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Lo sguardo lungo di Pasolini
Franco Berardi "Bifo"
In un film recente e bellissimo che si chiama Non essere cattivo, Claudio Caligari ha riproposto i luoghi e le atmosfere della Ostia di Pasolini (quella dei suoi romanzi, quella della sua morte). La storia si svolge nel 1995, cioè a metà strada tra l’anno in cui Pasolini fu ucciso, e l'oggi, il nostro tempo in cui la demenza e la barbarie sono uscite dai margini per invadere il centro della scena.
Se pensiamo ai quarant’anni che ci separano dalla morte di Pasolini ci rendiamo conto del fatto che il suo presentimento più oscuro e più marcio si è progressivamente fatta realtà nella storia di questo paese, mentre l’immaginazione distopica si impadronisce della storia del mondo. Nel suo Salò Pasolini aveva colto la sostanza eterna del fascismo, collocandone il tempo nel passato, ma presentendo il suo riemergere nella mutazione culturale che allora si delineava ambiguamente all’orizzonte.
Quel futuro che oggi è presente Pasolini non seppe descriverlo se non in termini nostalgici, passatisti, in ultima analisi reazionari. Non essere cattivo racconta una storia che si colloca nel punto in cui lo sprofondamento della mente collettiva inizia dai margini della vita sottoproletaria, della periferia urbana e della droga.
In questi ultimi anni il cinema italiano ha ritrovato forza espressiva perché ha avuto il coraggio di guardare negli occhi l’orrore psichico e morale dell’epoca presente attraverso le lenti specificamente italiane della demenza barocca, dell’euforia aggressiva e dell’autodisprezzo depressivo. Matteo Garrone (Gomorra e Reality), Nanni Moretti (Habemus Papam) e Sorrentino (Il Divo, La Grande bellezza) hanno ripreso il filo della diagnosi pasoliniana: la sguaiatezza del fascismo eterno che Pasolini mette in scena nel Salò, si è fatta pervasiva, quasi ubiqua, e va in onda quotidianamente sui giornali, in tivu e nella vita.
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Dopo Ignazio Marino un sindaco per Roma né di destra né di sinistra?
di Giorgio Salerno
Con l’uscita di scena dell’alieno, del marziano, del diverso, cioè dell’ ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, si chiude una fase turbolenta della consiliatura eletta nelle comunali del maggio 2013. Molto è stato detto sulla vicenda e sul personaggio per cui non ci torneremo sopra ma cercheremo di capire cosa accadrà ora, quali scenari si presentano per la città e quale storia si chiude con questa crisi.
L’indagine giudiziaria accerterà se vi siano reati nella condotta dell’ex sindaco e sull’altro versante, quello di Mafia Capitale, si spera che tutta la verità venga a galla compresi i nomi secretati dei 101 funzionari capitolini collusi o corrotti.
Più che Marino ne esce molto male il PD romano che “era ed è uno dei peggiori d’Italia” (Scalfari dixit). Giudizio autorevolmente confermato e certificato dall’indagine commissionata dalla Direzione del PD a Fabrizio Barca e dalla quale si evince che ben 24 sezioni del Partito, più di un terzo della Federazione romana, sono infrequentabili. Ed il gruppo consiliare, i famosi 19, non sono un granchè in quanto a competenze e capacità amministrative. Il problema della poca autorevolezza o della mancanza di una classe dirigente del PD sui territori, a Roma è particolarmente grave.
Ancora più grave il metodo seguito per far dimettere Marino. Il PD ha rivelato, sostituendo al dibattito pubblico dell’Aula consiliare la manovra di corridoio e la ‘scomunica’ extra-istituzionale del Sindaco, una natura “compiutamente post-democratica” come ha scritto Marco Revelli.
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Dopo l’euforia dell’Expo
Mario Vitiello
A qualche giorno dalla fine dell’Expo, è possibile iniziare a fare alcuni bilanci dell’evento che ha occupato la scena politica e sociale milanese (e a tratti anche nazionale) negli ultimi cinque anni. Expo è un evento complesso, che riguarda la città di Milano e probabilmente l’intera nazione, che interessa molti settori, e ancora oggi sono tante le domande aperte, molti i rischi incombenti – non tutti noti – e innumerevoli le ferite che si devono ancora rimarginare. Per questo è necessario premettere qualche informazione riguardo gli assetti delle società che governano Expo, per comprendere quali siano le criticità e le contraddizioni presenti sullo scenario milanese (ma non solo) per i prossimi anni.
La proprietà delle aree è di Arexpo Spa, la società che ha comperato il milione di metri quadri su cui si sta svolgendo l’evento. Li ha acquistati da Cabassi, da Fondazione Fiera e da Poste Italiane, pagandoli uno sproposito (grazie ad una speculazione tipo “mani sulla città” garantita dalla giunta Moratti), indebitandosi con le banche (principalmente Intesa San Paolo per circa 160 milioni) e con la stessa Fondazione Fiera (per circa 50 milioni di euro). La gara indetta negli scorsi mesi per trovare un compratore per le aree del sito è andata deserta, e in molti stanno pensando a cosa fare di queste aree, che per il momento sembrano interessare a tutti ma che nessuno vuole.
A meno che non intervenga un soggetto “forte”, sia sotto il profilo politico sia sotto quello finanziario, che garantisca la realizzazione di nuove opere, nuove infrastrutture Expo Spa è la società che ha costruito l’Expo e che sta gestendo lo show.
