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Trump e l’Unione Europea: tra la pace in Ucraina e una nuova possibile crisi finanziaria
di Enrico Grazzini
Che cosa cambierà per l’Europa con l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca? Predire il futuro, e in particolare prevedere quello che farà Trump – noto, per la sua imprevedibilità e per i suoi umori discontinui – è assolutamente impossibile. Tuttavia occorre fare uno sforzo per tentare di comprendere le conseguenze della nuova situazione americana sapendo che bisognerà di volta in volta modificare le previsioni in base alle dinamiche della realtà. E’ noto che Trump non ama la UE e che appoggia tutti i politici europei nazionalisti di destra che, in una maniera o nell’altra, contrastano l’Unione, da Nigel Farage in Gran Bretagna a Viktor Orban in Ungheria a Matteo Salvini in Italia e Aleksandar Vučić in Serbia. Trump formerà con loro e con altri una sorta di “Internazionale illiberale” che condizionerà pesantemente la politica europea a partire dalla questione dei migranti. Oltre a Orbán, il primo ministro italiano Giorgia Meloni e il Cancelliere austriaco Karl Nehammer sono entrambi ideologicamente vicini a Trump, sebbene Meloni, amica del capitalista libertario e pazzoide Elon Musk, partner stretto di Trump, non condivida la posizione filo-russa di Orbán. Anche il governo olandese sostenuto da Geert Wilders, un politico anti-Islam, anti-immigrazione e populista, può diventare un alleato di Trump. Il neo eletto presidente americano favorirà con forza la disintegrazione nazionalistica della UE.
Nello scontro tra il liberalismo della UE e i nazionalismo fascistoidi interni alla UE, favorirà i regimi illiberali di destra e gli “uomini forti” (o le “donne forti”) che intendono scardinare le democrazie in Europa e svuotare dall’interno la UE. L’ideologia della destra europea più o meno estrema è in generale conforme a quella della tradizione reazionaria: Dio, Patria e Famiglia. In realtà la religione viene invocata non nel suo aspetto trascendente e liberatorio ma perché impone una disciplina superiore, intima e ferrea, l’obbedienza a una entità superiore. Anche l’amore di Patria obbliga all’obbedienza al Capo e a guardare con sospetto gli oppositori critici, le minoranze (e soprattutto gli “alieni” gli immigrati, che per definizione non hanno patria, e che quindi per definizione portano indisciplina, scompiglio, e perfino terrorismo).
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Carlo Rovelli sulla sfiducia nella scienza e nelle competenze
di Luca Busca
Carlo Rovelli è intervenuto domenica 8 dicembre a Più Libri Più Liberi per celebrare il decimo anniversario del suo libro più famoso e diffuso, Sette piccole lezioni di fisica. Il Professore, interrogato da Marco Motta, giornalista di Radio 3 Scienza, in merito alla crisi di fiducia nei confronti della scienza e delle competenze ha così illustrato la problematica.
“La reazione contro le competenze non è caduta dal cielo, ha dei motivi legittimi, fortemente legittimi. Fammi fare un esempio, a cui tengo moltissimo anche se piccolo ma da cui dipende il resto. Quando c’è stato il Covid, molte persone hanno reagito contro gli esperti che imponevano di fare qualcosa spesso in maniera scomposta e non sempre efficace per la società. In questo contesto la politica si è arroccata dietro delle decisioni giustificate dal fatto che “così dice la scienza”. Ma la scienza non ha mai detto che bisogna fare questo o quest’altro, la scienza al più dice che se tu chiudi le scuole forse muoiono meno persone. Se tu fai stare tutti a casa forse diminuisci un po’ il numero di persone morte. Questo non vuol dire che bisogna stare a casa, che bisogna chiudere le scuole. Vuol dire che questo è quello che sappiamo, poi le decisioni sono quelle politiche che coinvolgono interessi di tante persone da una parte e dall’altra.
Io non avrei voluto essere Giuseppe Conte in quella situazione lì, un momento in cui ha dovuto prendere delle decisioni difficilissime: scegliere tra una soluzione che avrebbe ucciso 50.000 italiani e una che avrebbe reso più poveri 5 milioni di famiglie. Che fare? Non è facile, è difficile. Invece di assumersi le responsabilità delle decisioni, la politica, in Italia così come in Inghilterra e altrove, ha detto: “ah gli scienziati dicono questo” e ha rinunciato alla propria funzione. Chiunque non era d’accordo con quelle decisioni, sulle quali pesano differenze di valore, differenze di interessi, complessità della società, ovviamente ha reagito: “va bene io non mi fido della scienza allora”. Questo è nello specifico quello che è successo col Covid, ma molto più in generale, secondo me, l’origine del problema è nell’atteggiamento del potere di nascondersi dietro le competenze per giustificare quelli che alla fine sono interessi di pochi.
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Alessandro Mazzone, Questioni di teoria dell'Ideologia I
Introduzione di Roberto Fineschi
A distanza di 23 anni viene riproposta l’unica monografia pubblicata in vita da Alessandro Mazzone. Il titolo, Questioni di teoria dell’ideologia, è significativamente seguito da “I”1: una seconda parte, di cui a fine libro l’Autore stesso riporta la struttura, avrebbe dovuto far seguito. Nel suo percorso intellettuale il testo fa da spartiacque tra gli inizi dellavolpiani, lo studio di Gramsci e il profondo ripensamento di temi hegeliani che, negli anni Settanta, aveva dato il suo primo corposo frutto nel complesso saggio sul feticismo del capitale2. Lo studio analitico della teoria marxiana del capitale3 - basato sulla pubblicazione della nuova edizione storico critica delle sue opere4 -, l’approfondimento delle strutture logiche portanti della teoria hegeliana porteranno a una sospensione di giudizio che non si risolverà mai pienamente, lasciando in sostanza allo stato di torso lo sviluppo di una teoria marxista dell’ideologia. Nella speranza di rintracciare nel lascito la seconda parte (che l’Autore dichiarava essere sostanzialmente pronta), per agevolare il lettore cerchiamo di ricostruire le linee portanti del suo ragionamento5.
Elaborando una “teoria dell’ideologia” Mazzone è forse uno degli autori che più seriamente ha ripreso l’impostazione gramsciana del problema del rapporto fra struttura e sovrastruttura, indagando le modalità di riflessione in se stesso del corpus storico-materiale, quindi la possibilità di una azione storica razionale. Lasciando da parte le frasi fatte sulla generica fondazione strutturale della sovrastruttura, Mazzone cerca di ricostruire i processi di mediazione che, a partire dalle determinazioni formali della riproduzione sociale, permettono di sviluppare categorie “fenomeniche” che saranno poi i soggetti agenti alla superficie della società; essi si formeranno delle ideologie e degli orientamenti sulla base della loro prassi sociale. Ciò produce delle “parvenze oggettive”, vale a dire delle ideologie in senso forte: non mero inganno, ma strutture della percezione e dell’autopercezione che sono tali in quanto socialmente praticate da soggetti storicamente determinati.
