Lotte palestinesi in Italia
di Jacques Bonhomme
1. La Palestina vista dall’Italia
Un’effervescenza di mobilitazioni, di assemblee, di manifesti, di dichiarazioni, accompagnati da tante, tante bandiere, in una coreografia spontanea e vivace di gesti e di discorsi nelle piazze: questa è la forma sociale in cui le lotte palestinesi attraversano l’Italia. La piazza non smentisce la rete attirando soltanto sparuti gruppetti, ma moltiplica gli effetti degli articoli, dei commenti e dei comunicati con cortei e raduni di massa trascinanti e combattivi. Sembra – e forse è ben più di un’impressione – che le resistenze sociali alle nuove discipline capitalistiche del lavoro, all’impoverimento sempre maggiore di ampi settori della società e alla militarizzazione della legislazione penale nel segno delle emergenze, abbiano finalmente trovato un collante capace di unificarne gli intenti e di concentrarne gli sforzi. Così, per quanto nessuna ricomposizione di classe possa essere intravista all’orizzonte, nelle fasce sociali dove il disagio e la sofferenza sono più acute e diffuse, ossia nelle fasce sociali più o meno proletarie o proletarizzate, l’avversione nei confronti dello “stato di cose presente” viene politicizzato attraverso differenti forme di coinvolgimento nelle azioni di massa costruite e animate dalle organizzazioni palestinesi.
Occorre dissipare un possibile malinteso: non siamo di fronte a una delega triste e obliqua, a una falsificazione equivoca di compiti e di ruoli e, meno che mai, può essere maliziosamente sospettato uno spostamento sostitutivo di scopi, ascrivibile a fantomatiche dinamiche inconsce; quanto avviene è piuttosto il “riconoscimento” di una dimensione storico-mondiale della lotta dei palestinesi, di una radicalità in essa racchiusa, di una radicalità determinata da un’inevitabile frattura delle linee di espansione, di accumulazione e di conquista dell’imperialismo occidentale. La lunghissima, rinascente e multiforme guerra di popolo dei palestinesi contro le strategie concentrazionarie, le pulizie etniche e il terrore militare di Israele, è stata, infatti, l’ostacolo che ha spesso spezzato la traiettoria del riassetto neocoloniale del Medio Oriente, rendendo avvertibile la possibilità di una Rivoluzione socialista araba.
Oggi, questa lunga storia non è certo direttamente afferrabile come immagine tangibile della vicenda palestinese, ma indubbiamente contribuisce a rinfocolare la coscienza di un complesso di fattori e di interessi che stringe nelle ganasce della stessa tenaglia le classi popolari dell’Occidente e le periferie coloniali, di cui la Palestina è il riconoscibile volto sanguinante. Naturalmente, le nuove forme di sfruttamento e di “spoliazione” che avanzano sempre più rapidamente nelle società tardo-capitalistiche della metropoli imperialistica occidentale, e che si intrecciano dinamicamente con l’ipertrofia tecnologica degli apparati militari, sono altra cosa rispetto al genocidio che lo Stato sionista sta metodicamente compiendo in Palestina. Ciononostante le “lotte palestinesi in Italia” lasciano scorgere tutti i nessi e tutte le interdipendenze di un dominio mondiale, contro il quale esse insorgono. Ne deriva una potente capacità di rappresentanza, per il momento difficilmente sottovalutabile.
C’è stato un tempo in cui l’Italia era l’epicentro della lotta di classe in Europa, soprattutto per la consonanza e per i reciproci richiami dei differenti teatri dello scontro sociale e politico, dall’operaio-massa agli studenti, dai braccianti ai disoccupati, cosicché tutto il paese con le sue piaghe vecchie e nuove, quelle dello sviluppo capitalistico e quelle della parallela emarginazione coloniale interna, veniva battuto dai venti di tante rotture e di tante insubordinazioni, da Avola a Torino, secondo le parole di una vecchia canzone. L’unificazione rivoluzionaria delle tante prospettive che si aprivano era il compito all’ordine del giorno. “Lotte in Italia” si intitolò, con appropriato senso epico, un esemplare cortometraggio di J. L. Godard, nel quale quel compito veniva arditamente assolto – con lo sguardo a Brecht e ad Althusser – attraverso il filo narrativo dell’educazione politica di una ragazza. Le lotte di classe in Italia entravano dunque nella geografia di quella rivoluzione socialista mondiale che allora scuoteva e incrinava la catena imperialista, tanto nei suoi anelli forti quanto nei suoi anelli deboli. Non per nulla, il film si apre con la protagonista che, mentre sottolinea libri e giornali, legge alcune righe sulla lotta antimperialista della Palestina. La Palestina e il Vietnam, in quegli anni, erano inseparabili. Oggi, le lotte in Italia degli anni Sessanta e Settanta non ci sono più, ma a lottare qui e, in un certo senso, per noi, sono i palestinesi.