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Critica del pasolinismo
L'ideologia italiana. “Pasolini” a quarant'anni dalla morte
Rocco Ronchi
Non di Pier Paolo Pasolini vorrei parlare ma del pasolinismo, vale a dire di un'ideologia diffusasi a macchia d'olio nell'Italia dei quarant'anni successiva alla sua morte. Questa ideologia si è nutrita, ripetendola come un ritornello, della concettualità prodotta dal Pasolini “corsaro” in articoli e interventi pubblici che non hanno certo bisogno di essere qui ricordati. Se il poeta Pasolini, il cineasta Pasolini, lo scrittore Pasolini possano poi essere effettivamente ridotti al pasolinismo è questione aperta sulla quale è perlomeno prudente non pronunciarsi. Noto soltanto che in tempi non sospetti, siamo nel 1965, quando Pasolini era ancora bel lungi dal diventare la santa icona dell'intellettualità italiana, Alberto Asor Rosa, tenendo conto della produzione poetica, dei romanzi e delle primissime esperienza cinematografiche, aveva scritto pagine mirabili nelle quali aveva colto il tratto specifico della poetica pasoliniana in un certo populismo estetizzante e decadente, così coerente con l'italica tradizione. Ma non è questo il punto. Ciò che mi interessa – anche per ragioni autobiografiche, essendo io cresciuto nell'Italia post-Pasolini – sono le ragioni del consenso generalizzato, entusiasta, talvolta addirittura fideistico, che, come un'onda irresistibile, la proposta teorica e critica del Pasolini corsaro ha suscitato.
È un consenso che, caso quasi unico nella storia culturale italiana, trascende le appartenenze politiche come quelle religiose. Destra e sinistra (estrema destra ed estrema sinistra comprese), tradizionalisti cattolici e laici irriducibili, critici conservatori della cultura e aspiranti modernizzatori del paese, possono discutere e contrapporsi su tutto, ma su “Pasolini” – le virgolette sono d'obbligo – si riconoscono. Su quel “Pasolini”, teorico della “mutazione antropologica”, della “omologazione” e del “genocidio culturale” operata dal tardo-neo-post ecc. capitalismo, tutti giurano concordi. Tutti ne verificano la “straordinaria attualità”, tutti ne lodano le capacità “profetiche”, tutti ne lamentano la “mancanza” con accenti toccanti.
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I problemi della sinistra oggi
“Il movimento socialista è nato dall'incontro fra teoria scientifica e lotta di classe: da qui dobbiamo partire!”
#politicanuova intervista Domenico Losurdo
Domenico Losurdo, Professore emerito di Storia della Filosofia all'Università di Urbino, tra i maggiori intellettuali contemporanei, che recentemente ha pubblicato “La sinistra assente” (Carocci, 2014), un'analisi a proposito dell'assenza, in Occidente, di una forza d'opposizione in grado di incidere nella realtà e d'offrire la prospettiva della trasformazione sociale (A cura di Aris Della Fontana)
1. Lei afferma che «la sinistra dilegua proprio nel momento in cui è chiamata a reagire ai processi in atto». Come si spiega questa contraddizione?
Quando parlo del dileguare della sinistra, mi riferisco all'Occidente. La sinistra dilegua, per esempio, dinanzi all'aggravarsi della situazione internazionale. Oggi stiamo assistendo a una serie di guerre neo-coloniali, particolarmente nel Medio Oriente: è un dato di fatto che viene riconosciuto persino da commentatori borghesi, ma che la sinistra occidentale, invece, tace. E oggi i pericoli di guerra si stanno aggravando: ne “La sinistra assente” cito un illustre analista quale Sergio Romano, secondo cui gli Stati Uniti hanno come obiettivo l'acquisizione di una sorta di monopolio sostanziale dell'arma nucleare; e ciò, all'occorrenza, anche al fine di poter scatenare un primo colpo nucleare impunito. Ci troviamo, dunque, dinanzi a una prospettiva decisamente allarmante. Ma la sinistra occidentale latita. Nel libro spiego le ragioni storiche di questa latitanza, ma fermarsi a ciò non basta. Di fronte all'aggravarsi dei conflitti sul piano internazionale, delle tendenze neo-colonialiste e della minaccia imperialista, s'impone la necessità d'una chiara risposta da parte della sinistra – anche sul piano ideologico - e con ciò una sua riorganizzazione. Ma purtroppo siamo ancora disgraziatamente lontani da tale momento.
2. Di fronte alla «crisi economica e politica» e ad un «deteriorarsi della situazione internazionale» che desta importante preoccupazione in particolare per i venti di guerra che spirano sempre più forti, si pone, per la sinistra, la questione delle tempistiche, e cioè della necessità di agire in rapporto a margini non eternamente posponibili? Se la sinistra non si attiva ora, in seguito sarà troppo tardi?
Per quanto concerne lo stato della situazione internazionale, ribadisco quanto sostenuto poco sopra.
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Marx e noi: Stato e società civile
di Renato Caputo
La contrapposizione marxiana fra concezione materialista e idealista della dialettica fra Stato e società civile è ancora oggi essenziale per contrapporre al pensiero unico dominante una visione del mondo autonoma, in grado di superare dialetticamente le ideologie precedenti. Soltanto mediante il rovesciamento della concezione idealista sarà possibile sviluppare la concezione materialista della storia per cui sono le strutture economiche e sociali a determinare, in ultima istanza, le sovrastrutture politiche
Come è noto, sin da giovane Gramsci ha difeso la Rivoluzione di ottobre come una rivoluzione contro il Capitale. In altri termini si tratta di una rivoluzione che aveva avuto successo proprio perché i suoi ideatori avevano operato una cesura con quella ortodossia marxista, dinanzi alla quale lo stesso Marx aveva sostenuto di non essere marxista. È altrettanto noto che Gramsci, riflettendo in carcere sulle cause della sconfitta della rivoluzione in Occidente le rinviene, in primo luogo, nell’incapacità dei comunisti, troppo ancorati alla tradizione massimalista, di tradurre la lezione leninista nel contesto di un Paese a capitalismo avanzato. In tal caso, la rivoluzione in Occidente si sarebbe potuta realizzare solo operando una cesura con una schematica riproposizione del modello bolscevico in un contesto in cui non c’è essenzialmente da fare i conti con lo Stato, ma prima ancora con una società civile riccamente articolata.
Ciò rendeva necessario, dinanzi all’evidente fallimento del tentativo di affermarsi con una guerra lampo di movimento, prepararsi a una necessariamente lunga guerra di logoramento. Nelle società a capitalismo avanzato, infatti, il potere non si regge principalmente sul monopolio della violenza legalizzata ma sulla capacità di egemonia del blocco storico dominante sui ceti sociali subalterni. Ciò rende indispensabile lo sviluppo della lotta di classe al livello delle sovrastrutture.
