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manifesto

Una teoria che non fa scuola

Stefano Petrucciani

Dopo anni di ricerca ai margini dell’industria culturale e in piena egemonia neoliberale, «Una storia del marxismo» è l’importante iniziativa editoriale in tre volumi della Carocci. Pubblichiamo un brano dell’introduzione del curatore

08clt1marx on your mind 001L’impatto che Karl Marx ha avuto sulla storia del XIX e del XX secolo è stato così forte da non poter essere paragonato a quello di nessun altro pensatore. Solo i fondatori delle grandi religioni hanno lasciato alla storia del mondo una eredità più grande, influente e persistente di quella che si deve al pensatore di Treviri. Ma per capire che tipo di influenza ha avuto la figura di Marx sulla storia del suo tempo e di quello successivo, bisogna mettere a fuoco un aspetto che concorre con altri a determinarne la singolarità: l’attività di Marx si è caratterizzata per il fatto che Marx è stato al tempo stesso un pensatore e un organizzatore/leader politico, e di statura straordinaria in entrambi i campi. Notevolissima è stata la ricaduta che le sue teorie hanno avuto sul pensiero sociale, filosofico e storico, ma ancor più grande, anche se non immediato, è stato l’impatto che la sua attività di dirigente politico (dalla stesura del Manifesto del Partito Comunista alla fondazione della Prima Internazionale) ha lasciato alla storia successiva.

Certo, una duplice dimensione di questo tipo non appartiene solo a Marx: la si può anche ritrovare in grandi leader che furono suoi antagonisti, da Proudhon a Mazzini a Bakunin. Ma in Marx entrambe le dimensioni, quella della costruzione teorica e quella della visione politica, attingono una potenza che manca a questi suoi pur importanti antagonisti. Sul piano della organizzazione politica dall’attività di Marx sono infatti derivati, nel tempo e attraverso complesse mediazioni, i partiti socialdemocratici e poi quelli comunisti che hanno inciso così largamente nella storia del Novecento. Sul piano teorico, invece, Marx ha influenzato, e continua a segnare ancora oggi, una parte non trascurabile della cultura che dopo di lui si è sviluppata.

 

La forza degli inediti

Un aspetto di questa duplice eredità di Marx è stato proprio quello che si suole definire «marxismo». Anche la realtà politico-culturale che si designa con questo termine è stata qualcosa di assai singolare perché ha avuto una duplice natura: da un lato è stata una corrente culturale presente in modo più o meno intenso nei vari ambiti disciplinari, dall’altro è stata anche il riferimento «statutario» di partiti e organizzazioni politiche (socialiste o comuniste): cosicché le discussioni sul marxismo per un verso si sono dipanate come un libero dibattito culturale, per altro verso sono state un elemento della lotta politica tra frazioni e gruppi all’interno del movimento operaio e dei suoi partiti.

Ma che rapporto c’è tra il pensiero Marx e il «marxismo»? Un primo aspetto che deve essere messo a fuoco, se si vuole ragionare su questo punto, è che la conoscenza e la diffusione dell’opera di Marx è stata, durante la sua vita e nel tempo immediatamente successivo, decisamente molto limitata. Anzi si potrebbe dire che, su questo tema, viene alla luce una sorta di contraddizione. Colui che è divenuto la fonte ispiratrice di un «ismo», e cioè di qualcosa che comporta inevitabilmente una certa dogmatizzazione, aveva con la propria opera un rapporto decisamente molto critico e problematico.

Molti dei suoi scritti, Marx li lasciò semplicemente inediti, per la gioia di coloro che li scoprirono o li pubblicarono quaranta o cinquant’anni dopo la sua morte. E agli inediti appartengono, questo può essere interessante da ricordare, la gran parte dei testi sui quali si è affaticato il dibattito marxista a partire dagli anni Venti del Novecento: vivente, Marx non pubblicò né la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (scritta nel 1843, a 25 anni), né i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844.

Non solo, abbandonò in soffitta, alla critica distruttiva dei topi, (seppure dopo alcuni tentativi di pubblicazione non andati a buon fine) anche quello che era un vero e proprio libro scritto con la collaborazione dell’amico Engels, L’ideologia tedesca; un testo non certo trascurabile, dato che vi si trova la prima e la più ampia delineazione di quella «concezione materialistica della storia» che costituisce uno degli apporti più significativi di Marx alla vicenda del pensiero moderno. Di una enorme quantità di manoscritti concernenti la critica dell’economia politica Marx pubblicò pochissimo; in sostanza, solo il primo libro del Capitale (1867, e successive edizioni rimaneggiate) e quella anticipazione delle prime parti di esso che è Per la critica dell’economia politica (1859). I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (noti anche come Grundrisse), così importanti per la discussione marxista degli ultimi decenni del Novecento, furono conosciuti in pratica solo dopo l’edizione che uscì in Germania orientale nel 1953.