La struttura fondamentale dell’ideologia borghese è secondo Mazzone la “persona”. Il mondo capovolto non è l’oggetto alienato di una coscienza presupposta che deve riappropriasi della propria essenza; questa è anzi la tipica impostazione ideologica del problema che presuppone la sostanzialità della “persona”.
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Aggressori e aggrediti, jihadisti democratici, curdi dimenticati ed europei inconsapevoli
di Gianandrea Gaiani
Mentre dagli USA all’Europa politici e media accolgono i nuovi padroni di Damasco come eroi democratici, “ex terroristi e “jihadisti moderati”, il leader di Hayat Tahrir al Sham (HTS) Abu Mohammad al-Jolani, ha pronunciato il primo discorso da “uomo forte” di Damasco all’antica grande Moschea degli Omayyaddi, dinastia il cui Califfato fece da “modello” per l’ISIS.
Al-Jolani del resto si muove bene tra i simboli e i dogmi jihadisti di al-Qaeda e ISIS, organizzazioni presso le quali ha militari fin da dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq in cui combatteva gli statunitensi al fianco di Abu Musaib al-Zarqawi, leader di al-Qaeda in Mesopotamia.
Catturato dagli statunitensi venne detenuto a Camp Bucca dove conobbe Abu Bakr al-Baghdadi, insieme al quale venne liberato per poi recarsi in Siria a combattere sotto le bandiere dell’ISIS le forze di Bashar Assad.
“Questa vittoria, fratelli miei, è’ una vittoria dell’intera nazione islamica e segna un nuovo capitolo nella storia della religione, una storia irta di pericoli che ha reso la Siria un’arena per le ambizioni dell’Iran, diffuso il settarismo e alimentato la corruzione”, ha detto al-Jolani. Parole che non lasciano intendere che la Siria resterà uno stato laico anche se HTS si è impegnato per ora a garantire libertà di culto e a non imporre restrizione alle donne.
Da terroristi a paladini della libertà
Tra i più sfegatati fans degli ex qaedisti c’è la CNN e i media vicini all’Amministrazione Biden, tra i quali l’entusiasmo per la caduta di Bashar Assad, alleato di Russia e Iran, sembra cancellare anche il ricordo degli attentati di al-Qaeda negli Stati Uniti e della lunga guerra contro Osama bin Laden e i suoi seguaci. Non a caso, fonti citate dai media statunitensi valutano che presto HTS verrà rimosso dalla lista dei gruppi terroristici (l’immagine qui sotto è del 2017).
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Corea del Sud, Romania, Siria (e anche Francia e Georgia): i 5 giorni che sconvolsero il mondo
di OttolinaTV
Ottoliner, avrei voluto dirvi ben ritrovati; ma ben ritrovati una sega… Dopo aver passato 4 mesi ininterrotti incollato a quella seggiolina lì dietro, come diceva Vasco Rossi mi son distratto un attimo e, nell’arco di appena 5 giorni, nell’ordine avete dichiarato la legge marziale in una delle democrazie più vitali e dinamiche dell’Asia per provare a salvare il culo a un presidente zerbino che ha il 15% dei consensi, annullato con un golpe giudiziario il voto regolare in un Paese dell’Unione europea per salvare il culo a un altro presidente pupazzo che, a consensi, non arriva manco al 10 e, infine, nell’arco di 3 giorni, rovesciato definitivamente il governo siriano che era sopravvissuto a una guerra mondiale per procura, durata oltre 13 anni, attraverso il sostegno incondizionato a un tagliagole di Al Qaida che è magicamente diventato una popstar democratica nonostante continui a pendere sulla sua testa una taglia da 10 milioni di dollari emessa direttamente da Washington. Se mi volevate comunicare che vi stavo mancando, bastava anche meno… Nel caso della celebre canzone dell’intramontabile Vasco, la questione era piuttosto semplice: era tutta colpa d’Alfredo. Nel nostro caso, però, le cose potrebbero essere leggermente più complesse e articolate e se vi dovessi dire che ho un’idea chiara di come si siano svolte queste vicende mentirei spudoratamente, come sinceramente credo stia facendo chiunque in queste ore, invece di porsi una lunga serie di domande, millanti qualche tesi di facile comprensione buona per acchiappare qualche like (compresi, forse, gli stessi protagonisti). Una cosa che però, ormai, mi sembra non possa più essere messa in discussione da chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale è che non si tratta di casi isolati: la guerra totale dell’impero contro il resto del mondo per rallentare il declino e ostacolare la transizione a un nuovo ordine multipolare è in pieno svolgimento, riguarda tutto il pianeta e prevede il ricorso a ogni mezzo necessario; e quel poco che ancora rimaneva in piedi del vecchio ordine liberale – se mai è esistito – è stato definitivamente spazzato via dagli eventi.
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Il fango spagnolo. Piccolo manuale sulla resistenza
di Carlos X. Blanco
Siamo in gran parte spettatori passivi di uno spettacolo imbarazzante. Lo spettacolo di un'oligarchia indecente che ha perso il contatto con la realtà e che conosce solo la lealtà al padrone che li mantiene sul palcoscenico del potere e che li rappresenta come clown arroganti.
In tutto l’Occidente è lo stesso. Si parla di “democrazia liberale”, mentre si procede a un progressivo smantellamento del Welfare State. Il “Welfare”, un tempo esisteva e corrispondeva all’offerta pubblica di alcuni servizi sostenuti dall’erario, al fine di difendere “il capitalismo” dal pericolo rivoluzionario.
La ricostruzione dell’Europa occidentale dopo il 1945, cioè quella in cui i russi accettarono di fermarsi sulla “cortina di ferro”, comprendeva qualcosa di più del famoso “Piano Marshall”: nello stesso pacchetto rientrava l’ americanizzazione intensiva dell’Europa, cioè la sua conversione in un cretino. Le rovine, le montagne di cadaveri e macerie, furono ripulite dalla tempestiva pioggia di dollari. I dollari sono serviti affinché le élite “denazificate” del nostro continente diventassero lacchè dipendenti dagli yankee. Sono diventati tirapiedi incapaci di agire con la minima autonomia di fronte alla CIA e al Pentagono, che tiravano tutte le fila. Ancora oggi questi burattini vengono pagati direttamente dalle grandi multinazionali e dalle multinazionali, dai fondi spazzini e dagli scantinati dello Zio Sam. Tutto ciò che le élite europee guadagnano, sia legalmente occupando posizioni di grande reddito e generose indennità, sia con le tangenti illegali inerenti alla loro situazione privilegiata, è denaro che scorre direttamente dalle tasche dei cittadini ai paradisi fiscali, dove i soldi sono segretamente criptati, ma i conti non sono segreti per la CIA e per le altre entità terroristiche dell'Impero Yankee. Poiché l’informazione è potere, allo scagnozzo che forma l’élite o la casta europeista e demoliberale è consentito il suo arricchimento sporco e illegale. Ma purché non rappresenti un pericolo per l’Impero. In caso contrario, attenzione! Il segreto non è più un segreto. Tutta l’élite occidentale, da Macron e Sánchez, a Meloni o Scholz, è sostenuta e minacciata allo stesso tempo dal potere atlantista-capitalista.
