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Polarizzazione e disuguaglianza*
Rapporti di produzione e distribuzione del reddito
Francesco Schettino
L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto ossia dalla parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale.
Questa legge determina un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale.
[K.Marx, Il Capitale, i, 23]
Quando è raggiunto un certo grado di maturità, la forma storica determinata viene lasciata cadere e cede il posto ad un’altra più elevata.
Si riconosce che è giunto il momento di una tale crisi quando guadagnano in ampiezza e in profondità la contraddizione e il contrasto tra i rapporti di distribuzione e quindi anche la forma storica determinata dei rapporti di produzione ad essi corrispondenti, da un lato, e le forze produttive, capacità produttiva e sviluppo dei loro fattori dall’altro.
Subentra allora un conflitto fra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale.
[K.Marx, Il Capitale, iii, 51]
Se si potessero elencare i fenomeni maggiormente percepiti dall’intera popolazione lavoratrice come emblematici della crisi esplosa alla fine del 2007 – e i cui effetti sono ben lungi dall’essere assorbiti – di certo in testa a tale speciale graduatoria verrebbe posta la disoccupazione, a cui seguirebbe, come conseguenza più immediata, l’indigenza (assoluta o relativa).
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La guerra in casa
I fatti di Parigi e gli apprendisti stregoni
Rete dei Comunisti
La guerra arriva fino nel cuore dell’impero: quanto è successo a Parigi è esattamente questo, che ci piaccia o meno. Gli spot che da mesi invadono le tv, entrando nei nostri salotti e nelle nostre cucine, che ci raccontano che con la nascita del Mercato Comune Europeo prima e l’Unione Europea poi ormai da più di 60 anni non ci sono più guerre in Europa, oltre a essere falsi probabilmente non sono più neanche rassicuranti.
I 12 morti nella redazione del giornale satirico Charlie Hebdo di mercoledì, l’uccisione di ieri dei presunti attentatori e degli ostaggi, sono vittime di guerra. Non sappiamo quanto consapevoli ma questo sono, e non ascrivibili a superficiali o mistificatorie spiegazioni sulla follia o il terrorismo.
Sono chiari fatti di guerra, che ogni parte in campo conduce con i mezzi che ha a disposizione, con le strategie militari che decide di attuare o che le condizioni oggettive e i rapporti di forza gli permettono.
Le dinamiche, gli autori dell’attacco, il tipo di vittime, sono elementi che si prestano facilmente a interpretazioni nel migliore dei casi fuorvianti, se non false e tendenziose, rievocando i temi del fanatismo, della libertà di stampa o complessivamente intesa, della difesa della democrazia, dello scontro di civiltà, perdendo di vista, o facendolo volutamente perdere, il legame tra i fatti e le reali situazioni economiche, politiche, militari internazionali.
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Mi dispiace, però io non sono «Charlie»
di Karim Metref (*)
In questo momento l’uccisione delle undici persone e in modo particolare dei giornalisti/artisti nella sede del periodico satirico «Charlie Hebdo», sta prendendo le pieghe di un nuovo, mini 11 settembre. E fioccano ovunque messaggi di sgomento, di cordoglio, di solidarietà, di condanna… Anche io sono sgomento, lo sono per ogni persona che muore nel modo in cui sono morti questi ultimi. Sono solidale e feroce sostenitore della libertà di espressione. Sono triste perché alcuni dei vignettisti di «Charlie Hebdo» (Wolinski in modo particolare, che ho anche conosciuto ad Algeri un secolo fa) mi appassionavano e hanno accompagnato con loro feroce e dissacrante satira tutta la mia adolescenza e i miei desideri di allora (ma anche di oggi) di mandare tutto il mondo a farsi f…
Ma, mi dispiace, io non scriverò che «sono Charlie Hebdo». Non metterò una bandiera nera sul mio profilo Facebook e non posterò nessun disegno di Charb e nemmeno di Wolinski che mi piace tanto… E se avete tempo di leggere il mio lungo ragionamento vi spiego il perché.
«Charlie Hebdo» nasce nel 1992 ma la squadra che lo fonda viene da una lunga storia di giornali di satira libertaria. Quello che si può considerare come l’antenato di Charlie è «Hara-kiri» dove lavoravano già vari membri dell’attuale redazione. «Hara-kiri» se la prendeva con i potenti, con De Gaulle, con l’esercito, con la chiesa e fu varie volte chiuso e riaperto sotto varie forme e titoli.
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Strage di Parigi: complottismo?
di Aldo Giannuli
Ci sono due forme di imbecillità perfettamente speculari: il complottismo e l’anticomplottismo. Il complottista ideologico pensa che nulla accada per caso, si ritiene furbo perché convinto che quel che appare sia sempre e solo finzione e che dietro ci sia sempre una qualche macchinazione di poteri forti, magari ai massimi livelli mondiali in cui si immagina esista un vertice unico ed onnipotente. L’anticomplottista, parimenti ideologico, non sopporta spiegazioni che cerchino di andare al di là delle apparenze, i bollettini di Questura sono la sua Bibbia, si ritiene furbo perché deride sistematicamente qualsiasi dubbio e chi lo formula. Lui ha solo certezze.
