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ilcomunista

Comunisti, oggi. Il Partito e la sua visione del mondo

Hans Heinz Holz

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Prefazione di Stefano Garroni

Già a partire dal 1968, chi avesse detto <sono comunista>, avrebbe detto qualcosa dal significato non chiaro, ma sì equivoco.

Voglio  dire, restando nel confine di casa nostra, che il dichiarante avrebbe potuto essere, indifferentemente, un militante di Potere operaio o del Pc d’I, della Quarta Internazionale o di Lotta continua e così via; avrebbe potuto essere, dunque, portatore di analisi, lotte e prospettive sensibilmente diverse tra di loro ed anche opposte, per certi versi.

Gli anni successivi, fino a giungere allo sciagurato 1989 e seguenti, non hanno certo semplificato la situazione, al contrario: oggi più che mai dire <sono comunista> risulta dare un’informazione pressocché incomprensibile.

Un merito del libro di Holz è invertire questa tendenza e dare, invece, un preciso contributo al restituire un senso determinato al nostro asserto, <sono comunista>.

A tutta prima, l’operazione di Holz sembra un esempio del classico ‘uovo di Colombo’: comunista, egli dice, è chi si riconosce nell’intera storia del movimento comunista, appunto.

Sembra posizione troppo ovvia e facile; sennonché, una caratteristica molto diffusa tra coloro che, oggi, si definiscono comunisti, è assumere la posizione di chi dice, invece, <fin qui sì, in seguito no>.

Il <fin qui> può variare: può essere la morte di Lenin o quella di Stalin, può essere il periodo brezhneviano o quello di Gorbaciov, non importa; ciò che resta è il criterio: la distinzione fra una storia buona ed una cattiva, un momento dell’ ortodossia ed uno dell’eterodossia, uno della ‘fedeltà’ ed un altro della ‘caduta’. Ciò che resta, dunque, è una concezione astratta, ideologica (rigorosamente, moralistica) della storia, invece che intendere quest’ultima come la scena -l’unica scena-, in cui la realtà si compie, attraverso le “torsioni e tensioni”, che fanno tutt’uno con l’essenza stessa di ciò che veramente esiste.

Al fondo di questi due atteggiamenti c’è un’opposizione fondamentale: l’uno, infatti, è un atteggiamento unilaterale, dunque, dogmatico; l’altro è critico, dunque, dialettico.

La mossa di Holz, allora, implicita il recupero, la franca riproposizione addirittura di una precisa prospettiva teorica:  quella  della dialettica  che, dalla filosofia classica tedesca (Leibniz, Kant, Hegel) giunge a Marx ed a Lenin. 

***

A questo punto comprendiamo che riconoscersi nell’intera storia comunista non significa ottusa, bolza, acritica accettazione/sacralizzazione del <già avvenuto>, ma esattamente l’opposto.

Significa, infatti, ricostruire la storia comunista come scena di scarti, dissonanze, difficoltà e contraddizioni reali, effettive; come succedersi di <situazioni>, di <occasioni date>, in cui scegliere entro margini, segnati sia dalle caratteristiche dei tempi che dalle capacità di comprensione. In questa chiave, la storia perde l’unilaterale caratteristica del <già avvenuto> (che, invece, viene esaltata da certa ideologia contemporanea che, non per caso, parla di memoria storica), per riconquistare, al contrario, la dimensione di processo non concluso, in cui la distinzione tra un ‘prima’ ed un ‘poi’ è sempre inevitabilmente, anche, arbitraria e convenzionale.

Storia è, infatti, anche il presente -in cui certe difficoltà e contraddizioni continuano; in cui si rovesciano le conseguenze di scelte operate in altri contesti; in cui, insomma, il ‘già vissuto’ s’intreccia inseparabilmente al ‘non ancora determinato’. In questo senso, recuperare -come Holz sollecita a fare e come appartiene all’orientamento dialettico- un rapporto critico con la storia comunista (tutta intera, senza falsificanti, astratte discriminazioni), fa tutt’uno col porsi criticamente nei confronti degli scenari politici, sociali, culturali dell’oggi. Già a questo punto possiamo rimarcare un tratto fondamentale del lavoro di Holz.

Comunisti, oggi è, certamente, un libro politico nel senso comune del termine. Tuttavia, non è libro volgare, dacché il modo, in cui Holz imposta il problema politico, immediatamente, è anche fortemente caratterizzato dal punto di vista teorico. Di qui, anche, la sua sottolineatura dei meriti acquisiti dal Partito comunista tedesco (DeutscheKommunistische Partei) per l’attività culturale che ha promosso e che ha saputo imporsi all’attenzione internazionale, non solo di parte comunista e marxista.

Ma di qui -più a fondo- una particolare continuità, che Holz stabilisce con la tradizione bolscevica (e di Lenin segnatamente): intendo la consapevolezza, costantemente presente nella sua pagina, che quello comunista non è un comune partito.

Non solo per gli interessi di classe che difende; non solo per gli obiettivi strettamente politici che si pone. Ma sì perché il suo progetto è quello di operare nel senso di una profonda trasformazione storica e, dunque, farsi fondamentale strumento di costruzione di un nuovo soggetto storico-universale: la classe lavoratrice.

E’ ovvio -e Holz lo sa bene-, le classi sociali hanno radici obiettive nel modo stesso in cui un certo sistema di produzione è costituito -e per questo aspetto è sensata, poniamo, quell’inchiesta, che vuol giungere ad una oggettiva descrizione della geografia sociale di una società data.

Tuttavia, classe operaia (o classe lavoratrice) non è categoria eminentemente sociologica, perché implica la maturazione e diffusione di una coscienza, così forte teoricamente, da elaborare sia la critica della ‘grammatica’ costitutiva della società capitalistica, sia le grandi linee dell’alternativa comunista, come unica risposta ai problemi fondamentali, che l’umanità oggi conosce. Questo è il tratto eminentemente bolscevico e leninista.

Il lettore del Che fare? sa bene come Lenin insistesse nell’assegnare al Partito rivoluzionario dei lavoratori non solo la funzione di avanguardia di classe, ma anche di avanguardia sociale in generale. Nel senso che i comunisti debbono riuscire a muoversi in tutte le contraddizioni, che il capitalismo produce, per mostrare come gli interessi della formazione sociale capitalistica, giunta ad un certo grado del suo sviluppo (l’imperialismo), entrino in contrasto radicale con gli interessi generalmente umani. E’ su questa base che può costruirsi l’egemonia della classe lavoratrice; ed è su questa base che la successiva dittatura del proletariato potrà coniugarsi con la vivacizzazione più larga dell’autogoverno sociale.

Il disegno, che Holz fa della società contemporanea -e, si badi, a partire da un osservatorio importantissimo, dalla Germania, dunque dal cuore stesso della ‘metropoli imperialistica’-, proprio questo mette in risalto: l’obiettivo contrapporsi, sempre più radicale e sempre più vicino al quadro disegnato da Marx, degli interessi dei grandi centri imperialistici, da un lato, e le esigenze vitali (materiali, morali e culturali) della stragrande parte dell’umanità odierna, dall’altro.

Costruire la classe lavoratrice significa, allora, che dall’obiettivo (solo obiettivo) moderno proletariato deve riuscire a formarsi -mediante esperienze di lotta, ma anche mediante una consapevole azione culturale, in entrambi le quali il partito sia direttamente impegnato- quel livello di coscienza teorica e scientifica, che metta in condizione i lavoratori di proporsi come nuova classe dirigente, in grado di gestire il grande patrimonio delle forze produttive moderne secondo una prospettiva sociale e democratica, affatto alternativa rispetto all’organizzazione capitalistica.

E’ in questo suo impegno che il partito deve riuscire a coniugare analisi del presente, rapporto critico con la storia e capacità di organizzazione e di lotta.

I tre momenti sono inseparabili, dacché non è possibile attività propriamente politica se non orientata, anche, da una consapevolezza teorica precisa delle tendenze profonde e contraddittorie dell’ attuale imperialismo; e dacché proprio il sistema imperialistico, anche il più evoluto, comporta l’ estendersi addirittura di enormi zone di arretratezza. Cosicché i comunisti si trovano sempre ad operare in un quadro, in cui raffinato sviluppo ed insuperabile sottosviluppo, esigenze evolute e necessità elementari coesistono non solo le une accanto alle altre, ma addirittura le une intimamente intrecciate con le altre.

Ciò significa, tra l’altro, che un carattere sempre più evidente -e pesantemente evidente- della società imperialistica è la miseria anche morale, che essa produce, l’imbarbarimento psicologico e culturale che esso fa coesistere con i più raffinati sviluppi scientifici, ma che comporta un processo di appiattimento delle coscienze, di perdita di ‘senso’ della stessa vita quotidiana.

Di qui, ovviamente, l’estendersi di una crisi -certo materiale, ma appunto anche morale-, che invade settori crescenti della società contemporanea, sia nelle aree evolute che in quelle sottosviluppate del mondo.

Altrettanto ovviamente di qui deriva, oggi, ai comunisti anche il compito di aprire nuovamente dimensioni di ‘senso’, prospettive di ‘significato’, insomma prospettive di civiltà, che non interessano solo i lavoratori, in quanto settore determinato della società attuale, ma più generalmente l’ uomo contemporaneo.

***

Indice:

Prefazione      di        Stefano Garroni.

1 capitolo:    I fondamenti della coscienza di sé da parte comunista.

2 capitolo:    I fondamenti filosofici del Partito Comunista Tedesco.

§.1    - Il carattere.

§.2    - La comprensione della storia.

§.3    - La dialettica della natura.

§.4    - Errori passati e prospettive future.

§.5    - Urgenti compiti, oggi, della teoria.

3 capitolo:   Carattere di un partito leninista.

§.1    - ll Che fare? di Lenin.

§.2    - La forza della teoria contro lo spontaneismo e l’irresponsabilità opportunistica.

§.3    - Rivoluzione nella e contro la società.

§.4    - Verità e partiticità.

§.5    - Missione storica e avanguardia della classe operaia.

§.6    - Excursus sulla dottrina del totalitarismo.

4 capitolo:    Lotte di classe.

§.1    - Interessi e coscienza di classe.

§.2    - Le basi organizzative della coscienza di classe.

§.3    - Mutamenti nella struttura di classe e compiti del Partito.

5 capitolo:    Il concetto di epoca.

§.1    - La rivoluzione tecnico-scientifica.

§.2    - Imperialismo e sottosviluppo.

§.3    - Riforme e rivoluzione.

§.4    - La Rivoluzione d’Ottobre come segno di una nuova epoca.

6 capitolo:    Crisi generale del capitalismo.

7 capitolo:    Modernizzazione o lotta di classe?

8 capitolo:    Riflessioni sul concetto di situazione politica.

§.1    - Essenza e manifestazione; connessione e contraddizione.

§.2    - Coscienza della crisi.

§.3    - Negazione determinata.

§.4    - Crisi generale del capitalismo e Rivoluzione d’Ottobre.

§.5    - Mutamenti nel movimento mondiale.

§.6    - I problemi umani come problemi di classe.

§.7    - Problemi del potere.

§.8    - Disintegrazione culturale.

§.9    - Il problema organizzativo.

 

1° capitolo - I fondamenti della coscienza di sé da parte comunista.