Proprio il marxismo occidentale si è sviluppato insistendo sulla necessità di sviluppare la coscienza di classe nei ceti subalterni. Lo sviluppo di quest’ultima è certamente favorito dal comune sfruttamento da parte della borghesia e dalla necessaria lotta di classe che, dal piano della rivendicazione economica, tende a svilupparsi sul piano della lotta politica.
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Antonio Carlo su Croce e Gramsci
Red Link
Inviamo in allegato l’ultimo lavoro di Antonio Carlo, che in questo caso si occupa di due intellettuali, sia pure molto diversi e contrapposti tra di loro sul piano politico come Croce e Gramsci, ma influenzati entrambi dall’idealismo. Non è una tesi nuova, nonostante il recente innamoramento per il pensiero di Gramsci da parte di tanta sinistra, anche radicale, sia su scala nazionale, ma forse ancora di più a scala internazionale. E già questo ci sembra un ulteriore indicatore dello stato di salute del pensiero e del movimento comunista attuale (si parva licet).
In particolare ci è sembrato interessante mettere in relazione la produzione teorica di questi due intellettuali con il livello di sviluppo del capitalismo in Italia e le caratteristiche tanto della classe dominante quanto di quelle del proletariato.
Quindi salutiamo questo nuovo scritto di Antonio ed invitiamo a leggerlo con attenzione soprattutto ai giovani militanti su cui sappiamo che il pensiero di Gramsci esercita un fascino particolare, poiché il suo recupero viene inteso (con relativa ingenuità) come un ritorno al genuino pensiero marxista. Nonostante i toni siano a volte aspri e trancianti, come è nel suo stile, lo studio di Antonio Carlo è fondato su una solida e rigorosa documentazione con cui occorre confrontarsi prima di esprimere giudizi lapidari. Come al solito non sempre le sue conclusioni sono convincenti su tutti i piani, almeno per noi, e ci sembra che la sua combattiva foga prenda il sopravvento sull’argomentazione analitica.
In questo lavoro in particolare vi è un giudizio alquanto liquidatorio su Amadeo Bordiga nei primi anni del dopoguerra, quando la direzione del neonato Partito Comunista d’Italia era diretto dalla Sinistra Comunista. In pratica l’accusa a Bordiga è di aver condiviso un repentino ritorno all’ideologia e alla politica riformista poiché avrebbe fatto passare al congresso di Roma del 1922 delle tesi sulla questione agraria e sulla questione delle cooperative ed i sindacati.
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Corte dei Conti boccia la legge di stabilità
"Manovra in deficit che lascia molti nodi irrisolti"
di Paolo Cardena
Pare che la Corte dei Conti non sia particolarmente entusiasta (solo per usare un eufemismo) della Legge di Stabilità varata dal Governo qualche settimana fa.
E' quanto emerge dall'audizione al Senato del Presidente della Corte dei Conti, Raffaele Squitieri, che ha ammonito il Parlamento sui rischi nascosti della manovra.
Nel segnalarvi che il documento completo potete leggerlo QUI, mi limito ad evidenziarvi alcuni passaggi significativi dell'audizione al Senato:
Nella valutazione del disegno di legge di stabilità, che dà attuazione alla programmazione economico-finanziaria esposta nella Nota di aggiornamento del Def, non si può prescindere dal quadro di incertezza che caratterizza l'economia internazionale. Esso è destinato a riverberarsi, nell’orizzonte della previsione, su un’economia italiana la cui ripresa, dopo una così lunga fase recessiva, è per ora basata su dati incoraggianti ma non univoci. Il rallentamento dell’area dei paesi emergenti, che ha sostenuto la domanda mondiale nel lungo periodo di contrazione dell’economia europea, costituisce, infatti, un rischio evidente per il consolidamento della ripresa in corso. Il rischio di deflazione e di interruzione della ripresa in atto, con le relative implicazioni per la sostenibilità del debito, è, del resto, ben presente nel dibattito di politica economica e argomento di attenzione da parte delle Istituzioni europee, come confermato dalle valutazioni espresse, proprio in questi giorni, dal Governatore della Banca centrale europea: nel rilevare come l’inflazione europea resti al di sotto del target prefissato, è stata annunciata l’intenzione di ricorrere già nel breve termine all’utilizzo di ulteriori strumenti di espansione monetaria.
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L’uso della vita dove si intrecciano lavoro e azione
Luca Illetterati
Una proposta di Paolo Virno per riarticolare sempre e di nuovo le forme dell’azione, muovendo dalla capacità recitativa propria dell’uomo: ciò che gli rende possibile pensare sé come un altro e un altro come sé
«La vita è praxis, non poiesis», dice Aristotele in un passo famoso della Politica. Entrambe, praxis e poiesis, sono per lui modelli di azione che caratterizzano la forma di vita degli animali umani. La poiesis ha come proprio fine la produzione di un oggetto che, una volta arrivato a esistere, è qualcosa di altro e di estraneo rispetto all’attività che lo ha prodotto. Un letto, un computer, una casa, giunto il termine del processo che li ha realizzati, godono, in qualche modo, di una vita propria: non dipendono più dal falegname, dall’assemblatore, dall’architetto, dal muratore che li hanno portati a essere ciò che sono. Più radicalmente, l’oggetto esiste solo quando l’azione finalizzata alla sua produzione trova il proprio termine. Finché l’azione produce non c’è ancora l’oggetto e quando l’oggetto è realizzato l’azione viene meno.
La praxis, invece, è secondo Aristotele quella azione che trova il proprio fine in se stessa, che si compie svolgendosi. È quell’azione, cioè, che non trova il suo compimento in un oggetto. Il fare musica, per riprendere un esempio aristotelico che poi Heidegger utilizzerà come proprio nei suoi corsi universitari, non si realizza in un fine esterno: il suo compimento è già nello stesso fare musica. Una vita che si realizza in un prodotto altro da sé è una vita del tutto alienata, espropriata di se stessa: come il fare musica, appunto, la vita trova compimento nell’essere vissuta bene e non si acquieta una volta giunta al risultato, alla realizzazione di uno scopo esterno. Smettere di agire è, per la vita, smettere di essere se stessa: equivale alla morte.