Ciascuno dei due pensa che l’altro sia un cretino, ed hanno ragione tutti due. Sembrano opposti, ma in realtà, ragionano allo stesso modo. Sia l’uno che l’altro non cercano di capire criticamente un avvenimento, ma semplicemente lo assumono come conferma di quello che già pensano e chiunque accenni ad una interpretazione non contrapposta, ma semplicemente diversa, è esecrabile e da ridicolizzare, se necessario leggendo anche quel che non c’è scritto o il contrario di quel che c’è scritto.
Perché ciascuno di loro (complottista o anticomplottista) legge quello che gli pare e non quel che c’è scritto effettivamente. E tutti e due sono abbastanza cafoni.
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Parigi brucia
Redazione di Contropiano
Non si spara sui giornalisti. Nemmeno quando lavorano per la televisione serba di Belgrado, nel 1999. Oppure per quelle – laiche, in paesi islamici – irachene o libiche, rispettivamente sotto i regimi di Saddam Hussein e Muammar Gheddafi. E incidentalmente non si spara neanche sulle ambasciate, come avvenne per quella cinese, sempre a Belgrado, ad opera dei cacciabombardieri Usa, francesi, inglesi, italiani. Ci sarebbe sembrato normale ascoltare, anche in quei casi, parole simili. Ma non sono state pronunciate, se non da isolati guardiani delle libertà sbrigativamente apostrofati come ”filo-qualcun-altro”.
Non si spara neanche sulle donne e i bambini, eppure avviene ogni giorno, con record ormai inegualiati da parte dei democraticissimi Stati Uniti in ogni angolo del mondo; o da parte della democratica e molto occidentale Israele; o con macabra regolarità da parte della Turchia, membro della Nato e alleato silente dell'Isis contro i curdi di sinistra, a Kobane come altrove.
Non si spara su chi fa informazione. Siamo una redazione che assolve a questo dovere civile consapevole del fatto che ogni parola digitata sulle nostre tastiere darà fastidio a qualcuno. In genere più potente. Pensiamo dunque anche che non si arrestano i giornalisti, come avviene sempre nella Turchia membro della Nato proiettata a esportare la “libertà”. Né si promette loro di ridurli sul lastrico per legge, come avviene in Italia, con legge approvata nelle ore precedenti la strage di Parigi.
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La meritocrazia è il contrario della democrazia
di Carlo Scognamiglio
Così il sociologo laburista Michael Young smontò una delle parole chiave di tutte le svolte autoritarie. “L’avvento della meritocrazia” è di nuovo in libreria. Popoff l’ha letto
Se dovessi segnalare l’operazione editoriale più lucida dell’ormai trascorso 2014, non potrei che attribuire il giusto merito alle Edizioni di Comunità, per la ripubblicazione, dopo molti anni, dello straordinario libro del sociologo laburista Michael Young (1915-2002): L’avvento della meritocrazia. Ascrivibile al filone letterario della “distopia”, cioè dell’utopia negativa, il libro fanta-sociologico pubblicato da Young nel 1958 introduceva nel dibattito culturale il termine “meritocrazia”, colorandolo a tinte fosche e inquietanti, a tutto dispetto della faciloneria con cui viene oggi adoperato.
Su un piano propagandistico, la politica dei palazzi non rinuncia mai a far propria la bandiera di un riscatto dei meritevoli da collocare nelle posizioni sociali commisurate alle capacità di ciascuno. E la propaganda funziona particolarmente bene, in uno Stato come il nostro dove familismi e nepotismi d’ogni genie hanno reso insopportabile qualsiasi competizione pubblica o privata per aggrapparsi a un chimerico ascensore sociale.
Su un piano personale, invece, non manca mai sulla bocca di ciascun “deluso” – sia esso escluso da un concorso accademico, da una promozione ospedaliera, o bellamente ignorato da un potenziale datore di lavoro – la lagnanza sull’assenza di meritocrazia in questo nostro benedetto Paese. Ebbene sì: perché tutti coloro che lamentano quella deficienza, presumono naturalmente di appartenere all’area dei meritevoli.
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Hegel? Sì, ma non troppo
Francesco Alarico della Scala
In tempi come i nostri, pensatori della caratura di Costanzo Preve si contano sulla punta delle dita, soprattutto nell’ambiente filosofico, dominato, nel suo settore accademico, dal relativismo assoluto che pone sullo stesso piano tutte le “opinioni” (fuorché le voci di protesta contro la naturalizzazione ed eternizzazione dello status quo, beninteso) e si preclude pertanto la via ad ogni ricerca della verità, dalla falsa oggettività ideologica del politicamente corretto mirata a far apparire come “oggettivi”, neutrali, super partes fenomeni sociali e politici storicamente relativi e superabili, in primis lo stesso modo di produzione capitalistico.
Preve condusse sempre una lotta tenace contro queste e consimili tendenze della filosofia accademica, svuotata del suo significato genuino e declassata al rango di ancella dello stato di cose presente. Tale orientamento lo fece pervenire a riflessioni estremamente preziose e ad efficaci critiche del pensiero debole, del relativismo assoluto, delle innumerevoli richieste di riconoscimento relative del proletariato (vale a dire della base teorica del socialriformismo), della desocializzazione del pensiero filosofico e della sua storia e delle altre ideologie oggi imperanti. In questo campo il contributo di Preve va certamente sottoscritto e apprezzato: l’acutezza delle sue critiche dell’ideologia contemporanea ha aperto gli occhi a molti, facilitandone l’uscita dal tunnel della degenerazione irreversibile della “sinistra” radicale.
