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Camminando sull’orlo dell’abisso
Miguel Martinez
Quattro letture in pochi giorni, interessanti soprattutto perché somigliano a tante altre cose che altri avranno letto nello stesso periodo.
Uriel Fanelli, partendo dalla sua esperienza come informatico, ci parla di un meccanismo che tutti conosciamo: la stampante che costa poco, poi però ti salassano vendendoti le cartucce.
Soltanto che il fenomeno si sta estendendo a molti altri campi.
Uriel presenta vari esempi. E’ addirittura possibile che certe aziende costruiranno auto elettriche gratis, rifacendosi sulle batterie, la manutenzione e tutto il resto. Ciò richiede però investimenti iniziali giganteschi, che solo le banche statunitensi concedono – a ditte statunitensi.
Il risultato, secondo Uriel, sarà la distruzione di tutti quei sistemi industriali, a partire da quello europeo, cui simili finanziamenti saranno negati.
Non solo: l’elettronica è la componente decisiva di ogni innovazione dei nostri tempi, e l’elettronica fa sì che tutto ricada sotto il dominio cibernetico/militare statunitense:
“Sarete felicissimi di avere il vostro cellulare gratis, e di avere anche l’abbonamento gratis. Meno felici sarete perche’ ad offrirvelo saranno Google e Facebook, che si rifinanzieranno vendendo i vostri dati ad NSA. E sarete ancora meno felici quando, siccome TUTTE le telco chiuderanno, rimarrete disoccupati. Sarete dei disoccupati col telefono gratis in tasca.”
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Costanzo Preve “Una nuova storia della filosofia”
di Oscar Oddi
La quarantennale, prolifica, produzione saggistica (per lo più ignorata e silenziata, quando non diffamata, dal circuito culturale-accademico mainstream, specie da quello egemonizzato dalla “sinistra”, compresa quella sedicente “radicale”e/o “antagonista” che dir si voglia, in tutte le sue più disparate e residuali diramazioni) di Costanzo Preve trova una sorta di sistematizzazione nella sua ultima fatica Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico–sociale della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia, 2013, pp. 538, € 30,00. Opera vasta e profonda, rappresenta la “summa” (parziale e provvisoria, poiché la riflessione filosofica non conosce una “fine”) di decenni di incessante attività di studio che, attraverso un percorso accidentato, controverso e contradditorio (come sono tutti i percorsi che cercano di aprire nuovi sentieri), ha portato al risultato che il lettore ha ora davanti.
Non si è di fronte all’ennesimo manuale di storia della filosofia, nemmeno di una sua versione “critica”, ma ad una rilettura radicale del pensiero filosofico occidentale attraverso il metodo dell’ontologia dell’essere sociale. Tale termine non è solo il titolo dell’ultima opera di Georgy Lukács (recentemente ripubblicata, meritoriamente, in quattro volumi, compresi i Prolegomeni, dalle edizioni PGreco di Milano), la cui lezione rimane un punto di partenza e fonte di ispirazione critica, ma definisce una precisa «scelta filosofica e metodologica generale».
Per comprendere quindi l’essenza del discorso di Preve, allievo critico di Hegel e di Marx, come da sua autodefinizione, è necessario preliminarmente capire il significato e la collocazione che egli dà di questa categoria.
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L’economia del debito e il «governo» della povertà
Una critica della microfinanza
di Marco Fama
Il contributo di Marco Fama rappresenta una critica della microfinanza, in quanto istituzione capitalistica. La microfinanza è raccontata al di là di ogni retorica. Essa è spiegata come una vera e propria (bio)politica monetaria che realizza una forma di dominio attraverso l’istituzione di rapporti creditizi che mettono a valore la condizione di povertà. Le nuove forme di governo della povertà incentrate sul (micro)debito, nel mentre si avvalgono della produzione discorsiva neoliberale per mezzo della quale sono presentate come un’occasione di auto-emancipazione per i poveri, portano questi direttamente nel cuore dei meccanismi di spoliazione messi in atto dai mercati finanziari; attraverso le logiche del debito/colpa a queste sottese, inoltre, viene ad esprimersi una forma fattiva di biopotere che ambisce a produrre – tra coloro i quali più di chiunque altro avrebbero motivo di insorgere – delle soggettività docili. Una riflessione preziosa per coloro che aspirano a riappropriarsi di un sapere monetario che sfidi la violenza finanziaria.
«Credit is the economic judgment on the morality of a man. In credit, the man himself, instead of metal or paper, has become the mediator of exchange, not however as a man, but as the mode of existence of capital and interest»
Marx, Appunti su James Mill
Le nuove governamentalità
I passaggi che hanno portato alla formazione di un nuovo ordine nel discorso della povertà sono stati analizzati da Kanyal Sanyal in uno dei suoi ultimi libri[1].