Come Engels giustamente osservava commemorando l’amico, però, non si può parlare di Marx tralasciando l’altro aspetto della sua personalità, quello di militante e dirigente politico. «Lo scienziato non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. La lotta era il suo elemento. E ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto».

 

Una visione politica

In tutta la sua vita, anche se con alcune interruzioni, Marx è stato un militante e un dirigente politico ma soprattutto, come scriveva Engels, un combattente, che ha lottato per affermare i suoi punti di vista sia verso l’esterno sia all’interno delle organizzazioni di cui era parte. Come politico, dunque, Marx ha sviluppato una ben precisa visione della lotta e della emancipazione della classe operaia, che contrastava nettamente con quelle che venivano proposte dai molti leader con i quali egli si confrontò in quarant’anni di lotta politica: da Proudhon a Lassalle, da Mazzini a Bakunin.

La più netta delle opzioni politiche di Marx è la tesi secondo la quale non vi è salvezza attraverso il miglioramento del sistema sociale dato, ma solo attraverso il suo rovesciamento, cioè attraverso la negazione dei pilastri su cui si basa la sua economia, la proprietà privata delle risorse produttive e la mercificazione dei beni e del lavoro. Sull’opzione antiriformista e rivoluzionaria Marx non avrà mai dubbi, e questo lo divide sia da altri socialisti del suo tempo, sia da quelli che, pur partendo dalle sue acquisizioni, le curveranno in una direzione gradualista o migliorista.

Al testamento spirituale di Marx appartengono organicamente le polemiche che, negli ultimi anni della sua vita, egli indirizza contro l’ala moderata della socialdemocrazia tedesca (vedi ad esempio l’importante lettera ai leader Bebel, Liebknecht e altri, inviata da Londra nel settembre del 1879), il grande partito che, fortemente influenzato dalla sua dottrina, si avviava però, in alcune sue componenti, a darne una lettura riformista o «revisionista».

Ma torniamo al processo di formazione del «marxismo»: gli storici ci informano che l’aggettivo «marxista» viene dapprima utilizzato con un significato dispregiativo: all’interno della Prima Internazionale (fondata nel 1864) i nemici della corrente che fa capo a Marx, e primi fra tutti i seguaci di Bakunin, indicano come «marxidi», «marxiani» (termine modellato forse su quello di «mazziniani») e più tardi come «marxisti» coloro che si rifanno alle tesi del pensatore di Treviri.

 

Le accuse di settarismo

I «marxisti» sono visti dai loro nemici anarchici come una frazione settaria e autoritaria che cerca di egemonizzare l’Associazione internazionale dei lavoratori. Quanto al sostantivo «marxismo», si può affermare per certo che esso (sempre con un significato polemico) compare nel 1882 nel titolo di un pamphlet di Paul Brousse (ex anarchico francese): Le marxisme dans l’Internationale. Il contesto in cui si inserisce il libello è quello del confronto interno al socialismo francese tra un’ala riformista e una rivoluzionaria ispirata a Marx e facente capo a Jules Guesde; e fu proprio in riferimento a questa contesa che Marx ebbe occasione di osservare, conversando con Paul Lafargue: «Una cosa è certa, che io non sono marxista». Ciò non vuol dire che Marx non fosse d’accordo con se stesso o che fosse contrario al «marxismo». La questione è tutt’altra: se Jules Guesde veniva accusato, dai suoi nemici, di obbedire agli ordini di un «prussiano» che viveva a Londra e che pretendeva di dare indicazioni al socialismo francese, Marx invece non si sentiva così vicino al leader in questione, e dunque ci teneva a sottolineare che non vi era una netta identificazione tra lui e la corrente francese che al suo nome veniva accostata.

Sta di fatto, comunque, che il termine «marxista», dapprima usato in senso critico e polemico soprattutto dagli anarchici, venne positivamente fatto proprio, negli anni Ottanta, dall’ala più radicale dei socialisti francesi: «A poco a poco, i discepoli di Marx in Francia presero l’abitudine di accettare una denominazione che non avevano creato loro e che, destinata fin dall’inizio a distinguerli dalle altre frazioni socialiste, si trasformò alla fine in una etichetta politica e ideologica» (Maximilien Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli).