Dopo il crollo delle società socialiste in Europa orientale, fra molti militanti, ma anche tra diversi partiti comunisti, si è andata diffondendo una profonda insicurezza su cosa definisca l’essenza di un PC e su quali siano i compiti, che i suoi aderenti debbono porsi, se hanno da pensarsi, appunto, come comunisti. Le  molteplici violazioni delle norme leniniste di partito avvenute nel passato hanno seriamente scosso la concezione di sé da parte dei militanti; e da molti son stati posti in discussione i tratti fondamentali di un partito leninista o di un PC di tipo nuovo. Questa insicurezza ha certamente contribuito a destabilizzare la struttura organizzativa di partito ed ha reso insicuro lo stesso comportamento dei militanti; come anche ha introdotto incertezza su come debba esser costituito il partito, in quelle situazioni dove si rendeva necessario formare nuovi partiti comunisti. Da tutto ciò nasce la questione di quali debbano esseri i centrali punti di vista a cui atteneresi nella costruzione di un partito e per la definizione del suo lavoro organizzativo. Insomma, la questione è: cosa appartiene al concetto stesso di PC, una volta che un tale partito si desideri costruire? Quale deve esserne lo statuto e come deve realizzarsi nella vita stessa del partito?

In qualche modo, gli statuti di un’organizzazione son la sua Costituzione; negli statuti son fissati i principi e le regole della sua vita ma anche -e contemporaneamente- son date le linee fondamentali del senso e degli scopi dell’organizzazione stessa. Uno statuto è qualcosa di più generale e fondamentale che un programma, il quale indica un certo modo di muoversi, traducendo gli scopi fondamentali dell’organizzazione nel concreto di situazioni che mutano e di problemi particolari; i programmi possono e debbono essere, di volta in volta, riformulati, per adeguarsi alle esigenze degli svolgimenti storici; negli statuti, invece, è espresso il carattere epocale  di un’organizzazione, il senso e le finalità che ne definiscono l’essenza.

Che si ponga il problema della considerazione che un PC ha di sé, proprio questo è frutto della situazione storica. Con la caduta del sistema degli Stati socialisti e della stessa Unione Sovietica, l’intreccio delle condizioni politiche mondiali, nel cui contesto un partito si definisce comunista, è mutato rispetto al periodo precedente. Ciò non significa che siano nella sostanza cambiati la concezione della storia, sottesa al Manifesto di Marx ed Engels, e le finalità politiche fondamentali che da quella derivano per i comunisti: in caso contrario, non si dovrebbe più parlare di comunismo propriamente, ma di una qualche variante del socialismo -borghese, utopistico, piccolo-borghese ecc.- , tutte cose da cui, com’è noto, gli autori del Manifesto già presero nettamente le distanze. Ciò che è vero, piuttosto, è che mutato risulta l’ambiente politico, entro cui i comunisti -in quanto tali- son chiamati ad operare: è proprio di qui che nasce la questione di quale forma organizzativa debba darsi l’azione comunista.

La questione fondamentale per un PC, considerato in se stesso, è, in primo luogo, quale sia la particolarità, che lo distingue dagli altri partiti che, in contesti non socialisti, contribuiscono alla vita politica del paese: in cosa si differenzia da essi? Che cosa rende appunto comunisti gli aderenti di un PC? Su questo bisogna far bene chiarezza, posto che un PC non è una mera formazione elettoralistica. Ma già nel porsi della domanda si mostra una particolarità.

Manifestamente, ad un partito cristiano possono appartenere persone che, pure, considerano in modi diversi il loro esser cristiani (e, addirittura, possono aderirvi non cristiani). In cosa consista il cristianesimo del partito e cosa vi sia di cristiano nel partecipare alla sua attività, queste, non son cose che risultino adeguatamente precisate né per gli appartenenti al partito né per la sua dirigenza: appare sufficiente la comune appartenenza ad una tradizionale non specificata visione del mondo che, pure, prevede la possibilità di numerose varianti. Un legame di questo tipo sarebbe altrettanto valido per un PC? E se no, per quale motivo? Dal punto di vista organizzativo è, qui, in gioco l’ammissibilità o meno di correnti e frazioni, e per ogni organizzazione (non solo per il PC tedesco [1]) si pone il problema di quanto le sue strutture ed i suoi fini siano compatibili con quelli di altre organizzazioni o con il sostegno ad altre organizzazioni da parte dei propri militanti (penso, ad es., alla conclusione di incompatibilità del Partito socialdemocratico tedesco [2] in relazione alla militanza nel VVN [3]  e, poi, dell’Unione degli studenti socialisti [4]. Si trattava, certo, di precise delimitazioni a sinistra).

Nel proseguo intendo esporre la tesi che gli statuti di un PC devono precisare cosa ci si debba necessariamente attendere da un militante comunista, sotto il profilo sia del comportamento che delle fondamentali concezioni politiche e teoriche generali. Ciò è più di quanto usualmente è previsto negli statuti dei partiti, costruiti secondo il modello della democrazia borghese.

Questo qualcosa in più abbisogna di una fondazione; e questa fondazione deve, anche, mostrare che cosa rende essenzialmente diverso, dal punto di vista della concezione del mondo, un PC da movimenti fondamentalistici: il che è importante in quanto, di primo acchito, il fatto stesso di fissare i contenuti filosofici generali di un partito sembra, di necessità, caratterizzarlo come totalitario. Comunque, nel caso di un PC tedesco bisogna badare che gli scopi del partito e i doveri statutari dei suoi membri siano in accordo con la Costituzione (art. 9, comma 2 e art. 21) e con la legge sui partiti politici. [5]

Il comportamento politico dei comunisti si definisce per il fatto che essi hanno una concezione chiara, ma essenziale, delle condizioni, in cui si è svolto storicamente e si svolgerà lo sviluppo della società umana. Tale visione della storia offre, in particolare, una spiegazione dell’epoca presente, dunque, della contemporanea società borghese, caratterizzata dal rapporto di capitale. Al fondo di ciò stanno le seguenti concezioni:

-  gli uomini soddisfano i propri bisogni di vita mediante la produzione e non, come avviene per gli animali, mediante il semplice consumo dei beni, che la natura stessa offre;

-  mediante la produzione o come conseguenza dell’organizzazione sociale nascono nuovi bisogni, i quali sollecitano una nuova produzione e da ciò consegue un continuo sviluppo delle forze produttive;

-  questa produzione, in continuo sviluppo e differenziazione, ha effetti sulla società e, particolarmente, sulla divisione del lavoro;

-  mediante la produzione gli uomini entrano in relazioni sociali, che divengono sempre più complesse;

-  i rapporti di produzione debbono adeguarsi ai mutamenti, introdotti dai gradi diversi di sviluppo delle forze produttive;

-  la produzione basata sulla divisione del lavoro conduce alla proprietà privata degli strumenti di produzione, da cui nasce la divisione della società in classi, le quali partecipano in modo disuguale alla ripartizione del prodotto e della ricchezza sociali;

-  dagli interessi di classe derivano contraddizioni e, quindi, lotte di classe;

-  le classi, che traggono vantaggio dagli esistenti rapporti di produzione, si oppongono al loro cambiamento ed il loro adeguamento al livello di sviluppo delle forze produttive deve essere imposto con una lotta politica, orientata contro le esistenti strutture di potere.

Queste tesi fondamentali -derivanti, tutte, dalla prima- consentono di costruire un modello esplicativo valido per la storia dell’uomo e viene indicato col terminematerialismo storico. L’elemento di forza di tale semplice modello esplicativo consiste nel fatto che ad esso, come alla loro condizione fondamentale, possono esser ricondotti -immediatamente, oppure, attraverso mediazioni- tutti i più complessi processi storici.

Naturalmente, è in primo luogo attraverso l’immediata esperienza quotidiana e non per visione teoretica, che si giunge alla consapevolezza dell’ingiustizia, oppressione e sfruttamento, determinati dalla società e del modo di produzione e ad assumere un atteggiameno di rifiuto verso di essi. Marx ed Engels prima di pubblicare il Manifestocomunista, avevano scritto intorno alla Condizione della classe operaia in Inghilterra, alla Legge sul grano, alla  Legge sui furti di legna ed alla situazione dei contadini della Mosella. Le esperienze sulla propria pelle son sempre individuali; che esse derivino da generali rapporti di produzione e che abbiano alla loro base  generali rapporti sociali (anche se le manifestazioni di ciò risultano diverse caso per caso) è cosa a cui può giungersi, solo, attraverso un’attività astrattiva, che consente di connettere teoricamente le esperienze individuali e di scoprire le leggi a cui queste ultime rimandano. Il fatto è -come diceva Hegel- che non sappiamo lucidamente ciò che sappiamo comunemente. [6] Ma per modificare condizioni negative è necessario combatterle alla radice e non limitarsi alle loro manifestazioni di superficie. Quando in una società si trovano miseria, ingiustizia e distruzione, bisogna chiedersi cosa vi è di sbagliato nella costituzione, nella forma di organizzazione di quella società e come possano essere estirpate le cause del male.

Dandosi esperienze negative circa un’alternativa politica, si impone la necessità di una chiarificazione teoretica che sappia ricondurre esperienze e processi alle loro cause. Più è complessa la costruzione sociale, più specializzata è la produzione, più estesi e vari son gli scambi, più differenziati sono i bisogni, più complesso risulta ricavare il sistema di leggi che sta alla base di tutto ciò, con la conseguenza che resta oscuro il meccanismo dei processi economici e sociali. Quale comune lettore di giornali, ad es., potrebbe ricavar qualcosa di comprensibile dalle vicende quotidiane della Borsa? Chi potrebbe decifrare il bilancio di un grande consorzio o il piano economico interno di un Paese o di una Federazione? Quanto insensata è la ricerca del diritto difronte alle finezze dell’ordinamento civile! Chi potrebbe assumere una precisa posizione di fronte ai contraddittori giudizi degli esperti in materia di distruzione ambientale o circa la valutazione del rischio in materia di centrali atomiche? Se si volesse far dipendere la competenza politica del cittadino  dalle conoscenze di cui egli dispone -in materia di economia, di diritto, di scienza, di tecnica, ecc.- per essere in grado di prendere decisioni avvedute, allora oggi, nell’epoca della  rivoluzione tecnico-scientifica (d’ora in avanti, RTS), la democrazia sarebbe impossibile. I rappresentanti, invece, degli interessi privati sanno come piegare a loro vantaggio il coro variegato dei pareri degli esperti.

Quando si parla della teoria come fondamento del comportamento politico, non si vuol intendere quella conoscenza specialistica, ormai divenuta imperscrutabile, ma che invade ogni aspetto della vita pubblica e della specie umana. Nell’ambito della cultura specialistica, lo spezzettamento del sapere non fa che svilupparsi e ne sorgono esperti di ambiti sempre più ristretti. Invece, la teoria generale, che è richiesta per guidare razionalmente e pianificare gli sviluppi sociali, deve saper estrapolare dalla massa degli accadimenti le forme sincroniche e diacroniche semplici, per consentire di orientarsi di fronte ad un complesso apparentemente inestricabile. Politicamente capace è colui, il quale sa ricavare dal flusso delle informazioni un filo rosso ragionato; non si tratta, però, di avere un’opinione privata intorno a ciò che accade nel mondo: dacché, agire politicamente significa agire in comune secondo una ed una stessa idea. E con ciò si intende una teoria comunemente accettata come valida, dalla quale scaturisca un agire politico finalizzato, il quale non può risultare dal mèro compromesso fra gli interessi diversi di individui e di gruppi.

A questo punto si chiarisce cosa renda specifico un PC: esso non rappresenta gli interessi di gruppi determinati o il momento in cui diversi interessi particolari trovano una loro conciliazione; piuttosto un Partito è comunista in quanto punta all’interesse di tutti.

Ma l’interesse di tutti non può ricavarsi dai bisogni e dagli interessi particolari: piuttosto può esser determinato solo da una teoria generale, che relazioni ogni singolo con gli altri, in modo da concepire un tutto.