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Continuons le combat
Dopo il 18 e il 19 ottobre. Partito e organizzazione di massa
di Collettivo “Noi saremo tutto” Genova
Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi delle loro menti, scoprono, al risveglio, la vanità di quella immagine: ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo. (Th. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza)
Il crollo della socialdemocrazia
Dalle mobilitazioni di ottobre un primo dato emerge con chiarezza: la socialdemocrazia è un fetido cadavere e lo è, esattamente, nei termini in cui lo avevamo descritto e preannunciato nell’articolo a questo precedente. Il sostanziale flop a cui è andata incontro la manifestazione del 12 ottobre, a fronte dell’imponenza della giornata del 19, anticipata dalla non secondaria mobilitazione del sindacalismo di base del 18, conferma, attraverso un dato empirico denso di contenuti, quanto da tempo abbiamo posto all’ordine del giorno: l’impossibilità storica di una reiterazione di quel patto socialdemocratico attraverso il quale, per un’intera arcata storica, le classi dominanti insieme ai loro agenti attivi nel campo delle classi sociali subalterne hanno scongiurato l’irrompere dello spettro comunista sulla scena politica europea. A stento, il 12 ottobre, le varie anime della socialdemocrazia sono state in grado di portare in piazza diecimila persone. Se pensiamo che, tra gli organizzatori della manifestazione, vi era la FIOM, l’ARCI, SEL, il variegato mondo dell’Associazionismo, qualche pezzo del Pd e del M5S, la sponsorizzazione aperta de «Il fatto quotidiano» e quella “sotto copertura” de «La Repubblica» oltre ovviamente ai vari «Il manifesto» e «l’Unità» il fatto non è certo cosa da poco. Un flop, si può dire, senza precedenti che va assunto in tutta la sua importanza e conseguentemente analizzato.
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Ricordo di Marshall Berman
Vittorio Giacopini
Il faut être absolutement moderne e tutta l’opera di Marshall Berman ruota attorno al perno di questa contraddizione micidiale. L’imperativo di Rimbaud esplode in una fantasmagoria di dilemmi, paradossi, segni erranti. “Essere moderni significa sentire, a livello personale e sociale, la vita come un vortice, scoprire di essere, insieme al nostro mondo, in continuo disgregamento e rinnovamento, immersi perennemente nelle difficoltà e nell’angoscia, nell’ambiguità e nella contraddizione: essere parte di un universo in cui tutto ciò che vi era di solido si dissolve nell’aria”.
L’esperienza della modernità (un libro stupendo) è del 1982 (edizione italiana Il Mulino, ristampato di recente), e la data conta. Potevano essere anni di resa e perplessità; di diserzione. Non era un bel momento, poco ma vero. La morte del sogno dei sixties – un congedo forse rinviato troppo a lungo – la fine della stagione dei Movimenti. In Europa il dibattito culturale si perdeva nelle gore astratte dello strutturalismo, in America prevaleva – velata dal disincanto – la Reazione. Bisognava reagire, oppure piegarsi. L’altro grande libro americano di quegli anni, La cultura del narcisismo di Christopher Lasch, per dire, è una scelta di campo anti-moderna. Figlio degli anni sessanta, e marxista a modo suo, piuttosto atipico, Berman di fronte al disastro invece si azzarda a rilanciare, riapre i giochi.
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Le superstizioni comunarde di Toni Negri
di Sebastiano Isaia
Kautsky immaginava il socialismo alla stregua di un Capitalismo conquistato alla razionalità scientifica. Negri lo immagina come Capitalismo conquistato alla prassi del “comune”: almeno certe sue riflessioni “comunarde” mi inducono a pensare questo. Un esempio: «Confrontandosi poi al paradosso della proprietà, qui non sembrano darsi altre vie che quelle che spingono al confronto ed allo scontro con i poteri monetari e finanziari. Se la moneta è mezzo di conto e di scambio difficilmente eliminabile, gli va tuttavia tolta la possibilità di essere strumento di accumulazione di potere contro i produttori. Come si possono imporre alla Banca centrale le finalità di una produzione dell’uomo per l’uomo, di piegarsi cioè ad una configurazione biopolitica degli assetti sociali?»(1). Ragionando dal punto di vista umano, ossia osservando il mondo asservito ai rapporti sociali capitalistici «dalla prospettiva che lascia intravedere, nel bel mezzo del Dominio, la possibilità della liberazione universale», come recita la manchette del mio blog, la risposta non può che essere univoca: la configurazione umana degli assetti sociali può darsi solo nella Comunità che non conosce il denaro, la merce (a partire dalla forza-lavoro), il mercato e tutte le altre categorie dell’economie politica che presuppongono la società capitalistica. Ma questo è, secondo gli standard postmoderni dell’intellettuale padovano, un modo vecchio di ragionare, forse valido ai tempi del trincatore di Treviri, quando il “Comune” poteva essere immaginato solo nei termini di una possibilità post-rivoluzionaria, ossia come radicale cesura di un’intera epoca storica, mentre oggi esso si dà già come una concreta realtà, che per dispiegarsi completamente aspetta solo di venir liberata dalla sovrastruttura ideologica del Dominio.
