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Una domanda semplice ad Alesina e Giavazzi
di Piergiorgio Gawronski
Sul Corriere, dopo aver ricordato che in Italia “il Prodotto interno lordo scende da 13 trimestri”, i due alfieri del liberismo nostrano offrono la loro ricetta 2015.0 per “porre fine alla recessione”. E spiegano: “La riforma del mercato del lavoro non basta. Ci vuole anche più domanda”. Bene. Cioè… insomma: se ci vuole più domanda, allora la riforma del mercato del lavoro non è che “non basta”, è proprio dannosa: deprime la domanda! “Ci vuole più domanda” é come dire che c’è un eccesso di potenziale di offerta. Ma il Jobs Act mira a stimolare ulteriormente questo potenziale; se proprio lo si vuole approvare, adesso, sarebbe meglio che entrasse in vigore quando la domanda si sarà ripresa.
Domanda (aggregata) nel linguaggio degli economisti significa spesa, acquisti, e – dal punto di vista delle imprese - vendite. In effetti il grafico dell’Istat sulle vendite delle imprese mostra che la domanda continua a contrarsi: in ottobre il calo a/a è stato -0,8%.
Ripetiamolo: non basta che il barista prepari “100 caffè all’ora” (Bagnai) e li poggi sul banco (con efficienza, produttività, onestà): deve anche venderli. E perché mai la gente non dovrebbe comprarsi un buon caffè caldo, con freddo che fa? Sì, è così: perché ha paura poi di trovarsi in difficoltà economiche - con la crisi, le nuove leggi che facilitano i licenziamenti, il debito pubblico che se esplode sarà peggio che in Grecia, ecc. Perciò s’indebolisce anche la domanda di lavoro da parte delle imprese (grafico sotto), e il cerchio si chiude.
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Il nuovo spirito del capitalismo
di Luc Boltanski e Ève Chiapello
[E’ uscita da poco la traduzione italiana di Le nouvel esprit du capitalisme (1999) di Luc Boltanski e Ève Chiapello (Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis). Questo è un estratto del saggio]
Il concetto di spirito del capitalismo, così come lo definiamo, ci permette di superare l’opposizione, che ha dominato buona parte della sociologia e della filosofia degli ultimi trent’anni – almeno per quanto riguarda i lavori che si collocano all’intersezione tra sfera sociale e sfera politica – tra le teorie, spesso di ispirazione nietzschiano-marxista, che hanno visto nella società solo violenza, rapporti di forza, sfruttamento, dominio e scontri di interessi e, sul fronte opposto, le teorie ispirate soprattutto alle filosofie politiche contrattualiste, che hanno posto l’accento sulle forme del dibattito democratico e sulle condizioni della giustizia sociale. Nei testi che fanno capo alla prima corrente, la descrizione del mondo appare troppo negativa per essere reale. In un mondo del genere non si potrebbe vivere a lungo. Mentre la realtà sociale descritta dai testi della seconda corrente è innegabilmente troppo rosea per essere credibile. Il primo orientamento teorico si occupa spesso del capitalismo, ma senza riconoscergli una dimensione normativa. Il secondo tiene conto delle esigenze morali che derivano da un ordine legittimo; ma, sottovalutando l’importanza degli interessi e dei rapporti di forza, tende a ignorare la specificità del capitalismo, i cui contorni si sfumano confondendosi nell’intreccio delle convenzioni su cui si fonda sempre l’ordine sociale.
Il concetto di spirito del capitalismo ci permette anche di coniugare all’interno di una stessa dinamica le evoluzioni del capitalismo e le critiche che gli vengono mosse. Nella nostra costruzione, infatti, faremo svolgere alla critica un ruolo determinante nei cambiamenti dello spirito del capitalismo.
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Parigi 2015, tappa strategica verso il disordine globale
Che si può ancora fermare
di Rodolfo Ricci
Prima o poi, bisognerà prendere coscienza che siamo tutti sulla stessa barca, anzi sullo stesso mare. Il Mediterraneo. Se ciò non accadrà, sarà la catastrofe. Dopo secoli di commerci, di domini incrociati tra est e ovest, di scambi economici e culturali a cui tutti hanno attinto ed attingono, forse ora, a distanza di 60 anni dalla fine – formale ma non sostanziale – della colonizzazione europea dell’Africa e del Medio Oriente, dovremmo prendere atto che siamo interconnessi, definitivamente.
Lo siamo in particolare, grazie all’immigrazione cosiddetta terzomondiale giunta in Europa dopo le ondate dei sud europei nel dopoguerra verso Francia, Gran Bretagna, Germania e altri paesi del nord Europa. Un’immigrazione che è il frutto della nostra geopolitica.
L’Europa è multiculturale di fatto, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso. Lo è da tempo, anche se le è sempre mancata adeguata coscienza. L’Europa, come dimostrano gli eventi della crisi, è interculturale (e ben problematica) anche al suo interno, come mostra solo per citare un esempio, il crescere delle espulsioni di cittadini intra-europei dai territori di altri stati membri causate da una costitutiva assenza di solidarietà tra i suoi paesi. (vedi: http://www.funkhauseuropa.de/av/audiobelgien100-audioplayer.html)
Adesso questa coscienza deve emergere.