È soprattutto grazie a Hannah Arendt e attraverso i suoi scritti che questa classica distinzione tra praxis e poiesis è stata riportata al centro della discussione filosofica nel secolo scorso. La sua riattualizzazione consente infatti alla filosofa tedesca di svelare e decostruire il pensiero politico dell’occidente e in particolare quello moderno. Essendo rivolta alla costruzione delle condizioni che consentono la legittimazione del governo, dunque alla elaborazione delle mitologie che reggono la legittimità dello Stato (lo Stato di natura hobbesiano, la volontà generale rousseauiana, tutte le forme di contrattualismo e neo contrattualismo) la teoria politica è un fare piuttosto che un agire, è una poiesis piuttosto che una praxis.
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La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia
Wu Ming 1
1. “Quel bastardo è morto”
Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.
Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio.
Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati.
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Il rancore proprietario verso i poveri
Analisi di un’ideologia trasversale e politicamente corretta
di Militant
Roma fa schifo, la livorosa bacheca razzista filo-padronale, ha purtroppo assunto nel corso del tempo il ruolo di voce “dell’uomo qualunque”, del “cittadino” romano mediocre, sfogatoio qualunquista del peggior odio anti-proletario, aiutata in questo da un supporto mediatico senza precedenti volto ad elevare ad “opinione pubblica rilevante” qualsiasi espressione del malcontento purchè (apparentemente) non organizzata politicamente. Il qualunquismo a-partitico e anti-politico, superficialmente criticato, è invece il requisito fondamentale per essere presi in considerazione dall’informazione mainstream. Partito con l’obiettivo (anche qui apparente) di denunciare il “degrado” cittadino fatto di muri sporchi, tombini otturati, marciapiedi ingombri di immondizia, il sito è rapidamente evoluto in denuncia permanente della povertà, accusando i poveri, i lavoratori dipendenti, i militanti politici, i migranti, del declino economico, sociale e culturale della città. Ovviamente la fortuna del covo razzista-qualunquista è dovuta anche ad una situazione oggettiva, quella del suddetto declino, che riguarda la città e che non è stato minimamente compreso dalla sinistra cittadina, che da una parte ha governato questo declino per un ventennio, mentre dall’altra ammiccava al “buongoverno” centrosinistro interpretato come “male minore” rispetto alle opzioni politiche di centrodestra. Per altro verso, quello della sinistra non compromessa con i passati governi cittadini, il tema del declino metropolitano è stato abbandonato cedendolo alle retoriche di una destra reazionaria che ovviamente oggi cerca di cavalcare un malcontento popolare che pure è legittimo e anzi sacrosanto. Bene, questa la premessa. Oggi però il ruolo e gli obiettivi polemici del sito in questione sono cambiati smascherando non solo l’intento reale del suo curatore, Massimiliano Tonelli, cioè quello di incolpare lavoratori e disoccupati del declino cittadino, ma soprattutto manifestando la propria ideologia proprietaria neoliberista, volta a difendere la proprietà dei possidenti dalle pretese dei “diversamente ricchi”. Insomma, da sito moralistico-perbenista si è trasformato in sito della destra cittadina in campagna permanente contro l’economia pubblica, i lavoratori dipendenti e i militanti politici. In realtà, ovviamente, lo è sempre stato, ma se prima copriva questa sostanza da una patina politicamente accettabile o spendibile venendo per l’appunto ripreso dall’informazione generalista, oggi il Tonelli ha gettato la maschera per motivi che magari capiremo in primavera.
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Il difficile “inizio” di una nuova sinistra
di Francesco Fistetti
Sul sito “Idee controluce” è stato pubblicato in questi giorni, a firma del professor Carlo Galli, deputato dem, direttore della rivista “Filosofia politica” e finissimo studioso di Carl Schmitt, un documento intitolato “Molte fini, un nuovo inizio. – Tesi per una sinistra democratica sociale repubblicana”. Si tratta di un testo programmatico di grandissima importanza, perché annuncia in un certo qual modo la scissione del Pd ad opera della sua minoranza interna e l’apertura di un nuovo “inizio” attraverso la fondazione di un’inedita formazione politica a sinistra dei dem. L’incipit del documento non lascia adito a dubbi ed enuncia in termini molto netti le ragioni che giustificano come urgente e non più rinviabile una scissione. “È da superare il togliattismo senza Togliatti. Il realismo senza una grande idea da preservare e da realizzare non è sinistra, ma opportunismo. È finito il blairismo – l’applicazione pratica della tesi di Giddens che si è raggiunto il culmine della socializzazione e che ora la sinistra deve stare dalla parte del capitale. La terza via ha prodotto una più facile penetrazione del neoliberismo in Europa, mitigandone solo in parte gli effetti.
La miseranda situazione in cui versa la socialdemocrazia europea, incapace d’iniziativa e del tutto schiacciata sulla difesa dell’esistente, è la prova di ciò. Ed è anche finita l’idea che i problemi politici siano tecnici. Destra e sinistra sono ancora gli assi portanti della politica, per nulla sostituibili da ‘vecchio’ e ‘nuovo’”. È innegabile che questa sia in primo luogo la fotografia del renzismo, considerato una caricatura “opportunistica” del realismo togliattiano poiché privo di una visione strategica, ma è anche il ritratto della socialdemocrazia europea.
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Dopo Marino, la cuoca di Lenin
Roberto Donini
Pubblico ora questo saggio ispirato al tempo delle dimissioni del sindaco; ora che dopo i contorcimenti,il ritiro delle dimissioni e infine le dimissioni dei consiglieri del PD, la “tragedia” si è fatta “farsa”. La Storia, quella italiana particolarmente amata da Marx per questo lato giullaresco che al fine “rivela” sempre la miseria. Finisce l’ottobrata romana e inizia l’ottobre “ortodosso”.
Dopo Marino, la cuoca di Lenin
“Me me andavo da quella Roma” e incontro una “cuoca”.
