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“Le Patriarche”
di Elisabetta Teghil
Non ci si adatta mai a questa società con il suo ordine stabilito fatto di oppressione, di gerarchia, di ingiustizia, di razzismo, di privilegi, tanto intollerabile quanto si constata che è talmente radicato nella nostra cultura che può apparire spesso accettabile e persino naturale.
La società patriarcale nelle modalità in cui viene subita è l’esempio più evidente di questa paradossale sottomissione. Un rapporto sociale particolarmente odioso che ci tocca tutte da vicino, che permea la società, ne è diventato un tratto distintivo conosciuto e riconosciuto da ognuna/o.
Sinora il perpetuarsi di questo rapporto di dominio risiedeva, non esclusivamente, ma per certi versi principalmente, in seno alla famiglia che, giustamente, ha catalizzato l’attenzione del femminismo, così come del resto in altre istanze quali la scuola e le istituzioni. Oggi, nella stagione neoliberista, la nuova frontiera del perpetuarsi della società patriarcale passa anche attraverso la cooptazione di donne che in cambio della loro promozione personale vendono le altre donne e svendono la lotta femminista. Per fare questo spacciano la loro promozione personale per emancipazione.
Non è emancipazione quando si fa il lavoro sporco di licenziare altre donne, quando si reprimono e si condannano, forti di una divisa e di una carica istituzionale, quando si giustificano le guerre umanitarie, non è emancipazione quando si partecipa alla medicalizzazione dell’esistenza delle altre donne, né quando si partecipa da posti di responsabilità negli ospedali, mimetizzate con un camice bianco, alla guerra alla 194. Non sono donne emancipate, sono Patriarche, la versione femminile di quegli odiosi maschi che sono stati e sono il puntello, i protagonisti e i fruitori della società patriarcale e che nel momento che hanno visto la terra tremare sotto i piedi hanno chiamato le loro alter ego al femminile.
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Il caso Grillo-Farage
Ovvero: bastona il cane finché non affoga
di Pino Cabras
Anche ai più smaliziati arriva solo la notizia che Farage sarebbe sessista, omofobo e razzista, un vero fascista albionico. Tutto falso, ecco perché
La Repubblica e il resto del coro del giornalismo in mano agli oligarchi italiani - ringalluzziti dalla recente vittoria elettorale del loro cavallo di razza, Matteo Renzi - continuano la loro campagna contro Beppe Grillo su un nuovo fronte, nato dai recenti colloqui del leader dei cinquestelle con Nigel Farage, capo del partito britannico UKIP. La campagna si concentra ora su questo partito, del quale i giornali non raccontano l'evoluzione né la storia, bensì riportano le frasi orribili pronunciate da suoi ex membri che sono stati espulsi proprio per quelle frasi.
Altre frasi inserite nella galleria degli orrori da esecrare sono invece ascrivibili direttamente a Farage. Il problema è che le sue dichiarazioni sono state tolte brutalmente dal loro contesto (di cui i media non forniscono alcuna chiave) e reinserite in un contesto nuovo che le contamina, una volta che sono associate alle frasi di coloro che Farage aveva espulso. L'effetto è distruttivo e non risparmia nemmeno i più smaliziati lettori, ai quali arriva solo la notizia che Farage sarebbe sessista, omofobo e razzista, mentre l'UKIP sarebbe una specie di partito fascista albionico. Gli stessi giornali, in questi stessi giorni, continuano a ignorare che il governo ucraino e i suoi nuovi apparati di sicurezza hanno forti componenti di partiti fascisti, gente che fa il passo dell'oca. Questi media: dove c'è fascismo, non lo vedono, e dove non c'è, lo vedono.
Sessismo nell'UKIP? Eppure, su 24 europarlamentari UKIP eletti nel 2014, si contano 7 donne, il 30 per cento, in parte candidate come capolista nelle circoscrizioni britanniche, e tutte con funzioni dirigenti di primo piano. È una media superiore a quella di molti partiti italiani di sinistra nella loro storia. La leader del movimento giovanile, Alexandra Swann, è un'oratrice efficace portata in palmo di mano nel partito.
