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Più o meno Europa?

di Diego Fusaro

In una lettera recentemente apparsa on line, l’amico e collega Luciano Canova ha mosso delle obiezioni alle mie posizioni sull’euro e sulla necessità di congedarsene il prima possibile. Lo ringrazio fin da ora per le stimolanti riflessioni su temi così nodali. E proverò qui di seguito a elaborare una risposta, sia pure sintetica.

In primis, caro Luciano, mi permetto di rettificare due punti: il “cretinismo economico” (Gramsci) non è un’accusa rivolta a te e all’economia in quanto tale, ma, più in generale, all’odierno spirito del tempo, di cui l’economia è espressione quintessenziale. La riduzione dell’essente a quantità calcolabile, sfruttabile e valorizzabile non è forse – come ben sapeva Heidegger – la triste essenza del nostro tempo? Non è forse questo il cretinismo economico di un tempo in cui non si ragiona se non in termini di debiti e crediti, di crescita e di profitto, di austerity e fiscal compact, di spread e di deregulation? Questo è l’orizzonte in cui siamo, e di questo dobbiamo occuparci (né di Marshall, né di Smith): l’economia di cui parla Aristotele è tutt’altro che cretinismo economico, ovviamente; ma quella odierna, elevata dal pensiero unico a teologia della disuguaglianza sociale? L’economia è oggi la teologia del capitale finanziario. I pochi economisti che, come te, si sottraggono a questa follia generale sono i benvenuti e dovrebbero essere i primi a indirizzare i loro strali contro i colleghi organici al sistema finanziario.

Seconda precisazione: a rigore, il paragone tra Hitler e la Merkel che tu mi attribuisci non è mio, ma del conduttore televisivo della trasmissione a cui ho partecipato qualche settimana fa.

Quel che dico e ripeto è che – al di là delle “maschere di carattere” individuali – la Germania sta oggi con successo facendo, tramite la violenza economica del sistema eurocratico, ciò che non era riuscita a fare coi carri armati nel secolo scorso: si veda, ad esempio, l’osceno asservimento del popolo greco.

Anch’io come te rabbrividisco, peraltro come ogni persona di buon senso, al ricordo della shoa: ma non uso la memoria di quella tragedia per distogliere lo sguardo da quelle presenti o, peggio ancora, per pensare che quella sia la sola tragedia nella storia. L’olocausto oggi si ripete in forme nuove, sempre più spesso nella macabra forma dell’olocausto economico: è curioso, ad esempio, che nella tua lettera si ricordi lashoa e non vi sia una parola di ricordo per l’odierno olocausto economico del popolo greco. L’ideologia non è solo quella delle volgari pratiche negazioniste, ma anche quella del ricordo selettivo delle tragedie (con annesso oblio di quelle ritenute discrezionalmente indegne di essere ricordate). La memoria del barbaro sterminio operato dal nazismo non deve forse essere finalizzata, oltre che al giusto ricordo delle vittime, a educare le nuove generazioni affinché non tornino a verificarsi orrori analoghi? Come sapeva Gramsci, la storia insegna ma non ha scolari.

Il punto sta proprio in questo, caro Luciano: nel quadro di un’Europa unita esclusivamente sulle basi della Banca Centrale Europea e della conseguente eurocrazia, si realizza tramite la violenza silenziosa dell’economia l’oppressione dei popoli che nel Novecento era ottenuta mediante il dispiegamento di carri armati e drappelli militari, imponendo agli Stati svuotati di sovranità le quarantott’ore di tempo, come nei classici ultimatum politici, per adottare adeguate misure di crescita. Per questo motivo, il gesto più rivoluzionario che si possa compiere è abbandonare questa follia organizzata (versione finanziaria dell’olocausto!) e tornare nei confini dello Stato nazionale sovrano, per perseguire, a partire da esso, il progetto del comunitarismo cosmopolitico, vuoi anche dell’Europa basata su rapporti tra popoli e Stati liberi e uguali, rispettosi delle differenze culturali e linguistiche. Perché, allora, caro Luciano, ricordare con commozione le tragedie passate e accettare in silenzio quelle presenti?

