La crisi è crisi di sistema*
di Ferdinando Dubla
La crisi è una categoria non nuova per le classi sociali che ne subiscono le conseguenze: le fasi del capitalismo hanno abituato i suoi portavoce ad isolarne alcuni aspetti per nasconderne la portata strutturale, tutta interna alla natura stessa del sistema sociale proprio per celarne le evidenti contraddizioni. Per cui assistiamo alla centralità ora della speculazione finanziaria che ha in mano il debito pubblico inesigibile per i paesi più deboli della catena, ora il disordine politico che ne alimenterebbe l’incapacità di soluzioni altrimenti a portata di mano, ora la disperazione sociale di coloro che non sanno difendersi dai colpi dell’ineguaglianza. Infine, la crisi morale: lasciata nell’indeterminatezza, sullo sfondo di discorsi retorici, ha conquistato l’udienza dell’attuale Papa, collocandosi nuovamente al centro di una riflessione meno episodica e contingente (in un caso specifico, nel dialogo a distanza tra lo stesso Pontefice e il decano dei giornalisti laici, Eugenio Scalfari).
Una lettura marxista della crisi morale e dell’etica individuale e sociale che ne consegue, naturalmente non tende a settorializzare il problema: lo lega al sostrato economico dei rapporti di produzione e del ruolo degli Stati nella regolazione degli squilibri devastanti che il sistema capitalistico produce; al ruolo delle oligarchie politiche che ne garantiscono la sopravvivenza e l’alimentazione nel senso comune della impossibilità di alternative.
La crisi come categoria della struttura, appunto, a cui le forme sovrastrutturali reagiscono modellandovisi dialetticamente.
Le questioni inerenti la morale, e più complessivamente la qualità dei rapporti umani e interpersonali però, hanno oggi il pregio di mostrarsi con evidenza assoluta in tutta la barbarie dovuta allo schermo della monetizzazione di tutte le relazioni sociali. Il capitalismo come sistema, ha spinto l’intersoggettività umana a concepirsi come scambio e interesse, mettendo in minoranza l’empatia emotiva di carattere psicologico che dà il senso alla vita di ognuno. Lo si avverte con nettezza non solo nel campo dei servizi sociali e alla persona (in Italia particolarmente assenti o carenti, quando presenti spesso pessimi, rispetto all’aumento della domanda), ma nell’immenso spazio delle interazioni tra gruppi, tra individui e tra individui e gruppi.
Come comunisti dovremmo cogliere la contraddizione tra “l’etica corrente e lo spirito del capitalismo” in modo più efficace e centrale nell’azione e nell’iniziativa politica, sollecitando così l’evoluzione della coscienza di classe di massa (o, gramscianamente, di un diverso e alternativo senso comune). La Chiesa attuale, pur avvicinando maggiormente il cattolicesimo allo spirito cristiano, non risolve, ma consola e sul tema dei diritti civili si riallontana dallo spirito laicale.
Spetta alla cultura di ispirazione marxista una riflessione meno casuale e contingente su questi temi, e agli stessi comunisti organizzati in partito una consequenzialità nella prassi (unità dialettica di teoria e pratica): la si può ritrovare positivamente in una discussione tra Fosco Giannini e Luigi Vinci nell’ultima raccolta di scritti dell’attuale dirigente nazionale del PdCI, “Da una parte della barricata” (Affinità elettive 2013, pp.293-296), in un articolo del marzo 2009 in cui richiamava l’importanza delle teorizzazioni di Luckàcs al riguardo, oltre che del filosofo C.N. Coutinho e dello stesso Gramsci, naturalmente. Pur riferito principalmente al metodo interno del centralismo democratico e ai rapporti tra militanti, base e classe dirigente di un partito comunista, Giannini non si esime da una riflessione di portata globale (che egli chiama “teologica”) e di carattere universalistico: “dobbiamo cercare le strade per l’affermarsi dell’uomo nuovo”, (ivi, pag. 296), riattualizzando il concetto di egemonia di Gramsci.
Da un punto di vista più strettamente filosofico, l’umanesimo materialistico di Gramsci deve e può associarsi all’ambizione lukàcsiana della fondazione di un’etica materialistica sulla base di un’ontologia dell’essere sociale. Questo è doveroso per noi comunisti di questo secolo, comunisti che hanno potuto misurare, con le prove della storia (in negativo), i tentativi di “ricostruzione antropologica” dell’”uomo nuovo” con ideali socialisti, senza con questo liquidare tout court quelle stesse esperienze (significativamente, J.F.Lyotard, il filosofo del ‘postmoderno’, critica il marxismo non principalmente dal punto di vista delle esperienze concrete, ma come ‘grande narrazione’ del mondo e della realtà dal punto di vista dell’analisi teorica, che lo trasforma in ‘utopia rivoluzionaria’, dunque pericoloso in sé per una promessa palingenetica di una rifondazione antropologica).