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La resistibile ascesa di Matteo Renzi
di Leonardo Mazzei
Adesso c'è già chi parla di "nuova Dc" e di un "altro ventennio".
Secondo molti gli italiani, come se lo avessero scritto nel loro Dna, avrebbero trovato il moderno "uomo del destino". Si tratta, a mio modesto parere, di solenni sciocchezze. Sciocchezze che non è difficile confutare, senza per questo sottovalutare le gravi conseguenze immediate dell'indiscutibile vittoria del berluschino fiorentino.
Nel breve periodo Renzi potrà affondare con facilità i suoi colpi, accelerando ancor di più sulla legge elettorale, le controriforme costituzionali, le privatizzazioni, la precarizzazione del lavoro. Un bottino non da poco, che spiega l'entusiastico sostegno di tutti i principali centri del potere economico e finanziario.
Era questa la vera posta in gioco delle elezioni del 25 maggio in Italia, ed era principalmente per questa consapevolezza che ci siamo pronunciati per il voto al M5S. Non va dunque sottaciuta la portata della sconfitta subita: sconfitta politica con gravi conseguenze per la democrazia, che verrà pagata sul piano sociale dalle classi popolari.
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Europa, quando perseverare è ideologico
di Lelio Demichelis
Urge che il demos si riprenda il potere, uscendo dall’incubo della biopolitica/tanatopolitica neoliberale. Cercando, fuori dall’ideologia, un’idea virtuosa e umana di Europa
Un po’ di filosofia e di psicanalisi; spunti dalla riflessione di Hannah Arendt sul totalitarismo, ma applicandola al capitalismo; e Michel Foucault. Sono alcuni degli strumenti utili per capire la crisi di questa Europa.
Dal 2008 gli europei vivono un incubo che coniuga ideologia (il neoliberismo), autoritarismo (lo stato d’eccezione, i governi di larghe intese, il non poter votare e decidere), volontà di potenza (il capitalismo totalitario), moralismo religioso (protestante), inquisizione (cattolica), nichilismo (ancora il capitalismo), pulsioni libidiche e aggressive (l’austerità e il pareggio di bilancio). Secondo una colossale menzogna (sempre l’ideologia neoliberista), che ha prodotto (come ogni ideologia) altrettanto colossali meccanismi difalsificazione della verità e della stessa razionalità economica (l’austerità come via virtuosa per la crescita, mentre è una politica pro-ciclica che peggiora la crisi, non correggendone le cause). Il tutto emarginando ogni tentativo di fare parresia. Di dire ilvero contro la menzogna.
L’Europa (gli europei): in questo incubo l’hanno portata le sue classi dirigenti (sic!) e le oligarchie economico-finanziarie.
Non per un incidente della storia, ma perché la loro azione era ieri ed è ancora oggi finalizzata ad una trasformazione politica in senso antidemocratico e totalitario del potere; ed economica in senso definitivamente neoliberista. Suda, soffre, si impoverisce ma l’Europa subisce in silenzio questa ideologia neoliberista e questo collegato sadismo economico del capitalismo.
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Anatomia della scimmia antiberlusconiana
di Marco Bascetta
Tra le sue produzioni culturali più eminenti: la squisita prosa di Marco Travaglio; il narcisismo inquisitorio di Michele Santoro; la profondità filosofica di Michela Marzano; l'abbigliamento di Mario Monti; le lacrime di Elsa Fornero. Nonchè lo stile "smart" di Matteo Renzi
Il termine non è poi così antico. La sua fortuna risale al passaggio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Il suo ambiente ideale fu il craxismo in ascesa, la farlocca “modernizzazione” italiana, il patriottismo delle firme e della competitività, la retorica, perlopiù priva di fondamento, dell’efficienza e della razionalizzazione. Stiamo parlando di quella parola magica che da allora non ci ha più lasciato: la “governabilità”. Sono gli anni in cui la nuova ideologia italiana andava formandosi, travolgendo apparentemente ogni ostacolo o resistenza, accompagnata dal farfugliare tanto incomprensibile quanto osannato dello psicanalista milanese Armando Verdiglione e da un linguaggio capace di trasformare un amore in un “investimento affettivo”.