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Sulla reificazione: nuove prospettive teoriche
Carlo Crosato
È possibile riarticolare il concetto di “reificazione”, scoprendone nuove dimensioni e aggiornando le vecchie? Una riconsiderazione di tale concetto avviene in Teorie della reificazione, volume curato da Alessandro Bellan per Mimesis
Spesso la filosofia si è contraddistinta per l’utilizzo di un lessico divergente rispetto a quello quotidianamente utilizzato e per ragionamenti intorno a oggetti ritenuti assolutamente ovvi. Operando in questa maniera, essa ha però via via perso la propria centralità, spesso confusa con la poesia o con pratiche meditative. Un processo di marginalizzazione quanto mai notevole oggi, in un’epoca in cui è l’apparato economico e finanziario a determinare i fini delle attività: attività che, perciò, devono rispondere a esigenze in larga misura estranee alla riflessione filosofica.
Di questo processo, tuttavia, la stessa filosofia ha a lungo parlato, attraverso una lunga serie di concetti, tra cui quello di “reificazione”. Alla esplicitazione di quest’ultimo è consacrato Teorie della reificazione (a cura del recentemente scomparso Alessandro Bellan, edito da Mimesis, nel 2013). L’obiettivo generale del libro, infatti, è chiarire il significato della reificazione, depurarlo da letture fuorvianti e da incomprensioni che lo identificano con altri concetti – quali l’alienazione (altro termine centrale nel pensiero marxiano) e il feticismo (su cui la Scuola di Francoforte ha molto ragionato, specie per voce di Adorno e Horkheimer) –; inquadrare la dinamica reificante all’interno delle relazioni che l’uomo intrattiene con il mondo, precisando in modo quanto più intensivo possibile il campo d’interesse.
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Considerazioni sulla strage di Charlie Hebdo
Diego Fusaro
Premetto che fino a qualche giorno fa non conoscevo neppure di nome il comico Dieudonné, prima che venisse arrestato per apologia di terrorismo. Premetto anche che, ascoltandolo, non lo trovo neppure poi divertente, e nemmeno condivido larga parte delle cose che dice, con un’ironia che anzi trovo piuttosto volgare e crassa.
Ma non è questo il punto. Il punto sta invece altrove. La vicenda del comico Dieudonné, arrestato per apologia di terrorismo, la dice lunga sull’ipocrisia dell’ordine neoliberale e sulla sua libertà di espressione a corrente alternata. La libertà di espressione è difesa fintantoché esprime liberamente ciò che il nuovo ordine mondiale vuole che sia espresso: volgare presa in giro delle religioni, delegittimazione degli Stati sovrani, identificazione senza riserve tra Islam e terrorismo, ecc. Non appena si devia dal percorso preordinato, si è puniti con l’accusa di terrorismo, la nuova arma con cui si metteranno a tacere le voci fuori dal coro. L’apologia di terrorismo costituirà, da qui in avanti, la nuova frontiera del politicamente corretto e della sua criminale strategia di diffamazione, persecuzione e silenziamento di ogni prospettiva non allineata.
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Riflessioni sui noti fatti parigini
Sebastiano Isaia
Il mondo islamico non ha conosciuto la rivoluzione borghese di tipo occidentale (dalla rivoluzione olandese a quella inglese, da quella americana a quella francese, dal Risorgimento tedesco a quello italiano), ed è precisamente questo il suo più radicale e cattivo vizio d’origine che tocca ogni aspetto della vita sociale dei Paesi che ne fanno parte. L’Islam, al contrario del cristianesimo, non è stato attraversato dalla Ragione, e questo punto Benedetto XVI, il Papa teologo tanto bistrattato e incompreso dal progressismo mondiale, lo aveva colto bene, ad esempio nella famigerata Lezione Magistrale tenuta all’Università di Ratisbona il 12 settembre 2006. Quel mondo non baciato dai Lumi sta ancora facendo i conti con questo cattivo retaggio storico e culturale, e anche l’Occidente ne paga le conseguenze, perché non solo esso non ha saputo o voluto favorire lo sviluppo della modernità nelle terre di Allah e di Maometto, ma ha fatto di tutto per renderle facili prede del fondamentalismo più retrivo e violento.
È, questa, una tesi che nei salotti buoni della cultura europea ha riscosso molto successo in questi tormentati e luttuosi giorni di dibattito intorno ai cosiddetti “valori repubblicani” e alla Civiltà Occidentale. Se posta nei termini corretti, vale a dire storico-dialettici, la tesi sopra esposta può anche offrire interessanti spunti di riflessione. Rimane da capire fino a che punto ha senso, al di là della strumentalità politico-ideologica certamente non posta al servizio della verità, continuare a parlare in modo astratto e astorico di Occidente, di Civiltà Occidentale.