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Accelerazione multipolare per "sdollarizzare" il mondo
di Tito Pulsinelli
Ridotta l’area di circolazione del dollaro – Petrodollaro al capolinea – OPEC gas, yuan convertibile e “paniere di monete” per le materie prime
Il 3 di settembre, durante una esercitazione navale congiunta con Israele, gli Stati Uniti lanciarono due missili in direzione della costa della Siria. Non sono mai arrivati a destinazione perchè la Russia li ha intercettati e abbattuti. La copertura difensiva fornita dagli S-300 ha vanificato la possibilità di fare almeno il minimo sindacale, distruggendo qualche palazzo siriano con glamour a colpi diTomahawks.
Nel precedente biennio, la NATO si è dibattuta nell’impotenza di bombardare liberamente a la carte. E’ stato il punto di svolta e non solo per la Siria. L’arco di forze anti-occidentale ha consolidato l’esistenza d’un Medioriente assai dissimile da quello tracciato dalla cartografia globalista.
Per la prima volta, Washington e le due correnti del suo peculiare partito unico della finanza, ha misurato tutte le implicazioni della riduzione della propria egemonia. Stavolta in modo inoccultabile agli occhi e alle sensibilità dei profani, addirittura sul terreno-tabù della superiorità militare e – specificamente – del dominio aerospaziale. L’indiscusso potere distruttivo accumulato è risultato inappropriato per un’operazione presentata come regime change. Un ironico ministro della difesa russo ha così chiosato: “agitano un martello sulla testa di chiunque, annunciano “domani vi castigheremo, anzi no, meglio dopodomani …infine.. meglio che alcuni tipi votino per decidere se vi puniremo o no”.
Il mito del dominio illimitato ha riportato una seria ferita, che si aggiunge alle molte altre del preconizzato processo di “tracollo dai mille tagli”.
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Austerity, economisti alla rissa politica
di Nicola Melloni
Mentre il dibattito politico sull'austerity è assente, in campo accademico lo scontro è al calor bianco. Così l’economia è diventata ideologia e lo scontro teorico è divenuta bagarre politica
Quello cui ci troviamo davanti in questi anni è un fenomeno alquanto bizzarro. Il dibattito politico sull’austerity è stato largamente assente in praticamente tutti i paesi europei. Socialisti e conservatori, chi con entusiasmo, chi con qualche remora, hanno accettato tagli e tasse senza nemmeno discutere la validità di tali ricette economiche. Diversa invece la situazione in campo accademico, dove lo scontro tra neo-lib (e neo-con) e keynesiani è ormai al calor bianco. Non più solo uno scontro di idee, ma uno scontro personale e soprattutto, appunto, politico. In discussione ormai non sono solo certe politiche, ma sistemi di pensiero, onestà intellettuale e ruolo degli intellettuali nella società.
Con buone ragioni, a mio parere. Per oltre trent’anni l’economia mainstream è stata presentata come una scienza esatta, super partes. Magnificava il mercato e demonizzava l’intervento pubblico quando non la politica tout court, perché così dicevano i numeri. Che questi numeri non fossero proprio una rappresentazione fedele della realtà contava poco. L’economia è diventata una forza decisiva per impostare il dibattito politico, formare la pubblica opinione, incatenare le scelte degli Stati – basti pensare, ben prima della presente austerity, ai parametri di Maastricht. Una scienza strumentale ad un certo tipo di sistema di potere e che dunque si è sviluppata e strutturata su criteri certo non solo legati al merito accademico: i leoni alle porte delle facoltà di economia imponevano l’accettazione di una metodologia e di un sistema di pensiero quasi totalizzante.
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Datagate: ipocrisia europea ed egemonia statunitense
di Gaetano Colonna
Nella storia dei rapporti transatlantici vi sono state numerose pagine percorse da un sottile umorismo, ma nessuna è pari a quanto si sta leggendo e ascoltando in questi giorni sullo "scandalo" Datagate.
Chiunque abbia una pur vaga idea di come l'intelligence rappresenti storicamente una delle basi portanti della potenza delle grandi Nazioni imperialiste dell'Occidente europeo, fin dal Settecento, per la cui strategia navalista era imprescindibile la costante acquisizione di informazioni tattiche e strategiche su scala planetaria, non può che considerare estremamente ipocrita l'apparente scandalizzarsi delle classi dirigenti europee, dalla Germania, alla Francia, all'Italia.
Nel giugno 1948, proprio quando aveva appena avuto inizio la Guerra Fredda, con l'accordo UKUSA, USA, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda, i cosiddetti "Five Eyes", mettevano a punto quella vasta rete planetaria di attività spionistiche l'ultima manifestazione della quale sarebbe stata quella rete Echelon di cui si ebbe notizia negli anni Novanta: anche in questo caso si sprecarono articoli sui giornali, inchieste dell'Unione Europea e più o meno tiepide contrizioni da parte di qualche alto ufficiale americano, senza per altro che si sia mai andati a fondo sul da farsi - nonostante fosse già allora risultato evidente il poderoso ruolo della NSA nell'organizzare e gestire lo spionaggio elettronico con una onnipervasività planetaria totale. Quella avrebbe dovuta essere l'occasione ultima per affrontare tempestivamente tutte le implicazioni politiche dell'evidente capacità americana di "intercettare il mondo".