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Dopo Bashar
di Enrico Tomaselli
Sulla repentina caduta della Siria in mano ai terroristi jihadisti, cala il sipario. Così come sulla Repubblica Araba Siriana, e sulla dinastia Assad. Ci sono ancora non pochi punti oscuri, o non ancora definiti, che probabilmente si chiariranno nei giorni e nelle settimane a venire. Ovviamente, su tutti, il comportamento di Assad durante la crisi e sino al suo epilogo, e forse ancor più quello dell’Esercito Arabo Siriano, che non solo non ha praticamente combattuto una sola battaglia per contrastare l’avanzata jihadista, ma ha anche inscenato una pantomima mistificatoria al fine di coprire la sua decisione di consegnare il paese a Hay’at Tahrir al-Sham. Restano ancora avvolte dalla nebbia emotiva di questi giorni anche le evidenti leggerezze e gli evidenti errori commessi da Russia e Iran. Ma, appunto, molte di queste cose si chiariranno in seguito. A questo punto, in ogni caso, si tratta di tirare una linea, e guardare oltre.
La prima cosa da mettere in chiaro è che la vittoria jihadista – tanto più per i tempi e i modi in cui si è realizzata – è ben lungi dal porre fine al caos siriano; anzi, al contrario è foriera di un ulteriore rinfocolamento. L’esempio che viene immediatamente è quello della Libia. Tanto per cominciare, c’è la questione curda, che Ankara sta cercando di risolvere scatenando le sue milizie del Syrian National Army (e anche intervenendo direttamente), anche approfittando di questa fase transitoria, ma che è ben lungi dal trovare una soluzione pacifica. Oltretutto, le forze curde (che almeno per ora continuano a contare sull’appoggio statunitense) controllano una bella fetta di territorio, da nord a sud, e soprattutto parte del confine con la Turchia. Anche la questione dei rapporti (di forza) tra HTS e SNA è tutta da verificare. Probabile che si arrivi a una qualche forma di accordo [1], ma non sarà una convivenza facile; e comunque, a mio avviso, l’HTS non accetterà un ruolo subalterno alla Turchia, né una significativa influenza di Ankara in Siria, e man mano che consoliderà il suo potere ciò si accentuerà.
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Il Gioco Segreto…che ci ha regalato quarant’anni
di Paolo Di Marco
1- 1983
Correva l’anno 1983, e in Marzo Ronald Reagan, il presidente più amato della storia degli Stati Uniti, definisce l’Unione Sovietica ‘L’impero del male’; due settimane dopo lancia il progetto dello Scudo Missilistico, SDI, subito soprannominato dai giornali Guerre Stellari.
L’idea era di creare un sistema missilistico a più livelli che rendesse impossibile a un missile nemico colpire gli Stati Uniti.
Reagan gioca sulla impressione di sicurezza e tranquillità che lo Scudo avrebbe creato negli americani, senza mettere in conto, o perlomeno senza dirlo, che questo veniva a rompere l’equilibrio dinamico di ‘mutua distruzione garantita’ che aveva garantito la pace fino ad allora.
Mentre l’URSS era arrivato a ritenere l’arsenale nucleare, pur fondamentale per la sopravvivenza del paese, un mero strumento politico, negli USA erano in ballo molte opzioni militari; le principali 8 erano:
attacco preventivo per decapitare il nemico
lancio di missili (nucleari) dopo avvertimento
lancio sotto attacco mentre le testate nemiche esplodevano
inasprire ‘orizzontalmente’ spostando una guerra in Europa fino all’Asia
creare una guerra su due fronti facendo in modo che la Cina attaccasse l’URSS
preposizionare testate nucleari nello spazio
invadere l’Europa dell’Est con eserciti Nato,
e, il nuovo piano, eseguire un inasprimento progressivo delle minacce nucleari con lo scopo di controllare e vincere una guerra nucleare limitata.
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Uccidere un popolo
di Chris Hedges per scheerpost.com
I decantati valori democratici, la moralità e il rispetto dei diritti umani, rivendicati da Israele e dagli USA, sono sempre stati una bugia. Il vero credo è questo: abbiamo tutto e se provi a togliercelo ti uccideremo
Quello che segue è il discorso principale che ho tenuto il 1° novembre alla conferenza, La fine dell’impero, presso l’Università della California di Santa Barbara [prima delle elezioni negli Stati Uniti]. La conferenza è stata organizzata dal professor Butch Ware, che era anche il candidato vicepresidente del Partito Verde. Gli amministratori dell’università hanno vietato la pubblicità anticipata del discorso sugli account dei social media dell’università.
* * * *
Trascrizione
Lo sterminio funziona. All’inizio. Questa è la terribile lezione della storia. Se Israele non viene fermato, e nessuna potenza esterna sembra disposta a fermare il genocidio a Gaza o la distruzione del Libano, raggiungerà i suoi obiettivi di spopolamento e annessione della parte settentrionale di Gaza.
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Damasco come Kabul. La fuga di Assad è il “capolavoro” di Hakan Fidan
di Gianandrea Gaiani
Il repentino crollo, quasi senza combattere, dell’esercito Arabo Siriano e l’altrettanti rapido collasso delle strutture di governo siriane, subito dichiaratesi pronte a cooperare con gli insorti, impongono di porsi molti interrogativi circa le origini, le cause e i mandanti del blitz che in una dozzina di giorni ha portato alla caduta del regime di Bashar Assad a Damasco.
Mancano molti elementi necessari a compiere analisi e valutazioni esaustive, altri sono vagamente intuibili dalle prime dichiarazioni e prese di posizione mentre alcuni aspetti sono palesemente evidenti in un contesto siriano in cui oggi non è possibile dare nulla per scontato.
Quello che è accaduto tra il 27 novembre e l’8 dicembre in Siria assomiglia molto a quanto accadde in Afghanistan nell’estate 2021, quando le milizie talebane avanzarono repentinamente in tutta il territorio nazionale mentre i reparti governativi gettavano le armi e i governatori regionali aprivano le sedi governative ai capi talebani. Solo in seguito emerse che dopo gli accordi di Doha e l’inizio del ritiro statunitense e degli altri alleati occidentali emissari talebani ben supportati, anche finanziariamente, dall’intelligence pakistana si assicurarono il supporto di tutte le autorità civili e militari solo teoricamente fedeli al presidente Ashraf Ghani.