Ma il presente e il futuro si costruiscono attingendo al proprio patrimonio, soprattutto intellettuale, con le armi della critica e della riflessione1.
Nel Lukàcs dei saggi raccolti in Storia e coscienza di classe (1923), non solo c’è una ribadita consapevolezza che crisi e contraddizioni sono l’”essenza stessa” del sistema sociale capitalista
ma, puntualizzando i concetti marxiani di reificazione e del carattere di feticcio della merce, sottolinea come sia nella coscienza umana che avviene una trasformazione delle relazioni intersoggettive negativamente in rapporti tra cose
In parole più semplici, noi comunisti, nel delineare i caratteri della nuova società, oltre la critica alla mercificazione delle umane relazioni, dobbiamo prospettare una rivoluzione politico-sociale che trasformi in profondità, senza più lo schermo del profitto e dell’interesse egoistico, la stessa natura dei rapporti sociali. Ma dobbiamo bandire ogni sorta di ‘integralismo’, cioè ogni presunzione propria dei ‘metafisici’. Aderire alla realtà per modificarla e non solo per darne un’interpretazione, significa che anche i comunisti convivono, sono parte e camminano con le imperfezioni umane. Quando queste imperfezioni sono dovute ai rapporti sociali e di produzione del sistema capitalistico, essi porranno correttamente il nesso causa-effetto: non abbiamo da ricercare un fondamento ultimo dell’essere, ma la strada migliore perché gli esseri umani si relazionino tra di loro senza la barbarie della mercificazione.
Un esempio per scendere dalle vette della teoresi alla concreta realtà di tutti i giorni: lo stillicidio di vittime femminili da parte di loro partners o ex-compagni, mariti, ecc.., ha fatto coniare ad alcuni il termine orrendo di ‘femminicidio”, cioè letteralmente la tendenza del genere ‘maschio’ ad uccidere il genere ‘femmina’. Una tendenza dunque fondata antropologicamente: una nuova metafisica dei costumi2. Ancora una volta la barbarie dell’egoismo fatto ‘sistema di relazioni’, parente stretto dell’arcaica idea del ‘possesso’ individuale anche delle persone (così come fa il padrone nei confronti dell’operaio), è ben occultato nell’orientamento di massa delle coscienze. La risposta più di sinistra a questo problema non è accentuare la repressione, ma la prevenzione. E cioè investire nella cultura, nella scuola,dove il compito educativo diventa il reciproco rispetto, questo sì assoluto e mai relativo, tra i generi. Che continuano ad aver bisogno l’uno dell’altro nel mutuo riconoscimento delle loro differenze e della loro meravigliosa contiguità.
Un ultimo esempio sempre per aderire allo spirito dei nostri tempi: tempi in cui la sinistra si fa paladina della categoria di ‘legalità’. Legalità non è l’insieme delle regole che un’organizzazione si sceglie coscientemente per strutturare i processi relazionali e decisionali (come ad es. è il caso del centralismo democratico). Ora, se è vero, come ricorda Giannini nell’articolo citato che “sono le leggi che permettono il passaggio da una società incivile a una civile”, e, aggiungiamo, sono sempre le stesse classi dominanti che infrangono le regole della convivenza democratica con il loro ‘sovversivismo reazionario’ (vedi il caso eclatante di Berlusconi e della ‘legge Severino’), si fa fatica a non credere, da comunisti (e leninisti), che le leggi non siano altro che la codifica di rapporti di forza tra le classi. La magistratura che condanna Berlusconi ed Emilio Riva è la stessa che accusa il movimento ‘No Tav’ di terrorismo. E che domani sarà pronta a processare i movimenti di Taranto per un ambiente pulito ed un lavoro senza ricatti appena si passi ad azioni più conseguenti e ‘dure’ sul piano pratico. Altro che ‘via giudiziaria’ al socialismo di cui straparla il massimo esponente politico italiano del capitalismo arrogante e reazionario!
Il terreno di scontro è la verifica delle categorie con cui si cerca di interpretare la realtà; spetta a noi comunisti organizzati smascherare il vero volto della crisi: crisi di sistema, che imbarbarisce ogni ambito della società, non antropologicamente, ma secondo condizioni storicamente determinate.
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