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Logica della conoscenza complessa
di Pierluigi Fagan
In quella rivoluzione epistemologica che fu la nascita e lo sviluppo della fisica quantistica avvenuta nel primo ‘900, s’incontrano due operatori logici applicati a due diversi principi. I due operatori logici sono “o – o” ed “e – e”. Per “operatore”, s’intende un dispositivo che dà forma allo sviluppo logico.
L’operatore “o – o” ha la sua più antica versione, tra quelle a noi conosciute, nel Principio di non contraddizione. Esso afferma che di un ente non è possibile predicare l’affermazione e la negazione al contempo, ovvero la sua realtà ed il suo contrario, ovvero apporvi predicati in contraddizione validi in uno stesso istante. Aristotele, almeno inizialmente, lo riteneva un principio ontologico relativo all’essere, libero da ogni predicato e/o attributo. Il principio si limita a vietare l’attribuzione di concetti contrapposti -in uno stesso istante- allo stesso soggetto ma non stabilisce cosa dobbiamo o possiamo ritenere “contrapposto”. La regola disgiuntiva, nella sua forma pura “o – o”, è un puro principio di esclusione di una attribuzione di verità che risulterebbe contradditoria. Senza l’ osservanza di questa regola, non vi sarebbe differenza e quindi non si produrrebbe informazione (ex falso sequitur quodlibet).
Nella fisica quantistica, il principio disgiuntivo ispirò la formulazione di un importante principio applicato alle regole di funzionamento della meccanica dei quanti. Del Principio di indeterminazione di W. Heisenberg (1927), venne proposta una prima versione in una lettera che W. Pauli[1] scrisse allo stesso Heisenberg un anno prima.
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Il Treasury Usa tra Kalecky e il wishful thinking
di Quarantotto
Partiamo da questa proposizione socio-giuridica per fissare un punto da cui decodificare lo scenario che si sta affacciando ai nostri occhi:
"Certamente, in un regime di permanente pieno impiego, il licenziamento cesserebbe di giocare il suo ruolo come strumento di disciplina [disciplinary measure]." Kalecky "Aspetti politici del pieno impiego" (par.II.4)
Questo assunto, intuitivo, ci consente di comprendere sempre, alla stregua delle coordinate di navigazione, il dibattito che si è svolto sulla questione "pubblico impiego". A cui faccio rinvio, per chi non l'avesse seguito. Questo stesso assunto ci consente una digressione "storico-economica" molto interessante.
La ritraiamo da un paper del prof. Aldo Barba, datato 25 maggio 2011, alla vigilia immediata di quella offensiva finale che, scatenata dalle vendite di Deutschebank sui titoli del nostro debito pubblico - a loro volta "figlie" del six packs approvato poche settimane prima-, innescò il gigantesco "regolamento di conti" che ha fatto emergere concretamente, per chi avesse occhi per vedere, la vera natura dell'euro. Sentite che dati ci offre:
Consideriamo brevemente alcuni dati essenziali. All'inizio degli anni settanta il peso sul prodotto della spesa pubblica al netto degli interessi è, in Italia, di sei punti percentuali più basso che in Francia e Germania. Nel 1980 la spesa pubblica al netto degli interessi in rapporto al prodotto è pari al 37% in Italia, al 45.4% in Francia e al 46.5% in Germania. Alla fine degli anni ottanta la nostra spesa primaria è allineata a quella dei tedeschi (43% circa), rimanendo in ogni caso inferiore di oltre cinque punti percentuali a quella dei francesi. Alla fine degli anni novanta la spesa primaria è pari in Italia al 41.5% del PIL, contro il 44.9% della Germania e il 49.6% della Francia (Fig. 1).
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L’uomo come zoon politikon
Società, comunità e associazione in Marx
Luca Basso
L’articolo è incentrato sull’antropologia marxiana, a partire dall’idea secondo cui l’uomo è uno zoon politikon. In particolare, nella Einleitung del 1857, si afferma proprio che l’uomo è uno zoon politikon, e nel primo libro del Capitale si ribadisce tale concetto, sottolineando il fatto che l’espressione indicata può essere tradotta con “animale sociale”, più che con “animale politico”. Più avanti ritornerò su tali passi, mostrando il fatto che non possono venire interpretati a partire dalla convinzione di un presunto “aristotelismo” di Marx: l’elemento dello zoon politikon viene completamente “trasvalutato” rispetto ad Aristotele. Questo rilievo sull’uomo come zoon politikon fa emergere la dimensione antropologica del pensiero marxiano. Metterò in luce il carattere non astratto, non essenzialistico di tale antropologia, che si radica in una situazione determinata, all’interno di un determinato contesto storico e sociale. D’altronde, proprio dal momento che lo zoon politikon viene inteso come animale sociale, più che come animale politico, il riferimento alla società risulta decisivo: cruciale si rivela quindi la questione del rapporto fra individuo e società, e anche fra individuo e comunità, e individuo e associazione. Così il percorso svolto attraverserà i concetti di società, comunità e associazione, che devono venire tra di loro differenziati, ma nello stesso tempo presentano vari tratti comuni. Vista l’enorme vastità del tema di per sé, e nello specifico in Marx, pur fornendo un approccio complessivo al problema, mi soffermerò in particolare sul lemma società in senso stretto, Gesellschaft, cercando di farne emergere gli aspetti più rilevanti.