Va da sé che ognuno, in primo luogo, segue i propri individuali interessi: poiché ognuno ha un determinato posto nella società, vive particolari condizioni di vita ed ha propri desideri, gli interessi individuali son affatto differenti e, addirittura, in molte occasioni si contrappongono gli uni agli altri. Ma, d’altra parte, vi sono interessi comuni: ad es., il comune interesse di una squadra di lavoratori a rapporti di lavoro umani; quelli di una comunità a poter respirare aria pulità e bere fresca acqua potabile, oppure, quello di tutti gli uomini al mantenimento della pace.

Allo scopo di perseguire i comuni interessi, ognuno deve -per qualche rispetto- sacrificare qualcosa del proprio individuale interesse. Ma che significa ciò esattamente? E cosa può la società chiedere ai singoli e questi a quella? Le risposte a tali domande non sono né immediate né autoevidenti, ché -al contrario- presuppongono che sian comprese le linee fondamentali dei processi e delle contraddizioni sociali: in una parola, la comprensione teoretica dell’insieme o universale.

Cerchiamo di comprendere cosa ci autorizza ad affermare che proprio il materialismo dialettico sia la teoria generale, capace di esprimere non gli interessi particolari di una classe (o di una frazione d’una classe), ma risultante invece dalla conoscenza scientifica della totalità sociale e dei rapporti della società con la natura; che proprio il materialismo dialettico sia in grado di dirci come armonizzare gli interessi di ognuno, rettamente intesi, con gli interessi di tutti, della società e del genere umano.

Nel quadro dei rapporti capitalistici di produzione, tutte le forme della produzione sono sottoposte al capitale. La proprietà degli strumenti di produzione è mediata dal capitale, cioè, dall’investimento di capitale. Laddove prima agricoltori, artigiani, commercianti avevano forme proprie di proprietà e della sua riproduzione e, dunque, costituivano differenti classi proprietarie (contrapposte a coloro che erano privi di proprietà), lo sviluppo - a partire dall’industrializzazione- di investimenti tecnologici ad alta intensità di capitale ha condotto al fatto che proprietari degli strumenti di produzione possono essere, solo, coloro i quali dispongono del capitale finanziario necessario. Il capitale investito deve riprodursi maggiorato (interesse di capitale). Così, da una società in cui molte classi perseguono i loro particolari interessi dovendone, però, cercare la conciliazione, si è andata sviluppando una società a due classi, in cui si danno solo i proprietari degli strumenti di produzione e i lavoratori salariati, che con il loro lavoro producono il plusvalore [d’ora in avanti, plusvalore], consentendo così la valorizzazione del capitale. Classi, che precedentemente erano autonome - come i piccoli artigiani e i contadini-, che possedevano (e, in parte, ancora posseggono) strumenti di produzione, sempre di più divengono dipendenti dal capitale: sia nel caso che rappresentino imprese ausiliarie della grande industria, costrette a regolare le proprie scelte produttive e di investimento sulle necessità e decisioni tecniche prese da quest’ultima; sia nel caso si trarri di grandi imprese agricole, dotate di un differenziato parco macchine ma prive di credito bancario, in mancanza del quale nulla possono produrre né rinnovare e che son sottoposte, invece, a spese di ammortamento, analoghe a quelle dell’industria. Tutti gli strati intermedi, che si mantengono in una società ad alta divisione del lavoro (ad es., nel settore dei servizi), in definitiva, risultano schiacciati dalla contraddizione fondamentale fra lavoro e capitale e, così, per la clssificazione della struttura di classe della società restano, solo, borghesia e proletariato.

I due concetti -di borghesia e di proletariato- nascono, entrambi, nel 19° secolo. Se non altro nelle metropoli, la borghesia e il proletariato hanno modificato il loro modo di presentarsi, il loro aspetto. Oggi, il capitale non si presenta più sotto l’aspetto del proprietario di fabbrica o del banchiere, come enti sensibilmente presenti, ma hanno assunto, invece, una forma anonima.

Per parte loro, i proletari -nella maggioranza-  non son più i lavoratori, cacciati nelle viscere delle miniere o immersi nei calori degli altoforni; piuttosto sono spesso lavoratori altamente specializzati, che lavorano a macchine assai complesse oppure son impiegati di un terziario in costante crescita e che non è più in diretto contatto con la produzione. Di qui nascono problemi circa la coscienza di sé: lo sfruttamento non è più, come un tempo, avvertibile sulla propria pelle, ché piuttosto la comprensione di sé come sfruttato pretende una concezione chiara del meccanismo dell’accumulazione capitalistica e del rapporto di capitale. Resta, comunque, il fatto oggettivo che la società a due classi è composta da borghesia e da proletariato.

Gli interessi delle due classi nella società capitalistica son contrapposti. La legge del capitale è di doversi accrescere, di dover sfruttare per poter realizzare nuovi investimenti, non importa a quale scopo. L’accumulazione del capitale è lo scopo, che il capitalismo dà a se stesso; il problema della redditività domina l’uso dello strumento sociale: è questa necessità che determina gli interessi dei rappresentanti del capitale.

Si tratta degli interessi particolari di un piccolo gruppo di uomini -proprietari di capitale e managers-, i quali controllano il processo di valorizzazione del capitale: essi costituiscono la classe dirigente, che usando tutti i mezzi della visione del mondo debbono portare i dominati ad accettare quei rapporti di dominio e di sfruttamento. Le loro strategie teoriche in fin dei conti non sono che strategie di legittimazione degli interessi particolari della classe dominante -e non sono che questo, anche quando i sostenitori di quelle teorie le accettano, invece, come verità di portata universale.

Da parte loro i lavoratori non possono avere che un interesse di classe: abbattere il dominio degli interessi particolari in modo che ogni uomo sia, nel pieno senso della parola, libero, ovvero, possa perseguire i propri interessi non in disaccordo, ma sì in coerente accordo con l’interesse di ogni altro.

L’interesse dei lavoratori, in quanto classe, coincide con l’interesse dell’umanità: pace, libertà dal bisogno, cultura, libero sviluppo individuale e soddisfazione dei bisogni, partecipazione di ognuno -e non riservata a pochi proprietari di capitale- alla pianificazione e gestione della vita sociale.

La strategia teoretica della classe lavoratrice è orientata all’elaborazione e perseguimento di questo interesse generale -non in quanto, dimentica di sé, si lasci guidare da astratto umanismo, ma perché proprio questo è il suo particolare interesse di classe.

Solo la visione scientifica del mondo, che non esprime il punto di vista di qualche interesse particolare, può costituire l’espressione non sfigurata dall’interesse generalmente umano: posta la configurazione di classe, che è propria del capitalismo, quella visione scientifica del mondo non può essere che la visione del mondo dei lavoratori in quanto classe, dunque, il socialismo scientifico.

Naturalmente, non in quanto teoria elaborata una volta per tutte in una forma rigida, ma sì in quanto sistema di conoscenze che si sviluppano, riflettendo lo svolgersi dei processi sociali; in altre parole, in quanto sistema ‘aperto’, che accoglie ed elabora le esperienze storiche.

Il luogo da cui origina il socialismo scientifico, la classe lavoratrice come portatrice degli interessi umani, ci autorizza ad assegnare a questa teoria, in questa epoca, un universale valore di verità, nonostante il suo carattere certamente storicamente determinato.

Quando una teoria rappresenta la condizione storica, in cui l’umanità può compiere ragionevolmente un ulteriore passo in avanti nella direzione della umanizzazione -vale a dire, del superamento del bisogno e dello sfruttamento verso la libertà; e quando la stessa teoria indica la direzione di questo ulteriore passo in avanti, allora si può dire che essa è storicamente vera.

La verità è qualcosa di più che la mèra correttezza di una conoscenza particolare, dell’accordo di un determinato sapere con il proprio oggetto.

Verità significa cogliere nel pensiero la realtà in modo tale, che quel pensiero consenta all’uomo di determinare, secondo ragione, il proprio rapporto con il mondo e con se stesso. In questo senso, la storia del pensiero è -come voleva Hegel - storia “del progresso nel pensiero verso la libertà” e, con ciò, anche storia di lotte per l’emancipazione dell’umanità dalle costrizioni naturali, dall’oppressione dell’uomo sull’uomo, dai pregiudizi e dall’ignoranza. In ogni nuova fase dello sviluppo storico si allarga lo spazio delle possibilità -e, dunque, delle libertà- aperto agli uomini.

Verità storica non significa, dunque, verità neutrale, ma sì schierata dalla parte del progresso e, quindi, anche con il partito del progresso. E cosa sia il progresso non ce lo dice questa o quella opinione arbitraria, ché lo si ricava dal contrasto fra interesse generalmente umano da un lato e, dall’altro, particolare interesse di una classe, di un gruppo o, addirittura, di un singolo.

Appunto perché la verità è obiettiva -dunque, universale e scientificamente determinabile-, proprio per questo deve essere di parte. (E non è certo un caso se i propugnatori dell’ideologia borghese spregiano il concetto di verità, dissolvendolo in un pluralismo delle ‘verità’, con la conseguenza di privare di senso la storia e di ridurre la politica a terreno di decisioni arbitrarie).

Ma «partiticità» non significa schierarsi acriticamente per una posizione con cui non si abbia ‘famigliarità’: la posizione, che si prende, deve mostrare la propria verità mediante la determinazione teorica del progresso nella situazione sociale contemporanea; deve trattarsi di una presa di posizione filosofica, capace dunque “di cogliere nel pensiero il proprio tempo” e di tradurre questo pensiero in comportamenti politici. Un partito che non si limiti a darsi obiettivi di corto respiro e che non voglia adeguarsi, opportunisticamente, alle oscillazioni dell’opinione pubblica, ma che proponga, invece, una conseguente alternativa generale ai problemi, contraddizioni e crisi della società presente, non può assumere concezioni preconcette né decretate semplicemente dalla sua dirigenza, ma deve affidarle ad analisi teoricamente consistenti, elaborarne le conseguenze politiche e sottoporle costantemente a verifica: deve, insomma, assicurarsi il continuo rinvio dall’agire politico alla riflessione teorica e da questa, di nuovo, alla pratica politica. Se  non operasse in questo modo, il partito non corrisponderebbe al particolare ruolo storico della classe che pur pretende organizzare: la “missione storica della classe lavoratrice”.

Se la polarità sostanziale della partita politica è sfruttamento o libertà dallo sfruttamento, dominio della borghesia o suo abbattimento, perseguimento dell’accumulazione capitalistica  o dell’emancipazione umana, allora non si tratta semplicemente di questo o quel ‘miglioramento’ della società presente, ma di qualcosa, invece, che investe la totalità sociale.

E’ proprio questo che differenzia i comunisti dagli aderenti ad altri partiti, compresi socialdemocratici ed altri riformatori sociali.

E’ certo che riforme per il migliormento della condizione umana hic et nunc son sempre cose sensate, poiché la politica si fa nell’interesse dell’uomo attualmenteesistente; tuttavia, esse non possono costituire lo scopo di un PC, ma solo un aspetto della sua lotta che ha obiettivi ulteriori.

Infatti, la questione non è vivere meglio nell’attuale società capitalistica -e d’altronde sarebbe un’ autentica illusione credere di potersi liberare in tal modo, cioè attraverso riforme, da contraddizioni, che appartengono alla sostanza stessa della società capitalistica, che caratterizzano strutturalmente il sistema dei rapporti capitalistici; il problema è, piuttosto, quello di un autentico cambiamento del sistema, anche attraverso la strada delle riforme.

Da una chiara consapevolezza delle contraddizioni fra le due classi della società capitalistica segue che la caduta della classe dominante deve condurre al superamento del carattere classista della società, perché non deve darsi più che una sola classe (dunque,  nessuna classe). A questo punto, lo scopo del PC risulta determinato: esso è rivoluzionario, in quanto vuol porre termine alla società di classe.