Diversamente stanno le cose per quanto riguarda l’interpretazione del pensiero di Marx avanzata da Preve, la sua concezione del marxismo, la quale – come egli stesso più volte ammise – sarebbe tutt’oggi rifiutata dalla gran parte dei marxisti.
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Per un 2015 antimperialista e col coltello fra i denti
Militant
Riportiamo di seguito la nostra introduzione all’ultimo lavoro di Emilio Quadrelli e Giulia Bausano, un libro che descrive la necessità del ritorno ad una nuova politica antimperialista adatta ai tempi che corrono. Un libro che centra il problema, non tenta di sfuggirvi con sterili scorciatoie ideologiche e affonda i ragionamenti nella piaga della ritirata storica delle sinistre di classe nell’Europa occidentale. Per noi è stato un onore contribuirvi. Buona lettura e buon anno nuovo, che sia un anno di lotte, d’odio e d’amore
Pensare una nuova politica antimperialista
Il lavoro di Emilio Quadrelli ci costringe a riflettere sul nuovo scenario imperialista declinato nelle sue molteplici forme. L’attualità ci restituisce due evidenze che caratterizzano la politica globale: da una parte la dinamica imperialista è tornata a qualificare i rapporti politici internazionali; dall’altra l’assenza di una riflessione generale, e della conseguente produzione di politiche, che contrastino questo movimento. Allo sviluppo di nuove (apparentemente) forme di imperialismo non ha fatto seguito lo sviluppo di una rinnovata coscienza antimperialista. Oggi il campo da gioco globale è caratterizzato quindi da una fase imperialista nuova, composta da più attori, tutta da interpretare, che però non vede una riflessione politica altrettanto generale. La risposta alle politiche imperialiste è affidata alle singole popolazioni, o ai singoli gruppi che subiscono in prima persona la violenza delle politiche economiche di aggressione, ma sconnessi da una visione generale che possa incidere sulle politiche imperialiste. Qualche volta, nel corso di questi anni, sono state possibili anche singole e momentanee vittorie di resistenza, ma mai un riequilibrio dei rapporti di forza. La nave imperialista, magari senza una visione strategica o di lungo periodo, viaggia oggi a vele spiegate senza nessuna forza capace di declinare l’internazionalismo in capacità politica tale da rallentarne o impedirne il passo. Capire perché è avvenuto questo significa allora gettare le basi per la ricostruzione di una visione politica che, oggi più che mai, non può che fare i conti con lo scenario internazionale. Nella fase attuale non esiste più politica nazionale, questa è un’altra delle evidenze del presente scenario. Ogni evento politico, economico o sociale è direttamente internazionale, coinvolge immediatamente più attori e le sue ricadute incidono subito, senza mediazioni, sulle popolazioni degli altri paesi. È esattamente da questo presupposto che dobbiamo partire per capire cosa sta succedendo nel mondo e nei suoi rapporti politici.
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Ridateci l'Iri
di Bruno Casati
L’italia produttiva affonda. Per tenerla a galla non bastano più moda e turismo, ma nemmeno i “distrettini” del made in Italy che, senza una grande industria alle spalle, sono in sofferenza. Siamo alla desertificazione industriale: dal declino si è scivolati nel dissesto.
E nessuno si sogna di investire in Italia. I capitalisti italiani, da tempo, si sono eclissati. Quelli esteri, indifferenti rispetto al Jobs act, si guardano bene dal metterci i quattrini a rischio nel paese che, secondo l’autorevole classifica di Transparency international, è ormai il più corrotto d’Europa (e quella classifica non considerava gli scandali Expo, Mose e Mafia Capitale). Ora però è squadernato un ultimo caso di crisi industriale, quello dell’Ilva di Taranto o, se si vuole, dell’acciaio italiano, che, per la sua rilevanza materiale e simbolica, costringe anche gli indifferenti che ci governano a metterci la faccia.
Perché l’Ilva è diventata un mistero doloroso, visto che, pur passata di mano da un manager ottantenne come Bondi a uno più giovane come Gnudi, continua comunque ad affondare inesorabilmente e in un silenzio tombale. ora questo silenzio viene rotto, all’unisono, dal segretario generale della Fiom e dal Presidente del Consiglio. Pare dicano le stesse cose, ma non è così.
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Per una politica delle lotte: Syriza, Podemos e noi
di Sandro Mezzadra e Toni Negri
Il 2014 si è chiuso con la mancata elezione del Presidente della Repubblica in Grecia, e dunque con la convocazione di elezioni politiche anticipate. E’ un passaggio politico di grande importanza, destinato a segnare un anno che, in Europa, si concluderà con le elezioni in Spagna (dove già a maggio si voterà per i municipi e le “autonomie”). E’ del tutto evidente che quelle greche non saranno semplici elezioni “nazionali”: le pesanti ingerenze del governo tedesco e della Commissione europea, destinate a intensificarsi nelle prossime settimane, mostrano chiaramente come in gioco vi sia l’assetto complessivo delle istituzioni europee, ridefinito in questi anni attraverso la gestione della crisi. La reazione della Borsa di Atene al semplice annuncio da parte di Samaras della decisione di anticipare le elezioni presidenziali il 9 dicembre, con un crollo superiore al 12%, aveva del resto già lasciato intendere quale sarebbe stato il ruolo di un altro attore fondamentale, ovvero del capitale finanziario.