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"Nuovo fascismo" o neoliberalismo?
Michel Foucault e l'affaire Croissant
Alessandro Simoncini
1. Nel cuore degli “anni di piombo”: il caso Croissant
Come si sa, fin dai primi anni ’70 Michel Foucault avvierà l’elaborazione di un’analitica del potere capace di oltrepassare tanto la sterile dogmatica del contrattualismo liberale, quanto le insufficienze di un rigido economicismo marxista. (1) Ai suoi occhi, la lezione proveniente dagli eventi del ’68 aveva indicato la strada: i movimenti avevano rigettato materialmente l’ordine della società disciplinare affermando dal basso, e con radicalità globalmente diffusa, che «non si accettava più di essere governati in un certo modo». (2) Per dirla con Gilles Deleuze, quelle lotte avevano rappresentato «la messa a nudo di tutti i rapporti di potere, ovunque essi si esercitassero, cioè dappertutto». (3) In questo modo, esse avevano squadernato apertamente il “concreto” stesso del potere – sosteneva Foucault - fin nelle maglie più fini della sua rete. (4) Recepirne le indicazioni significava allora elaborare una “microfisica del potere” in grado di superare l’ossessione teorica della sovranità e di mostrare come la concretezza dei poteri e dei saperi avesse prodotto, storicamente e materialmente, l’assoggettamento delle menti e dei corpi: (5) il governo di tutti e di ciascuno.
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Tagli alle pensioni, o inutili o da esproprio
Maurizio Benetti
La legge di stabilità di Monti nel 2011 ha segnato con tutta probabilità uno spartiacque negli interventi sul sistema pensionistico. Da un lato è intervenuta sull’età di accesso alla pensione portando a compimento un processo iniziato nel 1992 con la riforma Amato, dall’altro ha limitato pesantemente l’indicizzazione delle pensioni.
Il primo tipo d’intervento è quello che, unitamente al cambiamento del metodo di calcolo delle pensioni introdotto con il metodo contributivo nel 1995, ha caratterizzato tutte le riforme del sistema pensionistico dal 1992 al 2011. Tutte queste misure hanno avuto come platea d’intervento i futuri pensionati, ossia i lavoratori, colpendoli progressivamente in misura via via maggiore sia nelle modalità di computo della pensione sia nell’età di pensionamento. Questo processo è ora giunto a compimento e le previsioni a medio-lungo termine della Ragioneria generale sulla spesa pensionistica indicano “come, nel panorama europeo, l’Italia risulti uno dei paesi con la più bassa crescita della spesa pensionistica in rapporto al PIL segnalando, sotto questo aspetto, un rischio contenuto in termini di impatto dell’invecchiamento demografico sulla sostenibilità delle finanze pubbliche”.
Questo significa che se nelle prossime leggi di stabilità si volesse ancora fare cassa sulle pensioni come si è fatto sino al 2011, la platea d’intervento non potrà più riguardare i lavoratori-pensionandi, ma non potrà che riguardare i pensionati. Monti-Fornero l’hanno già fatto attraverso il blocco dell’indicizzazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo e l’ha ripetuto in forma più attenuata Letta modificando in peggio le norme sull’indicizzazione.
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La crisi perpetua come strumento di potere
intervista a Giorgio Agamben
Lo scorso marzo lei ha proposto l’idea di un “impero latino” contro il dominio tedesco in Europa. Il suo intervento è stato tradotto in diverse lingue e discusso con molta passione. Aveva previsto tutta questa eco?
Vorrei innanzitutto precisare che il modo in cui “Die Zeit” ha presentato il mio articolo su “Libération”, non ne rispecchia né lo spirito né la lettera. A cominciare dal titolo (Das lateinische Reich soll einen Gegenangriff starten) che ovviamente, come un giornalista dovrebbe sapere, non è mio, ma della redazione. E come potrei voler contrapporre la cultura latina a quella tedesca, quando ogni europeo intelligente sa che la cultura italiana del Rinascimento o quella greca classica appartengono di pieno diritto anche alla cultura tedesca, che le ha pensate e riscoperte? Questo è l’Europa, questa assoluta specificità che scavalca tuttavia ogni volta i confini nazionali e culturali. L’obiettivo delle mie critiche non era la Germania, ma il modo in cui l’Unione Europea è stata concepita, su ragioni unicamente economiche che ignorano non solo quelle spirituali e culturali, ma anche quelle politiche e giuridiche. Se vi era una critica per la Germania, ciò era solo perché la Germania, che si trova in qualche modo in una posizione di leadership, malgrado la sua straordinaria tradizione filosofica sembra incapace di pensare una Europa che non sia quella della moneta e dell’economia.