Non mi stancherò di ripeterlo: poiché l’Europa a cui anche tu, caro Luciano, aspiri – l’Europa kantiana dei popoli e delle nazioni, della libertà e dell’uguaglianza – è l’esatto opposto dell’odierna eurocrazia delle banche e della finanza, dello spread e del debito, dell’asservimento dei popoli e delle “tragedie nell’etico”, è impossibile e, di più, esiziale pensare che la soluzione, come tu dici, sia nel teologumeno “ci vuole più Europa”: tale teologumeno presuppone che l’Europa così com’è non sia un progetto criminale da abbandonare in nome di un’altra Europa, bensì un primo passo, sia pure imperfetto verso la “vera” Europa.

Sbagliato. Ed è sbagliato proprio perché, così com’è, l’Europa non esiste affatto, se non come asservimento dei popoli e come dittatura della finanza: e questo nel quadro di un perverso sistema in cui a decidere non sono parlamenti e popoli sovrani, ma banchieri e finanza, in una oscena oligarchia che non pensa ma solo calcola, ai danni del pianeta e dei popoli. Con i versi di Ezra Pound, when kings quit, the bankers began again: “quando cessarono i re, ricominciarono i banchieri” (The Cantos, 97). Il sogno di Kant è sostituito dall’incubo dell’eurocrazia: pensare di pervenire al primo senza uscire dal secondo è un errore clamoroso, purtroppo largamente egemonico nell’odierno panorama culturale e politico. Ed è su questo delicato punto che ti invito a riflettere serenamente.

Ora, dire al cospetto delle tragedie attualmente generate dall’Europa che la soluzione sarebbe “più Europa” equivarrebbe a sostenere che, al cospetto di un drogato, la terapia adatta sta nel somministrargli più droga. Io credo, invece, che si tratti di eliminare la droga, nel nostro caso di uscire dal folle progetto eurocratico, tornare alla sovranità nazionale e, da lì, perseguire forme di comunità alternative, sempre basate sul riconoscimento tra liberi e uguali, categoria filosofica che, come ben sai, desumo dalla filosofia di Hegel. La vera Europa – di cui l’odierna è la perversa negazione – è un’Europa di popoli liberi e sovrani, con le loro lingue e le loro tradizioni, in cui a decidere sia il popolo e non l’economia, gli uomini in carne e ossa e non le entità “sensibilmente sovrasensibili” – avrebbe detto Marx – del mercato e della finanza.

So bene che non vi è solo il pensiero unico neoliberale e conosco non pochi economisti che eroicamente gli resistono (da Emiliano Brancaccio a Riccardo Bellofiore, per rimanere anche solo in Italia). Essi hanno tutta la mia stima ed è con loro che, dal mio punto di vista, bisognerebbe collaborare. Come sai, per me la filosofia esiste sempre socraticamente nello spazio dialogico tra i saperi ed è vocazionalmente interconfessionale. Quindi, ben venga il dialogo con gli economisti, a patto che non siano semplici duplicatori ideologici dell’esistente.

In conclusione, so bene quanto sia difficile uscire dall’euro (soprattutto perché a gestire l’uscita sarebbe la stessa sciagurata classe politica attualmente insediata al potere): ma so altrettanto bene quali siano i costi del rimanervi. Lacrime e sangue, austerity e spending review (le tragedie sociali si pronunciano oggi sempre e solo in inglese). Respingo, caro Luciano, l’alternativa: l’euro o l’abisso; l’euro è l’abisso, e bisogna salvarsene il prima possibile, prima che inizi la gran notte che non ha mattino. Quale altro abisso maggiore di quello che stiamo patendo sulla nostra pelle? La retorica dell’abisso serve a rendere accettabile quello presente in cui già siamo.

I sacrifici che la follia organizzata del sistema eurocratico ci sta imponendo sono troppo alti: sacrifici in nome di cosa, poi? Della finanza e delle banche, non certo delle generazioni future e dei popoli più deboli. Del resto, sai bene che non abbiamo scelto noi di entrare nell’euro: non è stato democratico l’ingresso, forse può esserlo l’esodo. Con questo, caro Luciano, concludo, ben sapendo che la discussione sarebbe appena cominciata. Ringraziandoti ancora per le osservazioni e salutandoti con amicizia e stima,

Diego

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