Fu così che anche Engels, che dapprima non aveva visto con favore l’uso di un termine che, come «marxismo», personalizzava eccessivamente la linea del movimento socialista rivoluzionario, finì per accettarlo e legittimarne l’uso, ovvero per convertire in positivo una parola che era nata con un senso tutto diverso. Come ha ricordato Maximilien Rubel, la cui attitudine nei confronti del compagno di Marx è peraltro, va ricordato, duramente polemica, in una interessante lettera dell’11 giugno 1889 a Laura Lafargue, Engels osservava con soddisfazione che gli anarchici si sarebbero mangiati le mani per avere creato questa denominazione destinata a divenire nel tempo la bandiera di chi la pensava in modo opposto a loro. E, anche con l’imprimatur di Engels, il termine marxismo cominciò ad affermarsi pure nella socialdemocrazia tedesca, della quale sarebbe divenuto il riferimento costante e talvolta anche ossessivo.

 

Il rischio del fideismo

Ma il punto più importante che deve essere sottolineato è che il ruolo di Engels andò ben oltre quello di legittimare la parola «marxismo». Ciò che molti (tra cui Rubel) hanno sostenuto, infatti, è che Engels fu il vero padre del marxismo nel senso che fu colui al quale si deve non tanto la parola ma proprio la cosa; ovvero fu colui che trasformò il pensiero di Marx in un «ismo», cioè in un sistema di pensiero catafratto e onnicomprensivo, da prendersi in blocco con rischi di dogmatismo e di fideismo.

Si annida qui un problema, o se volgiamo un paradosso, sul quale vale la pena di fermarsi per un momento a riflettere. La storia degli effetti del pensiero di Marx è segnata allo stesso tempo, verrebbe voglia di dire, da una vittoria e da una sconfitta: l’eccezionale risultato che il pensiero di Marx conseguì, e che ne fa qualcosa di unico e di difficilmente paragonabile ad altri percorsi teorici, fu quello di riuscire effettivamente a realizzare l’obiettivo che il giovane Marx si era posto fin dal 1845: superare la scissione tra la teoria e la prassi, ovvero dare vita a una teoria che potesse anche diventare una operativa forza di trasformazione del mondo. Proprio questo accadde nel momento in cui nacquero e si svilupparono partiti e organizzazioni politiche che assumevano questa teoria come loro punto di riferimento ideale.

Questo processo comportò però una conseguenza non altrettanto positiva: divenendo il riferimento «statutario» di partiti e organizzazioni il pensiero di Marx non poté più essere considerato come l’approdo di una ricerca teorica per tanti aspetti anche problematica e incompiuta, da svolgersi e magari da superarsi criticamente, ma fu esposto alla conseguenza di irrigidirsi in una «dottrina», di subire un processo di ossificazione poco compatibile con l’idea di una ininterrotta ricerca critica.

Comments

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Eros Barone
Saturday, 12 December 2015 14:09
Leggendo la densa e appassionante biografia intitolata «La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels», che lo storico inglese Tristram Hunt ha dedicato a colui che è stato, assieme a Karl Marx, il cofondatore del socialismo scientifico, mi è tornato in mente, per contrasto, il commento che fu espresso da Fausto Bertinotti sulla scelta del Partito democratico, quando questo, in occasione della campagna elettorale del 2008, scelse di abbinare alla candidatura di un imprenditore la candidatura di un operaio: un commento (“uno dei due è di troppo”) che implicitamente poneva la questione del rapporto tra origine sociale e orientamento politico. Orbene, è doveroso osservare che quel commento, se da un lato era diretto contro un’operazione di segno tipicamente interclassista, dall’altro non esprimeva affatto una posizione di classe riconducibile alla concezione marxiana o alla tradizione marxista, bensì una posizione risalente all’ideologia operaista di Pierre-Joseph Proudhon, il quale faceva derivare meccanicamente l’orientamento politico dall’origine sociale. Basti pensare che, se un simile criterio fosse valido, il movimento operaio avrebbe dovuto escludere dal suo seno gli stessi fondatori del socialismo scientifico, in quanto Marx era figlio di un esponente della media borghesia intellettuale ed Engels non solo era figlio di un industriale tessile, ma svolse lui stesso tale attività dopo essere subentrato al padre, in séguito alla morte di quest’ultimo, quale imprenditore dell’azienda che la famiglia Engels possedeva a Manchester.

La dottrina del socialismo scientifico, d’altronde, non sarebbe mai potuta sorgere se alla sua elaborazione non avessero recato un contributo decisivo intellettuali di origi-ne borghese che, come Marx ed Engels, ruppero con la classe di appartenenza e posero le loro capacità intellettuali al servizio della classe del proletariato e della causa del comunismo. Occorre inoltre sottolineare che, come lo stesso Engels non si stancò mai di ribadire, il comunismo è la causa della liberazione (non di una classe ma) dell’intera umanità. Ciò comporta che a tale causa possano (e debbano) aderire persone che appartengono a tutti gli strati sociali e che individuano nel partito comunista e nella dottrina marxista lo strumento della loro unificazione ideale, organizzativa e politica sul terreno della lotta rivoluzionaria contro il sistema capitalistico di produzione e di scambio, per la costruzione di una “società nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti”.