Sul modo di questo passaggio rivoluzionario alla società senza classi ancora non è stato detto nulla, né era possibile farlo, posta la stablità dei rapporti di dominio capitalistici, che non consente di intravvedere, in forma concreta, i modi della sua caduta.

Tuttavia, si può certamente dire che il passaggio al socialismo presuppone, almeno, l’adesione passiva della maggioranza popolare, poiché il socialismo non può significare l’imporsi di una nuova classe dominante, ma piuttosto il ridestarsi dell’uomo nel quadro di una associazione di liberi cittadini autodeterminantesi.

Naturalmente si tratta di un processo di educazione sociale di lunga durata e non di qualcosa che si possa raggiungere con un unico atto rivoluzionario: comunque, il primo presupposto è la disponibilità delle masse a porsi nella prospettiva di tale sviluppo.

Sarebbe un errore ritenere che la sostituzione di una formazione sociale mediante una nuova possa ottenersi attraverso l’operare di una minoranza dirigente anche se, naturalmente, una tale minoranza può porsi alla testa di un processo ancora non organizzato e giocarvi, appunto, un ruolo di direzione, come fecero i bolscevichi nella Rivoluzione d’Ottobre.  La disponibilità, però, ad entrare ed a partecipare a tale processo deve esser largamente diffusa tra le masse, pur in mancanza di una comune, piena consapevolezza dei suoi scopi finali. La rivoluzione è possibile sempre e solo in quanto democratica, in caso contrario si tratterebbe di un mèro putch. Nelle precedenti società di classe, le rivoluzioni si son andate costruendo nei tempi lunghi, poiché la nuova classe, che puntava alla realizzazione di rinnovate forme statali dei rapporti di produzione, si svilupparono mano a mano fino a prendere il potere ed orientare, così, forme e strutture della vita sociale.

La rivoluzione socialista si svolgerà diversamente, perché non rappresenta una nuova classe che si candidi al posto della attuale classe dirigente; di necessità segnerà, invece, la transizione a forme di organizzazione sociale non più classiste.  Ora, questo passaggio -noto col termine di dittatura del proletariato- non significa l’instaurarsi di un nuovo dominio di classe ma, appunto, l’abbandono di esso. Ma anche per questo è necessario il sostegno delle masse -in caso contrario, non si potrà giungere alla trasformazione sociale.

Va da sé che, poste le condizioni di vita e le strategie di dominio capitalistiche, non ci si può attendere che, tra le masse, sorga spontaneamente la coscienza non solo della necessità di cambiare questa società, ma anche di quali siano i fondamenti dell’alternativa ad essa. L’insoddisfazione, la volontà di liberarsi dai disagi e l’angoscia per possibili crisi che minaccino l’umanità intera (immiserimento di massa, guerre, catastrofi ecologiche, manipolazioni genetiche) possono a lungo esser stornate o fatte giocar l’un contro l’altra, attraverso l’uso ideologico dei media nell’ interesse della classe dominante. Oggi, la conoscenza delle contraddizioni sociali e delle loro conseguenze politiche richiede un’elaborazione teorica della realtà ad altissimo livello d’astrazione: portare le masse a tale livello di attività astrattiva è certo un compito di lungo periodo ma necessario, perché esse possano -sulla base delle tradizioni di lotta del movimento dei lavoratori, o per l’insegnamento ricavato da particolari esperienze proprie di lotta di classe- farsi attive protagoniste della lotta per la trasformazione sociale.

L’unità politica, che è necessario far crescere tra le masse, ovviamente non può essere conseguita attraverso un mèro addottrinamento, piuttosto deve nascere dalla propria esperienza nella e con la società capitalistica, dal senso dell’ingiustizia e disagio in cui si vive e della propria impotenza.

Si tratta di esperienze, che tanto più facilmente possono trapassare da scoraggiate reazioni individuali alla comprensione dei processi sociali, tanto più entrano in comunicazione, si confrontano e si relazionano con esperienze di altri: le organizzazioni sociali son il luogo dove una cultura socialmente consapevole giunge al suo compimento.

I sindacati, che rappresentano gli interessi dei salariati nel processo di lavoro, giocano in questa prospettiva un ruolo importante: le lotte sindacali, infatti, sono un primo gradino per una coscienza politica e sociale -ma. appunto, non sono che un primo gradino. I sindacati hanno il compito di sostenere, contro il padronato, gli interessi dei lavoratori sul luogo di lavoro e le loro rivendicazioni di miglioramento sociale; il che significa che essi operano, sia pure criticamente, nei confini della società capitalistica; l’elaborazione di una complessiva alternativa sociale non rientra nei loro compiti; certamente, i sindacati possono inserire nel loro ambito temi e posizioni socialiste ma questi, altrettanto certamente, non costituiscono il contenuto delle lotte e della prospettiva sincacali.

Il mutamento del sistema sociale è un compito politico, che richiede un partito. Il quale, anticipando la coscienza delle masse, contemporaneamente opera acché tale coscienza, mano a mano, si sviluppi e consolidi mediante l’elaborazione organizzata dell’esperienza in e con la società presente, al fine di tradursi, poi, in comportamento politico: una tale partito costituisce l’ avanguardia delle masse, il portatore del progresso sociale.

Appartenere all’avanguardia non rappresenta un privilegio né consente facili allori; coloro i quali anticipano lo sviluppo generale e per esso si impegnano, debbono come contropartita accettare per lungo tempo il ruolo di minoranza e, forse, anche di sparuta ed instabile minoranza; debbono esser disposti al sacrificio di sé ed a tollerare persecuzioni e danni; costoro debbono sapere che la strada per il successo è cosparsa di arretramenti e sconfitte.

Il piccolo orizzonte della propria vita, probabilmente, non consente a chi si sia dato con piena dedizione ad uno scopo di vederlo con l’ ampiezza dovuta: son necessarie forza di carattere e la certezza di muoversi nel senso del destino dell’umanità. La fermezza e la sicurezza di sé, proprie dell’avanguardia, son date dal sapere di aver compreso le leggi del progresso sociale e che, nell’attuale situazione del mondo, solo questa alternativa si dà: o una razionale organizzazione sociale, libera dal predominio degli interessi capitalistici; oppure, sconfitta dell’umanità. Come diceva Ernst Bloch, mai come ora siamo difronte alla scelta: o tutto o nulla.

Conoscer ciò è conoscer la condizione di classe. Lo sviluppo della coscienza di classe è il compito di un PC. Esso è l’organizzazione che vede nella lotta politica la lotta di classe e che la dirige.

Nella lotta di classe si desta la coscienza di classe e si afferma, anche, la consapevolezza che gli interessi individuali non debbono prendere il sopravvento nei confronti del comune interesse di classe, che la solidarietà è il presupposto per il successo da parte di chi è privo di potere ed è oppresso.

La coscienza di classe include concezioni teoriche e con ciò non intendo un sapere accademico, ma sì la conquista d’una comprensione della storia e della società, che rende intelligibili le linee fondamentali ed i fronti di lotta della politica.

Il PC deve sviluppare al proprio interno forme di vita, che generino questa unità di conoscenza, atteggiamento e comportamento. I comunisti possono essere l’avanguardia combattiva della società, se riescono ad essere anche la sua avanguardia teorica.

Com’è inevitabile, un tale equilibrio non si crea automaticamente. La dirigenza del Partito deve impegnarsi nella formazione teorica e produrre materiale a questo scopo; deve stimolare la discussione interna e deve dar spazio al contributo della base per l’elaborazione tattica e strategica: il trasferimento alla base della linea politica centrale non deve ostacolare l’iniziativa periferica, ché la presenza del Partito inizia nel territorio e nel singolo luogo di lavoro; la stessa coscienza di classe potrà svilupparsi, solo se le esperienze e gli interessi dei singoli territori e dei singoli luoghi di lavoro, da contenuti primari di esprienza si evolveranno in coscienza della società in generale e della prospettiva storica. Nessuna efficace azione politica è possibile in violazione di tali condizioni.

I comunisti debbono verificarsi nella mediazione dialettica di particolare e generale: ciò che definisce l’avanguardia non è la sua capacità di comprender meglio sulla base di una migliore teoria e visione del mondo; sì piuttosto, la capacità di battersi meglio e con maggior lucidità sul fronte della vita quotidiana -lucidità che, per altro, è legata al possedere una visione dell’insieme.

La garanzia statutaria di una democrazia di partito che si costruisca dalla base è importante nella stessa misura, in cui lo è l’esistenza di militanti che si impegnino nel lavoro di partito, nella formazione teorica e, sulla base di ciò, nella partecipazione ai processi decisionali che lo riguardano. E’ del tutto comprensibile la tendenza a delegare ad una dirigenza di cui ci si fida le decisioni di partito, invece che partecipare ad esse. In questo modo, però, si giunge ad un irrigidimento della vita di partito ed alla costituzione di una unidirezionale struttura di comando, anche quando la dirigenza del partito non vorrebbe cedere alla ricerca di forme semplificate di direzione: la dialettica del movimento ‘dall’alto verso il basso’ e viceversa ha bisogno che ci si impegni per la sua realizzazione, chiama in causa, dunque, il senso di responsabilità dei comunisti nei confronti del partito a cui aderiscono: senso di responsablità da cui non bisogna demordere, quali che siano le difficoltà che possa comportare. Solo a questa condizione, la necessaria disciplina di partito è una forza e non un impedimento.

Condenso quanto finora detto in cinque tesi:

- il PC è l’organizzazione, che ha come scopo finale il cambiamento dell’insieme sociale e la costruzione di una nuova formazione sociale;

- il PC è l’organizzazione di lotta della classe lavoratrice, che realizza gli interessi umani ed è il luogo, in cui si costruisce la coscienza di classe, nel momento stesso in cui per quegli interessi si lotta;

- la coscienza di classe è la forma politica della concezione del mondo, basata sulla teoria del socialismo scientifico. Questa teoria, nel suo continuo sviluppo, è una componente imprescindibile della coscienza di sé da parte comunista;

- il PC, in quanto organizzazione in cui la coscienza di classe si va costruendo sulla base della più progressista teoria della società e del rapporto natura-società, è l’avanguardia della classe lavoratrice (e del progresso sociale) e di ciò dà prova attraverso il suo agire esemplare;

- un PC realizza i propri compiti storici, solo se si attiene alle regole dette.

Ciò che abbiamo così formulato son condizioni fondamentali dell’autocoscienza comunista . Chi desidera costruire un PC e non semplicemente una formazione di sinistra, deve attenersi a tali condizioni, che -conseguentemente- debbono improntare di sé lo spirito della ‘legge fondamentale del Partito’, dunque, i suoi statuti.

Da tutto ciò ricavo le seguenti conseguenze:

1- il Partito non può stabilire la sua forma organizzativa, senza indicare i fondamenti teorici di sé in quanto organizzazione e in quanto soggetto politicamente attivo: quello comunista è il Partito del socialismo scientifico. Ciò non significa -ché sarebbe dogmatismo e burocratismo- accettazione in blocco ed applicazione di quella teoria; ma piuttosto che il Partito si impegna, con la sua esperienza politica e con le conoscenze scientifiche che acquisisce, allo sviluppo della teoria del socialismo scientifico -teoria che, d’altronde, deve improntare di sé la sua pratica. In questo senso, il Partito è responsabile della verità della teoria (contro ogni forma di opportunismo, di irrigidimento dogmatico e di mèro, scolastico addottrinamento). Il Partito deve darsi forme organizzative, che consentano ai militanti di stabilire una relazione diretta ed autonoma con i presupposti teorici e i fondamenti della visione del mondo del socialismo scientifico. (Non si dimentichi l’importanza che, per il movimento politico dei lavoratori, ha la tradizione di iniziative collettive per la formazione culturale: a suo tempo rappresentò una forza per la socialdemocrazia tedesca il fatto di appoggiarsi ad una consapevole e diffusa attività culturale tra i lavoratori). La discussione teorica, la verifica critica ed il confronto di pensieri ed opinioni devono essere assicurati dagli statuti del Partito e divenire effettiva pratica della sua vita interna. Presupposto di una discussione ampia, utile e capace di riflettere teoricamente la situazione esistente è il serio apprendimento dei concetti fondamentali e dei metodi del materialismo storico e dialettico. Il Partito non è il luogo di un pluralismo di visioni del mondo, ma di una varietà di sviluppi della teoria, sotto il profilo scientifico e pratico-politico, che possono esser controversi, pur avvenendo sulla base di una comune visione del mondo.