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Il partito democratico getta la maschera
I primi due decreti attuativi del Jobs Act
di Joe Vannelli
Il 24 dicembre 2014 il governo Renzi ha approvato il testo dei primi due decreti attuativi collegati alla legge delega 10 dicembre 2014 n. 183, nota come Iobs Act. Il primo decreto riguarda i licenziamenti (sono 12 articoli); il secondo decreto (16 articoli) contiene invece le nuove norme sulla indennità legata alla disoccupazione (involontaria naturalmente, con esclusione delle dimissioni). Il meccanismo utilizzato non è di agevole comprensione per chi non sia un addetto ai lavori. In buona sostanza con il varo della legge delega l’esecutivo non ha più bisogno dell’approvazione parlamentare e dunque i decreti (una volta pubblicati in Gazzetta Ufficiale) sono ad ogni effetto in vigore. Ma va detto (ad evitare equivoci) che allo stato il percorso non è ancora concluso e che non possano escludersi modifiche (nel bene o nel male; più facile la seconda ipotesi vista la situazione politica). Nel seguito andrò ad esaminare le novità, per come attualmente codificate, senza poter escludere gli aggiustamenti di tiro che potenti gruppi di pressione richiedono in danno dei pur già bastonatissimi lavoratori (fissi e precari, autonomi e subordinati, tutti quanti). I due testi, varati con gran fretta, sono in discussione nelle commissioni lavoro della Camera e del Senato; in entrambe le commissioni gli unici a opporsi davvero sono i gruppi di Cinque Stelle (un po’ assottigliati) e di SEL (falcidiati, specie al Senato, dagli arruolamenti nelle furerie renziane, a partire dal capogruppo Migliore).
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Il default strisciante dell'Italia in un mondo pieno di incognite
Intervista a Paolo Cardenà
Dopo il grandissimo successo dalla prima intervista, LA DURA VERITA' SULL'ITALIA, torna su Tradingnetwork Paolo Cardenà, blogger di straordinario spessore - www.vincitorievinti.com - e consulente finanziario, per fare il punto della situazione attuale in questo inizio del 2015, tra aspettative sul QE in salsa europea, crollo del petrolio e del rublo, e le crescenti tensioni derivante dalle elezioni anticipate in Grecia, anche per le eventuali ripercussioni che queste potranno avere sull'euro e su tutti gli altri paesi periferici dell'eurozona, Italia in testa, di cui sotto possiamo vedere un grafico del 2014, dove si vede chiaramente come i mercati siano stati positivi di fatto nella prima parte dell’anno, sulle aspettative del “nuovo” governo made in trojka Renzi, e negativi invece nel secondo semestre, ritornando per ben due volte già sui 17500-18000 toccati a dicembre 2013 (tutto questo, nonostante lo spread sia praticamente sui minimi degli ultimi anni, gli sforzi di Draghi comunicativi e non di tenere alte le aspettative per il QE europeo, liquidità abbondante, prezzo del petrolio in decisa flessione. Basterebbe questo per dire che i mercati hanno già scaricato Renzi?).
Buona lettura.
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"Il Piano Draghi ideato per salvare l'euro e imporre l'Unione Politica non è sostenibile"
Intervista a Piergiorgio Gawronski*
Piergiorgio Gawronski. Economista, pubblicista. In passato ha lavorato all’ufficio studi della BNL, all’OCSE, all’UNCTAD, alla “policy unit” della Presidenza del Consiglio. E’ stato attivista e consulente di numerose Ong in Italia e all’estero (Amnesty International, Observatoire de la Finance). Cura un blog sul Fatto Quotidiano
Keynes definì i politici che gestirono la crisi degli anni '30 come dei “pazzi al potere”. Come dobbiamo definire i politici che dal 2011 ad oggi hanno catapultato l'Europa nella disoccupazione di massa, nella povertà diffusa, nella deflazione e nella rinegoziazione di diritti sociali acquisiti per seguire le stesse strategie fallimentari di quegli anni?
Sembra un andare sopra le righe, ma in realtà è proprio così. In passato, personalmente, nel 2011 li ho definiti personaggi straordinariamente incompetenti e mi riferivo in particolare alla Banca centrale europea, quella stessa istituzione che - Draghi ha coraggosamente ammesso, nel celebre discorso dell’Agosto 2014 di Jackson Hole - ha provocato il disastro attuale. Il presidente della Bce ha, nello specifico, sottolineato che gli spread schizzarono in su “non tanto per i debiti pubblici, bensì per l'assenza di una rete protezione adeguata della Bce”. Già…
Naturalmente ci sono altre motivazioni, oltre all'incompetenza. L’ho scritto in un mio articolo intitolato “La strategia della tensione della zona euro”, dove riportavo un dialogo con un mio caro amico.