In queste condizioni, la partita che si appresta a giocare Syriza è evidentemente complicata, e ci sembrano davvero un po’ ingenue le posizioni che all’interno della sinistra europea, magari ammantandosi di realismo politico, propongono scenari lineari di superamento del neoliberalismo e dell’austerity, attraverso un recupero della sovranità nazionale.
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Guerre valutarie e Quirinale
di Aldo Giannuli
Per orientarsi nella battaglia che sta per iniziare intorno al Quirinale, dobbiamo capire che c’è una novità rispetto al passato: questa volta il Presidente, molto più che da Montecitorio in congiunta con Palazzo Madama, scaturirà da telefonate in congiunta fra Mosca, Berlino, Francoforte e Washington.
Intendiamoci: anche in passato ci sono stati tentativi stranieri di influenzare l’elezione del Presidente e non solo –come è facile immaginare- da parte degli americani, ma anche di altri. Ad esempio, nel 1972, sovietici e rumeni tentarono di convincere il Pci a votare Fanfani (il De Gaulle italiano, si diceva) per ottenere un corso della nostra politica estera meno sdraiato sulla Nato. Ma si trattò di poca roba e non sempre andata a segno (come il caso appena citato dimostra). Soprattutto, si trattava di tentativi scoordinati fra loro e senza troppo crederci. Nel complesso, in materia di Quirinale, le dinamiche della politica interna hanno sempre prevalso sulle pressioni internazionali, anche perché la casella più importante e tenuta d’occhio non era il Quirinale ma Palazzo Chigi.
Questa volta è diverso, perché la globalizzazione impone dinamiche diverse che mescolano molto più del passato il dentro ed il fuori ed, in secondo luogo, perché il Quirinale è diventato più interessante di Palazzo Chigi anche in ragione della stabilità settennale del primo e della precarietà del secondo.
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I nove passi per ripudiare il debito pubblico
Guido Viale
La tenuta del progetto di «rinegoziazione radicale» lanciato da Syriza (e dell’Altra Europa) è l’unica chiave per superare la crisi devastante dell’eurozona. Uscire dalla moneta unica come vogliono Salvini e Le Pen, infatti, massacrerebbe soprattutto lavoratori e famiglie
La rinegoziazione radicale dei debiti pubblici dei paesi dell’eurozona in difficoltà, inclusa da tempo nel programma di Syriza e condivisa dall’Altra Europa, presenta risvolti complessi e delicati che vanno affrontati anche in sede tecnica: per prevederne le conseguenze macroeconomiche più dirompenti e cercare di prevenirle; ma soprattutto per proteggere i piccoli risparmiatori.
Nell’affrontare questi problemi occorre mettere però al primo posto la «politica» e non l’«economia», le scelte che possono orientare il conflitto sociale e non l’idea che il sistema possa continuare o addirittura riprendere a funzionare come sempre.
Siamo di fonte o alla vigilia di una grande rottura: «L’Europa è a un bivio», come recita l’incipit dell’appello da cui è nata la lista L’Altra Europa con Tsipras. Per questo, prima di entrare negli ineludibili aspetti tecnici è opportuno fissare alcuni punti di carattere generale.
1. I debiti pubblici di alcuni paesi dell’eurozona, tra cui Grecia e Italia, ma non solo, sono insostenibili. Quale che sia lo spread, gli interessi da pagare sono tali che divorano le risorse senza consentire, non solo una «crescita» duratura, ma nemmeno il livello di attività economica raggiunto in passato.
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Contro l’antipolitica
Francesco Paolo Cazzorla (Zu Fra)
È inutile che continuate a trastullarvi con la politica. Quest’ultima, checché ne dicano i “buoni predicatori” d’intenti, non ha mai cessato di allontanarsi dai cittadini. Nella sua attuale degenerazione nel transpolitico, e in quella sua conseguente macabra oscenità che ricorda tanto i talk show televisivi, non è altro che una forma ostinata di onanismo compulsivo.
Il governo invisibile dei potenti non lo vedrete in tv, non lo leggerete sui giornali, non lo ascolterete per radio, e non lo incontrerete di certo in quei chiassosi e ultra-scenici “congressi politici” che conquistano il minutaggio dei notiziari. Quelli su cui inefficacemente vi accanite (oppure quelli su cui vogliono farvi accanire) sono solo delle controfigure, degli uomini di paglia, precisamente delle maschere, che hanno una sola e precisa funzione: dissimulare. Questa funzione, detta altrimenti “funzione di schermo”, attira costantemente l’attenzione su di sé fissandola su quei prestanome – quei nomi propri che si danno continuamente il cambio negli “show politici”, e che si affrontano sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e nell’arena elettorale – distogliendo così dai loro veri bersagli rivendicazioni e proteste.