Il sistema di potere caratterizzato da forte corruzione e la fuga di Ghani da Kabul negli Emirati Arabi Uniti, il 15 agosto 2021, aggiungono un ulteriore parallelismo tra le vicende afghane di tre anni or sono e quelle siriane di oggi, non ultimo le congratulazioni dei talebani al popolo e ai ribelli siriani con l’auspicio di “una transizione condotta secondo le aspirazioni del popolo siriano” oltre che nella fine delle ingerenze straniere.
Ghani fuggì ad Abu Dhabi, Bashar Assad ha raggiunto prima la base area russa di Hmeymin (Latakya) a bordo di un cargo russo Il-76 (che con ogni probabilità ha imbarcato anche familiari e i più stretti collaboratori) e successivamente la Russia dove sarebbero stati trasferiti la moglie e i figli già la scorsa settimana.
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Ordinare il caos
di Enrico Tomaselli
C’è un passaggio, nell’intervista rilasciata da Lavrov a Tucker Carlson, che mi ha colpito [1], ed è quando dice che gli Stati Uniti creano il caos e poi vedono come utilizzarlo. Effettivamente, e soprattutto a partire dalla caduta dell’URSS, la politica estera statunitense sembra assolutamente uniformata a questo principio base, creare il caos (nella più assoluta indifferenza per ciò che poi significa per milioni di persone), e solo successivamente porsi il problema di come trarne concretamente vantaggio. Naturalmente si potrebbe aprire un’ampia riflessione su ciò, sulle ragioni profonde che lo determinano, ma non è ovviamente questa la sede opportuna. Vale qui semplicemente il tenere a mente questa caratteristica della politica imperiale americana, poiché spesso si tende ad attribuirvi una progettualità strategica che semplicemente non c’è, laddove – appunto – c’è invece la convinzione che il caos sia sempre e comunque foriero di opportunità, e che in linea di massima avvantaggi sempre gli USA più che i suoi avversari.
Se guardiamo adesso a quanto sta accadendo in Siria, tenendo presente questo assunto, possiamo provare – in linea puramente teorica e astratta – a ordinare il caos, ovvero a cercare di identificare il senso degli avvenimenti.
La premessa necessaria (ma che non implica alcuna spiegazione complottista) è che negli accadimenti di questi giorni c’è, sotto molti aspetti, un margine di inspiegabile – o meglio, di non spiegato, non chiarito.
Guardando ai fatti in ordine cronologico, il primo gap è: come è stato possibile che l’intelligence di tre paesi (Russia, Iran e Siria) non abbia avuto alcuna contezza di ciò che si stava preparando nella provincia di Idlib? O ancora meglio, come è stato possibile che siano stati sottovalutati a tal punto i segnali che, sicuramente, erano stati rilevati? In questo – e sottolineo ancora una volta, senza alcun suggerimento complottista – c’è in fondo una certa similitudine con il 7 ottobre e l’operazione Al Aqsa Flood. Probabilmente un mix di sottovalutazione del nemico e sopravvalutazione di sé stessi.
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Per una teoria del conflitto: la nuova edizione del Capitale di Marx
di Francesco Ravelli
Tanto spesso, in questi ultimi anni, abbiamo affermato di essere di fronte a una nuova fase storica, nella quale le contraddizioni sistemiche sono in rapido sviluppo e in costante accrescimento: crisi del modo di produzione capitalistico, costante innalzamento della tensione bellica, genocidio del popolo palestinese, crisi ambientale, violenza sistemica (dallo sfruttamento di classe senza quartiere alla violenza di genere).
Davanti a questi processi, nei quali svolge un ruolo regressivo, un Occidente in crisi di egemonia cerca disperatamente di rilanciarsi a livello ideologico, rappresentando sé stesso come la civiltà più avanzata, un armonico «giardino» posto sotto assedio da parte della «giungla» (la barbarie, le autocrazie, i popoli passivi e arretrati).
In questo contesto, e proprio per la necessità di dare sostanza a un’ipotesi di fuoriuscita da questa crisi così grave e profonda e di combattere efficacemente le armi ideologiche dell’avversario, assumono una rinnovata centralità teorica e politica lo studio e l’elaborazione del marxismo, ossia di una visione del mondo ancora capace di spiegare i processi in atto e indicare una prospettiva alternativa di società.
Giunge dunque particolarmente opportuna la nuova edizione del testo fondativo, del pilastro fondamentale del marxismo, il primo libro de Il Capitale di Karl Marx, curata per Einaudi (nella prestigiosa collana I millenni) da Roberto Fineschi, che ha coordinato una squadra di traduttori composta da, oltre a sé stesso, anche da Stefano Breda, Gabriele Schimmenti e Giovanni Sgro’.
Questa edizione è frutto del lavoro aperto da decenni intorno ai testi marxiani nell’ambito del progetto della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx e di Engels, la MEGA2 di cui Fineschi, studioso e compagno con cui abbiamo il piacere di collaborare da anni, è uno dei protagonisti.
Sulla fisionomia e sulle acquisizioni di questo lavoro filologico, che sta consentendo di portare alla luce nuovi testi e soprattutto di chiarire alcuni snodi fondamentali della riflessione di Marx, rimandiamo ai lavori di Roberto e intanto all’intervento di Francesco Ravelli, più sotto pubblicato, alla presentazione del Capitale tenuta il 21 novembre presso il circolo OST Barriera a Torino.
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Un Marx del ritorno al futuro
di Marco Bertorello
Kohei Saito individua la battaglia ecologista e quella egualitaria come necessarie a rendere l’ambientalismo socialmente sostenibile, ma fatica a individuare nella decrescita una prospettiva credibile
La crisi climatica è tema indubbiamente complesso, ma come suggerisce John Maeda occorre trovare un equilibrio tra complessità e semplicità attraverso una graduale riduzione della prima pur senza avere l’obiettivo di liberarsene. Se semplificare rischia di condurre alla semplificazione, l’eccesso di complessità, al contrario, fa scivolare verso l’inconcludenza, il disorientamento e di conseguenza l’inazione. Da qui la necessità di trovare un equilibrio tra le due polarità.
Fatta questa un po’ pedante precisazione provo a misurarmi con il tema a partire dall’ultimo testo del filosofo marxista giapponese Kohei Saito [Il Capitale nell’antropocene, Einaudi, 2024]. Un testo di un autore che, come dice Salvatore Cannavò in un’intervista [Saito Kohei: quell’ecologista di Marx, in «Millennium», novembre 2024], ha «il dono della chiarezza» e forse anche per questo sta diventando un fenomeno editoriale mondiale a partire dalle 500 mila copie vendute proprio in Giappone. Un numero esorbitante, un fenomeno editoriale che non è detto possa tradursi in cambiamenti concreti. Questo successo tuttavia suggerisce come i contenuti del testo abbiano intercettato un sentire comune grazie a un modo parzialmente inedito di fare critica alla contemporaneità, nonostante si parli di Marx, anticapitalismo, comunismo coniugato alla decrescita. Temi che se presi uno a uno non sono certo nuovi e che vengono considerati spinosi e controversi, anche in campo democratico-progressista e persino alternativo. Ma nel loro esser messi in relazione in modo eclettico recuperano una forza epistemologica.