Ma che cosa voleva significare di diverso quella parola dalla pretesa di ordine sociale, di legiferare indisturbati e di rendere esecutive le leggi che è propria di qualunque governo? La governabilità guardava non al futuro ma al passato e cioè a quella lunga stagione di grande insubordinazione sociale, di rifiuto delle gerarchie e dei ruoli consolidati, di disobbedienza, di conflitto e desiderio di libertà che a partire dalla fine degli anni ’60 si era protratta per tutto il decennio successivo mettendo sotto pressione, e non di rado sotto ricatto, grandi e piccoli poteri. La stagione, in breve, dell’ingovernabilità alla quale, con ogni mezzo, si intendeva porre fine. Non che in quel decennio abbondante non vi fossero stati governi che governavano, produttori che producevano, profitti che si accumulavano, e perfino la rappresentanza politica godeva di una salute infinitamente migliore di quella comatosa in cui oggi versa.
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Odio il lunedì
Un racconto del dopo elezioni
Clash City Workers
Chi normalmente visita il nostro sito sa che difficilmente pubblichiamo commenti a caldo. Di solito preferiamo aspettare e analizzare le cose in modo scientifico. Se non si fa così si rischia di andare “a sensazione”, di rappresentarsi in testa tutto un mondo a misura del pezzo di realtà che si conosce… Questa volta però facciamo un’eccezione e abbiamo voglia di buttare giù anche noi qualcosa rispetto all’esito delle elezioni. Perché non ci convincono molte cose che abbiamo letto. Perché sentiamo che forse il pezzo di realtà che conosciamo da vicino ci può permettere di capire cosa è successo domenica…
A questo proposito, iniziamo con l’ammettere una cosa. A differenza di chi afferma che aveva già previsto tutto, noi non abbiamo problemi a dire che non avevamo alcuna certezza su quale sarebbe stato l’esito delle votazioni. Anzi: per noi il risultato è stato francamente sorprendente. Ma non per questo ci sentiamo stupidi: anche la stessa borghesia, che qualche strumento in più ce l’ha, sembrava abbastanza incerta. E se oggi è tanto tronfia è anche perché un exploit del genere non se l’aspettava.
Per noi svegliarci e trovarci difronte al trionfo del PD è stato veramente duro e ha reso questo lunedì di gran lunga peggiore degli altri. C’è da rimanere sconcertati nel vedere più del 40% dei votanti dare la preferenza al partito che ha storicamente iniziato, e in questi mesi sta conducendo, uno degli attacchi più violenti al mondo del lavoro che il proletariato italiano possa ricordare.
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Materialismo “contra” spiritualismo
Sigmund Freud e Jacques Lacan
Roberto Finelli
Lo spirito del tempo, lo Zeitgeist hegeliano, ci esorta con la durezza di una crisi che investe e travolge la materialità dell’esistere, con il riproporsi non più rimovibile delle richieste del realismo, a dare per conclusa l’epoca del postmodernismo, quale insieme di ideologie e di culture che hanno complessivamente teorizzato la cancellazione della realtà a favore dell’artefatto e dell’immateriale. Per circa un trentennio abbiamo assistito al dominio e all’egemonia di un atteggiamento generalizzato pronto a riconoscersi nella tesi che l’Essere si risolva in linguaggio, che l’essenza del filosofico consista nella decostruzione, che la verità sia questione solo di un’ermeneutica infinitamente aperta e che la gnoseologia del frammento e della differenziazione espelle qualsiasi istanza di sistema e di totalità. Ma per quello che mi interessa sottolineare in questa sede, riguardo al tema del mio intervento, la cultura del postmoderno ha significato soprattutto la dilatazione e la estremizzazione della dimensione dell’intersoggettività e dell’esposizione all’altro, maiuscolo o minuscolo che sia, per la rimozione o lo svalorizzazione di ogni nota di sintesi e d’identità nella strutturazione dell’individualità soggettiva[1]. Per questo, dopo l’estenuazione della cultura del postmodernismo, possiamo, io credo, ritornare, con maggiore consapevolezza, ai problemi centrali delle scienze umane, tra cui s’annovera, com’è ovvio, il tema della natura e della funzione dell’inconscio nell’opera di Freud, con specifico riferimento alla questione delle invarianze di contro alle trasformazioni che il pensiero del viennese sopporta durante il percorso della sua vita.