Questo infinito talk show, deleterio e insignificante, non fa altro che impedire ai cittadini – ma anche agli stessi governanti – di percepire il loro proprio spossessamento e di individuare i luoghi e le poste della vera politica. Di conseguenza, gli obiettivi tradizionali delle lotte e delle rivendicazioni non sono diventati altro che dei tranelli, dei trompe-l’œil, che, alla prima occasione, non perdono tempo nel distogliere l’attenzione dai luoghi dove si esercita l’effettivo governo invisibile dei potenti.
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La Grecia al voto
di Leonardo Mazzei
Dunque è ufficiale: la Grecia andrà al voto il prossimo 25 gennaio. L'elezione del tecnocrate eurista Stavros Dimas è fallita. I 168 voti di martedì scorso sono rimasti tali e quali anche nel terzo scrutinio di stamattina. La campagna acquisti di Samaras non ha funzionato, e ora tutto si giocherà in una battaglia elettorale che si preannuncia davvero infuocata.
Questo esito non deve sorprendere. L'obiettivo del capo del governo di Atene è stato, fin dal principio - cioè dalla decisione di anticipare l'elezione presidenziale -, quello di drammatizzare lo scontro per ribaltare i sondaggi elettorali che attualmente prevedono la vittoria di Syriza.
In realtà il margine tra il partito guidato da Tsipras e Nea Dimokratia sembrerebbe assai limitato, da due a sei punti percentuali. Un distacco che Samaras, spalleggiato in pieno dall'Unione Europea e dal Fondo monetario internazionale, pensa di poter colmare. E non è affatto detto che questo disegno sia destinato al fallimento.
Alla fine è molto probabile che tutto si giochi per una manciata di voti. E siccome il sistema elettorale assegna un premio di maggioranza di 50 parlamentari (su 300) a chi arriva primo, è prevedibile una fortissima polarizzazione del voto tra i primi due partiti, come già avvenne nelle elezioni del giugno 2012.
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“Navigazione a vista” di G. La Grassa
di Paul Robert Spadoni
Qui di seguito pubblico un’accurata presentazione del nuovo libro di Gianfranco La Grassa, “Navigazione a vista”, a cura di Paul Robert Spadoni. Le tesi dello studioso di una vita dell’opera di Marx sono arrivate a conclusioni drastiche per quanti nel marxismo si sono formati o ne sono stati influenzati. E anche tra chi gli riconosce onesta e rigore intellettuale non mancano perplessità e sconcerto. Sullo stesso sito CONFLITTI E STRATEGIE, ispirato alle idee di La Grassa, si leggono ad esempio queste parole sintomatiche di un assiduo commentatore: “Alla fine mi domando sempre: ma “dove va a parare” il discorso di La Grassa? Cosa ci offre di nuovo per il futuro? Non si è realizzata la previsione marxiana della formazione del rivoluzionario “operaio collettivo”? va bene! La classe borghese è scomparsa sostituita da una più anonima classe di “funzionari del capitale”? va bene anche questo! Dobbiamo abbandonare anche l’idea della classe operaia come “soggetto rivoluzionario”? Va bene! Dobbiamo abbandonare l’idea del comunismo? …mbè qui la cosa si complica e riesce meno facile da accettare specie in un periodo (come quello attuale) in cui il capitalismo (dei funzionari del capitale) mostra con sempre maggiore evidenza la sua incapacità di risolvere i problemi … intendo per la GENERALITA’ delle persone, non certo per i ristretti gruppi dominanti.” (gm:dicembre 29, 2014 at 1:44 am). A me pare giusto non fare orecchie da mercanti a un discorso scientifico e impegnarsi a conoscerlo e a discuterlo a fondo ( il che richiede studio e fatica!). Per accettarne o rifiutarne l’amaro realismo. Sulla base però di “altre ragioni” più valide (se siamo in grado di trovarne). Non per un attaccamento fideistico e passivo a un passato glorioso ma inerte. [E. A.]
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Il fascino discreto della crisi economica
Intervista a Riccardo Bellofiore e Giovanna Vertova
Parte seconda (qui la prima)
DOMANDA: In occidente la dottrina economica neoclassica è a livello accademico da più di 30 anni a questa parte completamente dominante. In maniera analoga, anche le visioni sulla politica economica e sulla crisi hanno una matrice ideologica comune. Come deve posizionarsi un teorico eterodosso oggi? Ovvero ha senso una guerra di posizione all’interno dell’accademia, ha senso intervenire sulle modalità di gestione della crisi? Ha senso partecipare al dibattito istituzionale su ciò che andrebbe fatto, o è meglio lavorare in altri luoghi e spazi? In sostanza, il capitalismo è riformabile e quindi bisogna parteciparne alla gestione, magari in una direzione più “egualitaria”, oppure no?
GV: La mia risposta è “nì”. Non vedo perché una cosa debba escludere l’altra. L’economista eterodosso può fare entrambe le cose: discutere nei dibattiti istituzionali con i teorici dei diversi mainstream e lavorare in altri luoghi e spazi. I problemi che vedo sono altri. Prima di tutto il teorico eterodosso ha più difficoltà a partecipare ai dibattiti istituzionali perché, come avete giustamente sottolineato, il mainstream è tornato dominante e quindi ci sono “pochi spazi”. Tuttavia, vedo un problema più importante: il dibattito tra gli economisti eterodossi. Mi preoccupa sia il livello del dibattito che le sue modalità. Mi sembra che molti economisti eterodossi, riprendendo la mia risposta precedente, tendano sia a voler diventare i consiglieri del principe che a farlo con un approccio fideistico. Seguendo i dibattiti in televisione, sulla stampa di sinistra, ma anche sui blog, o sui social network, il comportamento che registro tra gli economisti eterodossi italiani è abbastanza allarmante.
