime delle persone (bisognava farlo, questo era il vero e autentico obiettivo della controrivoluzione neoliberista, così sosteneva esplicitamente la lady di ferro Margaret Thatcher), una controrivoluzione che voleva cambiare radicalmente le anime e i cuori colonizzando appunto il desiderio e l'immaginario delle persone (quella neoliberista, è bene sottolinearlo, è stata una vera e propria rivoluzione antropologica, magnificamente restituita nella sua radicalità e violenza estirpatrice da un altro film più recente, Tony Manero, del 2008, opera del cileno Pablo Larraín). Lo spettacolo della merce era allora un'ideologia potente che solo un visionario come Carpenter poteva restituire in tutta la sua radicalità e violenza extra-mondana. E benché la resistenza, come quella del protagonista del film l'operaio disoccupato John Nada, sia sempre possibile, perché ricordiamolo il capitale non è un Moloch totalitario ma sempre una relazione conflittuale, è anche vero che la colonizzazione è andata avanti, gli zombi dell'altro mondo vivono ancora tra noi e hanno infranto da tempo un'altra barriera, quella del sonno. Dicevamo prima che una delle ingiunzioni trasmesse ossessivamente dagli alieni, la più importante probabilmente, era quella che invitava a dormire, «dormite!» e non pensate appunto, e qui è allora opportuno ricordare anche le straordinarie righe con cui si apre un romanzo italiano pubblicato nel 1989, Le mosche del capitale di Paolo Volponi:
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La Siria, lo Stato Islamico e la “guerra all’Europa”/prima parte
di Militant
Subito dopo gli attacchi del 13 novembre abbiamo pensato di prenderci un po’ di tempo per provare a scrivere qualcosa di più “ragionato” su quello che era accaduto a Parigi. Man mano che buttavamo giù gli appunti ci siamo accorti, però, che era impossibile provare a smontare il meccanismo bellico che si era attivato senza provare a spiegare la funzione di “mostro provvidenziale” che svolge oggi lo Stato Islamico in medioriente. Però non si possono comprendere le peculiarità del Califfato senza tener conto della guerra siriana, semplicemente perchè senza il conflitto in Siria l’IS non esisterebbe. E a sua volta non si possono individuare le ragioni profonde della guerra che dal 2011 ha mietuto più di 200 mila morti, senza aver chiare le mire e le ambizioni di potenze regionali e globali che in quella guerra giocano un ruolo decisivo. E poi c’è anche il fallimento dei processi di decolonizzazione, la globalizzazione liberista, la crisi… insomma quello che doveva essere un post è diventato una cosa troppo lunga per essere proposto tutto in una volta. Per cui abbiamo deciso di pubblicarlo a puntate e farlo diventare, alla fine del percorso, un “documentino” scaricabile che (speriamo) possa aiutare a contestualizzare i fatti.
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I. Le radici del disordine mediorientale
Nello spiegare un evento passato o presente le argomentazioni addotte dai media non seguono mai un filo logico o una ricostruzione fedele di quanto accaduto, ma preferiscono fornire versioni che fanno sempre più leva sull’emotività degli spettatori, seguendo lo schema di quello che Losurdo, in un suo recente lavoro, definisce giustamente “il terrorismo multimediale dell’indignazione”. L’opinione pubblica viene “bombardata” (nemmeno troppo metaforicamente) di immagini e informazioni che non forniscono alcun apporto nella comprensione dei fatti e il cui unico scopo risulta essere quello di incanalare questa indignazione nei confronti del nemico di turno, innalzato per l’occasione al rango di “male assoluto”.
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Un mese dopo gli attentati a Parigi...
Il silenzio perdura
Patrick Boylan
Ieri, ad un mese dagli attentati a Parigi, l'elettorato francese ha punito il governo Hollande per le falle nella sicurezza nazionale – ma solo relativamente. Ha concesso il 27% dei voti alla destra securitaria di Marie Le Pen alla prima tornata (un record), ma non abbastanza voti alla seconda per vincere in nessuna delle 12 regioni in ballo. Il partito di Hollande ha vinto in cinque, quello di Sarkozy in sette.