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Contro l’Europa delle banche e della finanza, ritorno allo Stato-nazione?
Claudio Valerio Vettraino
Da più parti oggi si evoca il ritorno allo stato nazione, alla sovranità nazionale economico-produttiva, bancaria e fiscale, come antidoto “autarchico” all’apparato sovra-nazionale (ma anch’esso – paradossalmente – nuovo e più allargato stato-nazione a 24) dell’Europa unita e della cosiddetta “troika”.
Come spesso accade, si ragiona sugli effetti e mai concretamente sulle cause delle importanti e decisive trasformazioni in atto.
L’unione europea, nata a Roma nel lontano 1957 con la CECA e che ha accelerato il suo processo di unificazione – primariamente economico e finanziario – dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, non è altro che il tentativo “disperato” delle borghesie e delle cancellerie europee di coalizzarsi – dopo secoli e secoli di guerre intestine e fratricide – nell’ottica strategica di contrastare (o quanto meno depotenziare, influenzare) l’ascesa dei famosi “BRIC” (Brasile, Russia, India, Cina, a cui oggi possiamo aggiungere Messico, Indonesia, Sudafrica, Corea del Sud, ecc.), per ritagliarsi un ruolo da protagonista nella nuova contesa mondiale che oggi, a differenza che nell’Ottocento e nel Novecento in cui sulla scena si muovevano i tradizionali stati-nazione, si gioca tra potenze di stazza continentale.
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Abbasso la democrazia occidentale! (Altro che urne elettorali!)
di Andre Vltchek
Uno spettro si aggira per l’Europa e per il mondo occidentale: questa volta è lo spettro del fascismo. E’ arrivato silenziosamente, senza grandi fanfare e parate, senza braccia levate e urla tonanti. Ma è arrivato, o è tornato, essendo sempre stato presente in questa cultura, una cultura che per secoli è andata schiavizzando il nostro intero pianeta.
Come successe nella Germania nazista, alla resistenza all’impero fascista è nuovamente attribuito in nome disgustoso: terrorismo. Partigiani e patrioti, combattenti della resistenza, tutti loro furono e sono sempre stati definiti terroristi da fanatici fascisti.
Secondo la logica dell’Impero, assassinare milioni di uomini, donne e bambini in ogni angolo del mondo all’estero è considerato legittimo e patriottico, ma difendere la propria madrepatria è stato ed è un segno di estremismo.
Tutto è fatto nel nome della democrazia, nel nome della libertà.
Un mostro non eletto, così come ha fatto per secoli, sta giocando con il mondo, torturando alcuni, saccheggiando altri, o facendo entrambe le cose.
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Chi (e come) ha veramente vinto in Europa?
Quarantotto
Vi propongo una serie di riflessioni "peculiari", cioè non focalizzate sulle vicende convulse che si stanno svolgendo nei singoli paesi dell'UE e che ci rimbalzano le mosse post-elettorali e le contromosse della governance ordoliberista, impegnata nel mantenimento del potere per poter finire il lavoro iniziato, secondo i propri immutabili programmi.