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Un’esperienza marxista di Foucault
di Antonio Negri*
1. La domanda che mi porrò oggi è semplice: come ho tentato di leggere, come mi è sembrato possibile farlo, nel mio lavoro, Marx con e dopo Foucault? Vorrei analizzare rapidamente questa esperienza. Si è trattato di fissare degli assi di lettura marxiana che si organizzassero attorno ad un dispositivo di soggettivazione, ricalcato su Foucault e del quale io cercherò di mostrare la possibilità d’essere applicato alla nostra attualità: esso impone un’ontologia adeguata. Se, inversamente, leggere Marx significa nutrire una volontà radicale di trasformazione dell’essere storico, la soggettivazione foucaltiana mi sembra debba essere confrontata a tale determinazione.
A) Sembra a me oggi, che sulla base delle intuizioni e delle conclusioni foucaultiane, il tono e lo stile fortemente storicizzati della critica marxiana dell’economia politica vadano articolati in maniera netta ad un approccio materialista. Ed allora, evidentemente, non si tratta solo di leggere insieme i testi storici di Marx e gli altri suoi lavori (in particolare quelli di critica dell’economia politica) ma di approfondire e di sviluppare genealogicamente l’analisi dei concetti – aprendoli al presente. L’approccio foucaltiano ci ha quindi permesso non solo di cogliere ma di insistere sulla soggettivazione della lotta di classe come agente del processo storico. L’analisi di tale soggettivazione andrà naturalmente sempre rinnovata e confrontata alle determinazioni trasformative che i concetti subiscono nel processo storico. Tutto ciò, nell’ambito della sollecitazione foucaultiana – fuori da ogni dialettica e teleologia – ad assumere la soggettivazione storica come dispositivo non causale né creativo, tuttavia determinante. Alla maniera di Machiavelli: un materialismo storico per noi.
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La civiltà del desiderio
Giacomo Rotoli
In una celebre scena del film Il silenzio degli innocenti il co-protagonista in negativo Hannibal Lecter spiega che il “desiderio” è il primo motore dell’azione umana. L’uomo in primo luogo “desidera” e da questo segue tutto il resto. Dato che il film è americano, come ormai americano è molto del desiderare diffuso intorno a noi, converrebbe fare qualche riflessione sul significato di questa affermazione.
E’ bene ricordare come il centro dell’attuale mondo occidentale si sia sviluppato. Dovrei più precisamente parlare di economia-mondo benché l’intero mondo sia ormai globalizzato al punto che più che di economie-mondo in competizione tra loro si dovrebbe parlare di economia-mondo in riferimento all’intero sistema, che potrà in principio essere multipolare, ma come dice giustamente Valerio Castronovo in Un passato che ritorna2 esso si fonda su un asse che viene dal passato è che è stato anche all’epoca del capitalismo commerciale il suo asse portante, ovvero l’asse occidente – estremo oriente. Chi ha masticato un poco di storia del gruppo degli annales ricorda come l’argento estratto a Potosì, finisse dopo un lungo percorso di scambi mutevoli, in Cina.
Ma osserviamo ora più da vicino l’economia-mondo occidentale. E’ noto come il suo centro si sia progressivamente spostato sempre più a occidente. Ma la prevalenza degli USA nel nostro sistema si è pienamente affermata solo dopo la seconda guerra mondiale. Solo dopo che il modello “continentale” di sviluppo è stato nella sostanza assorbito ed integrato nel cosiddetto atlantismo, concetto molto ambiguo, ma che implica sempre la centralità della superpotenza occidentale in modo assoluto. L’Atlantismo non avrebbe avuto alcun senso per l’Europa continentale e nemmeno per l’Impero Britannico molto più legato all’”Oriente” che alle Americhe nel momento di massimo splendore.
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Politica e verità nel postfordismo
Giacomo Pisani
1. Tecnica e verità
Il dispiegamento del pensiero tecnico-calcolante su scala globale ha raggiunto negli ultimi decenni un livello tale da sconvolgere totalmente i ruoli, le gerarchie e gli strumenti ermeneutici indispensabili alla comprensione del nuovo quadro socio-economico internazionale.
Il sogno della modernità di estendere la possibilità di manipolare e progettare la natura e gli spazi della vita sembra essersi realizzato al massimo grado, fino al punto di autoalimentarsi e autoregolarsi, in un’autopoiesi che esclude l’individuo da qualsiasi posizione di trascendenza nella pianificazione dei sistemi sociali.
Il disvelamento tecnico del mondo nel suo pieno dispiegamento ha una sua genesi storica, in cui Heidegger coglie il ruolo fondamentale svolto dall’«oblio metafisico dell’essere». L’imporsi dell’ente come unica forma di realtà, con l’oblio della differenza ontologica, si traduce nell’assolutizzazione dell’immagine tecnico-metafisica del mondo, che riduce gli enti ad utilizzabili intramondani e al loro funzionamento all’interno della configurazione sistemica presente. L’ente, anziché essere assunto nella sua costitutiva finitezza, che lo rimette ad un ambito storico di riferimento in cui l’uomo stesso è implicato, diviene parte di un modello assoluto di realtà a cui l’uomo deve irrimediabilmente adeguarsi.