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Quale cultura per ridisegnare l'Europa
di Sergio Bruno
Gli economisti dell’austerità fanno coincidere cultura, lungimiranza ed etica con rigore, mercato e vincoli. Ma è la stessa esperienza in corso che boccia una tale visione
Ho detto che, ove si riuscisse ad arrestare l’attuale deriva delle strategie europee, occorrerebbe poi dotarsi di più strumenti culturali, di più lungimiranza, di più etica. Gli economisti dell’austerità fanno coincidere cultura, lungimiranza ed etica con rigore, mercato e vincoli. A mio avviso è la stessa esperienza in corso che boccia una tale visione. Occorre invece tornare agli insegnamenti suggeriti dall’esperienza storica e da una buona parte degli economisti e dei politici della prima parte del secolo scorso, aggiornando il quadro problematico per raccordarlo meglio alle trasformazioni intervenute da allora.
Il lungo periodo di grande espansione ed evoluzione che è durato dalla fine del 1800 agli anni 1970, sia pure con alti e bassi, con momenti di crisi evidenti come quelli degli anni 1930, con accelerazioni dai risvolti crudeli quali quelle dovute agli sforzi bellici, ha molto da insegnarci. Il processo espansivo ha visto sempre come protagonisti complementari lo stato, le imprese, i sindacati. Le egemonie sono state di volta in volta diverse. Una buona parte di tali esperienze è stata innescata dalle grandi imprese innovative, quelle che maggiormente hanno raccolto i frutti delle grandi invenzioni maturate in sede scientifica a partire dalla fine dell’ 800, spesso contribuendo alla loro maturazione e sempre al loro successo.
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I fatti di Parigi e il complottismo
Una chiave di lettura consolatoria e fuorviante
Marco Santopadre
“Sono stati gli israeliani”, “Gli Usa hanno colpito la Francia perché è contro le sanzioni alla Russia”, “Perché il corpo del poliziotto non sanguina? E’ tutta una messinscena, a Parigi non è mai morto nessuno”, “Dicono che è stato l’Isis? Ma se l’Isis è un’invenzione della Cia!”…
In queste ore sul web, insieme ai tanti messaggi di frettolosa identificazione nei confronti di un giornale della quale la maggior parte degli italiani neanche conosceva l’esistenza e dal quale rimarrebbe probabilmente inorridito conoscendolo meglio, proliferano innumerevoli ricostruzioni e commenti sui fatti di Parigi.
Fatti che, occorre dirlo, non sono del tutto chiari e rivelano non pochi buchi nelle ricostruzioni ufficiali, suscitando quindi parecchie perplessità in chi ha sviluppato nel tempo un sano e sacrosanto scetticismo nei confronti delle versioni di alcuni importanti eventi diffuse dalle autorità e dalla stampa.
E’ possibile che tre “non professionisti del terrore” abbiano messo in scacco uno dei paesi più potenti e organizzati in fatto di sicurezza, intelligence e apparati militari? E’ possibile che la sede di un giornale così gravemente aggredito e minacciato fosse così scarsamente protetta? O che i due fratelli Kouachi abbiano potuto così facilmente organizzare la strage nonostante fossero più che noti alle forze di sicurezza di Parigi? Non è che ‘qualcuno’ li ha lasciati fare?
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Terrorismo, migranti, foibe, marò, fascismo…
Appunti sul vittimismo italiano
di Wu Ming 1
Ho cominciato a prendere questi appunti ormai molti mesi fa, dopo aver letto in sequenza il libro di Federico Tenca MontiniFenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta a oggi (KappaVu, 2014) e il pamphlet Critica della vittima di Daniele Giglioli (Nottetempo). I due libri sono complementari. Tenca Montini e Giglioli affrontano gli stessi nodi di fondo. Il primo lo fa analizzando un case study molto significativo, ricostruendo genesi, sviluppo e affermazione, nel corso degli anni Novanta e degli anni Zero, del discorso sulle «foibe». Discorso quintessenzialmente vittimistico, perfettamente coerente con l’autonarrazione deresponsabilizzante spesso riassunta nell’espressione «Italiani brava gente»; Il secondo, invece, fotografa la tendenza egemone dei nostri tempi, la centralità della «vittima» nell’immaginario italiano e occidentale contemporaneo.
Quella che era partita come riflessione ispirata dalla lettura quasi contemporanea dei due saggi, si è gonfiata come un torrente a fine inverno e ha trascinato a valle detriti di polemiche di cronaca, storiografiche e di costume.
Rimuovere tutte le premesse tranne una
Ovviamente, le vittime sono sempre esistite. Quelle vere e quelle presunte. Anche il vittimismo – il “fare la vittima”, l’atteggiarsi a vittima – non è una novità, e si manifesta da sempre in tutto il mondo.
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"L’eurozona? Insostenibile. Tsipras valuti anche l’uscita dall’euro”
Giacomo Russo Spena intervista Emiliano Brancaccio
Secondo l’economista l'abbandono della moneta unica è un’opzione difficile, che al momento Syriza non contempla. Ma la storia europea potrebbe intraprendere sentieri molto diversi a seconda di quali forze politiche, per prime, si assumeranno il compito di trarre le conseguenze del fallimento dell’eurozona: “Oggi l’egemonia politica è contesa tra liberisti e razzisti. Se la sinistra affrontasse per prima i nodi dell’euro, le prospettive europee potrebbero farsi meno cupe”.