2 - Il Partito non è eminentemente uno spazio di discussione, ma un’organizzazione volta all’ agire politico: il che implicita cha sia capace, in tempi determinati, di prendere decisioni. Come organizzazione della lotta di classe ed in quanto minoranza, posta nella difficilissima condizione di avanguardia attiva, il Partito non può spezzettare la propria attività nella forma di molteplici, distinte correnti: una funzione del lavoro teorico è, anche, quella di unificare le volontà. Ciò significa, che nel momento della decisione, le possibili divergenti opinioni di singoli o di gruppi non possono permanere nella loro autonomia: se la verità storica si realizza (come cercheremo di mostrare) nella forma organizzativa del Partito, allora la disciplina di partito è un momento della verità e, dunque, quella disciplina non costituisce una categoria sociologica, ma sì epistemologica; ciò è vero anche nel possibile caso, in cui le conoscenze di un singolo siano più avanzate del livello di coscienza raggiunto dal Partito nel suo complesso. D’altra parte, le crescenti conoscenze acquisite dai suoi membri (anche singoli), se inserite nelle discussioni interne del Partito, ne elevano il livello. Insomma, l’istituzionalizzazione della formazione e del dibattito in ambito teorico e di visione del mondo è una componente imprescindibile per la vita organizzativa del Partito.

Di qui deriva con tutta evidenza l’opportunità che i compagni si organizzino per ricercare assieme le conoscenze corrette e non dividendosi, invece, in frazioni organizzate su piattaforme alternative. (Ciò vale, anche, per il clima stesso del confronto d’opinione: se l’obiettivo è la ricerca della verità, inviolabile è il diritto all’errore e chi -secondo gli altri compagni o la loro maggioranza- è in errore, non va per questo diffamato; il diritto all’errore, tuttavia, non è diritto al frazionismo o alla dissidenza).

3 - Il Partito può adempiere alla sua funzione d’avanguardia se non abbandona l’unità delle sue concezioni politiche: solo a questo patto, esso ha la forza di convincere altri.

Nella sua azione in quanto minoranza, esso deve mantenere la propria particolarità quali che siano le alleanze, movimenti e società cooperative in cui sia presente; come anche deve valutare la propria visione delle cose - la teoria materialistica storica e dialettica-, quale momento dell’agire comune. Le alleanze, in realtà, son effettivamente tali, quando rispettino e diano valore anche alle differenze tra i partners. La diffusione, d’altronde, della coscienza di classe tra le masse è possibile solo dispiegandosi l’analisi e la valutazione storico-materialistiche di situazioni ed eventi.

4 - Un altro punto auto-evidente, è che l’organizzazione di un partito politico non può basarsi sulla decentralizzazione: un partito non è il luogo, in cui si coordinano distinti gruppi d’interesse -regionali o locali, che siano; e ciò vale al massimo grado per un PC, perché la sua unità si sostanzia nella comunanza delle posizioni teoriche e politiche: la centralizzazione della direzione politica è l’espressione organizzativa di questa unità di idee. D’altronde, la direzione centralizzata è legittimata solo se le decisioni vincolanti, da essa prese (perché è la sola autorizzata a farlo) e valide per tutto il Partito, risultano da un continuo processo di discussione e scambio di opinioni ed esperienze, che coinvolge la base del Partito. La forza della direzione deve corrispondere alla forza della base ed i comunisti debbono esser riconoscibili per la serietà ed ampiezza del loro impegno. Ciò non significa, sia chiaro, che essi debbano esser semplicemente mobilitati e lasciarsi comandare in questo senso; piuttosto significa che i comunisti hanno da partecipare costantemente allo sviluppo del Partito -e non solo in occasione dei Congressi, ma nella sua vita quotidiana-, in modo che per la coscienza del militante impegnarsi od essere impegnato all’interno della strategia centrale siano una ed una stessa cosa. Un partito ha da esser centralizzato se vuol essere capace di azione politica, e può essere democratico solo se l’attivizzazione della base costituisce l’elemento vitale della sua organizzazione e quando fra l’impegno alla base e l’attività del partito nel suo complesso vi sia una continua mediazione, data o dal sistema organizzativo o dalla diretta comunicazione. Vengo alla conclusione.

il PC è il partito della coscienza di classe sviluppata e in contino sviluppo sul fondamento del socialismo scientifico. Esso organizza la propria unità pratico-politica e teorica mediante il convergere di una ferma e dinamica direzione con una base attiva ed educata nella sua volontà. Il PC si sa responsabile nei confronti della verità storica e del progresso e, per questo, non è affatto disposto a deviare opportunisticamente da principi correttamente compresi. Solo la conseguenzialità e correttezza del suo comportamento offre la possibilità di superare finalmente l’organizzazione sociale capitalistica e la sua disumanità.

 

2° capitolo  - I fondamenti filosofici del PC tedesco.

“Il PC tedesco (DKP) basa la propria politica sulla teoria di Marx, Engels e Lenin... Esso difende il socialismo scientifico contro ogni tipo di ideologia borghese... Il Partito è impegnato ad applicare in modo creativo la dottrina di Marx, Engels, Lenin alle condizioni del nostro Paese ed, in questo modo, a contribuire all’arricchimento del patrimonio di esperienza del movimento internazionale dei lavoratori.”

Così si legge nel programma che il DKP si dette nel congresso, svoltosi a Mannheim nell’ottobre 1978. In tal modo il Partito si presentava come una formazione, il cui comportamento politico non dipendeva dai mutevoli interessi di altrettanto mutevoli persone, tendenze, maggioranze, né tanto meno dalle oscillanti preferenze della così detta ‘opinione pubblica’; ma sì piuttosto come una formazione, la cui politica era determinata da una chiara comprensione scientifica delle leggi dinamiche della storia, delle contraddizioni e tendenze di sviluppo della società, delle forze e potenzialità essenziali del genere umano ed, infine, delle possibilità di realizzare un ordine di vita umano, perché liberato da sfruttamento ed oppressione.

Chi aderisce al DKP si riconosce in qualcosa di più che in questo o quell’obiettivo politico, nel quale vede rispecchiati i propri interessi e nel limite del quale egli resta quella persona privata che già era. Chi aderisce al DKP, piuttosto, si pone sul terreno di una visione scientifica del mondo, capace di orientare sia il suo pensiero che il suo agire.

“Criterio politico del DKP e fondamento scientifico della sua politica è la dottrina di Marx, Engels e Lenin “, si legge nel preambolo al programma del 1978. E quando lì si scrive “criterio”, il termine va riferito non solo al Partito in quanto organizzazione complessiva, ma anche ad ognuno dei suoi militanti: è per questo, d’altronde, che nel programma si pongono “alte pretese politiche e morali” per ogni comunista. Questo modo di concepire il Partito non è per caso.

Nell’elaborazione di una strategia politica in vista del cambiamento rivoluzionario della società, fin dall’inizio della sua azione nel Partito, Lenin su questo insistette: “senza una teoria rivoluzionaria, non si dà movimento rivoluzionario”. [7]. Perché?

E’ del tutto chiaro che la difesa dei propri interessi di base non richiede affatto, come precondizione, un’analisi scientifica della società; ad es., un piccolo imprenditore può adeguatamente rendersi conto, e ad essi dedicare la propria personale esistenza, degli interessi, che discendono dalla sua impresa, della sua dipendenza dalle banche e dalla grande industria, come anche di quanto sia necessario, invece, che egli riesca a conquistarsi un’indipendenza propria. Ed egli può, con opportune tattiche e compromessi, muoversi entro questa contraddizione. Una teoria del capitalismo -che ne mostri lo sviluppo monopolistico come una necessità derivante dalle leggi stesse del processo d’accumulazione del capitale- non è affatto necessaria a quel piccolo imprenditore e, addirittura, potrebbe perfino danneggiarlo nelle sue tattiche. Il fatto è che superare il rapporto di capitale non fa parte dei suoi interessi, dato che egli stesso è un capitalista, sia pur piccolo. Le cose stanno del tutto diversamente per un lavoratore salariato.

I suoi interessi immediati -aumenti salariali, miglioramento delle condizioni di lavoro, diminuzione della giornata lavorativa-, che egli vede rappresentati dai sindacati, restano sempre all’interno del capitalismo e si limitano a contrastare, perfino in modo parziale, la volontà degli imprenditori. Ma è proprio all’interno del sistema in cui vive, che il lavoratore non può sfuggire al suo peggior avvilimento -ossia, allo sfruttamento-; si tratta, infatti, di un sistema basato sull’appropriazione privata del plusvalore da parte del proprietario del capitale.

Il lavoratore salariato, dunque, per poter prender conoscenza dei suoi effettivi interessi, è costretto a penetrare a fondo il modo di funzionamento del sistema, cioè, la legge dell’accumulazione capitalistica, ed a comprenderne le forme sociali particolari.

Egli deve rendersi conto che l’intera sua condizione di vita (non solo, dunque, la sua vita lavorativa) è determinata dai rapporti di produzione, che lo costringono dentro le morse di un meccanismo di dominio, da cui non può liberarsi se non rigettandolo completamente. E’ solo attraverso la teoria scientifica che può risultar chiaro a quel lavoratore che il suo non è un qualche interesse particolare, individuale, di cui possa ottenersi la soddisfazione attraverso questa o quella modificazione (le riforme) del sistema; ma il suo è piuttosto l’interesse ad una trasformazione generale dell’ordine sociale esistente.

Senza questa consapevolezza teorica, il lavoratore salariato resterà sempre un momento dipendente del rapporto di capitale, pur se in lotta continua con gli sfruttatori, cioè, i funzionari di quel sistema: insomma, una vittima offerta alla manipolazione ed all’oppressione.

Una comprensione scientifica della sua condizione di salariato -quale che sia, poi, la sua propria, particolare situazione- risulta intollerabile per il lavoratore, che voglia perseguire i suoi veri interessi. Egli deve riuscire a vedersi come appartenente a quella classe, il cui sfruttamento è condizione d’esistenza per il capitale, ma che anche rappresenta la radicale contraddizione interna del sistema capitalistico. L’autoliberazione della classe dei lavoratori presuppone esattamente questa conoscenza, quale strumento per orientarne l’azione. Proprio per questo, il Lenin che elabora la strategia politica della lotta di classe ha indicato nella teoria una componente interna alla prassi stessa: “Marx... vedeva l’intero valore della sua teoria nel fatto che essa è «per la sua stessa essenza, critica e rivoluzionaria». E quest’ultima qualità è, senza alcun dubbio ed incondizionatamente, propria del marxismo, poiché esso è la teoria che si dà direttamente il compito di portare a piena luce tutte le forme di antagonismo e sfruttamento proprie della moderna società, di seguirne lo svolgimento, di mostrarne il carattere e gli inevitabili mutamenti di forma; e tutto ciò allo scopo di aiutare il proletariato a porre fine, al più presto e nel modo più facile, allo sfruttamento.” [8]

Sviluppando ulteriormente la teoria del Partito nel Che fare? , Lenin si rifà espressamente ad Engels: “Engels riconosce non due forme della grande lotta socialdemocratica (la politica e l’economica) -come si fa abitualmente da  noi-; ma tre, poiché accanto a queste egli pone anche la lotta teorica.” [9] ; Lenin prosegue rinviando, anche, alla prefazione engelsiana a La guerra dei contadini in Germania.