Perché la decrescita?
Il cambiamento climatico, come affermava Ulrich Beck già dieci anni fa [Come il cambiamento climatico potrebbe cambiare il mondo, Castelvecchi, 2024], attraverso la forse infelice formula del «catastrofismo emancipatorio», potenzialmente contiene una spinta per porre «fine alla fine della politica», dando vita a una svolta cosmopolita che di fronte alle sfide globali metta al centro nuove «preoccupazioni pubbliche transnazionali».
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Quando la Terra diventò piatta
di Giovanni Iozzoli
Sembra passato un secolo, vero? I virologi onnipresenti a reti unificate. I grafici con l’andamento della mortalità. Le mascherine, gli elicotteri in spiaggia e i droni sui tetti dei palazzi. Il divieto di uscire di casa, ma l’obbligo sostanziale di andare a lavorare. Un tizio con aria solenne che si affaccia sulle reti tv e fa un elenco di cosa “è consentito”. Un paio d’anni di follia, ma anche di ardite sperimentazioni sociali e inedite tecniche di governance. In quella stagione Milano conobbe il più alto numero di manifestazioni consecutive, mai viste dopo il ’77. Quasi in tutta Italia si coagularono aggregati sociali (e social) nel cui caos poteva nuotare di tutto: nazisti e anarchici, fautori della Costituzione e complottisti estremi. Tutti uniti non da una visione comune – sui vaccini o sul mondo – ma da una diffidenza ostile e irredimibile verso “il potere” o una qualche sua rappresentazione immaginaria.
L’unica cosa che teneva davvero insieme quei mondi, era lo stigma – potentissimo e unanime – che veniva riversato su di essi dai media mainstream e dalle forze politiche. Come se una parte del paese fosse stata dichiarata fuori dal consesso civile. Non c’era programmino tv, dalla satira ai tg e perfino le trasmissioni sportive, in cui quelle persone non venissero impunemente insultate da giornalisti, esperti, soubrette e sottosegretari: terrapiattisti era l’epiteto più gentile. Chi di noi non aveva un parente o un collega o un vicino di casa “renitente” al vaccino o semplicemente ostile al green pass? Questa normale condizione critica venne trasformata in ostracismo civile. La massa informe e anonima dei renitenti non aveva diritto di replica. Solo con i “putiniani” si sarebbe riprodotto lo stesso scenario di conformismo di regime: chi non si fida, chi mostra dubbi, chi è riottoso – in quel caso rispetto alle politiche Nato – va bastonato e censurato. Perché la post-modernità (o quel che diavolo siamo) si fonda essenzialmente sulla fede, proprio come il Medioevo. Cambiano solo gli idoli e i profeti.
Che tutto quel travaglio sociale che spaccò le opinioni pubbliche occidentali, potesse semplicemente dissolversi senza lasciare tracce, era una pia illusione.
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Ucraina: l’Occidente e la strategia verso il precipizio
di Pino Cabras
Allora dobbiamo chiedercelo: perché l’Occidente collettivo ha scommesso così tanto – praticamente tutto – su un cavallo palesemente zoppo? Qualcuno risponda. Mainstream e gran parte dei governanti offrono sempre due risposte, per forza false
Le false narrazioni del conflitto
Nella guerra ucraina, finora combattuta con armi non nucleari, i rapporti di forza sul campo ci rivelavano fin dall’inizio un forte divario di mezzi e tecnologie in favore della Federazione Russa. Quella disparità non poteva che portare all’inevitabile sconfitta di Kiev, anche ipotizzando, come in effetti poi c’è stato, un enorme dispendio di mezzi economici e militari delle potenze occidentali per tenere in piedi il blocco ipernazionalista che aveva preso il potere nel 2014.
Per avere un ordine di idee, le spese di Washington e dei suoi vassalli (europei e non solo) in favore di Zelensky & C. sono largamente superiori alle spese militari dell’intera Federazione Russa (che sono dedicate solo in quota minoritaria all’operazione militare in Ucraina). Aggiungiamo che le decine di tornate di nuove sanzioni, presentate come un mezzo per strangolare Mosca, si sono scontrate con una realtà opposta in cui la Russia ha riassorbito il colpo (al netto di certi inevitabili squilibri finanziari) e ha un’economia in espansione, laddove l’Europa soffre un repentino processo di deindustrializzazione, particolarmente drammatico e sconcertante in Germania.
Allora dobbiamo chiedercelo: perché l’Occidente collettivo ha scommesso così tanto – praticamente tutto – su un cavallo palesemente zoppo? Qualcuno risponda.
La corrente principale dei media e gran parte dei governanti in proposito offre sempre due risposte. Per come abbiamo imparato a conoscere i loro comportamenti, sono per forza risposte false.
La guerra per procura: strategia e limiti
La prima risposta è che si vuole difendere a tutti i costi la “democrazia ucraina” contro “l’autocrazia che attacca un paese sovrano”.
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Tachipirina e vigile attesa? Solo un consiglio
di Alessandro Bartoloni
Prosegue il nostro dibattito sulla gestione sanitaria durante la pandemia da SARS-CoV-2, utile a riflettere sulla più generale situazione della sanità nel nostro paese. In questo terzo articolo, si evidenzia alla luce dei fatti l’inconsistenza e la contraddittorietà di alcune delle indicazioni terapeutiche “ufficiali”, molte delle quali si sono rivelate successivamente infondate.
L’occasione per tornare a parlare di un grande tormentone pandemico ce la fornisce proprio il presidente della FNOMCeO (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri) Filippo Anelli che, accompagnato dal segretario generale Roberto Monaco, ha dichiarato alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione dell’emergenza sanitaria causata dal SARS-CoV-2 che, per quanto riguarda la gestione domiciliare dei pazienti, “la federazione non è mai intervenuta per limitare la libertà prescrittiva del medico. Anche perché, in quel periodo, il ministero più della Tachipirina poteva dire ben poco perché non c’erano linee guida, quindi non c’erano evidenze che potessero sostenere indicazioni di carattere diverso”. Per capire la portata orwelliana di tali affermazioni ripercorriamo quei tragici giorni.