Eppure il tandem Sarkozy/Hollande è direttamente responsabile per le orrendi uccisioni compiute al Club Bataclan e in altri quattro luoghi a Parigi il 13 novembre 2015.
Infatti, i due Presidenti francesi, insieme agli USA, alla Turchia e ai paesi del Golfo, hanno creato e armato i jihadisti operanti prima in Libia e poi in Siria, i quali poi hanno addestrato e foraggiato gli attentatori di Parigi. Non solo, ma hanno importato in Libia e in Siria questi loro orrendi mercenari per rovesciare con la violenza i governi dei due paesi, seviziando o tagliando la testa a chiunque – militare o civile – sostenesse Gheddafi o Assad. Il che vuol dire gran parte della popolazione: infatti, malgrado quanto asseriscono i mass media occidentali, nel 2011 gli anti-Gheddafi risultavano maggioritari solo nelle piazze delle grandi città; e oggi gli anti-Assad non sono più maggioritari nemmeno lì.
Le azioni di Sarkozy e di Hollande, dunque, sono un crimine secondo tutte le norme internazionali. Non si coltivano la democrazia e il rispetto per i diritti umani in una società giudicata oppressa, importando tagliagole e fomentando la guerra.
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La paralisi araba
di Pierluigi Fagan
Note a margine della lettura di “L’infelicità araba” di Samir Kassir, Einaudi, Torino, 2006
Il mondo arabo consta di una ventina di stati per una popolazione di poco superiore a quella degli Stati Uniti d’America (più di 350 milioni), per il 60% posti nel Nord Africa e per il 40% nel Medio Oriente. Non sono “arabi” ovviamente i turchi, gli iranici, gli israeliani ebrei. Gli arabi sono solo il poco più del 20% dell’islam. Questo vasto mondo dal glorioso passato, vive uno scabroso presente connotato in particolare da una sorta di paralisi socio – politico – culturale che Kassir compendia nello stato d’anima dell’infelicità. Questa infelicità è triplicemente determinata. C’è l’infelicità della condizione, una condizione oggettivamente marginale, paralizzata, regredita. C’è l’infelicità dell’inazione, dell’impotenza. Nulla sembra politicamente possibile in un mondo sclerotizzato in mafie al potere, quasi sempre protette dai poteri del neocolonialismo occidentale la cui alternativa è data dal “sogno” del ritorno all’islam puro di più di mille anni fa, “sogno-incubo” a sua volta sponsorizzato dalle potenze petrolifere del Golfo anch’esse protette dai poteri neocoloniali. Infine, l’infelicità stessa del pensiero a cui è vietata ogni evasione, ogni ricerca, ogni sperimentazione, quindi, ogni libertà.
L’elenco dell’immediato passato storico di questo mondo è agghiacciante: la prima questione palestinese e l’umiliante conflitto arabo israeliano, la crisi di Suez, la guerra d’Algeria, la guerra libanese, la continua diaspora palestinese, il lago di sangue della guerra tra Iraq ed Iran, il massacro di Sabra e Chatila, la prima e seconda guerra civile in Sudan, la guerra civile in Algeria,
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Le stesse cose che ritornano
L’Europa e il nostro sciopero contro la miseria del presente
Insieme a molti altri abbiamo ripetuto che l’Europa è il terreno minimo di lotta. Di fronte agli stati di emergenza, al terrorismo di Daesh, alle guerre dichiarate o semplicemente praticate, dopo le recenti elezioni francesi sembra di essere catturati in un’infinita involuzione europea. Sembra che le stesse cose continuino a ritornare per minacciarci con la loro miseria. Eppure proprio di fronte a tutto questo noi siamo quanto mai convinti che l’unica scelta praticabile sia fare dell’Europa un terreno di scontro diverso da quello che ci vogliono imporre. La scala di tutti i processi nei quali siamo coinvolti è quanto meno europea: la cupa oppressione che grava su di noi non rispetta i confini nazionali, i movimenti sui quali possiamo fare affidamento ci attraversano senza pace. La difficoltà del momento risiede nell’essere all’altezza di queste dimensioni transnazionali. Nessuno oggi può difendere l’Europa realmente esistente, possiamo solo utilizzare questo spazio mobile, solcato da profonde differenze, per costruire un progetto politico di liberazione dal regime globale di sfruttamento, guerra e terrore. Solo dentro l’Europa e contro l’Europa rivela il suo senso politico la proposta lanciata a Póznan di una giornata di scioperi e iniziative coordinate a partire dalla centralità politica del lavoro migrante. Il primo marzo 2016 deve essere l’esperimento su scala europea del nostro sciopero contro la paura. In gioco c’è molto di più di una giornata di solidarietà con i migranti. In gioco c’è la nostra capacità collettiva di rovesciare le miserie del presente.