Vale a dire il regolamento di conti finale con il fattore "lavoro" i cui effetti sono tanto disastrosi per l'economica quanto "utili ed efficienti" per consolidare il potere finora esercitato dalle oligarchie.
Insomma, non è realisticamente da attendersi che la questione "teologica" e di riconquista del potere, mostrateci da Galbraith e Kalecky, come più volte illustrate su questo blog, si possa mai arrestare sulle soglie delle prime difficoltà che, probabilmente, ESSI avevano già immaginato di dover affrontare.
Perciò mi focalizzerei su come possano oggi essere giocate le carte "continuiste" delle governance UEM.
Come paradigma di riferimento, non necessariamente solo "teorico", prendiamo l'atteggiamento di Christine Lagarde, "direttrice" del FMI, da sempre il punto di sintesi (almeno tentata) tra il modello neo-liberista e liberoscambista USA e l'ordoliberismo strategico UE.
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Ancora sulle elezioni europee
(...precedente)
L’illusorio successo di Renzi
di Michele Nobile
È incredibile e inaccettabile che, in presenza di un’astensione che raggiunge oramai il 30-40% del corpo elettorale, si continui a ragionare sui risultati elettorali calcolati solo sulla base dei voti validi. Con percentuali tanto elevate di rigetto della casta politica, qualsiasi ragionamento che si basi unicamente sui voti validi non potrà che distorcere gravemente il grado di consenso reale dei cittadini nei confronti dei partiti, con gravi effetti sul discorso politico. La tenacia con cui i commentatori restano abbarbicati a questa metodologia, scientificamente infondata e politicamente mistificante, è tanto più assurda quando praticata da chi pretende di andare contro la casta governante, se non contro il sistema.
In queste elezioni europee, in Italia non hanno votato 20,3 milioni di cittadini, nove milioni in più degli astenuti nelle politiche del 2013, un milione e mezzo di più che nelle europee del 2009.
Europa: le elezioni immaginarie
di Nicolai Caiazza
Le elezioni europee sono state immaginarie. E sono state immaginarie nel senso proprio che la immaginazione è stata la forza portante e conseguente sia tra gli eletti che tra gli elettori. Cioè la scelta degli elettori non è stata dettata da un interesse sociale di miglioramento della propria condizione sia personale che di classe. Né tanto meno la scelta è stata conseguente alla volontà di perseguire un ideale di trasformazione della società in una direzione o in un'altra.
Ciò che ha mosso la votazione per l'una o per l'altra formazione é stata l'adesione a una forma, a una immagine mentale, a una illusione di movimento.
Le Pen e Renzi però hanno vinto e convinto persone che avevano deciso di partecipare alla rappresentazione delle elezioni. L'altra metà della popolazione, che non ha partecipato, ha preferito dedicarsi ad altro.
Ma perchè ha vinto Renzi?
di Piemme
Capisco che sotto botta ci si interroghi anzitutto sulle ragioni dell'insuccesso dei cinque stelle. Tuttavia, se sono le dimensioni del successo del Pd renziano il vero fatto eclatante, è sulle ragioni di questa inattesa avanzata che occorre interrogarsi.
Solo in questo quadro segnalo la spiegazione di Gianluigi Paragone della sconfitta dei pentastellati. In piena controtendenza rispetto ai molti che addebitano la causa della sconfitta di M5S all'eccesso di "estremismo protestatario", Paragone sostiene che Grillo avrebbe perso perché ha dato retta a Casaleggio:
<«Il vero responsabile della sconfitta si chiama Gianroberto Casaleggio. Casaleggio era convinto di tenere in cassaforte i voti che prese alle politiche e perciò si dovesse “tranquillizzare” il voto moderato per tentare il sorpasso. Così ha messo la giacca e la cravatta ai suoi golden boy, li ha istruiti affinché parlassero come fighettini. E’ di Casaleggio la scelta di andare da Vespa e poi ai talk comodi, seduti, tranquilli».