In questa lotta ha cominciato a essere gridata la parola Resistenza. Infatti, attraverso un anno di denunce, di assemblee, di articoli e di piazze arrabbiate, la Resistenza palestinese è uscita dal cantuccio in cui veniva relegata anche dagli “amici dei palestinesi”, oscurata com’era da moderate richieste umanitarie e da indignazioni esclusivamente morali per le efferatezze della cricca governativa sionista. Le manifestazioni di solidarietà con i palestinesi, in una prima fase, subito dopo l’inizio dei bombardamenti israeliani, ridestavano gli strascichi ideologici del dopo-Oslo, e le bandiere palestinesi facevano da sfondo a oratori che parlavano di “processo di pace” tradito, di “due popoli, due Stati” e della carta dell’ONU. La Resistenza palestinese rimaneva nella penombra, e, insieme a essa, manteneva l’incognito, come suo antagonista di classe, l’imperialismo statunitense e occidentale, il tutore dello Stato sionista, e quindi si velava di nebbia tutta la storia coloniale e neocolonialista della Palestina. Così, le radici storiche del genocidio, di cui del resto, in quella fase, venivano spesso misconosciuti gli orribili segni, divenivano incomprensibili. Ma, man mano che le mobilitazioni si infittivano e che le idee e i racconti storici circolavano, ecco che la Resistenza palestinese si faceva avanti, rivelava meglio i suoi tratti, le sue vicende, le sue lacerazioni, i suoi problemi e soprattutto il suo orizzonte politico anticoloniale. Questo orizzonte, che è lo spartiacque rivoluzionario di tutte le svolte che possono avviare cambiamenti importanti nell’area mediorientale, e che lascia intravedere una Palestina riunita – una Palestina senza la frontiera israeliana, una frontiera inconcepibile senza muri, senza terrore e senza scudi elettronici - ha fatto della Resistenza palestinese un moto popolare permanente, iniziato con gli scioperi insurrezionali del 1936-38 e tutt’ora in corso.
Le organizzazioni politiche dei palestinesi in Italia hanno avuto un ruolo cruciale nello scioglimento della “rimozione” che tagliava fuori dai linguaggi politici delle prime mobilitazioni contro i bombardamenti e l’invasione di Gaza, la guerra di popolo dei palestinesi e l’immagine dei fedayyin. L’intensificazione e l’allargamento dell’azione di massa che ne sono derivati hanno contribuito enormemente a fare dei cortei e delle assemblee per la Palestina e per la Resistenza palestinese i simboli di una causa comune delle vittime sociali delle nuove e devastanti forme di accumulazione capitalistica. Naturalmente, occorre dare a questa tendenza le giuste proporzioni, poiché l’Italia del film di Godard è ben diversa da quella di oggi. E certamente anche la Palestina di oggi è diversa da quella dei primi anni Settanta, quando, ad Amman, la Resistenza palestinese progettava e preparava una rivoluzione socialista. I tempi sono diversi, certamente, ma le lotte ritornano.
I paragoni tuttavia non debbono essere molto stretti e i criteri di giudizio dovrebbero pesare dialetticamente le forze e i fattori in campo, quelli congiunturali e quelli di “lunga durata”. Altrimenti la situazione politica, ideologica e militare della Resistenza, con molte delle sue avanguardie isolate nelle carceri israeliane, può apparire scoraggiante, ricattata e ricattabile da una borghesia palestinese che, per mezzo di Hamas, contrasta i notabili dell’ANP, ormai ridotti, dopo il tracollo di Fatah, al rango di un tentacolo della borghesia imperialista; mentre l’unica forza rivoluzionaria, laica e socialista, il FPLP, sembra ancora troppo debole. Letta soltanto in questo modo limitato, la Resistenza palestinese esce dalle piste planetarie di un anticolonialismo contenente potenzialità sociali rivoluzionarie. Di conseguenza anche i movimenti per la Palestina dovrebbero, accortamente e realisticamente, perseguire soltanto obbiettivi etici contingenti, come la condanna di Israele e la fine del genocidio. Nella sua ultima intervista, Emilio Quadrelli, scrittore militante di robusta tempra, di idee coraggiose e di non comune levatura, ha sostenuto questa tesi, muovendo da un interessante paragone tra la guerra di liberazione vietnamita, incamminata verso il socialismo, e la Resistenza palestinese oggi, dove tali prospettive non sono una forza trainante, o dove addirittura si riscontrano tendenze opposte. A questa tesi occorre replicare.