Mentre mi aggiravo, qualche giorno fa, con la mia bici per la Sabina “romana”, tra Montelibretti e Orvinio per ridiscendere verso la Tiburtina, fermandomi ad un caffè di Scandriglia mi ha colpito l’editoriale de “Il Messaggero”. Il sindaco Ignazio Marino aveva annunciato le dimissioni la sera prima (giovedì 8 ottobre 2015), la cagnara saliva e così “Me ne andavo da quella Roma… de funerali coi cavalli, de preti e de scontrini” per parafrasare “Mamma Roma Addio” la grande poesia d’amore per la città di Remo Remotti. Mi pare su queste strade, spesso solitarie, e in questi meravigliosi paesi, abitati da persone con la “sporta della spesa”, di capire meglio il caos romano. E’ spigolare alla Zavattini e forse illusione mistica comunque “Me ne andavo…” e mi capita per le mani l’opinione del direttore del “Menzognero” come con affetto i romani chiamano il “giornalone di Caltagirone”. Viraman Cusenza scrive
“C’è un momento della verità nella vita di qualunque politico, grande o piccola che sia la poltrona che occupa. Quello in cui deve scegliere tra il bene della cosa che amministra e il tornaconto personale. In una parola, tra i cittadini che l’hanno eletto e se stesso. A questo cruciale passaggio, mentre Roma brucia, Ignazio Marino si è presentato con l’elmetto di chi resiste asserragliato nel bunker, mentre amici e nemici gli indicano la porta salutare dell’uscita. Un gesto puramente egoistico evitato soltanto in extremis, a tarda sera e in maniera confusa, con tanto di coda velenosa. Speriamo che non diventi una farsa. Questo è stato l’epilogo di un’operazione politica sbagliata. Una candidatura nata da una faida dentro il Pd dell’era bersaniana per mano di alcuni “senatori” protagonisti di vecchie stagioni e finita con una scheggia impazzita (il sindaco uscente) contro il partito che l’ha scelto, l’ha fatto eleggere e lo ha sostenuto. Speriamo se ne tragga una lezione salutare, non solo per il partito democratico che oggi nella Capitale raccoglie le macerie di una breve stagione all’insegna dell’emergenza continua. Fare il sindaco è una cosa seria. Un compito a cui in un certo senso ci si prepara da una vita: per vocazione e per esperienza. Non si passa con disinvoltura dal bisturi al timone di un transatlantico, pena un elevato rischio fallimento. Tranne che, dopo un secolo e tanti disastri, non si voglia ancora dare ragione a Lenin che credeva nel «governo delle cuoche»…” (Il Messaggero 9.10.2015).
Poi prosegue con la trita retorica, già snocciolata in avvio, incentrata sulla “competenza” ma il mio pensiero si era fermato lì: a Lenin e alle cuoche.
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A proposito di «Ai nostri amici»
R. F.
Il testo che segue è una critica di Ai nostri amici, l'ultima impresa editoriale
del Comitato Invisibile. Teniamo ad avvertire il lettore che tale critica non sarà assolutamente esaustiva, giacché il testo in questione meriterebbe di essere decrittato in maniera assai più profonda di quanto si possa fare nello spazio di poche pagine;
ci limiteremo dunque ad esaminare alcuni dei postulati fondamentali che ci sembrano costituire il nucleo teorico del libro.
Ai nostri amici rappresenta un buon esempio di come un bricolage concettuale conservatore possa spacciarsi per rivoluzionario; farne la critica non è un'impresa agevole, tanto più che l'opera in sé è a prima vista densa, perfino sovraccarica. Ciononostante, dopo un'attenta lettura, ci si accorge che il suo cuore pulsante si riduce ad una manciata di deboli proposizioni, che potrebbero passare perfettamente inosservate nel magma all'interno del quale galleggiano.
L'Occidente
L'Occidente è l'ossessione del Comitato Invisibile: ai suoi occhi esso concentra tutti gli orrori della civiltà. Esso è dunque sinonimo, indistintamente, di capitalismo, imperialismo, colonialismo, distruzione della natura, volontà di dominazione dell'altro etc. Ma l'uso di una simile nozione ci appare sospetto, giacché questa opposizione rigida tra l'Occidente e il Resto non fa che rovesciare la visione imperialista o conservatrice che fa di questo stesso Occidente un assoluto. Insomma, il Comitato Invisibile è Spengler (o Alain de Benoist, se si preferisce) messo a testa in giù. La genesi occidentale del modo di produzione capitalistico, evidentemente innegabile, si trasforma in colpa metafisica. Inversamente, ciò che è non-occidentale ne risulta ontologicamente valorizzato. La civiltà occidentale moderna è dunque il male assoluto. Viene da chiedersi cosa ne sia dei precedenti 20.000 anni di società di classe e di sfruttamento dell'uomo sull'uomo: l'Occidente sarebbe quindi sbarcato da un altro pianeta? Il Comitato, che sicuramente adora le «genealogie» del nietzschianismo di sinistra, dovrebbe sapere che:
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Il secolo di tutti e di nessuno
di Pierluigi Fagan
“… bisogna sempre opporsi alla potenza più forte, più aggressiva, che più domina…”
W. Churchill, The Second World War, vol I, p. 207
Nel 1941, H. R. Luce, l’editore di Life, pubblicava uno storico editoriale il cui titolo era: “The American Century”, espressione poi divenuta un concetto. Nel 1997, viene fondato a Washington un think tank che si chiamava “Project for the New American Century” (PNAC), il quale, nel 2000, pubblica un rapporto Ricostruire le difese dell’America: strategie, forze, e risorse per un nuovo secolo. Del gruppo facevano parte sia pezzi importanti dell’intellighenzia geopolitica americana (R. Kagan, F. Fukuyama), sia praticamente tutto il governo della presidenza Bush jr , da D. Cheney a D. Rumsfeld. L’idea del “secolo di qualcuno”, poggia sul precedente britannico ed anche se nessuno lo formalizzò come concetto, l’antesignano del secolo americano fu l’Impero britannico. Dopo l’uno viene il due e dopo il due viene il tre, ed ecco che alle avvisaglie di una possibile contrazione americana o più che altro, di una espansione cinese, alcuni intravedono un “secolo cinese”.