Lo diciamo chiaramente: dentro alla presente condizione dell’Europa, il lavoro migrante non solo può rendere realmente sociale e transnazionale lo sciopero, ma può anche lanciare un segnale di insubordinazione nei confronti di un regime fatto di xenofobia, razzismo e precarietà.
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Compiti dello Stato nella fase transnazionale
di Maurizio Brignoli
La creazione delle grandi istituzioni sovranazionali del capitale si può far partire dalla fondazione nel 1944 del Fmi e della Bm espressione di quel processo di perdita progressiva di una parte della sovranità degli stati
Finita la seconda guerra mondiale, quindi nella fase multinazionale, lo stato (del capitale) non svolge più un intervento diretto, attraverso la partecipazione alla proprietà e alla produzione industriale, per realizzare la socializzazione delle perdite come nella precedente fase di crisi, ma non per questo riduce la sua attività economica che ora è indirizzata a un aumento della spesa collegato al processo di accumulazione del capitale e funzionale al processo di produzione e circolazione del plusvalore. Attraverso il finanziamento della ricerca scientifica e tramite l’istruzione pubblica, che fornisce forza-lavoro sempre più qualificata, lo stato favorisce le premesse per la realizzazione di forme sempre più intensive di lavoro. Lo stato sviluppa poi il welfare che non trasforma certo lo stato in un organismo neutrale nella lotta di classe, ma ha lo scopo di creare un moderno neocorporativismo.
Nella fase transnazionale il rapporto di esclusività fra capitale nazionale e stato è superato. Compito dello Stato diventa quello di svolgere un’opera di mediazione fra i diversi capitali in lotta, appoggiare il capitale finanziario dominante che opera sul suo territorio e porre in atto le direttive che vengono da Fmi e Bm. Terminata la fase espansiva e iniziata l’ultima crisi muta anche il ruolo dello stato borghese che non deve più utilizzare gli strumenti “keynesiani” e il mantenimento del welfare per moderare il conflitto di classe (pratica del resto non più perseguibile data la fine della fase espansiva).
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V. Putin: missili contro ISIS armabili con testate nucleari
Ash Carter: siamo in guerra con l’ISIS. Il messaggio tra le righe
di Federico Dezzani
“I moderni missili impiegati dalla forze armate russe in Siria possono essere armati con testate nucleari, sebbene non sia ovviamente necessario”, afferma Vladimir Putin: l’evanescente stampa occidentale non ha colto un lapalissiano avvertimento che durante la Guerra Fredda avrebbe allertato qualsiasi “cremlinologo”. Non è l’impegno a non usare armi nucleari contro l’ISIS, bensì l’evocazione stessa delle testate atomiche, il messaggio che Putin lancia all’Occidente: aumentate il tono dello scontro in Siria ed Iraq e sarà guerra. La situazione militare del Califfato volge infatti al peggio e gli angloamericani con i vari alleati NATO raddoppiano gli sforzi per evitare che Mosca e Teheran li espellano dalla regione. La Turchia di Recep Erdogan è impiegata da Washington e Londra per il lavoro sporco e ricopre lo stesso ruolo che ebbe la Serbia nel 1914.