Ed è proprio con Lenin, di cui Quadrelli ha portato allo scoperto lati poco noti, che si può replicare. L’asciutta e pregnante definizione leniniana della situazione rivoluzionaria, da noi già richiamata in un altro scritto sulla Palestina, sembra calzante anche in questo caso. Infatti, per Lenin, che modula la sua definizione sui rapporti di classe nella loro “storicità”, le condizioni per un rovesciamento rivoluzionario di un determinato assetto della società, richiedono che “gli strati inferiori” non vogliano più il passato e che gli “strati superiori” non possano più fare come in passato. La Palestina – e, più precisamente, la lunga guerra di popolo dei palestinesi all’occupante sionista - mostra crudamente questo nesso inflessibile, e, per di più, lo mostra in un’area geografica dove gli interessi, gli equilibri e le casematte dell’imperialismo occidentale vacillano. Perciò, scorgere nelle vicende palestinesi una rivoluzione antimperialista in movimento, non è affatto un’astrazione velleitaria, per quanto l’invito alla prudenza di Quadrelli non vada lasciato cadere, dal momento che, anche lasciando da parte le analogie e le differenze fra il Vietnam, l’Algeria e la Palestina, la Resistenza palestinese persegue oggi obbiettivi puramente nazionali. Gli obbiettivi nazionali, nella periferia coloniale, sono comunque saturi di antagonismi di classe pronti a esplodere in nuove e imprevedibili fasi della lotta, come sia Lenin che Fanon non si sono mai stancati di ripetere.
Questi antagonismi di classe emergono nelle idee e nei piani d’azione delle associazioni palestinesi all’interno dei paesi imperialistici. Qui, infatti, i rapporti con le masse popolari occidentali, da un lato, e i rapporti con i poteri che muovono la politica estera, gli aiuti economici e le strategie militari, dall’altro, spingono in direzioni opposte le organizzazioni che, con intenti diversi o contrastanti, rappresentano la Palestina. Pertanto, alcune organizzazioni cercano di coinvolgere gli europei in una lotta anticoloniale, nella quale gli abitanti della metropoli possono agevolmente riconoscere il sottofondo anticapitalistico, mentre altre mirano a ottenere il sostegno di istituzioni sociali e delle diplomazie. L’antagonismo di classe è dunque palmare. Questo antagonismo è la chiave delle “lotte palestinesi in Italia”.
2. Le lotte rivoluzionarie e i loro simboli: il 5 Ottobre
Uno spartiacque degli antagonismi di classe, che la Resistenza palestinese in Italia ha fatto emergere dal suo seno quando è balzata all’avanguardia delle lotte antimperialiste, è stata la manifestazione romana del 5 Ottobre. La data prescelta era una citazione esplicita del 7 Ottobre, che, non per opportunismo, ma per un uso accorto del giorno settimanale più favorevole a un’ampia partecipazione dei lavoratori, era stata anticipata rispetto al calendario della commemorazione. Quindi il 5 Ottobre è subito apparso come una metonimia del 7 Ottobre: il significato dell’uno passava intero nel significato dell’altro. Questa è stata la prima insubordinazione.