Tutto comincia il 25 marzo 2020, quando il ministero della Salute emette la circolare n. 7865 nella quale si stabilisce che, “per individuare possibili opzioni terapeutiche efficaci nei confronti dell’infezione da COVID-19 è necessario condurre studi clinici in grado di dimostrare che i benefici superino i rischi. Per questa ragione, tenuto conto della straordinarietà della situazione, la Commissione tecnico scientifica dell’AIFA ha il compito di valutare tutti i possibili protocolli di studio con la massima rapidità (entro pochissimi giorni dal momento della sottomissione). La stessa tempestività è garantita per la successiva valutazione condotta dal Comitato Etico Unico a livello nazionale che ha sede presso l’INMI Lazzaro Spallanzani.
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L’inchiesta operaia per analizzare Industria 4.0
La lezione di Matteo Gaddi
di Collettivo Le Gauche
1. Fare il punto su Industria 4.0
Industria 4.0 è un termine che viene dalla Germania e nasce all’interno dei progetti sviluppati da questo paese per mantenere e rafforzare la competitività del suo sistema produttivo. Queste iniziative sono state adottate inizialmente nel novembre 2011 con il Piano di Azione della strategia High Tech 2020. Tuttavia è dal 2006 che la Germania prova a costruire e portare avanti una strategia sull’High Tech per difendere la competitività della sua industria. Il progetto si regge, dice Matteo Gaddi nel suo Sfruttamento 4.0. Nuove tecnologie e lavoro, su una strategia duale, ovvero, da una parte l’utilizzo delle nuove tecnologie nelle fabbriche tedesche per rafforzare l’efficienza della produzione domestica e dall’altra la produzione per la vendita e l’esportazione di queste nuove tecnologie. Il primo obiettivo è raggiungibile unicamente mettendo a rete le diverse fasi della stessa catena produttiva per mezzo dell’integrazione digitale. Questo spiega le strategie di ingegnerizzazione digitale dell’intera catena del valore, di sviluppo di catene e reti tra diverse aziende attraverso l’integrazione in maniera orizzontale e l’integrazione verticale di sistemi manifatturieri flessibili e riconfigurabili. Il secondo obiettivo riguarda il tentativo tedesco di diventare leader mondiale nella fornitura di soluzioni Industria 4.0 attraverso gli sforzi dei costruttori di macchinari e impiantistica che dovranno combinare le nuove tecnologie ICT con le tradizionali strategie nell’high tech. Le tecnologie ICT svelano nuove dettagli su cos’è Industria 4.0. Si tratta di un’organizzazione dei processi produttivi a partire da tecnologie e dispositivi che comunicano gli uni con gli altri tramite computer o modelli virtuali lungo tutta la catena del valore. Emerge, quindi, una fabbrica “intelligente” con sistemi guidati da computer capaci di monitorare i processi produttivi con cui creare riproduzioni virtuali del mondo reale e decentrare le decisioni sulla base di meccanismi di autoregolazione. Tutto ciò è pensabile perché nell’industria gli oggetti fisici sono sempre più integrati con le reti di informazione e comunicazione, dice Matteo Gaddi. Nelle fabbriche troviamo tre modalità di integrazione.
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Turchia, Russia, USA, Israele in campo, nella scacchiera strategica siriana
di Enrico Vigna*
Dopo aver occupato in poche ore la città di Aleppo, la seconda più grande del paese e aver travolto le difese dell’Esercito arabo siriano, stanno cercando di arrivare all’altra grande città di Hama. Ma qui hanno trovato una forte resistenza e risposta militare, dovendo abbandonare molte posizioni nelle aree circostanti. Ma come è potuto accadere, cosa comporta e può cambiare negli equilibri geopolitici e militari dell’area.
Premetto che questa è una sintesi, da me curata, di documentazioni, analisi, letture, di istituti, esperti, analisti geopolitici e militari, mediorientali, arabi e dei paesi eurasiatici, oltre che contatti e testimonianze sul posto, che hanno una valenza e conoscenza strategica interne alle dinamiche in corso, che può contribuire a conoscere e appropriarsi di elementi di comprensione profondi e spesso non svelati, che vanno al di là di opinioni, valutazioni o previsioni soggettive.
Una tragica e dolorosa partita a scacchi geopolitica si è riaperta nella martoriata terra siriana.
I cosiddetti ribelli siriani hanno attaccato e conquistato in poche ore, quella che era la città più grande del Paese, Aleppo, L’attacco è stato il primo da parte delle forze ribelli, così potente dal 2016, quando furono cacciate dai quartieri orientali della città dopo un’estenuante campagna militare condotta dall’Esercito Arabo Siriano, dalle milizie locali lealiste e palestinesi, con il sostegno di Russia e Iran. Il 27 novembre migliaia di combattenti si sono diretti verso Aleppo con un attacco a sorpresa contro l’esercito governativo, sorprendendolo nettamente.
Nello stesso tempo, i terroristi di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), i gruppi filo-turchi e i loro alleati del cosiddetto Esercito Siriano Libero (ELS), hanno lanciato un’offensiva su larga scala nel nord della Siria, i terroristi hanno catturato dozzine di insediamenti e sono entrati ad Aleppo, una città che aveva una popolazione di oltre 2 milioni di abitanti. Inoltre, i terroristi minacciano l’autostrada M-5, che collega Aleppo con la capitale Damasco e altre grandi città siriane.
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La scuola tradizionale non esiste. Il falso conflitto tra destra sovranista e ultrapedagogia di sinistra
di Marco Maurizi
Il punto cieco
L’annuncio del governo Meloni di voler introdurre i voucher scolastici, permettendo alle famiglie di scegliere tra scuola pubblica e privata, si inserisce in una narrazione ben precisa: la destra sovranista e postfascista accusa le politiche scolastiche della sinistra di essere la causa del degrado della scuola pubblica. Rispetto ai classici temi neoliberisti sullo “spreco” delle risorse pubbliche, FdI ha seguito la linea populista introdotta da Ricolfi e Mastracola nel saggio Il danno scolastico. Secondo questa retorica, il modello progressista, centrato sull’inclusione, avrebbe sacrificato il merito e l’eccellenza, lasciando paradossalmente le classi lavoratrici intrappolate in un sistema scolastico inefficiente e incapace di offrire strumenti di mobilità sociale[1].
La pedagogia di sinistra, come noto, tende invece a negare l’idea stessa di un abbassamento del livello della scuola, interpretandolo come un attacco ideologico volto a giustificare modelli selettivi ed escludenti. Il problema, semmai, è che la scuola non è abbastanza inclusiva, confermando in modo speculare le chiacchiere interessate della destra sulla scuola e proponendo una falsa dicotomia tra nostalgici di Gentile e apostoli di Dewey. Questa negazione è infatti del tutto funzionale a una proposta moralistica di segno opposto: la scuola si riforma riformando l’insegnamento. È diventata quasi una barzelletta che la risposta a ogni problema della scuola si traduca sempre in “più formazione per i docenti!”.