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Vana ricerca del buon governo
di Antonio Negri
Una bella lezione di umiltà ci dà Carlo Galli con questo libro: Sinistra, per il lavoro, per la democrazia (Mondadori, Milano, 2013). È un libro umile non perché semplificato in ossequio ai militanti democratici o evasivo rispetto alle ragioni elettorali che lo situano ma perché qui un intellettuale di grande spessore vuole sperimentare il suo sapere nella lotta politica e metterlo al servizio di una parte. Senza voler prendere in giro nessuno, direi, sulle orme di Hadot e Foucault, che qui ci si trova dinnanzi ad un vero e proprio “esercizio spirituale” che si colloca (mi si permetta di aggiungerlo) nella miglior tradizione del Partito Comunista Italiano. Al di là di questo, il libro non ha nulla di “comunista” se non una piccola (ma importantissima) – come chiamarla? – “derivazione” sulla quale torneremo alla fine di questa recensione.
Sono cinque capitoli di fattura diversa. Il primo e il secondo sono saggi di uno storico del pensiero politico. Alla fine del novecento, egli si interroga su quali siano state le figure specifiche e le diverse linee del pensiero politico della sinistra, in quel secolo: vi si scontrano il razionalismo democratico, il dialettismo progressista e socialista ed infine il pensiero negativo. Quest’ultimo scopre nella filosofia di Nietzsche il suo dispositivo – scettico e decostruttivo riguardo alla consistenza giuridica dello Stato, effettuamene aperto alla contingenza dei rapporti di forza che i movimenti politici definiscono, radicalmente capace di decisione e di normatività.
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Una fioca luce gettata sulla triste scienza
di Marco Bascetta

Il buio dell'inconoscibile
Jean Paul Fitoussi, nel volume Il teorema del lampione (Einaudi, pp. 218, euro 18), riassume questa presunzione dottrinaria con la nota storiella dell'uomo che cerca un oggetto perduto sotto la luce di un lampione, non perché l'abbia perduto in quel luogo, ma perché è l'unico ad essere illuminato.
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Formare, obbedire, combattere
La valuta corrente della valutazione
di Gerolamo Cardini
1. Diciamolo subito: la valutazione è esercizio brutale del comando mascherato da ideologia del merito. Proprio per questo, nell’articolare oggi una critica nei confronti del sistema della valutazione come elemento-chiave delle attuali trasformazioni della formazione scolastica e universitaria, non ha senso cedere a forme di nostalgia nei confronti di immaginari bei tempi andati. I tempi in cui ogni docente era giudice unico di se stesso e del proprio lavoro – fatte salve però le forme di corruzione, i rapporti di padronato e di servilismo di stampo feudale che imperversavano (e continuano a imperversare) in ambito universitario e, anche se in misura minore, in quello scolastico – sono passati, e non vale la pena versarvi lacrime, né ancor meno idealizzarli come il paradiso perduto della libertà di insegnamento e del rapporto ‘umano’ tra docenti e studenti. Chi non sia accecato dall’ipocrisia sa bene che le cose stavano diversamente, che il richiamo alla scuola di don Milani era poco più che uno slogan, che la condivisione dei percorsi formativi (la famosa ‘programmazione collegiale’) tra docenti, alunni e genitori era spesso aleatoria, nonostante una legislazione scolastica certamente avanzata; che il libero uso dell’intelletto in ambito universitario era perlopiù caldamente sconsigliato, e in ogni caso non premiato. Non verrà quindi da qui nessun rimpianto del tempo passato, al quale talvolta indulgono anche ben intenzionati compagni e compagne. Cercheremo piuttosto di svolgere una riflessione critica che provi a tenere insieme l’intero ambito della formazione scolastico-universitaria, mostrando la sostanziale omogeneità dei processi in corso, non a caso accompagnati da una retorica comune e scanditi da interventi legislativi e amministrativi che, nonostante l’alternarsi di governi di vario colore, mantengono un’impressionante coerenza.
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Oltre l’accademia: le strade
di Girolamo De Michele1
Confesso di aver seguito con un certo distacco, e anche un po’ di fastidio, il nascere del “Nuovo Realismo”, del cui testo fondante molte cose non mi convincevano, e continuano a non convincermi. Del resto, non essendo mai stato “post-modern”, non mi convinceva neanche l’eventuale difesa del bersaglio polemico. E, se devo dirla tutta, l’ambiente “Italian Theory” – tradotto come mangio: l’Italietta accademica che ha il suo quarto d’ora di notorietà modaiola, ora che il vestitino “French Theory” s’è sdrucito a furia di strofinature, nei McDonald culturali americani – mi faceva venire in mente il Poeta di Pavana: “di solito ho da far cose più serie, costruire su macerie, o mantenermi vivo”.