La scelta compiuta era, insieme, fatto e propaganda, “propaganda del fatto”. Infatti, l’insurrezione palestinese del 7 Ottobre, oltre a essere stata sconciamente manipolata a tutti i livelli della catena militare, giornalistica e amministrativa israeliana e occidentale, aveva diviso, ben prima che le contraffazioni degli avvenimenti venissero rivelate, una parte consistente dell’opinione pubblica occidentale solidale con i palestinesi, dalla Resistenza palestinese. Pertanto, anche senza l’équipe di esperti pubblicitari, accanitamente impegnati a sfruttare l’immaginario horror mandato in onda abitualmente dalle televisioni, un’azione rivoluzionaria come quella del 7 Ottobre era un segno potente di radicalità, un gesto di rottura, militare e ideologico al tempo stesso, che come tale respingeva il pacifismo istituzionale lontano dalla Resistenza, anche dopo lo sgonfiarsi della truce finzione mediatica. La sollevazione del 7 Ottobre era una svolta rivoluzionaria della Resistenza palestinese e ne racchiudeva le potenzialità trasformatrici in senso anticoloniale, a cominciare dall’affondamento della truffa neocolonialista dei due Stati, che diveniva, ipso facto, obsoleta. Il 5 Ottobre, dunque, veicolava anche questi significati.
Subito lo Stato capitalistico si è allertato e sono stati messi in campo tutti i dispositivi dell’intimidazione e dell’assedio. La Manifestazione romana del 5 Ottobre è avvenuta in una piazza chiusa, imprigionata in barriere e corridoi, circondata da camionette e da truppe antisommossa. Il nuovo decreto di polizia, l’ultimo arrivato di una lunga serie di norme securitarie che, nel tempo, hanno travolto penalmente ogni forma di protesta sociale, allungava la sua ombra sulla manifestazione, quasi una prova generale della forza inibitoria del suo listino di divieti e di punizioni. Ma il raduno ha assunto ugualmente proporzioni di massa, inusitate se paragonate alle circostanze e ai rischi, e la piazza ha sfidato il decreto nel segno della Resistenza palestinese. Dunque, una manifestazione, prima vietata dalla questura, si è svolta ugualmente e non si è sottomessa a nessuna restrizione; nonostante una marea di agenti con scudi, manganelli e lacrimogeni la stringesse in una tenaglia. Roma e le autostrade sono state disseminate di posti di blocco per espellere le vittime della legislazione emergenziale, marcate nei e dai documenti. Quanto accanimento contro una manifestazione! Anche in questo caso la Resistenza palestinese catalizzava potenziali e future “lotte in Italia”. Questa è stata la seconda insubordinazione.
E ancora. La manifestazione del 5 Ottobre, in se stessa e con le proscrizioni che le calavano addosso, metteva in fuga la “comunità palestinese” e gli studenti palestinesi a essa contigui. O, per meglio dire, le rappresentanze diplomatiche e le consorterie degli enti assistenziali e delle reti commerciali del giro dell’ANP, indicevano un’altra ben distinta e, implicitamente, contrapposta manifestazione, da tenersi qualche giorno più tardi, per non evocare il perturbante e negletto “7 Ottobre”. In questa manifestazione sfilavano, come è noto, i sindacati “delle trattative”, qualche parlamentare d’opposizione e l’associazionismo istituzionale. La vaga supplica di un “cessate il fuoco”, ormai retoricamente ripetuta anche dai governi occidentali che spesano il genocidio, era l’insegna della giornata. Le parole Resistenza e Rivoluzione anticoloniale erano, naturalmente, impronunciabili. Ci voleva, dunque, il gesto di insubordinazione del 5 Ottobre per rendere visibile, en plein air, questo spettacolo. Le due manifestazioni, come era inevitabile, hanno finito per sfidarsi politicamente, e quella del 5 Ottobre ha messo in ombra l’altra. Questa è stata la terza insubordinazione.
Che dire? Siamo forse di fronte alla spaccatura di un movimento di lotta? No, riteniamo che le cose stiano diversamente. Ciò che accade è invece l’irruzione di una contraddizione, e insieme lo svolgimento irresistibile di essa, o anche l’emergere alla coscienza di un antagonismo di classe che la Resistenza palestinese in parte prolunga e in parte denuncia. Infatti, come non riconoscere che, se una decolonizzazione radicale e rivoluzionaria di tutta la Palestina trascina con sé uno sconvolgimento dei rapporti di classe, l’accomodamento negoziale dei due Stati, perseguito soprattutto dall’ANP, sfocia, all’opposto, nella ricomposizione del “blocco storico” delle borghesie in campo, della borghesia imperialista e della borghesia nazionale? Nel primo caso viene rotto un anello della catena imperialista; nel secondo vengono rinnovati e puntellati gli equilibri neocoloniali. Pertanto, le due manifestazioni non preludevano a una rottura dell’unità delle “lotte palestinesi in Italia”, ma prefiguravano una divergenza di prospettive. Il Novecento, come sappiamo, è stracolmo di simili situazioni.