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Quando il contesto è più importante del testo
L’occasione del discorso è l’incontro al Cremlino tra il presidente russo Vladimir Putin ed il ministro della Difesa Sergey Shoigu per discutere degli sviluppi militari in Siria: la mattina dell’8 dicembre il sottomarino “Rostov sul Don”, un moderno esemplare della categoria Kilo-class a propulsione diesel-elettrica, è emerso dalla acque del Mediterraneo orientale per il lancio 1 dei missili Kalibr che, dopo aver sorvolato i cieli della Siria, esplodono in riva all’Eufrate, a Raqqa, distruggendo due postazioni dell’ISIS.
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Sicurezza per chi?
Valerio Romitelli
Riflessioni intorno al libro (In) sicurezze. Sguardi sul mondo neoliberale fra antropologia, sociologia e studi politici ( a cura di Javier Gonzalez Diez, Stefano Pratesi , Ana Cristina Vargas), Novalogos, Aprilia, 2014
Dalla seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso Michel Foucault ha quasi profeticamente cominciato a studiare il tema della “sicurezza” come categoria preminente delle dottrine e strategie di governo in occidente. L’avvenire doveva poi confermare questa preminenza oggi più che mai trionfante. La cosiddetta terza guerra mondiale in corso non è infatti che una tra le maggiori conseguenze dell’imporsi a livello mondiale di tali strategie occidentali all’insegna della “sicurezza”.
Per capire come si è potuti giungere a tanto vale la pena di provare a ricordarsi di quando tutto ciò ha cominciato a emergere come una tendenza irrefrenabile. Vale la pena di provare di ricordarsi della seconda metà degli anni ’70, appunto.
Cosa è dunque successo di così clamoroso in questo tempo? Qualcosa che l’informazione oggi dominante tenta in ogni modo di rimuovere. Qualcosa che non si lascia omologare dalle ossessive litanie divenute praticamente obbligatorie sul ’900 come “secolo buio”, della violenza e dei totalitarismi. Qualcosa che deve essere rimosso per far dimenticare quell’epoca incredibilmente diversa dall’attuale, quando la prima dichiarata preoccupazione degli Stati occidentali non era la “sicurezza”, ma il “benessere”, e ciò su scala non solo nazionale, ma anche globale . Ad esaurirsi in questa seconda metà degli anni ’70 sono infatti quei “trent’anni gloriosi” (1945/75 ) durante i quali si era assistito al trionfo in Europa, ma anche altrove, dello “Stato sociale”, del “Welfare State”, con tutte le conseguenze del caso in termini di accrescimento globale della giustizia sociale.
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Di cosa si occupano gli economisti?
di Guglielmo Forges Davanzati *
La riforma dell’Università italiana, e il suo sottofinanziamento, hanno accentuato l’egemonia del mainstream liberista e contribuito al proliferare di studi caratterizzati dall’espulsione di qualunque elemento politico dal discorso economico e dalla sostanziale irrilevanza dell’oggetto di studio. Una galassia di teorie che spesso si traducono in esercizi autoreferenziali o bizzarri, nella convinzione che l’Economia sia una scienza nell’accezione della Fisica Teorica.
L’Economia è una disciplina che orienta le decisioni politiche e che, per questo tramite, influisce in modo significativo sulle nostre condizioni di vita e di lavoro. Chiedersi di cosa si occupano gli economisti, in Italia e non solo, non è dunque una domanda oziosa.
Il punto di partenza è dato dalla constatazione che questo non è un periodo particolarmente fecondo di nuove idee. È quello che Alessandro Roncaglia, nel suo testo La ricchezza delle idee, ha definito l’età della disgregazione. La ricerca in Economia, non solo in Italia, è sempre più frammentata e specialistica, e soprattutto sempre più ‘autistica’: gli economisti tendono a dialogare esclusivamente fra loro, spesso coprendo di sofisticati tecnicismi o montagne di matematica pure banalità, tautologie o, nella migliore delle ipotesi, teorie che non “spiegano” nulla, né hanno l’ambizione di farlo[1].