Qui, come anche in molte altre pagine delle sue Opere, appare chiaramente come Lenin concepisse le proprie enunciazioni quali applicazione e adattamento delle posizioni di Marx ed Engels ai contenuti di una situazione data -in questo senso, Lenin autorizza un uso sensato del costrutto marxismo-leninismo.

Il leninismo è, infatti, il punto di arrivo di uno sviluppo del pensiero di Marx ed Engels, poste le esigenze di una politica rivoluzionaria nella fase imperialistica della formazione sociale capitalistica, ovvero, in una situazione in cui “nella teoria si deve in primo luogo vedere una guida all’azione.” [10]

Per sua stessa essenza, il marxismo non è una dottrina conchiusa, sì piuttosto, proprio in quanto sapere della storia e delle sue radici nei processi naturali, è esso stesso sottoposto al mutamento storico dei rapporti sociali e della conoscenza scientifica.

Gli stessi sviluppi della realtà pretendono svolgimenti e modifiche di quella teoria che, appunto, la realtà riflette e che di essa mette in luce le possibilità giacenti, allo scopo di indicare obiettivi all’azione. Insomma, il marxismo è un sistema aperto al futuro.

Nei quarantasette anni che separano la pubblicazione di Das Kapital (1867) dallo scoppio della prima guerra mondiale (1914), il capitalismo raggiunse un nuovo stadio di sviluppo, nel quale le sue interne contraddizioni si approfondirono ma si rafforzò anche, mediante le organizzazioni politiche del movimento dei lavoratori, la forza antagonistica al sistema. E’ così che si posero i compiti: a) di cogliere le particolarità di questa nuova fase, sulla base della corretta analisi dell’essenza del capitalismo, contenuta nell’opera di Marx e di Engels (teoria dell’imperialismo); b) di determinare i fondamenti della lotta organizzata della classe operaia (teoria del Partito); c) di combattere l’infiltrazione nel movimento dei lavoratori di elementi ideologici borghesi, quali il neo-kantismo e il positivismo; nonché di rafforzare la valenza metodologica e di orientamento del materialismo dialettico e storico (teoria filosofica). In tutti e tre gli ambiti, nella più stretta coerenza con la lezione classica di Marx e di Engels, Lenin ha saputo elaborare le nuove prospettive, corrispondenti alla situazione attuale.

Escludere Lenin dal socialismo scientifico, inteso come costruzione teorica in continuo sviluppo ed attualizzazione, -cosa che, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, è stata sollecitata da parte di alcuni disfattisti ed, ovviamente, da parte dei  nemici di classe-, non avrebbe altro significato, se non riportare la comprensione del capitalismo alla sua fase pre-imperialista e, così, annientare le capacità di lotta dei comunisti. L’espressione marxismo-leninismo ha un senso preciso, in quanto fissa la continuità fra le prime due fasi dello sviluppo della teoria, ne sottolinea il carattere aperto e, con ciò stesso, mostra che il suo sviluppo non è concluso, ma che, ben al contrario, consegue alla riflessione teorica ed alla sistematizzazione delle nuove fasi della storia. E’ quanto, d’altronde, Marx intendeva, quando parlava di “concreto del pensiero”. [11]

 

§. 1. Il carattere.

E’ fuori discussione il significato della teoria per una strategia comunista conseguente. Senza una comprensione teorica della situazione in cui si agisce, le azioni restano spontanee e limitate agli interessi particolari ed alle reazioni emozionali dei gruppi, che al momento operano.

E’ certo che senza spontaneità gli uomini non sarebbero motivati all’azione; tuttavia, la discussione teorica che coinvolge gli ‘ideologi’ del movimento ha il compito di far emergere al di sotto dei motivi particolari le leggi e tendenze generali, per poter dare al singolo comportamento il posto e la finalità che gli spetta entro il complessivo processo sociale. Si può affermare “che l’ ideologo in generale svolge effettivamente il suo compito, se riusce ad anticipare il movimento spontaneo, a mostrargli la strada; se egli comprende prima degli altri tutti i problemi teorici, politici, tattici ed organizzativi da risolvere, contro i quali gli ‘elementi materiali’ del movimento spontaneamente vanno a scontrarsi. E per valutare oggettivamente ‘gli elementi materiali del movimento’, bisogna rapportarsi ad essi criticamente, rendersi conto dei pericoli e delle carenze del movimento spontaneo, insomma, riuscire a portare la spontaneità al livello della coscienza.” [12]

La coscienza stessa è un momento reale d’una situazione storica ed influenza il processo di mutamento della realtà. Dunque, un’adeguata coscienza è elemento necessario di un adeguato agire.

Il modo qui espresso di intendere la teoria si differenzia, fondamentalmente, da quello che è proprio della scienza tardo-borghese.

Quest’ultima fa perno sulla distinzione fra enunciati descrittivi ed enunciati prescrittivi e sull’affermazione che gli ultimi non possono esser fondati -cioè, dedotti logicamente- a partire dai primi.

In altre parole, lo studio della realtà ed in generale il lavoro propriamente scientifico si limitano a produrre descrizioni di stati di fatto o di sistemi di relazioni, da cui solo per arbitrio o ‘libera’ decisione potrebbero ricavarsi logicamente scopi e modi di comportamento: da come la realtà è non si può logicamente dedurre come la realtàdebba o non debba essere.

Appare chiaro che se la teoria tardo-borghese fosse giusta, chi ha il potere vedrebbe giustificato, anche, il suo orientare  il futuro secondo i propri interessi: insomma, chi detiene il potere deterrebbe anche il diritto.

Il principio della scienza tardo-borghese prescinde dal fatto che ogni realtà include in sé possibilità (effettive possibilità) le quali, da un lato, son parte della realtà, dall’altro, son implicite in essa e, dunque, possono e debbono esser previste anche nella descrizione degli effettivi stati di fatto; ora, è certo che se abbiamo a che fare con possibili alternative di sviluppo sociale che son implicite nella realtà, allora è vero che le decisioni da prendere non hanno nulla di arbitrario né di utopico; al contrario, la scelta tra alternative diverse si lascia ricondurre alle necessità biologiche e sociali dell’uomo, con gli scopi e i valori che comportano. Insomma, si tratta di una scelta fondata sulla ragione.

Descrivere una situazione e indicare le decisioni da prendere e le finalità da perseguire fan tutt’uno nella teoria, posto che quest’ultima può essere -essa stessa- un momento interno alla prassi. Appunto questa unità consente una conoscenza, che si verifica e corregge nella pratica.

Ma che si dia una corretta consapevolezza come elemento di un altrettanto corretto comportamento politico non è partita, che si giochi al livello della conoscenza individuale. La valutazione di una situazione vale come linea di marcia per una organizzazione se, almeno nei tratti fondamentali, è condivisa con piena convinzione dei suoi militanti, tanto da esser pronti ad impegnarsi nella linea politica conseguente. La teoria non può, dunque, essere ‘decretata’ dagli ideologi, vale a dire dai teorici del Partito, ma deve svilupparsi ed approfondirsi all’interno del Partito stesso. In questo senso, ogni attivista di Partito è un “intellettuale organico” della classe lavoratrice, come diceva Gramsci.

Una tale discussione teorica e un tale processo di formazione, però, non si svolgono separati dall’azione politica. Nei clubs di discussione, come anche negli Istituti universitari o di ricerca, fioriscono questa o quella opinione, corrette o false che siano, si elaborano teorie intorno a settori di realtà, sempre allo scopo di conseguire “conoscenze pure”. Ma perché opinioni e teorie possano condurre alla trasformazione rivoluzionaria della vita e della società, è necessario che si integrino nella prassi politica e che vengano continuamente sottoposte alla verifica dell’esperienza politica.

Il Partito  è il luogo, in cui si realizza questa compenetrazione di teoria e di prassi, nella stessa misura in cui la vita di Partito si svolge con l’attiva partecipazione dei militanti; è il luogo, in cui si impara dall’esperienza, si costruisce la teoria, la si modifica e la si collega alla pratica ed in cui dalle generalizzazioni teoriche si ricavano conseguenze politiche. Per la vitalità d’un Partito, in quanto organismo che opera politicamente, nulla sarebbe più dannoso che il chiudersi nell’immobilità del dogmatismo. “Noi non consideriamo, in nessun modo, la teoria di Marx come qualcosa di conchiuso e di indiscutibile; al contrario siamo convinti che essa abbia fornito solo il fondamento della scienza, che i socialisti debbono ulteriormente sviluppare in ogni direzione, se non intendono restare indietro rispetto al corso della vita.” [13]

Il DKP è un Partito marxista-leninista, in quanto si pone l’obiettivo di realizzare, all’interno del Partito e nella forma di una attività organizzata, l’unità fra comprensione teorica della realtà, visione del mondo scientifica da essa ricavata, finalità sociali ed azione politica. Va da sé che forza ed efficacia di una qualunque organizzazione di Partito dipendono dal grado di attività dei suoi militanti. Gli statuti di Partito e la coscienza che esso ha di sè, spesso, presentano dei «devi», che si discostano dall’effettivo «è» del Partito stesso; quei «devi», però, all’interno dell’organizzazione di Partito, hanno la funzione decisiva di favorire la correzione delle deficienze, di promuovere l’attivizzazione dei militanti, stimolandone il ‘fattore soggettivo’, cioè la volontà, la coscienza, la disponibilità all’impegno. In particolare, ciò è vero nei periodi di forte crisi e riflusso del Partito.

Cercar di promuovere l’impegno pratico degli uomini, certamente, è impresa destinata all’insuccesso, se essi fanno riferimento ad una moralità astratta. La corretta comprensione di una situazione storica, e delle possibilità che essa offre, è la premessa di un’azione destinata al successo: chiamare all’impegno per uno scopo determinato, pretende che quello stesso scopo venga mostrato come obiettivo realistico e non utopico; in altri termini, esso deve avere a supporto un’analisi esauriente e penetrante della situazione di fatto e deve collegarsi ad una concezione strategica realistica. Ovviamente, ciò non esclude la possibilità di errori (nessun abbozzo teorico può esser perfetto), che il Partito è chiamato a correggere. Comunque, questo è un motivo in più a favore di una continua discussione interna al Partito -basata sulle esperienze acquisite-  a proposito della comprensione che si ha della situazione politica e per far sì che questa metta effettivamente radici nella coscienza dei militanti: il lavoro teorico appartiene all’attività politica per come il DKP la intende. Con questa sua concezione, il Partito si colloca nella tradizione della Terza Internazionale, dunque, all’interno della concezione leninista di un Partito, che punta ad un’attività politica né spontaneistica né puramente pragmatica, sì piuttosto basata su una chiara visione dei complessivi e contraddittori processi sociali, sulla sicura intelligenza delle leggi e forze motrici della storia.

 

§. 2 - La comprensione della storia.

Leggi e forze motrici della storia: questa, al primo sguardo, si presenta agli uomini come un contraddittorio, disordinato e scomposto succedersi di avvenimenti, determinati dall’arbitrio di singoli individui e gruppi, dipendenti dalle decisioni dei potenti, insomma un complicato intreccio di casualità senza senso e di accadimenti densi, invece, di conseguenze. Insomma, uno spettacolo di cui non sembra proprio sia possibile trovare una regola razionale.