Questo conflitto si protrae ed é, probabilmente, destinato a sviluppare tutti i suoi effetti politici, sociali e ideologici. Inoltre, se consideriamo l’internazionalizzazione avanzante della questione palestinese, e se consideriamo l’eco di tale questione nello scontro sociale in Italia, è prevedibile che il conflitto fra le organizzazioni palestinesi abbia rilevanti conseguenze. E già i primi segni di questi sviluppi cominciano ad apparire. Infatti, il successivo cammino verso la seconda grande mobilitazione nazionale per la Palestina, annunciata per il 30 Novembre, ha riproposto, nei documenti e nell’assemblea preparatoria, la divaricazione di analisi storica e di prospettiva politica tra le organizzazioni palestinesi antimperialiste e il cartello delle istituzioni internazionali palestinesi. Dapprima, per un momento sembrava che due cortei distinti fossero l’esito possibile di un contrasto tutt’altro che marginale. Poi, sembrava raggiunto un accordo. Infine, i due cortei, forse confluenti, sono ridiventati la più probabile e la più concreta eventualità.
Ma non si tratta di oscillazioni vane, poiché le accanite tensioni che separano, così come le prudenze che riuniscono, sono modulazioni della prassi, almeno per i gruppi che vanno coscientemente al di là di rivendicazioni manipolabili e astratte, come quella di un’indipendenza nazionale in un territorio fantasma, ritagliato dalle diplomazie. L’utilità contingente e tattica di accordi, così come di ogni temporanea alleanza nella fase più acuta e drammatica di un’aggressione coloniale a un intero popolo, come è il caso dell’attuale guerra di sterminio dello Stato sionista contro tutti i palestinesi, non sminuisce la rilevanza e la portata degli antagonismi di classe che fermentano e si evolvono in ogni fronte anticoloniale. La chiara coscienza di essi ha condotto alla vittoria Mao e la loro incomprensione è stata all’origine della tragedia di Lumumba. In Palestina, la Resistenza palestinese ne è attraversata, e il groviglio di accordi e di scontri tra Hamas e i collaborazionisti dell’ANP – beneficiari di addestratori USA e dei placet del Fondo Monetario Internazionale –, costituisce un indizio eloquente di una situazione confusa, dove le avanguardie della Rivoluzione palestinese – nelle prigioni israeliane o in combattimento – rimangono esterne ai traffici istituzionali. Proprio perché sono esterne, sono anche protette da tali traffici. Sono loro, infatti, che fanno rinascere continuamente la volontà di lotta del popolo, che rinfocolano in esso quella coscienza di una continuità di vicende e di fini che ha attraversato esili e catastrofi. Sono loro il nesso unificante della coscienza storica dei palestinesi. Alcune organizzazioni palestinesi in Italia proseguono questa Resistenza che è una Rivoluzione, e la internazionalizzano. Il 5 Ottobre, questi gruppi palestinesi – formati sopratutto da giovani – hanno dato a questa internazionalizzazione la forza di un simbolo.
3. L’internazionalismo palestinese e la manifestazione del 30 Novembre
L’ossimoro “internazionalismo palestinese”, attraverso una contraddizione lessicale, dice qualcosa su una contraddizione storica. Infatti, da un anno a questa parte, l’organizzazione dei giovani palestinesi, insieme all’unione democratica arabo-palestinese, non soltanto interviene con decisione su tutte le questioni scottanti dello scontro sociale in Italia, ma è anche riuscita a irrompere nelle modeste, subalterne e frenatissime iniziative sindacali, con appelli ai lavoratori capaci di bucare lo scudo verbale degli apparati che ne monopolizzano la rappresentanza. E’ accaduto a Marzo e si ripete oggi, per lo sciopero generale del 29 Novembre, non per nulla attratto nell’alone della mobilitazione del giorno successivo. Così, ed è questa la contraddizione storica, quei giovani palestinesi indicano - senza sostituirsi a nessuno e senza occupare un ruolo vacante - la prospettiva della “coscienza di classe” proletaria. Basta leggere i loro comunicati per rendersene conto. Le organizzazioni palestinesi squarciano i veli del paludato linguaggio dei vertici sindacali, per nominare in modo crudo e diretto le piaghe sociali e le “spoliazioni” senza riguardi che le nuove forme di accumulazione capitalistica impongono con crescente inflessibilità, e per introdurre nell’orizzonte di lotta dello sciopero la figura più pregnante dell’inimicizia di classe: l’imperialismo statunitense e occidentale. Infatti, la solidarietà con la Palestina e il Libano, e perfino la denuncia degli orrori seminati da Israele da Gaza al Libano, sarebbe manchevole dell’essenziale – qualora ci fosse, naturalmente! –, se il precipitare inarrestabile delle condizioni di vita delle masse popolari in Occidente non venisse compreso nel suo nesso con le guerre imperialistiche e, quindi, con gli investimenti di capitale di cui esse sono il traino. Nelle assemblee sindacali queste parole sono state rese, non soltanto incomprensibili, ma addirittura sospette. Eppure, nei retro-pensieri, un po’confusi e un po’delusi, di una classe operaia abbandonata a una dolorosa diaspora, probabilmente esse sopravvivono, o ritornano. Oggi sono le organizzazioni palestinesi che le gridano. Ecco la salutare contraddizione storica.