Si impone così una specifica architettura dell’essere su cui si fonda un’idea inespugnabile di verità e di natura umana. Anche le filosofie umanistiche hanno finito con l’ignorare la costitutiva esposizione dell’uomo all’essere, alla storicità, subordinando il proprio impianto teorico ad un dato assoluto: l’essere entificato, fissato nella sua datità. Come scrive Heidegger,.
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Il destino dell’Europa fra retorica sovranazionale e antipolitica populista
di Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli
La crisi dell’euro ha generato e continua a generare disoccupazione, povertà e de-industrializzazione nei paesi cosiddetti periferici (periphery countries) dell’Eurozona, come Grecia, Spagna e Italia. Per quanto riguarda l’Italia in particolare, i dati economici peggiorano di mese in mese, in maniera sempre più drammatica. In tutta l’Eurozona, la crisi ha accelerato lo smantellamento dei sistemi di protezione sociale e la de-regolamentazione del mercato del lavoro.
Nei paesi cosiddetti centrali (core countries) dell’unione monetaria, e in particolare in Germania, la crisi ha garantito stabilità alle élite politiche dominanti. Queste élite germaniche e nordiche si son rese responsabili di politiche di svalutazione interna, e quindi di repressione salariale. Questi politici si vantano di riforme del mercato del lavoro – incluse quelle del socialdemocratico Schröder – che vanno contro gli interessi dei lavoratori e di coloro che il lavoro lo cercano, indicando ai propri elettori la necessità di queste riforme per evitare lo sciagurato destino dei paesi periferici, e nascondendo come le politiche mercantilistiche perseguite a livello domestico dai paesi centrali abbiano pesantemente contribuito ai problemi dei paesi periferici.
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Back to Hegel
di Luca Illetterati
Non è in fondo esagerato dire che una parte certamente non irrilevante della filosofia europea dalla seconda metà dell'Ottocento e poi ancora nel corso di tutto il Novecento è profondamente segnata dalla filosofia di Hegel. Non nel senso banale che tutta la filosofia dopo Hegel sia hegeliana, ma nel senso che la filosofia, dopo Hegel, è una filosofia che non può non prendere posizione nei confronti del suo pensiero e che perciò si caratterizza o come reazione contro di esso, o come riscoperta o riabilitazione di alcune sue strutture di fondo.
Tradizionalmente questo movimento quasi elastico di allontanamento e avvicinamento nei confronti dell'autore della Fenomenologia dello spirito era rimasto però perlopiù confinato dentro le aree culturali di lingua tedesca, italiana e francese. Certo, tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo ci furono anche un neohegelismo inglese (si pensi a Bradley e McTaggart) e un neohegelismo americano (si pensi a Royce), ma soprattutto oltreoceano non si può certo dire che il neohegelismo abbia prodotto una influenza decisiva all'interno della tradizione filosofica.
La filosofia americana, caratterizzata soprattutto dall'intreccio di pragmatismo e filosofia analitica, incarna infatti un'attitudine speculativa che pare, per molti aspetti, del tutto estranea alle questioni e ai problemi che innervano invece la filosofia di Hegel.
Da alcuni anni, però, è in corso, proprio all'interno di quella tradizione, quello che viene chiamato un ritorno a Hegel, e cioè una vera e propria rinascita di interesse nei confronti della filosofia hegeliana.
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Te lo do io il quantitative easing!
di Leonardo Mazzei
Raramente la verità delle cose si mostra fin da subito nella sua pienezza. Anzi, di solito, essa ama nascondersi nelle pieghe degli eventi e dei processi che segnano la storia, i cui svolgimenti sono in genere tortuosi e non privi di contraddizioni. Ed il percorso dissolutivo dell'Unione Europea, realisticamente preceduto dalla fine della moneta unica, non fa certo eccezione.
Per comprendere la portata di quanto sta avvenendo è utile tornare sulla vicenda del Quantitative easing (QE), sulla quale abbiamo già scritto pochi giorni fa (vedi Il QE della discordia). Le cose corrono infatti con la fretta dovuta dei momenti topici, e nuovi e decisivi elementi sulle manovre in corso sono ormai di pubblico dominio.
Due settimane fa avevamo ipotizzato uno scenario dove al successo d'immagine di Draghi, l'avvio del QE appunto, corrispondeva una vittoria del governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, sulla sostanza di questa operazione. Come dire: a Draghi le telecamere, a Weidmann gli euro-tedeschi ben chiusi in cassaforte.
Quel che è emerso in questi ultimi giorni non fa che confermare questa ipotesi, che comincia ad assumere contorni sempre più precisi quanto più inquietanti per i paesi dell'area mediterranea.