It's All About Italy
C. M.
L'ufficio studi della Jp Morgan, di cui abbiamo già potuto apprezzare le analisi, è convinto che la vittoria di Matteo Renzi renda l'Italia più forte a livello europeo, e più stabile l'Unione nel suo complesso. Cerchiamo di capire perché.
Occorre sottolineare che il PD di Renzi è stato il soggetto politico più votato in Europa, in termini assoluti (11 milioni e centomila suffragi contro i 10 milioni e trecentomila della portaerei di Angela Merkel, la CDU-CSU); in termini percentuali è superato solo dal Fidesz di Viktor Orbàn, dominatore incontrastato dell'Ungheria (51%). Ma Fidesz non è certo quel che si definirebbe una forza europeista; invece il PD di Renzi lo è, entusiasticamente. Questo partito, pur sommando due caratteristiche che in questi anni non hanno certo giovato dal punto di vista elettorale, e cioè l'europeismo e il trovarsi al governo, stravince nelle urne, in assoluta controtendenza rispetto allo scenario europeo.
Preme rammentarlo: le forze politiche "sistemiche", in primo luogo quelle riconducibili alle famiglie del PSE e del PPE, sono naufragate in molti importanti contesti nazionali.
Da Atene a Berlino c’è anche Roma
di Roberto Musacchio
La fortuna aiuta gli audaci, diceva il vecchio detto latino. Quelle poche migliaia di voti che rappresentano quello 0,03 che fa superare alla lista Tsipras il quorum dell’assurda, e incostituzionale, legge italiana, possono far pensare che ci sia alla fine un premio per chi ha coraggio. Ma i latini sapevano bene che l’audacia poggiava sulla forza di un progetto, di una idea di società e di mondo. Diciamo allora che l’audacia di provare a vincere la sfida delle europee è stata figlia proprio di questa riscoperta, quella che è possibile avere un progetto e una idea di mondo, e cioè un punto di vista autonomo, proprio, su se stessi, della propria gente e della realtà in cui viviamo.
Alexis Tsipras è stato il simbolo, e la dimostrazione nella dimensione reale e concreta, di questa audacia possibile. Lui l’ha costruita per sé, costruendosela da sé ma fruendo anche dei materiali resi disponibili sul campo come l’esistenza di un partito della sinistra europea, alla cui nascita come italiani avevamo contribuito, l’esperienza delle lotte di resistenza alla austerità e dei movimenti.
I Piddino Boys e la Carosellonomics
Lameduck
A proposito di falconi e operazioni condor, ricordate quel vecchio carosello anni '70 dove i cittadini del Paese Felice erano costantemente minacciati dal perfido Jo Condor ma quando invocavano "Gigante, pensaci tuuuuu!!!" arrivava uno spilungone ex machina che risolveva tutto con saggezza e comminando infine la giusta pena all'odioso pennuto?
Grillo deve “dimettersi”?
di Aldo Giannuli
Si stanno levando molte voci che chiedono le “dimissioni” di Beppe Grillo (ho visto una dichiarazione in questo senso anche di parlamentari del M5s o ex del movimento), anche in questo blog ci sono interventi che vanno in questo senso e qualche autorevole amico me lo ha scritto in una mail privata. Tutti, più o meno, ricordano la frase con cui Grillo diceva che si sarebbe ritirato se non avesse “vinto”. Bene, allora discutiamone.
In primo luogo: dimettersi da cosa? Grillo non ha cariche formali nel M5s, non ne è il segretario. Per cui la richiesta di dimissioni può significare solo che deve smettere di parlare e magari chiudere il suo sito. Mi sembra una richiesta eccessiva, che non si può fare neanche al leader più sconfitto del sistema solare: ma, allora, fatte le dovute proporzioni, uno come Veltroni cosa avrebbe dovuto fare? Per non dire di Paolo Ferrero.
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Different Trains*
di Sandro Moiso
Treni differenti hanno corso per le recenti elezioni europee. Alcuni sono deragliati, mentre altri sono arrivati a destinazione. E’ inutile girarci in tondo: per ora hanno vinto i peggiori. Anche se risultava davvero difficile individuare i migliori.