Sennonché, mentre si è parlato e scritto molto su Marx, spesso si è sorvolato sui rapporti fra il suo pensiero e quello di Engels, quasi che molti degli scritti di Engels abbiano rappresentato un peso morto per il marxismo. A questa svalutazione, che trapela anche dallo scritto di Stefano Petrucciani, ha reagito Ludovico Geymonat, uno dei maggiori pensatori italiani della seconda metà del Novecento, che in uno specifico capitolo della sua «Storia del pensiero filosofico e scientifico», riassumendo le critiche rivolte all’attività teorica di Engels (quella di
essere un positivista e quella di essere un semplice ripetitore di Hegel), fornisce una risposta argomentata con cui, oltre a fare giustizia di certo anti-engelsismo di maniera, delinea la propria posizione filosofica. Il pensatore torinese ricorda, in primo luogo, che Engels, avendo compreso che il positivismo rappresentava nell'Ottocento l’erede diretto dell’illuminismo, di cui proseguì le più significative battaglie (contro l’oscurantismo clericale e a favore del pieno riconoscimento dell’importanza teorica e pratica della scienza), ed essendo cosciente della sua importanza (non tanto quale corrente filosofica quanto) quale espressione dell’atmosfera culturale diffùsasi in Europa a causa dei successi della ricerca tecnico-scientifica, sostenne che la classe operaia, che era portatrice di una nuova cultura, doveva schierarsi accanto ai positivisti e non contro di essi (cioè non a fianco dell'irrazionalismo), pur combattendone instancabilmente gli errori filosofici e le tendenze metafisiche. Geymonat spiega, in secondo luogo, come Engels, nel portare avanti tale battaglia, abbia riscoperto l’importanza e il valore, sul piano razionale, della filosofia hegeliana. Da queste premesse Geymonat deduce l’esigenza di ricercare la sintesi fra la ragione scientifica moderna (espressa dal positivismo) e la ragione dialettica moderna (espressa dall’idealismo), di scoprire, cioè, il nesso intimo fra le due impostazioni culturali, anziché contrapporre l’una all’altra, come fanno sia gli apologeti della scienza che i suoi denigratori.

Eppure sarebbero già sufficienti due citazioni chiave dal fittissimo epistolario fra Marx ed Engels per delineare nitidamente il rapporto di complementarità che legava i due inseparabili amici e per fare giustizia della svalutazione che ha condizionato a lungo (e, a quanto apre, condiziona ancora), soprattutto nel nostro paese, il giudizio sul fondamentale contributo di Engels alla formazione e allo sviluppo del pensiero comunista moderno. Fermo restando che, come ebbe a dire in occasione della sua morte, Marx “era un genio, mentre noialtri al massimo avevamo talento”, in una lettera del 17 marzo 1845, scritta alcuni decenni prima, Engels così definiva la personalità intellettuale del grande amico: “Suppongo…a giudicare…dal tuo carattere, che tu insisterai di più sulle premesse che sulle conseguenze”. Marx, dal canto suo, in una lettera del 4 luglio 1864 così tratteggiava il ruolo di Engels nella grande intrapresa della elaborazione congiunta del materialismo storico, della critica dell’economia politica e del socialismo scientifico: “Tu sai che: 1) a tutto io arrivo con ritardo e che: 2) io seguo sempre le tue orme”.

Vi sono dunque solidi motivi per attribuire a Engels un ruolo essenziale non solo nella divulgazione, ma anche nella elaborazione e nello sviluppo del pensiero comu-nista moderno. Alla luce di tali motivi, se è legittimo indicare in Engels “un esempio da seguire”, volendo con ciò sottolineare l’adesione del figlio di un industriale tessile alla causa del comunismo, è altrettanto legittimo affermare, prendendo spunto da un libro che ripropone meritoriamente la centralità della sua figura e del suo contributo nella storia del movimento operaio internazionale, la necessità di “usare il pensiero” di Engels, facendo di esso, così come di quello di Marx (giacché sono inscindibili), un’arma della lotta per l’emancipazione sociale.

* «Friedrich Engels - Un esempio da seguire, un pensiero da usare» è il titolo del volume in cui sono raccolti gli Atti del convegno nazionale di studi organizzato dal Centro Italiano di Studi Engelsiani e svoltosi a Gallarate nel 1995 in occasione del centenario della morte di Engels.
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