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Comunisti, oggi. Il Partito e la sua visione del mondo
Hans Heinz Holz
Prefazione di Stefano Garroni
Già a partire dal 1968, chi avesse detto <sono comunista>, avrebbe detto qualcosa dal significato non chiaro, ma sì equivoco.
Voglio dire, restando nel confine di casa nostra, che il dichiarante avrebbe potuto essere, indifferentemente, un militante di Potere operaio o del Pc d’I, della Quarta Internazionale o di Lotta continua e così via; avrebbe potuto essere, dunque, portatore di analisi, lotte e prospettive sensibilmente diverse tra di loro ed anche opposte, per certi versi.
Gli anni successivi, fino a giungere allo sciagurato 1989 e seguenti, non hanno certo semplificato la situazione, al contrario: oggi più che mai dire <sono comunista> risulta dare un’informazione pressocché incomprensibile.
Un merito del libro di Holz è invertire questa tendenza e dare, invece, un preciso contributo al restituire un senso determinato al nostro asserto, <sono comunista>.
A tutta prima, l’operazione di Holz sembra un esempio del classico ‘uovo di Colombo’: comunista, egli dice, è chi si riconosce nell’intera storia del movimento comunista, appunto.
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I limiti di un processo politico antimperialista
Riflessioni sulla sconfitta elettorale in Venezuela
di Militant
La vittoria delle destre golpiste in Venezuela è un problema che riguarda soprattutto la sinistra latinoamericana, ma offre diversi spunti di riflessione anche per ragionare sui limiti della sinistra in quanto tale, per sinistra intendendo qui ovviamente quella di classe e non le propaggini liberiste oggi al potere in Italia e nel resto d’Europa. Insomma il (grandioso) processo bolivariano antimperialista soffriva di limiti politici già evidenti prima della sconfitta elettorale, dei limiti che niente hanno a che fare con le critiche che le sinistre “euroimperiali” muovevano ad esso, ma su cui pure toccherà ragionare per il futuro e in vista della riconquista del potere in Venezuela. L’unica premessa a tale discorso è che noi, come sinistra europea, niente possiamo insegnare a quella latinoamericana oggi al potere, e anzi avremmo dovuto in questi anni umilmente prendere esempio di un processo popolare, partecipato e di classe capace di partire dalle masse diseredate delle periferie metropolitane e dalle campagne contadine per giungere al governo e da lì incrinare l’egemonia imperialista nella regione. Se pure delle criticità sono presenti e vanno giustamente evidenziate, quello che invece non va fatto è spiegare “come si fa” a una sinistra che in un ventennio ha guidato un intero continente, nella sua veste socialdemocratica o più schiettamente socialista (ad eccezione della Colombia terrorista).
La sinistra bolivariana è stata sconfitta elettoralmente, e proprio il dato elettorale rappresenta la principale contraddizione interna ad un processo rivoluzionario.
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I territori perduti della République
di Marco Assennato
«Il Front National è il solo fronte davvero repubblicano, perché è il solo a difendere la nazione e la sua sovranità. È anche il solo fronte che potrà riconquistare i territori perduti della République, a partire da Calais o dalle nostre banlieues».
Il primo commento di Marine Le Pen ai risultati delle elezioni regionali francesi del 6 dicembre 2015 è un capolavoro di chiarezza e di logica politica. Addirittura perfido, nel riprendere quell’espressione marziale, tanto cara al primo ministro Manuel Valls – Riconquistare i territori perduti della République! – il quale ne aveva fatto una bandiera già dopo l’attacco stragista del gennaio 2015. Se questo è il programma fondamentale del governo socialista, dice la Le Pen, allora il popolo francese sa scegliere chi può coerentemente interpretarlo. Poi ne individua i luoghi simbolici: le banlieues, tane di quel popolo altro che si nasconde tra le folle di Francia, territori perciò di riconquista della guerra civile proclamata dal duo Hollande-Valls; e Calais, giungla di profughi, immigrati, invasori, da ripulire una volta e per tutte dalla peste straniera. Stato d’emergenza, divieto di manifestare e di riunirsi in assemblea, guerra interna ed esterna: chi meglio dei neofascisti blumarine può ambire a suonare su tale spartito?