È uno scontro tra ciechi. La crisi della scuola è profondamente legata alla natura iper-capitalistica della società in cui opera, una società segnata da conflitti di classe che determinano le sue istituzioni e ne modellano i limiti strutturali. La centralità delle dinamiche di mercato nelle scelte politiche degli ultimi decenni ha portato a un disinvestimento sistematico nella scuola pubblica, sia in termini di risorse economiche che di riconoscimento sociale. Il declino della scuola pubblica non è infatti un fenomeno contingente legato a cattive scelte pedagogiche o politiche.
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Lo spettro della sovrapproduzione nell’industria automobilistica internazionale
di Eugenio Donnici
La divisione sociale del lavoro nell’industria automobilistica, a livello internazionale, è in subbuglio, non solo per la questione della transizione dal motore endotermico a quello elettrico, ma è costellata dallo spettro della sovra-capacità produttiva.
Se in Italia gli impianti produttivi del gruppo Stellantis lavorano, ormai da tempo, a singhiozzo (1), la situazione non è nemmeno tanto rosea in Germania: il colosso di Wolfsburg, per la prima volta nella sua storia, nel mese d’ottobre dell’anno corrente, ha annunciato la chiusura di tre stabilimenti, con la conseguente perdita di miglia di posti di lavoro e la riduzione del salario del 10%.
Per chi ha scarsa memoria storica, vale la pena ricordargli che stiamo parlando del marchio Volkswagen che, nei primi anni 90 del secolo scorso, ha avuto il coraggio di adottare la soluzione che mirava a salvaguardare i posti di lavoro, con uno storico accordo che prevedeva la riduzione dell’orario di lavoro a 30 ore settimanali, a parità di salario.
Le ripercussioni della crisi automobilistica tedesca creano un effetto domino su quella italiana, in quanto in questo comparto, l’Italia ha ridotto notevolmente la produzione di automobili (prodotti finiti), mentre ha incrementato le quote di mercato dei pezzi di automobili, i quali vengono assemblati in altri contesti produttivi. In altri termini, ci siamo specializzati nella componentistica per i marchi francesi e tedeschi.
Se in Europa si respira un’aria asfittica, negli USA, sebbene il settore sia in ripresa, non è stata ancora raggiunta la produzione del periodo prima della pandemia. Tuttavia, nonostante la produzione di auto elettriche non sia decollata, anche per la difficoltà di approvvigionamento dei semiconduttori, le rivendicazioni degli operai sono più frizzanti.
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In Siria il punto di congiunzione tra le guerre in Ucraina e Medio Oriente
di Gianandrea Gaiani
L’offensiva scatenata nel nord della Siria il 27 novembre dalle milizie jihadiste guidate dal gruppo Hayat Tahrir al-Sham (HTS), un tempo noto come Fronte al-Nusra e inserito nella rete di al-Qaeda, finora sostenute o protette dalla Turchia nella provincia di Idlib, non può essere valutata solo per il suo aspetto di conflitto regionale.
La situazione in cui ha ripreso il via su vasta scala il conflitto siriano deve infatti venire collocato nel più ampio contesto conflittuale e di destabilizzazione che si estende dall’Ucraina alla Georgia, da Gaza alla Siria, da Israele all’Iran.
I miliziani raccolti intorno all’HTS con le diverse fazioni filo-turche, hanno lanciato un’offensiva-lampo contro le forze governative siriane, conquistando decine di villaggi nelle province di Aleppo, Idlib e Hama, l’aeroporto militare di Abu Dhuhur (tra Hama e Aleppo), ed espugnando gran parte della città di Aleppo anche se in quella città sono ancora presenti forze governative e nei sobborghi e nell’aeroporto si sono schierate le milizie curde.
Le forze di autoprotezione curde (YPG – nella foto qui sopra), che con alcune milizie tribali sunnite costituirono le Forze Democratiche Siriane (FDS), sostenute dagli Stati Uniti, con l’obiettivo di combattere l’ISIS e controllare i territori orientali, sono oggi impegnate a evacuare circa 200 mila cittadini curdi dai territori e dai quartieri della città caduti nelle mani dei jihadisti che hanno riconquistato anche Tal Rifaat, a nord di Aleppo, da anni in mano alle milizie curde.
Il comandante delle FDS, Mazloum Abdi ha detto il 1° dicembre che “gli eventi nella Siria nord-occidentale si sono sviluppati rapidamente e all’improvviso, mentre le nostre forze hanno dovuto affrontare attacchi intensi da più parti. Con il crollo e il ritiro dell’esercito siriano e dei suoi alleati, siamo intervenuti per aprire un corridoio umanitario tra le nostre regioni orientali, Aleppo e la regione di Tal Rifaat per proteggere la nostra gente dai massacri. Ma gli attacchi dei gruppi armati appoggiati dall’occupazione turca hanno interrotto questo corridoio”, ha affermato Abdi. “Continuiamo a resistere per proteggere la nostra gente nei quartieri curdi di Aleppo“, ha aggiunto.
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Tutela dei diritti umani e divieto di ingerenza: il caso del Sudan
di Giovanni Tosi
L’11 settembre 2024 il Consiglio di Sicurezza ONU ha adottato la terza risoluzione riguardante il Sudan dallo scoppio della guerra civile, nell’aprile 2023. Come per le due risoluzioni precedenti, tuttavia, anche questa non ha prodotto alcun effetto significativo. La risoluzione ha confermato sanzioni, esteso l’embargo sulle armi e ricordato alle parti belligeranti l’importanza di “assicurare la protezione dei civili”. Nel preambolo si richiamano numerose risoluzioni adottate in precedenza sul Sudan, risalendo fino al 2005. Si nota, tuttavia, l’assenza della risoluzione 1706 del 2006, che molto avrebbe a che fare con la situazione odierna. E non è la prima volta, tanto che questa delibera si è guadagnata il soprannome di “risoluzione dimenticata”.[1] Nonostante alcuni difetti, la 1706 è stata la prima risoluzione country-specific a contenere un riferimento alla dottrina di intervento umanitario detta Responsibility to Protect (R2P), adottata proprio per autorizzare una missione di pace nella guerra civile di allora, in Darfur (uno dei numerosi conflitti interni che hanno afflitto il Sudan fin dall’indipendenza). Ma perché la R2P non compare nei dibattiti del Consiglio di Sicurezza sulla questione sudanese?