Le elezioni in Grecia del prossimo 25 gennaio hanno assunto una valenza europea. La vittoria di Syriza e del suo leader Alexis Tsipras incutono paura alla finanza e ai poteri forti dell’Unione Europea. Il presidente Juncker ha invitato a “non votare in modo sbagliato”, il Fondo Monetario Internazionale ha annunciato la sospensione dei negoziati sugli aiuti alla Grecia fino alla formazione del nuovo governo, mentre i mercati hanno mandato a picco la borsa di Atene facendo schizzare in alto i tassi sui titoli di Stato. Indicazioni arrivano anche dalla Germania: la Cancelliera Angela Merkel ha ribadito che dopo le elezioni la Grecia non dovrà abbandonare le politiche di austerity e di competitività salariale, mentre il ministro delle Finanze Wolfgang Schauble ha dichiarato che solo rispettando i “memorandum” imposti dalla Troika i greci potranno rimettere i conti in ordine e avviare la ripresa. Che partita si sta realmente giocando ad Atene? Ne parliamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia all’Università del Sannio e promotore del “monito degli economisti”, un documento pubblicato sul Financial Times nel 2013, alquanto scettico sulle future possibilità di sopravvivenza dell’euro.
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Non chiamatele rivoluzioni
Spazi urbani e nuove forme della politica
Federica Castelli
Gli eventi e le proteste degli ultimi anni ci hanno mostrato l’urgenza di una riflessione politica sulle nuove modalità di partecipazione alla scena pubblica, tra occupazioni e nuove esperienze di autogoverno. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un proliferare di pratiche politiche radicate nella materialità delle esistenze, nella sua concretezza e nelle sue urgenze; esperienze che difficilmente possono essere fatte rientrare in un’unica analisi, dal momento che ognuna mantiene una propria specificità legata al contesto. Inoltre, non è facile tenere assieme uno sguardo generale e l’attenzione al presente, alla materialità e contingenza delle esperienze. Sono eventi specifici, ognuno diverso dall’altro, ognuno unico a suo modo. Eventi unici, eppure in connessione. Tenere insieme questa unicità con lo sguardo ampio di una lettura generale è difficile e forse anche un po’ pericoloso, ma non è impossibile, se conosciamo i rischi dell’uso ingenuo della teorizzazione.
La mia intenzione è quella di prendere in considerazione alcuni eventi di protesta e di riappropriazione degli spazi urbani degli ultimi anni. Quelli più famosi, quelli che hanno smosso gli immaginari, quelli che hanno creato le scintille e, in un certo senso, quelli che hanno creato un “brand” di protesta, a cui a volte si attinge con troppa facilità. Parlo dei movimenti che dal 2011 hanno riempito pagine di giornali e telegiornali internazionali, hanno fatto esplodere i social network: il movimento degli indignados spagnoli, piazza Tahrir del 2011, il movimento Occupy, negli Stati Uniti, in Turchia e non solo, fino alle risonanze che esso ha avuto in Italia.
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I fondamentalisti e gli Ultimi Uomini
di Slavoj Žižek
[Questo intervento è uscito su «The New Statesman». Ringraziamo l’autore per averci concesso di pubblicare la nostra traduzione italiana. Il titolo è redazionale]
Ora, mentre siamo tutti sotto choc dopo la furia omicida negli uffici di Charlie Hebdo, è il momento giusto per trovare il coraggio di pensare. Dovremmo, com’è ovvio, condannare senza ambiguità gli omicidi come un attacco alla sostanza stessa delle nostre libertà e farlo senza riserve nascoste (del tipo «comunque Charlie Hebdo provocava e umiliava troppo i Musulmani»). Ma questo pathos di solidarietà universale non è abbastanza. Dobbiamo pensare più a fondo.
Pensare più a fondo non ha nulla a che fare con la relativizzazione a buon mercato del crimine (il mantra «chi siamo noi occidentali, perpetratori di massacri terribili nel Terzo Mondo, per condannare atti simili»). Ha ancora meno a che fare con la paura patologica di molta sinistra liberal occidentale: rendersi colpevole di islamofobia. Per questa falsa sinistra ogni critica verso l’Islam è espressione di islamofobia occidentale: Salman Rushdie fu accusato di aver provocato inutilmente i Musulmani e quindi di essere responsabile, almeno in parte, della fatwa che lo ha condannato a morte, eccetera. Il risultato di una simile posizione è quello che ci può aspettare in questi casi: più la sinistra liberal occidentale esprime la propria colpevolezza, più viene accusata dai fondamentalisti di ipocrisia che nasconde odio per l’Islam. Questa costellazione riproduce perfettamente il paradosso del Super-io: più obbedisci a ciò che l’Altro ti chiede, più sei colpevole. Più tolleri l’Islam, più la pressione su di te è destinata a crescere.