Il primo fu Hegel a disegnare una teoria filosofica della necessità interna al corso della storia. Marx ed Engels presero le mosse dal programma hegeliano, interrogandosi, però, sulle condizioni materiali da cui e in cui la storia si svolge. La conoscenza delle condizioni materiali e delle leggi dinamiche dei processi, nei quali siamo coinvolti, consente anche un attivo intervento, realistico e finalizzato, sul loro svolgimento. La conoscenza scientifica della storia è il presupposto di un agire politico, che non nasca da opinioni soggettive o da soggettivi desideri, ma sì da fondamenti solidi: Marx ed Engels hanno fornito il nucleo di base di una tale teoria della storia, ovvero ilmaterialismo storico.

In primo luogo, gli uomini sono e restano esseri naturali e naturali, appunto, sono i loro bisogni primari: aria da respirare, cibo, difesa dalla violenza naturale e dalle bestie selvagge, sicurezza nell’allevamento della prole.

Come si vede, si tratta di bisogni che ritroviamo, tutti, anche nel mondo animale; ma nel lungo processo di “umanizzazione della scimmia”, l’umanità si è sviluppata fino al punto da non rispondere più alla proprie necessità con ciò che trovava immediatamente in natura, ma sì producendo essa stessa ciò di cui abbisognava (e nella quantità in cui ne abbisognava). A questo punto, l’umanità non si è limitata a riprodurre la propria vita, ma è giunta a produrre le condizioni stesse della riproduzione: per questo erano necessari gli strumenti di produzione, per la cui costruzione furono inventati altri strumenti. In questo modo andò mano a mano costituendosi un sistema, sempre più complesso e differenziato, di strumenti di produzione, che determinò continue modificazioni delle condizioni naturali di vita e produsse, anche, bisogni sempre nuovi.

Il sistema degli strumenti di produzione divenne sempre più complesso, quanto più si andava articolando sulla divisione del lavoro tra ‘specialisti’ dell’uno o l’altro momento produttivo.

La divisione del lavoro divenne regola e si costituì un sistema di reciproca dipendenza, che rese sempre più l’uomo un essere sociale. Per regolare queste relazioni sociali -i rapporti di produzione- si rese necessario un ordine giuridico, principi morali di comportamento e, pure, l’istituzionalizzazione di una cultura, capace di garantire l’elaborazione della crescente esperienza pratica e delle conoscenze scientifiche, sempre più complesse e differenziate, allo scopo di perfezionare gli strumenti di produzione ed i mezzi per soddisfare  necessità sempre in aumento.

Dalla divisione del lavoro nacque lo scambio dei diversi beni forniti da produtori differenti; mano a mano che si andava sviluppando la divisione del lavoro, si sviluppava anche un commercio sempre più emancipato dai bisogni immediati ed i beni divennero merci da scambiare sul mercato; da ciò nacque, anche, la proprietà privata.

Chi può contare sulla proprietà degli strumenti di produzione, acquista potere su coloro i quali, invece, possono solo servire quegli stessi strumenti con la loro forza-lavoro. Sulla base offerta dal tipo di rapporti di proprietà si vanno elevando classi sociali, che determinano in modo differenziato la distribuzione sociale della ricchezza prodotta. Dai contraddittori interessi di classe si origina la lotta tra le classi e questa lotta determina il corso stesso dello sviluppo sociale.

“La storia di tutte le società finora esistite è la storia delle lotte di classe. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.” [14]

La lotta di classe è la forma politica fondamentale della storia: ma -come si legge ancora nel Manifesto di Marx ed Engels- ogni lotta di classe è lotta politica; il contenuto della lotta è determinato dal sistema economico di produzione e di scambio. Ogni livello di sviluppo raggiunto dalla forze produttive e dagli strumenti di produzione assicura alla società tutta -agli sfruttatori come anche agli oppressi-  una condizione di esistenza (anche se ben diverse son le sorti dei signori e degli schiavi).

“Per poter opprimere una classe è comunque necessario assicurarle quelle condizioni, che le permettano se non altro di condurre la sua misera esistenza da schiavo.” [15]

Quando, sotto certi rapporti di proprietà, la capacità produttiva di una società non è più in grado di offrire condizioni sufficienti di esistenza ad una grande massa di sfruttati ed oppressi, lo sviluppo delle forze produttive non rappresenta più un’utilità sociale a cui, sia pure in piccola parte, anche i dominati partecipino, ma addirittura quello sviluppo viene ostacolato dai rapporti di proprietà ovvero si ripercuote a danno della società, è proprio allora che sorge la necessità di mutare l’ordinamento sociale ed i rapporti di proprietà.

“Abbiamo però veduto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si eresse la borghesia, furono generati in seno alla società feudale.  A un certo grado dello sviluppo di questi mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, vale a dire l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà, non corrisposero più alle forze produttive già sviluppate. Quelle condizioni, invece di favorire la produzione, la inceppavano. Esse si trasformavano in altrettante catene.  Doveva­no essere spezzate, e furono spezzate. Subentrò ad esse la libera concorrenza con la costituzione politica e sociale ad essa adatta, col dominio economico e politico della classe borghese. Sotto i nostri occhi si sta compiendo un processo analogo. Le condizioni borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate.  Da qualche decina d'anni la storia dell'industria e del commercio non è che la storia della ribellione delle moderne forze produttive contro i modemi rapporti di produzione, contro i rapporti di proprietà che sono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali, che nei loro ritorni periodici sempre più minacciosamente mettono in forse l'esistenza di tutta la società borghese.  Nelle crisi commer­ciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti già ottenuti, ma anche delle forze produttive che erano già state create.  Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l'epidemia della sovrapproduzione.  La società si trova improvvisamente ricaccia­ta in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussi­stenza; l'industria, il commercio sembrano annientati, e perché?  Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussisten­za, troppa industria, troppo commercio.  Le forze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della proprietà borghese; al contrario, esse sono divenute troppo potenti per tali rapporti, sicché ne vengono inceppate; e non appena superano questo impedimento gettano nel disordine tutta quanta la società borghese, minacciano l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere le ricchezze da essi prodotte.” [16]

Queste proposizioni, che traggo dal Manifesto, possiamo dirle profetiche, dacché valgono come anticipi delle crisi economiche, dei conflitti bellici mondiali che verranno ed, anche, mostrano le radici di quei disastri ecologici, che minacciano l’esistenza stessa dell’uomo.

La realtà ha confermato quelle proposizioni con l’immiserimento di gran parte del mondo che ha comportato la morte per fame di miliardi di uomini; con la produzione di armi atomiche, biologiche, chimiche, che mettono in pericolo la sopravvivenza stessa dell’umanità; con il crescente inquinamento e distruzione dell’ambiente.

“Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, vale a dire il capitale, si sviluppa anche il proletariato, la classe dei moderni lavoratori, i quali vivono sino a tanto che trovano lavoro, e trovano lavoro soltanto fino a che il loro lavoro valorizza [17] il capitale. Questi lavoratori, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo di commercio e perciò sono egualmente esposti a tutte le vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato.”  [18]

La contraddizione (Gegensatz) di classe fra borghesia e proletariato è l’opposizione (Widerspruch) politica determinante della società capitalistica. E contro tutte le chiacchiere di coloro i quali parlano di scomparsa, oggi, del proletariato, varrebbe la pena ricordare qual è il significato del concetto di «proletariato»: “Il proletariato è quella classe della società, che ricava il proprio sostentamento solo dalla vendita del proprio lavoro e non dal profitto di un qualche capitale; è quella classe, il cui benessere o la cui miseria, la cui vita o la cui morte, insomma, la cui intera esistenza dipende dalla domanda di lavoro, dunque, dalla pura compra-vendita di tempo di fatica, dalle oscillazioni di una concorrenza che non conosce freni.” [19]

La forma esteriore in cui si configura il rapporto salariale cambia col mutare dell’organizzazione del lavoro e dei rapporti fra lavoro produttivo e lavoro non produttivo; la contraddizione di classe, però, -senza di cui non potrebbe esistere il rapporto di capitale-, non risulta toccata da quei mutamenti.

Un compito della teoria -che nella prassi del confronto politico si rafforza e verifica- è render visibile la lotta di classe per portarla alla coscienza, nonostante tutti i mascheramenti prodotti dall’ideologia borghese: è questo il modo per far nascere la coscienza di classe.

 

§. 3 - La dialettica della natura.

Alcune correnti filosofiche che, ingannandosi, si richiamano a Marx (ad es., la così detta Scuola di Francoforte, oppure i “filosofi della prassi” o gli esistenzialisti di sinistra) ritengono che la dialettica sia la struttura dei processi che nascono dall’attività dell’uomo nella storia e che sia legata essenzialmente al fatto che il soggetto si rapporta a se stesso e pone liberamente i suoi scopi: il presupposto è che l’uomo sia distinto radicalmente dalla natura e ad essa contrapposto.

Concepire in questo modo la particolare posizione dell’uomo nel mondo significa abbandonare il principio fondamentale dell’unità materiale del mondo stesso e, dunque, abbandonare il materialismo.

Tutti i fenomeni di questo mondo sono espressioni di una stessa realtà materiale, che si articola in complessi sviluppi e differenziazioni di livelli: ognuno di questi livelli ha proprie specifiche leggi dinamiche, le quali, però, vengono a costituire un insieme di interconnessioni.

Anche la natura non-umana definisce un sistema, costruito dall’interazione dei suoi elementi e nel quale, dunque, ogni elemento si lega all’altro, in modo più o meno diretto: proprio la crisi ecologica ci ha reso consapevoli di tale sistema di reciproche dipendenze in ambito naturale.

L’uomo, che opera sulla natura come soggetto libero, senza conoscere o senza tener in conto le interconnessioni naturali, provoca disastri non solo per la natura, ma anche per se stesso: anche per questo, non è possibile più consentire che il gioco degli interessi particolari, così densi di conseguenze  di grande estensione, possa continuare a svolgersi all’insegna del principio dell’ economia borghese «laissez-faire, laissez-passer».

In realtà, la dialettica della natura è immediatamente anche momento della dialettica sociale.

In quanto essere naturale, l’uomo ha bisogni, che soddisfa ed amplia in quanto essere sociale; in quanto essere sociale è dotato di un arco di possibilità determinate dalla natura e che, dunque, lo qualificano come essere naturale. La dialettica sociale della lotta di classe e del rapporto fra essere e coscienza corrisponde alla dialettica di natura e società nell’ interscambio dell’uomo con la natura” (Marx) e questa, a sua volta, presuppone la dialettica della natura (Engels), in quanto universalità delle forme dinamiche della materia: se astratto dalla fondamentale sua relazione con una visione del mondo dialettico-materialistica, il materialismo storico resta come sospeso in aria.

L’unità di una visione del mondo scientifica della natura e della società costituisce il fondamento dell’agire politico e della comprensione, che i comunisti hanno di sé: questi, infatti, non possono prender coscienza del loro ruolo nella storia, se non intendono l’interna connessione universale (Goethe).

 

§. 4 - Errori passati e prospettive future.

Quando, nel suo programma del 1978, si assumeva il compito di “approfondire fra gli operai e gli altri lavoratori la consapevolezza della propria collocazione di classe e l’inconciliabile contraddizione fra i propri interessi di classe e gli interessi di potere e di profitto del grande capitale”, il DKP si ricollegava alle consapevolezza di Marx, Engels e Lenin circa il significato di una comprensione teorica della storia per una corretta prassi rivoluzionaria.