La R2P e la situazione sudanese
La R2P, approvata dal World Summit dell’ONU nel settembre 2005, legittima l’intervento del Consiglio di Sicurezza (se necessario, anche con la forza) per sopperire a un governo che abbia “manifestamente fallito” nella propria responsabilità di proteggere la popolazione da crimini atroci. La R2P era stata ideata alla fine degli anni ’90 per risolvere il dilemma tra difesa della sovranità e difesa dei diritti umani, permettendo alla comunità internazionale, in casi gravi, di intervenire a scopo umanitario negli affari interni di Stati sovrani.[2]
L’origine dell’attuale guerra civile in Sudan è da ricercarsi nei contrasti sorti tra le due fazioni militari che da cinque anni determinano le sorti del paese: le Sudan Armed Forces (SAF), esercito governativo guidato dal generale e attuale presidente Abdel Fattah al-Burhan; e le Rapid Support Forces (RSF), milizia collaterale dell’esercito, ma autonoma, con a capo il generale Mohamed Dagalo “Hemedti”.
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Il marxismo e l'era multipolare - Quarta parte
di Leonardo Sinigaglia
4- La questione nazionale, seconda parte
La sempre più profonda saldatura tra il movimento comunista internazionale e la lotta antimperialista dei popoli oppressi diede un intenso sviluppo alla riflessione sulla questione nazionale e sul patriottismo all’interno del mondo comunista, e anche in relazione al diffondersi del fascismo, che proprio sul recupero retorico dei temi patriottici e nazionali costruiva i propri progetti imperiali ed egemonici.
Come sottolineato dal dirigente comunista bulgaro Georgi Dimitrov in occasione del VII Congresso dell’Internazionale Comunista, l’avvento al potere di partiti e formazioni fasciste era stato reso possibile anche da errori dei locali partiti comunisti, che non erano efficacemente riusciti a opporsi ai fascisti, permettendo a questi di egemonizzare i temi patriottici e nazionali, facendo riferimento in particolare alla Germania: “I nostri compagni in Germania, per molto tempo non tennero nella dovuta considerazione il sentimento nazionale offeso e l'indignazione delle masse contro Versailles”[1]. Il riferimento è ai tentativi del KPD sotto la dirigenza di Ernst Thälmann di riportare il partito su una linea leninista rifiutando il compromesso con le forze socialdemocratiche, accusate di essere “socialfasciste” e di “tradire il paese”, e attaccando il crescente partito nazista mettendo in risalto le sue ipocrisie e la sua vuota demagogia sul terreno della questione nazionale.
Sotto Thälmann il partito si oppose al Piano Young e al Trattato di Versailles, al pagamento delle riparazioni di guerra e del debito internazionale, mentre aprì alla volontaria unione di tutte le popolazioni di lingua tedesca in un solo Stato, nella consapevolezza che “[s]olo il martello della dittatura del proletariato può spezzare le catene del Piano Young e dell’oppressione nazionale”, e che “[s]olo la rivoluzione sociale della classe operaia può risolvere la questione nazionale della Germania”[2].
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Dopo il cessate il fuoco in Libano, Netanyahu è a corto di carte da giocare
di David Hearst* - Middle East Eye
Impantanato a Gaza, fermato in Libano, Netanyahu ha già iniziato a spostare l'attenzione di Trump sulla necessità di attaccare l'Iran
Quando il defunto segretario generale di Hezbollah, Hasan Nasrallah, è stato ucciso da 10 bombe che hanno distrutto un bunker a 60 metri di profondità, le strade di Israele hanno esultato.
“Oh Nasrallah, ti distruggeremo, a Dio piacendo, e ti rimanderemo a Dio insieme a tutti gli Hezbollah”, erano le parole di una canzone diffusa da un condominio di Tel Aviv.
Un bagnino annunciò ai bagnanti: “Con felicità, gioia e allegria, annunciamo ufficialmente che il ratto Hassan Nasrallah è stato assassinato ieri. Il popolo di Israele è vivo”. E, in linea con la saggezza diffusa all'epoca, The Spectator proclamò: “Nasrallah è morto e Hezbollah è distrutto”.
Solo due mesi dopo, l'umore in Israele è molto diverso. Solo 11 giorni fa, il ministro della Difesa, Israel Katz, aveva dichiarato che l'obiettivo era disarmare Hezbollah e creare una zona cuscinetto nel sud del Libano.
L'esercito non ha garantito nessuna delle due cose e gli israeliani lo sapevano.
Alla domanda su chi avesse vinto dopo quasi 14 mesi di combattimenti, il 20% degli israeliani intervistati ha dichiarato di ritenere che Israele abbia vinto, mentre il 19% ha detto che è stato Hezbollah. Il 50% delle persone ha dichiarato che i combattimenti si concluderanno senza un chiaro vincitore, mentre l'11% ha detto di non saperlo.
L'operazione che ha ucciso Nasrallah è stata denominata: “Nuovo Ordine”. E per stabilire una narrativa di vittoria, oggi persiste il mito che Hezbollah sia stato “battuto e sminuito” da 13 mesi di guerra. Indebolito e isolato, era alla disperata ricerca di un cessate il fuoco, ha commentato con sicurezza il New York Times.
Fughe di notizie letali
La prima e la seconda fila di leader di Hezbollah sono state effettivamente decimate.
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Ucraina, i giorni dell’incertezza
di Roberto Iannuzzi
Kiev sta perdendo la guerra. Il lancio russo del missile Oreshnik è un “game changer”. Ma, in attesa di Trump, USA e Gran Bretagna sembrano non voler cogliere gli ammonimenti di Mosca
A partire dalla fine di ottobre, e ancor più dopo la vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane, l’amministrazione Biden ha cominciato ad alzare la posta in gioco in Ucraina.
Il 22 ottobre ha approvato un finanziamento di 800 milioni di dollari a favore dell’industria bellica di Kiev per la costruzione di droni a lungo raggio in grado di colpire in profondità il territorio russo.
L’8 novembre ha autorizzato il Pentagono a schierare ufficialmente contractor USA in Ucraina per mantenere in efficienza i sistemi d’arma americani in dotazione all’esercito di Kiev.
Nove giorni dopo, ha autorizzato l’impiego di missili USA a lungo raggio per colpire obiettivi in territorio russo.
E il 19 novembre ha annunciato che avrebbe fornito all’esercito ucraino mine antiuomo per rallentare l’avanzata delle truppe di Mosca, sebbene nel 2022 si fosse impegnata a limitarne l’impiego.
Biden ha anche cancellato 5 miliardi di debito al governo di Kiev, ed in generale sta compiendo ogni sforzo per rafforzare il più possibile l’Ucraina prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca.
Missili NATO contro la Russia
L’episodio che ha fatto più scalpore, in ogni caso, è costituito dall’autorizzazione a colpire il territorio russo con missili americani a lunga gittata.
Due giorni dopo, sei missili ATACMS sono stati lanciati contro un deposito di armi nella regione russa di Bryansk (cinque sarebbero stati intercettati).
A stretto giro di posta, è arrivato l’annuncio che Gran Bretagna e (seppur con meno convinzione) Francia avrebbero seguito l’esempio americano mettendo a disposizione i propri missili cruise (Storm Shadow e Scalp, rispettivamente) per colpire obiettivi in territorio russo.
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