La destra e la sinistra paiono confondersi, indistinguibili. In verità l’espressione di Manuel Valls ha una storia precisa e relativamente recente. Les Territoires perdus de la République, infatti, è il titolo di una raccolta di saggi pubblicati nel 2002 da Mille et une Nuit, sotto la direzione di Emmannuel Brenner.
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Microfisica della bêtise
Come distruggere l’università e vivere felici
di Federico Bertoni
Non amo affatto Michel Houellebecq, mi irrita da morire. Segno forse che è un vero scrittore, perché lo scopo primario della sua scrittura sembra proprio quello di irritare il lettore (e ancor più la lettrice). Ma c’è un dettaglio che mi ha colpito molto in Sottomissione, a parte gli astuti e tendenziosi richiami alla situazione che sta sgretolando il nostro (?) mondo. Qualunque cosa accada, nota a più riprese Houellebecq, l’Amministrazione non ti lascia in pace: ti bracca, ti raggiunge ovunque. Può esserci il panico, la rivoluzione, la guerra civile o lo stato di emergenza, ma a un certo punto torni a casa e trovi una bolletta delle tasse o una multa non pagata. Mi viene anche in mente, su un registro molto diverso, un capitolo esilarante del Pensatore solitario di Ermanno Cavazzoni, in cui si descrivono le peripezie di un ipotetico eremita dei nostri giorni, che prima di potersi dare a una vita di sacrosanta solitudine e ascetiche meditazioni nel deserto dovrebbe fare i conti con Equitalia, il commercialista, la tassa dei rifiuti, l’avvocato dell’ex-moglie e via dicendo.
Figurarsi uno come me, che non pensa (più) a fare il rivoluzionario o l’eremita ma ha un posto ben integrato nel sistema universitario del nostro Paese, e che vorrebbe solo studiare e insegnare in santa pace, pretese ormai velleitarie e antisociali in un mondo che regolamenta anche il dissenso e che pretende di misurare tutto,
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Magari fosse truffa
Qualche punto fermo sulla crisi del sistema bancario italiano
nique la police
Non ci vuole molto a capire che questo paese è stato rovinato da Tangentopoli. Ma in un preciso senso: l’impatto mediatico delle inchieste della magistratura milanese dell’epoca ha fatto credere che i problemi italiani fossero risolvibili insistendo sulla sfera morale. Da allora si sono susseguiti, e continuano a farlo, movimenti di moralizzazione della vita pubblica anche molto diversi tra loro. Legati più o meno dallo stesso mito: l’idea che la moralizzazione fattasi regime, e processi con tanto di condanna, avrebbe riportato il paese in equilibrio. E si parla di movimenti spesso legati tra loro, ovviamente, dalla stessa modalità di fallimento non di rado risoltasi in parodia (la Lega di Bossi tra gioielli e titoli della Tanzania; il Prc di Bertinotti, genere moralizzazione di sinistra, col leader imprigionato nei pigiama party dell’alta società; l’Idv di Di Pietro affondata in pochi giorni dopo l’inchiesta di una trasmissione televisiva). Per entrare nelle criticità reali della società italiana molto più di Marco Travaglio, la politica di questo paese avrebbe dovuto affrontare Marc Abèles. Autore che ci spiega le complesse modalità a rete della dissipazione delle risorse comuni come avvengono dagli stati africani alla governance europea (mentre i movimenti di moralizzazione sono fermi all’idea generica della “casta”, a quella che non spiega niente delle “mafie” o, peggio, alla categoria banale dei “corrotti con i complici”). Già perchè il sovrapporsi di crisi sistemiche della società italiana, che ne vive diverse dalla caduta del muro di Berlino, genera complesse e aggressive reti di appropriazione di beni pubblici assai voraci, che si giocano la propria sopravvivenza, e capaci di infiltrarsi ampiamente dei movimenti legati ai processi di moralizzazione.
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