Ma perché contraddizione? Questa contraddizione non risiede certo nel capovolgimento spaziale dei punti di vista, nei quali sarebbero di fronte vicino e lontano (ammesso che gli immigrati palestinesi, magari di seconda o di terza generazione possano essere assegnati alla categoria del “lontano”). No, la contraddizione è interna alle dinamiche della “coscienza di classe”. Infatti, il proletariato delle società capitalistiche industrializzate è stato, dalle “guerre civili in Francia” nel XIX secolo alla Rivoluzione d’Ottobre e alla parabola della III Internazionale, il terreno storicamente fertile della coscienza di classe, la forza trainante dei consigli; e anche nelle successive insubordinazioni operaie al “comando capitalistico”, nella seconda metà del Novecento, il nodo, politico ed etico al tempo stesso, della coscienza di classe si è puntualmente riproposto, nonostante il passaggio storico dall’operaio qualificato all’operaio massa. Pertanto, il fatto che, oggi, dopo lo scompaginamento capitalistico del fronte di classe in Europa, il progetto della coscienza di classe del proletariato venga raccolto da un’avanguardia di una Resistenza anticoloniale è una contraddizione molto istruttiva. Tuttavia, per i marxisti rivoluzionari, tutte le contraddizioni sono istruttive e i loro rovesciamenti costituiscono sempre promettenti opportunità pratiche. Per questo Lenin, nei terribili anni della Prima Guerra Mondiale, a Zurigo, studiava la Scienza della logica di Hegel.
Rimaniamo su Lenin: la forma storica del capitalismo, a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, è l’imperialismo. Esso, allora, era basato sui monopoli, sulle società per azioni, sulle banche e sugli imperi coloniali marittimi; nel prosieguo, e oggi in particolare, troviamo gli stessi elementi spropositatamente rafforzati, con l’aggiunta dei fondi d’investimento, dello Stato-impresa articolato sull’impresa capillare e, infine, dell’unificazione dei vecchi imperi coloniali marittimi nel neocolonialismo del dollaro, del FMI, degli arsenali nucleari e delle portaerei USA e occidentali. Il paragone si limita alla struttura, e quindi lasciamo da parte la crisi attuale delle vecchie forme di accumulazione capitalistica, con le ambigue conseguenze che esse trascinano con sé. Ciò che ci preme mettere in risalto è un aspetto dei rapporti di classe dell’epoca imperialista, ai suoi inizi largamente studiata anche dai dirigenti della II Internazionale e da importanti economisti borghesi, ma della quale soltanto Lenin e Rosa Luxemburg seppero individuare le costellazioni sociali e antropologiche. La questione cruciale è, per noi, la forma e il contenuto della coscienza di classe nell’epoca dell’imperialismo. Ebbene, tale coscienza non può che fondarsi sul riconoscimento della dimensione mondiale dello sfruttamento e della violenza organizzata dei poteri capitalistici e imperialistici; e, al tempo stesso, non può che richiedere una piena comprensione dei nessi, delle interdipendenze e degli “anelli” di cui è fatta la “totalità storica” del dominio. L’orizzonte pratico di questa coscienza è, in modo rettilineo e chiaro, un’azione efficace nei rapporti di classe dei differenti contesti. Se guardiamo all’appello dei giovani palestinesi ai lavoratori italiani troviamo proprio questo orizzonte pratico.