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Il carattere politico dello spazio urbano1
Lidia Martin intervista Elisabetta Teghil2
«La capital city, a Milano, a Barcellona, a Filadelfia o ancora a Phnom Penh, rappresenta un campo di contesa in cui confliggono forme di appropriazione dello spazio che riflettono ispirazioni e aspirazioni divergenti, come dimostrano le tensioni permanenti tra le logiche del capitale (la rendita) e quelle della cittadinanza urbana (il “diritto alla città”)»
d. Questo numero di «Zapruder» esplora il complesso rapporto tra capitale e città, quale è secondo te il ruolo che il capitale gioca all’interno delle aree urbane e dei conflitti che in esse si sviluppano?
r. Prima di tutto dobbiamo intenderci su quale fase dell’attuale modo sociale di produzione stiamo vivendo, il neoliberismo è lo stadio del capitale, nella sua dinamica auto-espansiva, caratterizzato dalla guerra fra le nazioni e fra le multinazionali per la ridefinizione dei rapporti di forza, che vede all’offensiva le multinazionali anglo-americane e i loro rispettivi stati. I popoli del terzo mondo, in questo processo, sono destinati ad essere schiacciati e a rivivere le pagine più nere del colonialismo. Le condizioni del capitalismo, al massimo livello di sviluppo, vengono assunte a modello ideale di ogni altra forma passata e contemporanea, europea e non europea, borghese e non borghese, di sfruttamento e di alienazione di lavoratori e lavoratrici.
d. E quali sono le conseguenze sulle strutture urbane?
r. Ogni ideologia produce teoria e, quest’ultima, si traduce in linea politica. E la linea politica del neoliberismo si traduce in un programma di distruzione delle strutture capaci di contrapporsi al primato del mercato. Il programma neoliberista trae alimento dalla forza politico-economica di coloro dei quali esprime gli interessi che, forti delle posizioni economiche e politiche, non rischiano di pagare le conseguenze delle loro scelte, ma, anzi, di trarne grandi vantaggi.
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Il fascino discreto della crisi economica
Intervista a Riccardo Bellofiore e Giovanna Vertova
Continua il ciclo di interviste sulla crisi a economisti ed economiste eterodossi/e a cura degli attivisti della campagna “Noi Restiamo”. Siamo ormai arrivati alla sesta puntata. Dopo Joseph Halevi, Giorgio Gattei, Luciano Vasapollo, Marco Passarella e Jan Toporowski proponiamo ai nostri lettori un’inedita intervista doppia agli “economisti di classe”: Riccardo Bellofiore e Giovanna Vertova. L’intervista è stata registrata nel Maggio del 2014
Parte prima (qui la seconda)
DOMANDA: L’emergere della crisi ha confermato la visione di alcuni economisti eterodossi secondo la quale il capitalismo tende strutturalmente ad entrare in crisi. Tuttavia, le visioni sulle cause del disastro attuale divergono. Una posizione piuttosto diffusa (appoggiata ad esempio dai teorici della rivista “Monthly Review”) è quella che attribuisce la crisi al seguente meccanismo: la controrivoluzione neoliberista ha portato ad un abbassamento della quota salari; per sostenere la domanda privata è stata quindi necessaria un’enorme estensione del credito e lo scoppio della bolla nel 2007 ha interrotto il meccanismo. Altri pensatori, come il marxista americano Andrew Kliman, ritengono che le cause della crisi non si possano trovare nella distribuzione dei redditi e che la depressione sia spiegabile tramite l’andamento del saggio tendenziale di profitto. Una visione tutta improntata sulla produzione. Voi cosa ne pensate?
RB: Dal punto di vista della teoria marxiana, la crisi viene ricondotta da alcuni autori alla caduta tendenziale del saggio di profitto e da altri autori a quella che definiscono la crisi da sottoconsumo. Queste due prospettive sono state impiegate per spiegare la crisi iniziata nel 2007 ed esplosa nel 2008. La prima posizione è propria solo di marxisti, mentre la seconda è simile a una posizione keynesiana.
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Metamorfosi neo-capitalistica
di Andrea Pesce
Da Pier Paolo Pasolini a Guy Debord. La società dello spettacolo e la metamorfosi neo-capitalistica in attività contemplativa
Il senso della vista gode da millenni il privilegio di essere il più studiato e citato nelle riflessioni dei più grandi filosofi. Aristotele nella Metafisica lo elegge a senso privilegiato dall'uomo in quanto "noi preferiamo la vista a tutte le altre sensazioni, non solo quando miriamo a uno scopo pratico, ma anche quando non intendiamo compiere alcuna azione. E il motivo sta nel fatto che questa sensazione, più di ogni altra, ci fa acquistare conoscenza e ci presenta con immediatezza una gran quantità di differenze".
Il vedere quindi implica, secondo lo Stagirita, l'entrare in contatto con l'alterità, con un qualcosa che non è parte di noi (in senso corporeo, materico) ma, allo stesso tempo, in intimo rapporto con noi: le cose che percepiamo attraverso l'occhio, penetrano nel nostro cervello e, in molti casi, permangono come traccia indelebile nella nostra memoria. Paradossalità dello sguardo: ciò che non può vederci è ciò che ci caratterizza, così come colui che vede non può scorgere il suo occhio che osserva.
Se è vero, come voleva Aristotele, che la filosofia nasce dalla meraviglia di fronte ai fenomeni naturali e l'interrogarsi dinanzi ad essi, risulta inevitabile il nascere di una disciplina che si occupi di queste faccende: l'estetica.
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