La struttura dell’idea è che esiste un lungo tempo (il secolo) in cui il mondo è considerato un sistema che deve avere un centro ordinatore. L’idea, proietta in macro, quella che è la struttura del potere politico ovvero la centralizzazione in capo ad un “sovrano”. Può essere un re o imperatore o dittatore o un governo che agisce (dichiara di agire) in nome e per conto del popolo, da cui l’espressione “il popolo sovrano”. A parte gli anarchici, non c’è praticamente nessuna ideologia politica conosciuta che pensi possibile un autogoverno acentrico dei sistemi politici. Tutte, prevedono che qualcuno o qualcosa funga da centro della decisione, poiché l’informe presuppone un governo, il governo presuppone l’azione politica, l’azione politica presuppone una intenzione e l’intenzione una capacità di decisione, esattamente come avviene con la mente, per il singolo essere umano.
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L’essenza criminale del potere
di Gioacchino Toni
Recensione a "Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015, 202 pagine, € 18,00" e intervista all'autore
“L’intervento dei governi in soccorso alle banche ha sancito il principio secondo cui i profitti vanno privatizzati mentre le perdite socializzate”. Vincenzo Ruggiero introduce il lettore all’analisi dello statuto criminale del potere a partire dall’esempio di come i momenti di crisi economica vengano presentati come situazioni eccezionali che richiedono deroghe alle regole ordinarie al fine di ristabilire la normalità allo stesso modo di come i paesi democratici, paladini dei diritti umani, si permettono di interrompere il rispetto di tali diritti, sempre grazie al fine ultimo di ristabilire le condizioni ordinarie. Dunque, i potenti si arrogano il diritto di trasgredire, ignorare, riscrivere le regole, forti della logica che vuole che i loro interessi coincidano con gli interessi dell’intera comunità.
L’approccio proposto da Ruggiero capovolge l’idea di deficit, cara alla criminologia, che tende a leggere gli eventi criminali come atti derivanti da una mancanza di socializzazione, di famiglia, di risorse ecc. Se ciò può essere vero in molti casi, di certo non lo è per quegli individui, o gruppi sociali, che commettono reati pur essendo ben inseriti socialmente con ambiti familiari funzionanti e disponendo di cospicue risorse. Inoltre, prima di entrare nel merito del lavoro proposto da Ruggiero, occorre sottolineare che, nell’ambito della tradizione della criminologia critica o radicale, alla quale appartiene l’autore, non ci si limita a guardare soltanto ai fatti ufficialmente giudicati come criminali, ma si presta attenzione anche a quei comportamenti che sono socialmente dannosi pur non essendo considerati criminali. La criminologia radicale, pertanto, si interessa più al danno sociale che non alla definizione ufficiale di criminalità.
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A che punto è la crisi?
di Giacomo Bottos
Il modello precedente, che è entrato in crisi nel 2007 (ma si tratta di una crisi -beninteso- che non equivale alla sua fine, ma anzi, in mancanza di alternative, alla radicalizzazione delle sue logiche) ma che già negli anni precedenti aveva iniziato, a livello globale, a presentare numerose crepe, è ciò che chiamiamo neoliberismo, che a sua volta nasce a cavallo tra anni Settanta ed Ottanta. Che cos’è il neoliberismo? Un modello che nasce come reazione alla crisi del precedente sistema, industrialista e fordista, basato su un grado di compromesso tra capitale e lavoro e sull’alleanza relativa tra il capitalismo ed una democrazia sostanziale e organizzata intorno al sistema dei partiti. All’epoca andò in crisi un modello che si era realizzato in quel trentennio postbellico che i francesi chiamano trente glorieuses, che Hobsbawm indicava come «l’età dell’oro». Diversi eventi segnanarono la crisi di questo modello. Li evoco brevemente:
1. La rottura del sistema di Bretton Woods, con la decisione di Nixon di bloccare la convertibilità del dollaro in oro, cosa che rese possibile la libera fluttuazione nel mercato delle valute e pose un importante presupposto per la finanziarizzazione dell’economia.
2. Gli shock petroliferi, che causarono una crisi di redditività delle imprese da un lato e una crisi fiscale degli Stati dall’altro, alimentando contemporaneamente l’inflazione e inondando al tempo stesso il sistema finanziario internazionale di petrodollari in cerca di impieghi redditizi.
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Credito a morte1
di Anselm Jappe
Venerdì il sito del Guardian segnalava che l’immobile di Time Square nel cuore di Manhattan, sulla cui facciata è visualizzato il debito pubblico americano, non ha più abbastanza spazio per contenere la quantità astronomica di miliardi di dollari a cui ammonta, precisamente 10. 299. 050. 383, un’enormità dovuta soprattutto al finanziamento del piano Paulson e alle flebo per Freddie Mac e Fannie Mae. Si è dovuto eliminare il simbolo “$” che occupava l’ultima casella del display, in modo che il passante potesse gustare questa amara cifra fino alla feccia”2. Chi se ne ricorda più ora? La grande paura dell’ultimo ottobre sembra già più lontana che la “grande paura” degli inizi della Rivoluzione francese. Un anno fa, tuttavia, si aveva l’impressione che numerose falle si fossero aperte e che la nave colasse a picco. Si aveva anche l’impressione che tutti, senza dirlo, se lo aspettassero da tanto tempo. Gli esperti si interrogavano apertamente sulla solvibilità degli Stati, anche dei più potenti, e i giornali evocavano in prima pagina la possibilità di un fallimento a catena delle casse di risparmio in Francia. I consigli di famiglia discutevano per sapere se sarebbe stato necessario ritirare tutto il denaro dalla banca e conservarlo in casa; acquistando un biglietto in anticipo, gli utenti dei treni si domandavano se questi avrebbero ancora circolato due settimane dopo. Parlando della crisi finanziaria, il presidente americano George Bush si indirizzava alla nazione in termini simili a quelli impiegati dopo l’11 settembre 2001, e Le Monde intitolava il suo magazine di ottobre 2008: “La fin d’un monde”. Tutti i commentatori erano d’accordo nel ritenere che quanto stava accadendo non era una semplice turbolenza passeggera dei mercati, ma la peggiore crisi dalla Seconda Guerra mondiale o dal 1929.