Le Rivoluzioni proletarie e le Rivoluzioni anticoloniali, e soprattutto le loro esemplari confluenze, dalla Cina al Vietnam, dall’America latina a Cuba, sono andate incontro alle loro vittorie e alle loro sconfitte nell’epoca dell’imperialismo, e contro l’imperialismo hanno vinto e sono state vinte; inoltre, hanno influenzato la crisi dell’imperialismo e dall’imperialismo, con strangolamenti o con assorbimenti, sono state deformate e stravolte. Comunque sia, gli itinerari delle Rivoluzioni anticoloniali e socialiste hanno sempre agito in un campo di forze mondiale, e questo fatto è all’origine, non soltanto delle molte forme di internazionalismo che si sono susseguite nel tempo, ma anche di una specifica forma di coscienza di classe, quella che inserisce le proprie lotte in un nodo internazionale di antagonismi. Le lotte operaie in Italia, dopo la sconfitta alla Fiat nei primi anni Ottanta, preparata dalla polizia di fabbrica e dall’ideologia dei “sacrifici” del governo d’unità nazionale, si sono lentamente spente, e insieme a esse tutti i fermenti, tutte le pratiche di liberazione e di resistenza e tutti i movimenti equivocamente detti terzomondisti, hanno perduto la loro base di massa. In Italia, come in tutto l’Occidente, questa è stata la parabola. E il segno ricorrente di questo affievolimento – con tutte le rivalutazioni di vecchie e nuove autorità che ne dovevano derivare - è sempre stato l’oscurarsi delle interdipendenze di cui è fatta la catena imperialista.
Sarebbe certamente un’esagerazione un po’comica, vedere nelle agitazioni, negli appelli e nelle incalzanti sequenze di raduni di massa che le organizzazioni palestinesi rilanciano continuamente, l’avvio di una nuova fase di lotte su larga scala. E Sarebbe spingersi troppo in avanti sui tempi, intravedere un ritorno della “guerra di movimento” all’interno delle dinamiche sociali e di classe in Italia e in Europa, quando ci sembra difficile seguire con coerenza e tenacia le regole della “guerra di posizione”. Ciononostante, la Palestina sta divenendo un terreno di scontro interno, oltre che il luogo di un’inesauribile sollevazione anticoloniale, di una guerra di popolo che scuote la testa di ponte economica e militare più importante - per il “passaggio a Oriente” - dell’imperialismo occidentale. E i due lati della questione combaciano perfettamente. Al punto che le organizzazioni palestinesi trovano nei giovani delle università dei continuatori decisi delle loro lotte. Infatti, se ancora la popolazione adulta, nell’ampia fascia sociale che il “capitalismo di guerra” proletarizza sempre più velocemente, risponde blandamente agli appelli, schermata com’è dalle burocrazie sindacali, i giovani, ossia i precari digitalizzati del futuro, sono in ebollizione ed esprimono con il linguaggio antimperialista dei palestinesi una rabbia e un’insicurezza che qualche anno fa non si sarebbero potute immaginare.
Il potenziale di coscienza sociale e di classe che i gesti di rottura, l’indipendenza politica, il diniego degli accomodamenti e, soprattutto, le insubordinazioni pubbliche delle organizzazioni palestinesi rivoluzionarie – probabilmente vicine al FPLP -, mettono continuamente sotto i nostri occhi, sono, forse, il più duraturo insegnamento che esse riversano su di noi. La coscienza di classe e l’imperialismo sono inseparabili, come avvertiva Lukács nel suo libello militante su Lenin; per questo se il vento della Resistenza palestinese non soffierà violentemente nelle scuole e in tutti i padiglioni sempre più informatizzati del lavoro sociale, le connessioni mondiali del comando capitalistico resteranno ancora molto coperte. L’“internazionalismo palestinese” racchiude in sé rischi e promesse. Ma se la loro lotta è la nostra lotta, non lo è perché si confondono le condizioni – sappiamo bene che tali condizioni sono inconfrontabili! -, o perché solidarizziamo con abnegazione; ma lo è solo in quanto l’imperialismo salda tutti fronti della lotta di classe. Forse proprio per questo – nonostante la minaccia dei suoi arsenali - è una tigre di carta. In questo spirito, la manifestazione del 30 Novembre è anche una nostra manifestazione.