Ma nei venti anni successivi della sua attività fino alla caduta delle società socialiste, il DKP ha acquisito anche una corretta comprensione di sè? Ha realizzato il suo compito di sviluppare la coscienza di classe attraverso la lotta politica di classe, in modo da garantire a quella stessa coscienza sicuri fondamenti teorici, almeno nell’ambito delle forze, che il Partito può organizzare? Uno sguardo retrospettivo sui 25 anni di storia del Partito e la considerazione dei compiti futuri non possono prescindere da questa domanda -anche se non si può dare un’ unica risposta a tale domanda. Torniamo, ancora una volta, al congresso programmatico di Mannheim 1978.

Il Partito, rifondato dopo lo scioglimento del DKP imposto dalla legge e che si riunisce a Mannheim, ha 10 anni e si tratta di un decennio (1968-78) ricco di svonvolgimenti politici, che accompagnano la crisi dell’ordine imperialistico fino ad allora imperante e la costituzione di un nuovo ordine per l’ultimo quarto di secolo.

La politica del roll back contro l’Unione Sovietica e la minaccia rappresentata dalla superiorità nucleare delle Potenze occidentale, entrambe, sono fallite. La fase del ‘cauto commercio’ (?), che iniziò con la cosiddetta ‘ politica di distenzione’ dell’era Brandt, sottintendeva l’uso della dipendenza economica dai paesi capitalistici, per acuire le contraddizioni interne dei paesi socialisti, fino a farne un’arma controrivoluzionaria. Dall’ideologia del ‘socialismo dal volto umano’ fino alla KSZE (?), si svolse un’intera gamma di strategie controrivoluzionarie nei confronti dei paesi socialisti.

Nello scontro sociale di questi anni il giovane DKP ha saputo conquistarsi un posto, in particolare radicandosi in una vasta alleanza anti-imperialistica nel movimento per la pace, anche se spesso pagando, come prezzo, necessario di anteporre le attività richieste da questo movimento agli scopi propri del Partito, talvolta anche sottovalutando -errore in cui, d’altronde, è caduta anche la DDR, la quale era attratta eminentemente dalla possibilità di un più ampio riconoscimento internazionale- i pericoli impliciti nella nuova “Ostpolitik”.

In tale situazione - in cui lo spazio di movimento politico del Partito era ridotto da condizioni esterne-, il lavoro teorico si è dimostrato fattore essenziale della stabilità interna e dell’efficacia esterna del DKP. E’ ben difficile che un altro PC del mondo Occidentale abbia saputo condurre, con mezzi tanto scarsi, una così ampia attività di ricerca scientifica ed abbia prodotto tante pubblicazioni. Gli studi, i materiali e i convegni dell’ Istituto di studi e ricerche marxiste (IMSF), - le pubblicazioni dell’editrice Marxistische Blätter, - gli scritti di solidali autori comunisti negli Studien zur Dialektik dell’editrice Pahl - Rugenstein o di altre imprese editoriali hanno largamente testimoniato l’impegno scientifico-culturale dei comunisti ed ampliato la loro influenza, ben oltre l’ambito strettamente comunista. Tra i lavori dell’ IMSF voglio ricordare gli annuari e resoconti - sull’occupazione operaia, - sul mutamento del movimento dei lavoratori, - sulla tipologia della crisi degli anni 80, - sul modo di vita dei salariati, - sulla teoria marxista della personalità, - sulla Rivoluzione francese e sull’odierna teoria della rivoluzione, - e l’importante volume per il Centenario di Marx. Dei trenta volumi degliStudien zur Dialektik ricordo il volume collettaneo su Antonio Gramsci, - quello sulla filosofia dal punto di vista cosmopolitico e sul socialismo scientifico, - l’altro sulla filosofia come difesa del tutto della ragione, - lo studio di W. Rügemer sull’antropologia filosofica e - le ricerche  di H. Bert Reuvers sulla Filosofia della pace. Insomma, l’attività scientifica dei marxisti nella Repubblica federale è stata ampia e di rilievo. Questo, per quanto riguarda il bilancio positivo.

Ma ad esso si contrappone il fatto che l’apporto teorico, auspicato e richiesto dall’organizzazione di Partito, solo in piccola parte riuscì a tradursi in pratica politica, capace ad un tempo di rispondere efficacemente alle urgenze delle cose, ma anche di avere un respiro più largo; in tal modo la qualità della ricerca filosofica e scientifica restò parzialmente inutilizzata e sempre più si distanziò dalla pratica politica quotidiana del Partito.

Anche per le esigenze che nascevano dalla lotta per la pace, si ebbero sottovalutazioni e ritardi nella promozione di altri movimenti democratici: ad es., il movimento per la difesa dell’ambiente ed, in parte, quello femminile.

Per quanto il DKP sia stato il primo partito ad impegnarsi praticamente e ad elaborare un programma in cui venivano delineate strategie classiste di lotta per la difesa dell’ambiente, tuttavia il Partito lasciò ai Verdi la lotta per mantenere le fondamentali condizioni naturali della vita. Il DKP fece da battistrada nella lotta in difesa degli interessi delle lavoratrici ed, espressamente, collegò strettamente la questione femminile alla più generale lotta di classe; tuttavia, per la specificazione -pur necessaria- della questione sessuale, la politica del Partito incontrò qualche difficoltà in seguito all’attività del movimento femminista: in generale si può dire che il Partito -giustamente fermo nel sottolineare il ruolo centrale della classe lavoratrice per il progresso sociale-, abbia in qualche misura sottovalutato il significato dei cosiddetti ‘nuovi movimenti sociali’ ed anche la loro capacità di attrattiva per i comunisti stessi.

Certamente questi ritardi hanno contribuito a che, nonostante l’impegno del partito a combattere le posizioni non marxiste che venivano dai ‘nuovi movimenti sociali’, queste riuscissero, invece, ad influenzare parzialmente lo stesso Partito, come chiaramente si vide alla fine degli anni 80. Presso i (militanti) ‘più nuovi’ si fecero strada tendenze ad abbandonare posizioni classiste nella lotta per la pace; il rapporto dialettico tra problemi di classe e problemi dell’umanità fu abbandonato, isolando così unilateralmente questi ultimi; rispetto alla questione ecologica si presentarono punti di vista da filosofia della vita e, rispetto alla questione femminile, si affermò la tendenza ad oscurarne gli aspetti politici, riducendo tutto ad un mèro scontro fra sessi: a questo punto, risultò inevitabile la rottura con la parte del Partito, che si manteneva, invece, su posizioni rivoluzionarie.

Le molteplici radici dei ritardi e debolezze politiche mostrate dal Partito nonostante i risultati da esso ottenuti in ambito concettuale e teorico, richiedono un’accurata indagine, che certo non può esser fonita in un semplice articolo: qui è possibile, solo, indicare un orientamento gravemente erroneo.

In Germania, come dovunque in Occidente, i comunisti hanno fatto esperienza quotidiana di quanto forte sia ancora il capitalismo e quanto, nelle metropoli del capitale, esso sia capace di legare le masse a sé anche con l’aiuto di molteplici strumenti ideologici -e tutto ciò, nonostante l’approfondirsi della crisi generale ed il sempre nuovo manifestarsi di conflitti e contraddizioni. Bisogna riconoscere, tuttavia, che il Partito, nel valutare la situazione politica, si è lasciato guidare dalla convinzione -che era dell’Unione Sovietica, ma anche degli altri Paesi socialisti, compresa la DDR-, secondo cui il campo socialista era ormai divenuto la forza determinante dello sviluppo storico mondiale, mentre le Potenze capitalistiche si trovavano, invece, sulla difensiva.

In realtà, chi avesse fatto attenzione alle differenze dei livelli di produzione e di partecipazione al commercio mondiale, avrebbe potuto convincersi del contrario.

La politica mondiale socialista avrebbe dovuto esser orientata contro il capitalismo dominante -e questo nella difficile condizione di dover costringere l’avversario alla coesistenza pacifica e, contemporaneamente, di portare avanti la costruzione del socialismo.

Questa era la situazione dell’Unione Sovietica dopo la Rivoluzione d’Ottobre: troppo frettolosamente convinti che ormai  il socialismo avesse -per così dire-  la vittoria in tasca, si ritenne anche che fosse possibile, senza pericolo per il socialismo, cooperare utilmente con le metropoli capitalistiche ed aumentare, così, la propria partecipazione al commercio internazionale; da ciò derivarono gravi errori nella gestione dei labili equilibri della coesistenza e della concorrenza internazionale.

In questo contesto, il DKP non è stato capace di tradurre in autonome formule politiche i risultati della sua esperienza pratica e delle conoscenze teoriche acquisite, né dunque di farle pesare nella generale strategia del movimento comunista.

Autocriticamente dobbiamo dire che l’essersi orientato su prospettive di politica internazionale deformate è una delle ragioni principali, per cui il DKP non è stato capace di mobilitare più ampliamente la popolazione tedesco-occidentale, né, quindi, di usare in modo adeguato le potenzialità esistenti; ciò, è ovvio, rese difficile battere i pregiudizi anticomunisti, diretti principalmente contro l’Unione Sovietica e la DDR, alle quali per altro il DKP dimostrava giustamente la sua propria completa solidarietà.

Certamente, questa solidarietà sarebbe apparsa assai più plausibile a coloro i quali, pur non essendo comunisti, erano però orientati criticamente contro il capitalismo -e, così, avrebbe rappresentato un ben maggior sostegno allo stesso socialismo di fatto esistente-, se fosse riuscita a tematizzare in modo più incisivo l’incertezza del confronto fra capitalismo e socialismo e le contraddizioni e debolezze, che da ciò derivavano al sistema socialista.

L’immagine di superiorità che diffondeva la propaganda sovietica ha causato, certo, più di un danno ideologico; ben più utile sarebbe stato, invece, un atteggiamento critico -per quanto, ovviamente, solidale.

Fino a che esiste il capitalismo come rapporto di produzione, la lotta di classe non può conoscer fine. Nelle condizioni della produzione capitalistica non esiste alcuna spontanea solidarietà fra i lavoratori, fra gli sfruttati: chi deve vendere la propria forza-lavoro sottostà alle leggi di concorrenza del libero mercato.

“Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma l’unione sempre più estesa degli operai... Questa organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico, viene ad ogni istante nuovamente spezzata dalla concorrenza che gli operai si fanno fra loro stessi. Ma essa risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente.” [20]

Per quanto difficile possa essere sul momento comprenderlo a fondo, è vero tuttavia che ogni sconfitta del movimento dei lavoratori, sia a livello nazionale che internazionale, apporta nuove esperienze nella lotta contro il capitale, forgia nuove armi per questa stessa lotta.

Oggi la disillusione è grande - almeno tanto grande, quanto lo fu la speranza che la Rivoluzione d’Ottobre avesse significato un’irreversibile mutamento nel corso della storia.

Ma dis-illusione significa, anche, superamento dell’illusione. E noi ci siamo ingannati circa le possibilità del capitalismo di trovare, sia pure nella crisi più profonda, i modi per assicurarsi nuova vita.

Eppure la crisi non è stata tolta di mezzo: la stessa permanenza del capitalismo significa produzione di nuova crisi e l’approfondirsi delle contraddizioni distruttive: quelle diagnosi di Marx ed Engels, che si volevano invecchiate e false, tornano invece -e proprio con i nuovi sviluppi- di sorprendente attualità.

Proprio le sconfitte subite apprendono alla classe lavoratrice l’impossibilità di procedere, senza conflitti, nella direzione di una società a misura d’uomo; che non si dà la possibilità di ‘dialogo imparziale’ tra sfruttatori e sfruttati; che è un incommensurabile autoinganno immaginare la possibilità di un capitalismo ‘portatore di pace’. Ogni passo in avanti, al contrario, non può che presupporre una lotta di classe contro il nemico, dura e richiedente sacrifici.

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