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Il secondo comandamento
di Raffaele Alberto Ventura
[Di ritorno dalla gigantesca processione parigina per le vittime degli attentati di questa settimana, provo a dire alcune cose che mi sembrano importanti]
«Avete voluto uccidere Charlie ma lo avete reso immortale»: eccolo qua, riassunto in uno slogan di piazza, il capolavoro dei fratelli Kouachi. Hanno preso di mira un giornale che si stava spegnendo nell’indifferenza generale e lo hanno resuscitato a colpi di kalashnikov. Adesso le folle si precipitano in edicola per acquistare Charlie Hebdo, il governo annuncia finanziamenti milionari e le caricature del Profeta vengono pubblicate ovunque. Ma chi crede che questo rinculo costituisca una sconfitta per il terrorismo evidentemente conosce male il terrorismo, la sua storia, i suoi meccanismi. Il terrorismo è una strategia di mobilitazione delle masse: provocare la ritorsione fa parte della sua ragione d’essere. Spingendoci ad abbracciare l’ambigua battaglia di Charlie Hebdo ovvero a fare della blasfemia una bandiera della libertà d’espressione, i fratelli Kouachi hanno scaraventato l’Occidente in una trappola insidiosa. La storia delle guerre civili europee del Sedicesimo secolo avrebbe dovuto insegnarci qualcosa sui modi più ragionevoli di armeggiare con le divinità degli altri. Per questo non possiamo salire sul carro dei vignettisti-martiri. Per questo non possiamo dare il nostro sostegno a chi vuole rendere «immortale» Charlie e le sue provocazioni. E per questo cercheremo di spiegare a chi lo ha pervertito il senso di un concetto fondamentale per la sopravvivenza di questa nostra malandata società multiculturale: si chiama laicità.
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Che succede al prezzo del petrolio?
Domenico De Simone
Molti amici ed estimatori mi hanno chiesto delucidazioni sulla improvvisa caduta verticale del prezzo del petrolio e sulle sue origini. Ringrazio tutti per la fiducia, ma francamente non posso fare molto di più che formulare delle ipotesi, probabilmente vaghe e forse vere solo in parte. Per le previsioni, poi, non ne parliamo nemmeno, osservatori ed analisti potenti ed accreditati e sbagliano regolarmente, nonostante dispongano di mezzi di analisi e di strumenti di calcolo decisamente potenti ed affidabili. Proviamo a ragionare.
La prima idea che viene in mente, e che peraltro è stata sostenuta ed è tuttora sostenuta da diversi osservatori, è che la caduta del prezzo del petrolio è una manovra voluta dagli americani per mettere in ginocchio la Russia e far precipitare il consenso e il potere di Putin e del suo gruppo. A mio avviso, però, questa è un’idea sbagliata, o meglio, in buona parte sbagliata. Intanto la caduta verticale del prezzo del petrolio è certamente riconducibile alla decisione dell’Opec di non tagliare la produzione, seppure in presenza di una domanda mondiale debole e con prospettive persino di riduzione. L’Opec, com’è noto, è politicamente condotto dall’Arabia Saudita che, dall’alto dei suoi dieci milioni di barili al giorno di produzione ne determina di fatto le scelte.
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La deludente verità dell’antisemitismo di Heidegger
Andrea Zhok
In uno degli ultimi numeri di Scenari Stefano Cardini richiamava l’attenzione sull’impatto della recente pubblicazione dei “Quaderni neri” di Martin Heidegger, e invitava a ripensare con più radicalità il nesso tra quel pensiero e la storia politica europea. Sulla scorta di quelle considerazioni ho preso visione direttamente dei volumi 95 e 96 della Gesamtausgabe, dove sono contenute le riflessioni degli anni 1938-1941. Come cercherò di dimostrare, sia pure per sommi capi, queste pagine sembrano effettivamente destinate a modificare le ricezione heideggeriana, non per qualche rinnovato scandalo per l’antisemitismo o nazismo di Heidegger, ma per la collocazione di quelle idee sullo sfondo complessivo del suo pensiero.
1. Antisemitismo e nazismo negli Schwarze Hefte
Il numero di passi in cui il tema dell’ebraismo è discusso nelle pagine in oggetto è piuttosto esiguo. Si tratta in tutto di 5 passi nel volume 96 e di 3 passi nel volume 95. Tuttavia i passi in questione non sono note marginali, ma tesi che collocano il tema dell’ebraismo, e di una specifica forma di antisemitismo, in una posizione strategica all’interno del pensiero heideggeriano. Proviamo di seguito a darne una breve sintesi, con la premessa che, ove possibile, cercheremo di ‘rettificare’ la prosa convoluta che Heidegger predilige, in modo da portare alla luce il nocciolo essenziale delle sue tesi, a costo di perdere alcune nuance.
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Al momento di marciare molti non sanno…
Militant
Ieri a Parigi, a guidare la marcia contro i “barbari tagliagole” c’erano altri barbari, quelli in giacca e cravatta.
Spiccava, per le mani sporche di sangue, il premier israeliano Benjamin Nethanyau, seguito a ruota dal presidente ucraino Poroshenko e dal turco Davotoglu. E c’erano quelli che l’estremismo islamico l’hanno creato, alimentato e finanziato.