Nel giro di una settimana, due testi mi hanno fatto cambiare idea non sull’agone accademico, ma sull’utilità di intervenirvi. Il primo è la piccola Arca nella quale, su minima&moralia, sono stati imbarcati testi che potrebbero venire buoni après le déluge, e che testimoniano come una parte importante della narrazione contemporanea non sia riconducibile all’antitesi Realismo-Postmoderno; il secondo è l’intervento di Umberto Eco Ci sono delle cose che non si possono dire, sull’ultimo alfabeta2 [qui].
Quasi quattro anni fa, partecipando alla discussione sul romanzo italiano contemporanea aperta da Wu Ming 1 col suo saggio sul New Italian Epic, avevo sostenuto le ragioni della categoria del “neorealismo” usata da Gilles Deleuze a proposito del cinema:
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Errata corrige: Democrazia
di Sandro Moiso
“Il sogno della democrazia consiste nell’elevare il proletariato a livello dell’idiozia borghese” (Gustave Flaubert)
Non è stata la manifestazione più grande, non ci ha lasciato immagini epiche da tramandare ai posteri e, nemmeno, slogan che passeranno alla storia…eppure, eppure…il corteo del 19 ottobre a Roma ha segnato il passaggio ad una fase nuova. Una massa che non si fa rappresentare, ma che si rappresenta. Una massa che non ascolta dichiarazioni e promesse, ma che si dichiara.Una massa combattiva e pacifica, determinata e multietnica. Una massa consapevolmente in guerra contro l’esistente e più pericolosa per le istituzioni di qualsiasi pubblica ed imbelle dichiarazione di guerra.
Perché la democrazia non sta nelle costituzioni, se queste non prevedono il conflitto e il diritto alla rivolta. E non sta nelle leggi elettorali se non esistono partiti in grado di difendere e diffondere il conflitto sociale. E non sta nei partiti e partitini se questi si arrogano, comunque e soltanto, la rappresentazione del conflitto. La democrazia è conflitto e vive soltanto nel conflitto.
Là dove il conflitto è negato, la democrazia non c’è. Che sia un governo liberista a negarlo, oppure un governo ancor più marcatamente autoritario oppure, ancora, un governo socialista come quello sovietico dagli anni venti del ‘900 in avanti, ci si trova davanti ad una dittatura.
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Rendita, accumulazione e nuovi processi di valorizzazione nel web 2.0
di Andrea Cagioni
L’articolo intende fornire un contributo critico su alcuni elementi di economia politica della new economy e offrire strumenti analitici utili alla comprensione delle aporie, dei rapporti di forza e dei conflitti che attraversano il campo del Web 2.0#1.
Prima di concentrare l’attenzione su tali processi, vediamo di illustrare le caratteristiche salienti della finanziarizzazione dell’economia, al fine di comprendere i cambiamenti più rilevanti nei processi di valorizzazione capitalistici. L’egemonia della finanza, nella lettura sviluppata dal neo-operaismo, è indicativa delle nuove modalità di accumulazione del capitale poste in essere per fronteggiare tanto la diminuzione del saggio di profitto industriale del modello fordista, tanto la situazione di crisi strutturale determinata, a partire dalla prima metà degli anni ’70, dalla fase espansiva e dal carattere antagonista delle lotte operaie e dalla nuova composizione tecnica e politica della forza-lavoro. Marazzi dimostra come le fonti, gli agenti e i dispositivi della finanziarizzazione si siano moltiplicati ed estesi lungo tutto il ciclo produttivo, e di conseguenza la finanza sia divenuta consustanziale al ciclo economico. La finanziarizzazione attuale è quindi la forma di accumulazione che meglio esprime la forma contemporanea di valorizzazione del capitalismo.
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Karl Marx e il suo deficit originario*
Roberto Finelli
Il deficit originario di Karl Marx
1. Ciò che di Marx oggi non è più possibile accettare non è certamente la critica dell’economia – che invece trova sempre più conferme – quanto l’antropologia e la filosofia della storia che ne consegue. In buona parte dell’opera di Marx c’è infatti un deficit profondissimo di analisi e comprensione della soggettività, che ha avuto conseguenze assai negative nelle storie dei movimenti operai e delle emancipazioni sociali che si sono richiamate al marxismo.
Un deficit, la cui presenza è sempre stata espressa, e insieme dissimulata, proprio dal suo opposto, qual è la teoria dell’onnipotenza del soggetto che Marx ha posto a base della sua filosofia della storia e della rivoluzione.
La tesi fondamentale del materialismo storico è, com’è noto, quella della contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali di produzione. La storia, secondo questa prospettiva, passa da una formazione economico-sociale all’altra ogni qual volta lo sviluppo delle capacità costruttive dell’homo faber (la cui accumulazione costituisce il filo rosso e il polo positivo di continuità tra le varie epoche) trova impedimenti non ulteriormente compatibili con la sua crescita.
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Più o meno Europa?
di Diego Fusaro
In una lettera recentemente apparsa on line, l’amico e collega Luciano Canova ha mosso delle obiezioni alle mie posizioni sull’euro e sulla necessità di congedarsene il prima possibile. Lo ringrazio fin da ora per le stimolanti riflessioni su temi così nodali. E proverò qui di seguito a elaborare una risposta, sia pure sintetica.