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Il Colpo di Stato Silenzioso a Lisbona
di Jacques Sapir
Dopo Pritchard, anche il prof. Sapir denuncia i recenti avvenimenti in Portogallo, dove, in nome dei mercati e delle istituzioni europee, il volere dell’elettorato è stato ignorato contro ogni norma democratica (il Presidente ha deciso di non dare il mandato per formare il governo a una coalizione di sinistra, nonostante questa abbia ottenuto la maggioranza assoluta). Nel finale Sapir preme per un coordinamento a livello europeo di tutte le forze che si battono per il recupero della sovranità democratica
Il Portogallo è stato vittima, nei giorni scorsi, di un colpo di stato silenzioso organizzato dalla classe dirigente europeista del suo paese [1]. Si tratta di un evento particolarmente grave. Esso si verifica in un modo che ricorda il golpe condotto contro il governo greco tramite la combinazione di pressioni politiche da parte dell’Eurogruppo e pressioni economiche e finanziarie da parte della Banca Centrale Europea. Esso conferma la natura profondamente anti-democratica non solo della zona euro, ma anche, e ce ne dobbiamo rammaricare, della stessa Unione Europea.
I risultati delle elezioni portoghesi
È stato ampiamente detto dalla stampa, specialmente in Francia, che la coalizione di destra è uscita vincitrice dalle elezioni legislative portoghesi. Ciò è falso. I partiti di destra, guidati dal primo ministro Passos Coelho, non hanno totalizzato che il 38,5% dei voi, e hanno perso 28 seggi in parlamento. La maggioranza degli elettori portoghesi ha votato contro le recenti misure di austerità, per un totale del 50,7%. Questi elettori hanno dato il loro voto alla sinistra moderata, ma anche al Partito Comunista Portoghese e ad altre formazioni politiche di sinistra radicale. Infatti il Partito Socialista Portoghese ha ottenuto 85 seggi, il Blocco di Sinistra (di sinistra radicale) 19 seggi, e il Partito Comunista 17 seggi. Sui 230 seggi del parlamento portoghese, si tratta di 121 seggi ottenuti dalle forze anti-austerità, una cifra superiore alla soglia assoluta, di 116 seggi [2].
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Miseria dell'anticomplottismo
di Riccardo Paccosi
Il seguente intervento è parte di una coppia di articoli. Va dunque letto insieme al suo omologo Miseria del complottismo
Una premessa per entrambi gli articoli
Complottismo e anticomplottismo, innanzitutto, non sono ideologie bensì costellazioni ideologiche che, da una parte, risultano estremamente eterogenee nella loro composizione interna e, dall’altra, stanno col passare del tempo acquisendo tratti politici e valoriali sempre più definiti.
Entrambe le costellazioni ideologiche hanno altresì in comune tre aspetti:
a) sono figlie del Web 2.0 e, precisamente, delle modalità proprie e specifiche di trasmissione ed espressione che quest’ultimo ha sviluppato;
b) rappresentano la fenomenologia di nuove forme di polarizzazione ideologica, che stanno soppiantando quelle del secolo scorso; a differenza di quelle del Novecento, però, le nuove polarizzazioni non afferiscono ad alcun pensiero sistematico né ad alcuna filosofia politica strutturata;
c) come cercherò di argomentare nei due articoli, entrambe le polarità sono funzionali alla riproduzione dell’ideologia dominante.
Data simbolica d’inizio: 11 settembre 2001
Mentre le teorie cospirative sono sempre esistite, l’anticomplottismo è un fenomeno per certi aspetti inedito: esso si sviluppa, per reazione, nel momento in cui le teorie del complotto, in seguito ai fatti dell’11 settembre 2001 , assumono dimensione di massa nonché caratteristiche di costellazione ideologica.
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Miseria del complottismo
di Riccardo Paccosi
Il seguente intervento è parte di una coppia di articoli. Va dunque letto insieme al suo omologo Miseria dell’anticomplottismo
Una premessa per entrambi gli articoli
Complottismo e anticomplottismo, innanzitutto, non so no ideologie bensì costellazioni ideologiche che, da una parte, risultano estremamente eterogenee nella loro composizione interna e, dall’altra, stanno col pa ssare del tempo acquisendo tratti politici e valoriali sempre più definiti.
Entrambe le costellazioni ideologiche hanno altresì in comune tre aspetti:
a) sono figlie del Web 2.0 e, precisamente, delle modalità proprie e specifiche di trasmissione ed espressione che quest’ultimo ha sviluppato;
b) rappresentano la fenomenologia di nuove forme di polarizzazione ideologica, che stanno soppiantando quelle del secolo scorso; a differenza di quelle del Novecento, però, le nuove polarizzazioni non afferiscono ad alcun pensiero sistematico né ad alcuna filosofia politica strutturata;
c) come cercherò di argomentare nei due articoli, entrambe le polarità sono funzionali alla riproduzione dell’ideologia dominante.
Data simbolica d’inizio: 11 settembre 2001
Le teorie cospirative, ovviamente, esistono da sempre ma la loro configurazione attuale di forma mentis opposta all’ideologia dominante e all’informazione mainstream – nonché di costellazione ideologica di massa – è cosa molto recente e alla quale potremmo attribuire un inizio simbolico con gli eventi dell’11 settembre 2001.
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"Cosa rossa"? No, salsa rosa
Sel, ovvero gli ultras della globalizzazione
di Leonardo Mazzei
Si è svolta sabato scorso l'assemblea nazionale di Sinistra ecologia libertà (Sel). L'incontro ha partorito un documento utile a chiarire tre cose. La prima è che non c'è nessuna "Cosa Rossa" alle porte. La seconda è che non c'è una vera rottura strategica con il Pd. La terza è che l'adesione totale ai miti ed ai dogmi della globalizzazione ne esce pienamente confermata. Dunque, nulla di nuovo sotto il sole, ma il solito mix di opportunismo e globalismo. Il tutto servito servito in salsa rosa, non rossa. Entriamo nel merito, procedendo in ordine inverso d'importanza. In primo luogo, quindi, il non-evento di un aborto sostanzialmente annunciato. In secondo luogo, la conferma della linea delle alleanze con il Pd, in terzo luogo l'atteggiamento da ultras sfegatati del globalismo e dell'eurismo, un'impostazione che neppure le lezioni greche dell'estate scorsa hanno minimamente scalfito.