E al loro fianco sfilavano quelli che in questi anni hanno votato le guerre umanitarie, lasciando sul campo, sotto le bombe dei B52 e dei droni, migliaia di vittime civili. Ma questo si sa, non è terrorismo, sono operazioni di polizia internazionale.
E poi c’erano quelli che, qui da noi, ogni giorno impongono politiche di lacrime e sangue a milioni di lavoratori.
Non c’era Obama, è vero, però, perchè non se ne sentisse la mancanza, c’era il segretario della Nato Jens Stoltembreg.
Tornano allora in mente, mai così attuali, i versi di Brecht: Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del loro nemico. E chi parla del nemico è lui stesso il nemico.
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Democrazia?
di Daniele Ventre
Un recente saggio dell’Economist (1) indaga l’evoluzione e la diffusione dei sistemi politici democratici nel mondo, durante il XX secolo e il primo quindicennio del XXI. Lo scenario che viene delineato è estremamente interessante, e inquietante per le sue conseguenze. Ciò che lascia non poco a desiderare è la diagnosi del male profondo e la debolezza delle soluzioni proposte.
Nello scenario delineato dal saggio in questione le democrazie nel secolo scorso hanno vissuto il tempo del loro trionfo. Fra le due guerre, con l’implosione degli Stati liberali in Europa, i Paesi a ordinamento democratico erano ridotti a una ristretta minoranza, rispetto ai regimi autoritari di tipo populista: isole assediate che ben presto furono travolte dalla barbarie che avrebbe condotto al secondo conflitto mondiale. L’esito di quest’ultimo, tuttavia, segnò una netta inversione di tendenza e la divisione del mondo in due blocchi. La fine della guerra fredda segnerebbe una nuova fase della diffusione della democrazia, con il collasso dei regimi del socialismo reale. Dagli anni ’90 del secolo scorso, però, le cose si sono rivelate un po’ più complesse. Di fronte allo stress economico della crisi finanziaria, le sperequazioni sociali e le situazioni criminogene si accrescono.
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Je Suis L'Ouest
Anna Curcio intervista Miguel Mellino
Questa chiacchierata nasce da un disagio, da una condizione di spaesamento di fronte alle analisi che circolano, anche all’interno del movimento, su quanto è successo a Parigi. Concentrare l’attenzione sulla difesa della libertà di espressione o in appelli per porre un freno all’islamofobia mi sembra infatti piuttosto debole, limitante, sicuramente insoddisfacente. Non è però mia intenzione qui produrre una valutazione o un giudizio di valore sui fatti. Semplificando potremmo dire si tratti di un’azione nemica alla costruzione di percorsi di liberazione – in una guerra che non vede nessuno scontro di civiltà, né l’opposizione anti-imperialista a interessi imperialisti, ma piuttosto il fronteggiarsi di differenti forme di oppressione e sfruttamento interne alla stessa civiltà capitalistica. Da questa angolazione, quello che invece ci interessa è soprattutto riflettere sulle genealogie di questa guerra e sulle rimozioni che l’accompagnano. Qual è il tuo punto di vista in proposito?
Sono abbastanza d’accordo. È chiaro che si tratti di uno scontro interno alla civiltà capitalistica. Non è uno scontro di civiltà, le civiltà come entità reificate sappiamo che non esistono, e qui non ci sono due fazioni di cui una è necessariamente più buona dell’altra. Sono entrambe espressione della stessa cosa.
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Il vento della storia o la tempesta capitalista
Lelio Demichelis
Dove è andato al potere, il capitalismo ha distrutto tutte le condizioni di vita precedenti e diverse ma non ha lasciato tra gli uomini altro vincolo e legame che il nudo interesse. Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio e posto la libertà di commercio come valore assoluto e supremo della società. Invece dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha prodotto e fatto accettare lo sfruttamento aperto, senza pudori. Sì, perché il capitalismo non esiste se non rivoluzionando di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi l’insieme dei rapporti sociali. L’incertezza e il movimento incessante gli sono strutturali. Mentre il bisogno di mercati sempre più estesi lo spinge ovunque nel globo terrestre, rendendo cosmopolita la produzione e il consumo e creando sempre nuovi bisogni. E nuove crisi, riducendo i mezzi per prevenirle.
Ecco una sintetica descrizione della globalizzazione degli ultimi vent’anni, della modernità liquida baumaniana e del neoliberismo. Dove tutto diventa liquido, incerto, in movimento sempre più frenetico, per una competizione globale di tutti contro tutti. In verità abbiamo semplicemente ripreso (ma rispetto all’originale abbiamo preferito capitalismo a borghesia) alcuni brani del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels del 1848.
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Crisi globale e lotta di classe in Europa.