In primis, caro Luciano, mi permetto di rettificare due punti: il “cretinismo economico” (Gramsci) non è un’accusa rivolta a te e all’economia in quanto tale, ma, più in generale, all’odierno spirito del tempo, di cui l’economia è espressione quintessenziale. La riduzione dell’essente a quantità calcolabile, sfruttabile e valorizzabile non è forse – come ben sapeva Heidegger – la triste essenza del nostro tempo? Non è forse questo il cretinismo economico di un tempo in cui non si ragiona se non in termini di debiti e crediti, di crescita e di profitto, di austerity e fiscal compact, di spread e di deregulation? Questo è l’orizzonte in cui siamo, e di questo dobbiamo occuparci (né di Marshall, né di Smith): l’economia di cui parla Aristotele è tutt’altro che cretinismo economico, ovviamente; ma quella odierna, elevata dal pensiero unico a teologia della disuguaglianza sociale? L’economia è oggi la teologia del capitale finanziario. I pochi economisti che, come te, si sottraggono a questa follia generale sono i benvenuti e dovrebbero essere i primi a indirizzare i loro strali contro i colleghi organici al sistema finanziario.
Seconda precisazione: a rigore, il paragone tra Hitler e la Merkel che tu mi attribuisci non è mio, ma del conduttore televisivo della trasmissione a cui ho partecipato qualche settimana fa.
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Cancella il debito?
Il debito in comune: dialogo sul filo del paradosso tra teoria politica, estetica e scienze umane
di Giacomo Tagliani
Una singolare tendenza si aggira oggi nelle scienze umane. Sotto la dicitura onnicomprensiva di teologia politica, numerose analisi e interpretazioni del tempo presente si stanno infatti orientando sulla consustanziale attiguità tra le dinamiche sociali, culturali e politiche e una comune matrice teologica che le informa e dona loro senso ed efficacia. Se la precessione di un dominio sull’altro è argomento tuttora dibattuto, resta il fatto che l’effettiva presenza di tale paradigma continua ad acquisire sempre maggior credito, supportato da analisi e digressioni teoriche che sembrano riuscire a contestare con successo le obiezioni a tale cornice epistemologica avanzate dai teorici della democrazia negli ultimi decenni del secolo scorso.
Certamente la teologia politica è un tema che attraversa interamente il Novecento, a partire dai lavori di Carl Schmitt che innescarono un lunghissimo dibattito che coinvolse in egual misura giuristi e teologi, soprattutto di area tedesca, ma la sua ripresa più recente sembra essere dovuta alle analisi sul potere di Michel Foucault: sono proprio le analisi dedicate ai paradigmi della sovranità e del governo e alla centralità nelle società occidentali di alcune tecniche del sé di derivazione cristiana, la confessione su tutte, ad aver costituito lo spunto che ha permesso di congiungere il quadro teorico estremamente ampio ed astratto con la località analitica circoscritta. Sulla scia dei lavori di Ernst Kantorowicz, questo paradigma ha potuto infine essere traslato dalla regalità medievale alla “governamentalità” contemporanea, soffermandosi tanto sui singoli casi che su questioni di portata più generale.
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Quale sovranità monetaria? Pensare la crisi europea
di Stefano Lucarelli
« Uno dei rischi peggiori di questa crisi è la chiusura su se stessi degli Stati-nazione, la corsa a svalutazioni competitive per riconquistare fette di mercato sottraendole agli altri con misure protezionistiche. È così che, di solito, scoppiano le guerre»[1]
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Le parole su cui Christian Marazzi pone l’attenzione del lettore in conclusione del suo libro Finanza Bruciata – apparso nel 2009, poi tradotto in inglese e recentemente tradotto in francese – delineano un orizzonte nefasto. D’altro canto pensare a fondo la crisi europea conduce inevitabilmente a rendersi conto del pericolo che incombe. Per scongiurare questo orizzonte Marazzi invita ad adottare un principio, che egli intravede a fondamento del Homeowner Affordability & Stability Plan voluto dall’amministrazione Obama (la cassa di rifinanziamento ipotecario su trent’anni per salvare dal pignoramento della propria casa quattro milioni dei famiglie americane in grado di ritrasmettere fiducia al settore del credito ben più degli interventi di salvataggio diretto): partire dal basso per riformare il sistema monetario.
Le tesi di Marazzi costituiscono, nel bene e nel male, il tentativo più coraggioso e rigoroso prodotto dall’area antagonista (talora definita neo-operaista) di riorganizzare le categorie necessarie alle soggettività che vogliono ribellarsi allo stato di crisi. Categorie scivolose per cogliere l’insolito forgiato dal comando finanziario, comprenderlo, corromperlo, affinché una qualche relazione fra “lotta (di classe?)” e “sviluppo (capitalistico?)” possa essere innanzitutto immaginata e poi riproposta in modo vivo e vitale.
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