La "Cosa Rossa" non nascerà. Al più vedrà la luce una cosuccia rosa pallida
Se i documenti hanno un senso, quello uscito dall'assemblea del 24 ottobre ci dice che la cosiddetta "Cosa Rossa" non vedrà proprio la luce. Per "Cosa Rossa" si intendeva l'unificazione in un unico soggetto politico di almeno 4 componenti: Sel, Rifondazione Comunista, Possibile (civatiani) e Futuro a sinistra (fassiniani). Tralascio qui per semplicità altre componenti minori (o comunque sovrapponibili), come pure ritengo francamente trascurabile l'apporto di alcuni transfughi di M5S.
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Le utopie sono distopie?
Riflessioni su Morris, Huxley e i situazionisti
di Anselm Jappe
L’utopia gode oggi di buona reputazione. Rispetto ai tempi in cui i « socialisti utopisti » passavano semplicemente per precursori del « socialismo scientifico » di Marx ed Engels, il rapporto si è quasi rovesciato. La speranza che « there must be a better world somewhere », come cantava B. B. King, non in’un altra parte del mondo esistente ma come possibilità futura, gioca senza dubbio un ruolo essenziale nei movimenti e nei momenti antagonisti di oggi e in tutti coloro che ancora non si arrendono all’idea che questa realtà è tutto quello che può esistere, perché « there is no alternative ».
Un’utopia descrive, per definizione, un mondo migliore di quello esistente; molto spesso funge anche da sprone per impegnarsi in vista della sua realizzazione. Ma tutte le utopie meriterebbero di essere realizzate, se consideriamo la questione dal punto di vista dell’emancipazione sociale contemporanea ? Questo è un aspetto non sempre preso in considerazione. Se non vogliamo considerare l’utopia come un semplice oggetto di studio erudito, ma anche per quello che ha da dirci oggi (e poche espressioni del passato sembrano avere tanto da dirci!), dobbiamo prenderci la libertà di giudicare le utopie.
Come ha sostenuto l’anarchica Maria Luisa Berneri in uno studio pubblicato nel 1950[1], ci sono utopie autoritarie e utopie anti-autoritarie. Alcune propongono delle visioni dell’avvenire che, pur risolvendo certi mali del mondo presente, sembrano nel complesso peggiori del presente.
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La politica dell’ottimismo
di Militant
È da qualche mese che Renzi ha deciso arbitrariamente che grazie al Jobs Act l’occupazione in Italia è finalmente in ripresa e quindi ogni due telegiornali dobbiamo sentirci dire sta cazzata. Per carità, a noi farebbe piacere se ci fossero nuovi occupati, ma abbiamo forti dubbi che sia così e che soprattutto sia merito di Renzi. Innanzitutto, pensando in termini economici, potremmo obiettare che l’occupazione è sempre l’ultimo indicatore a crescere, perché prima dovrebbero crescere gli ordinativi delle imprese, la produzione, gli investimenti, la domanda, ecc. E che generalmente, oltre che comprensibilmente, solo dopo questi (al momento non pervenuti) avviene una crescita occupazionale. Ma anche mettendo in conto che gli economisti sbagliano, o che i miracoli esistano e che a un certo punto le imprese in crisi decidano che la cosa giusta da fare per riprendersi sia assumere, non ci è comunque ben chiaro di quanto, in cosa e soprattutto perché si dovrebbe essere ripresa esattamente l’occupazione.
1) Di quanto. Forse emozionarsi per una STIMA della crescita dell’occupazione di uno zerovirgola rispetto al mese o all’anno precedenti è una mossa un po’ azzardata. Soprattutto perché siamo bravi tutti a celebrare una crescita dell’occupazione nei periodi estivi, quando il numero degli occupati aumenta per via dei lavoratori stagionali (come conferma il fatto che a crescere sono stati soprattutto i contratti a tempo determinato, che poi sono quelli che col Jobs Act c’entrano meno). Basta andare sul sito dell’Istat per vedere che OGNI anno il tasso di disoccupazione scende nel secondo e terzo trimestre – da aprile a settembre – per poi risalire puntualmente nel successivo.
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Marx: lupus in fabula!
di Olmo Dalcò
Gianfranco Pala, Pierino e il lupo*, 2015, F. Angeli Editore
Grazie alla volontà di un coraggioso editore, nonché alla pressione militante di Sinistra Anticapitalista, è stato ripubblicato il libro di Gianfranco Pala, Pierino e il lupo, dopo trentaquattro anni dalla sua prima uscita. Pierino e il lupo narra, ripercorrendo Prokofiev, in forma di favola economica, del rapporto tra Sraffa e Marx, che tanto affascinò le cattedre universitarie negli anni settanta, e tanto influenzò il dibattito nell’ambito della sinistra politica e sindacale. Tuttavia, così tanto è mutato il clima culturale e politico, negli ambienti accademici e non, che il dibattito attorno alle tesi di Sraffa ha fatto decisamente il suo tempo, essendo stato dimenticato persino il nome dell’illustre economista italiano. Perché allora la necessità di una nuova pubblicazione?
La prima risposta banale sarebbe quella di rendere omaggio a un vero e proprio capolavoro di critica dell’economia politica, ovviamente coscientemente trascurato dall’accademia dominante, sempre più meschinamente ideologica e oscurantista. La seconda risposta militante è che la crisi economica a cui stiamo assistendo è anche una crisi dell’economia borghese e della sua capacità mistificatoria. Infatti, l’opera, pur narrando di come Pierino, ovvero Piero Sraffa, riuscì a mettere in gabbia Marx, ovvero il lupo, si conclude, tuttavia, con un lupo vivo e agitato all’interno di una gabbia neanche troppo resistente.
Oggi mentre Pierino e i suoi nipotini sono dimenticati da tutti, torna alla ribalta lo spettro del lupo, che resta soltanto in attesa che un nuovo movimento di classe sia in grado di riaprire finalmente quella gabbia costruita dai suoi presunti amici.
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