Intervista alla redazione di «Cuneo Rosso»
Nell’intervista che qui proponiamo, un redattore de «Il Cuneo Rosso» ci espone i contenuti del secondo numero della rivista dedicato a Crisi globale e lotta di classe in Europae caratterizzato da un’ampiezza di sguardo e da uno sforzo analitico che hanno pochi termini di paragone in Italia. Ovviamente, come si evince anche dalle risposte ai nostri quesiti, le singole conclusioni cui sono giunti i compagni de “il cuneo rosso” possono suscitare discussioni anche accese. Si pensi, ad esempio, all’aspra critica che viene riservata alle campagne per il recupero della sovranità monetaria, che però viene sviluppata su un piano coerentemente classista, distante anni lue da certo europeismo “progressista”. Per non dire delle drastiche valutazioni sullo stato del proletariato a livello continentale, che si prestano ad approfondimenti e disamine, da svolgersi possibilmente in occasione di presentazioni della rivista.
Questo secondo numero de «Il Cuneo Rosso», dedicato allo scontro di classe in Europa e in Italia nella crisi globale, viene dopo un primo incentrato sull’Intifada araba. Qual è, secondo voi, il nesso tra i due temi?
Il nesso fortissimo è quello della grande crisi capitalistica esplosa nel 2007-2008, e tuttora irrisolta.
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Dominio della vita, falsificazione della cultura e impegno intellettuale
(Appunti sulla democrazia)
di Federico Sollazzo
La libertà sembra subire la stessa sorte della virtù per Valery: non viene contestata, ma dimenticata e in ogni caso imbalsamata, come la parola d’ordine della democrazia dopo l’ultima guerra. Tutti si trovano d’accordo sul fatto che la parola “libertà” non debba più essere usata se non come vuota frase, e che sia utopistico prenderla sul serio
M. Horkheimer
Siamo sicuri di essere finalmente entrati nel regno della libertà (un noto imprenditore politico direbbe, delle libertà)? Di essere al di fuori, per dirla con Jean-Francois Lyotard (La condizione postmoderna), da una grande narrazione? O forse, siamo talmente dentro ad una nuova grande narrazione, ad una nuova, ebbene sì, ideologia, da non riuscire a percepirla? Proprio come, per dirla con David Foster Wallace (Questa è l’acqua), quel pesce che non sa cos’è l’acqua. Un’acqua che non viene ex nihilo, ma che rappresenta la modificazione dell’acqua di prima. Un’ideologia che non è venuta al mondo dall’oggi al domani, ma che rappresenta genealogicamente l’evoluzione, l’ottimizzazione della dominazione, della precedente forma ideologica ormai obsoleta. Se questo ha un senso, si dischiude una nuova prospettiva sull’osservazione della realtà e dei grandi fenomeni sociali recenti e correnti, dalla Seconda guerra mondiale al crollo del Muro di Berlino, dalle correnti primavere arabe ai vari movimenti occidentali di protesta, dal fenomeno del’imperialismo culturale a quello del contro-impero, che sembra non essere altro che la lega dei dittatori locali. In breve, gli interessanti fenomeni che stiamo vivendo sembrano essere nient’altro che un traumatico passaggio di consegne – nonché un’interazione dagli esiti difficilmente prevedibili e variabili di conteso in contesto – fra vecchi, obsoleti e nuovi, aggiornati modelli di controllo sociale. Dunque, contrariamente a quello che viene abitualmente detto, una transizione nella continuità.
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Se l'Europa dell'austerità e i suoi alleati marciano alla testa del corteo parigino
Redazione
Oltre ad arrivare a commettere una strage aberrante, la serie di gesti sciagurati di Ahmedy Coulibaly e dei fratelli Kouachi e della loro rete logistica è riuscita a rianimare un morto anzi, a far esistere un qualcosa di mai nato: l'unità emotiva continentale attorno ai governanti dell’Europa dell'austerità.
Opera di rivitalizzazione che, tanto più, ha funzionato in terra francese. "Siamo un popolo", ha titolato Liberation, come se gli eventi parigini avessero posto fine ad un lungo interrogativo che metteva in forse l’esistenza stessa dei francesi. “Era da tanto che non ci sentivano così fratelli”, commenta poi il quotidiano fondato da Jean-Paul-Sartre che, a suo tempo, dubbi sulla sensazione di sentirsi un popolo di fratelli grazie alla reazione dopo un attentato ne aveva seminati (visitò Andreas Baader della RAF in carcere proprio, tra le tante, per non legittimare l’adesione emotiva alla convergenza tra senso della democrazia e stato di polizia).
E così, tra fratelli del radicalismo islamico e fratelli civilizzati francesi, il comunitarismo di Allah e quello repubblicano francese si trovano uno davanti all’altro. Durerà l’esistenza di questo confronto? I paesi occidentali sono spoliticizzati, reazioni come quelle di Parigi, più che preludere a un fiorire di “fratellanze” o organizzazioni di base, appartengono a quei fenomeni di elaborazione del lutto e del trauma collettivo come accade dopo i terremoti. Fenomeni pronti a dissolversi velocemente in caso di assenza di nuovi traumi. Le differenze dei governi europei, sulle politiche per affrontare fenomeno del radicalismo islamico, si sono poi già manifestate.
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