Analizzare brevemente il significato e i motivi di tutto ciò può, però, contribuire a non sbagliare ancora in futuro e a intravedere le possibilità di superamento del sistema attualmente, ed apparentemente, vincente.
Gli elementi che hanno infatti portato, a livello nazionale, Renzi e il suo partito alla vittoria sono estremamente diversi da quelli che, ad esempio, hanno caratterizzato la vittoria delle destre xenofobe e nazionaliste soprattutto in Francia e Gran Bretagna.
Paradossalmente, infatti, su un solo punto ha avuto ragione Grillo fin dall’inizio della sua carriera “politica”: il Movimento 5 Stelle è riuscito a contenere i possibili estremismi.
La democrazia è nuda e il gioco si fa duro
Dalle elezioni europee: astensione e malessere sociale in crescita
Dino Erba
Questa domenica in Europa più che elezioni hanno avuto luogo delle non elezioni. Gli europei, in maggioranza, hanno deciso di restarsene a casa invece di andare alle urne. Le elezioni, quindi, saranno legali ma non legittime, se teniamo conto del terzo significato della definizione del concetto di: “sicuro, genuino e vero sotto qualsiasi profilo”. Le elezioni non sono state real-mente veritiere perché il demos (il popolo) – ovvero chi dà sostanza ai partiti – ha deciso in maggioranza di non votare: da ciò si deduce che, secondo logica, le elezioni non sono valide anche se sono legali. Chi rappresentano gli eletti? Che appoggio popolare avranno le loro decisioni future?
RAMÓN REIG, Las non eleciónes1.
Quasi ovunque, i governi dell'Unione europea hanno agitato lo spauracchio dell’astensione e del populismo antieuropeo, scatenando una propaganda dai toni ora allarmistici ora suadenti ... senza escludere messaggi trasversali che, a ogni piè sospinto, ci sussurravano i vantaggi dell’Europa unita.
Sòle elettorali
Militant
Nonostante l’affermazione del PD, dell’UKIP di Farage e del Front National di Marine Le Pen, il Partito Popolare europeo ha vinto le elezioni e si ritrova in Parlamento con il maggior numero di deputati. Conseguenza liberale vorrebbe che il candidato presidente espressione di quel partito, Jean Claude Juncker, sia nominato presidente della Commissione Europea. Siccome però il Parlamento europeo nei fatti non conta nulla, il veto posto da Cameron ha subito fatto declinare la possibilità di Junker a presiedere la Commissione. Ci si sta accordando su una scelta che prevede un parterre di nomi di tutto rispetto, fra cui spicca Cristine Lagarde, direttrice del FMI. Le cose stanno peggio di come le descrivevamo qualche settimana fa. In un precedente pezzo, infatti, davamo per sicura l’elezione di Junker qualsiasi fosse stato il risultato elettorale, anche avesse vinto Tsipras. La realtà è addirittura peggio della (facile) previsione. La Commissione Europea, il governo della UE, viene eletta a prescindere da qualsiasi risultato elettorale. Anche se questa dovesse essere vinta dal principale sponsor della UE, ciò che conta è l’accordo fra gli Stati membri e le indicazioni della BCE.
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Il primato della relazione
Giso Amendola
Un percorso di lettura a partire dall’ambizioso volume «Il transindividuale» curato da Vittorio Morfino e Etienne Balibar. Si indaga il rapporto fra individuo e comunità e sul loro «dualismo» che ha inciso sui modi di interpretare e di vivere la sfera pubblica. Esiste un filo rosso nella filosofia in cui ogni singolo è espressione dei rapporti sociali, ma irriducibile al tutto. Nonostante ciò, la possibilità di una politica del comune
Individuo e comunità, singolo e collettivo. Il rapporto tra i due poli può essere declinato in modi molto differenti, dall’ordinata partecipazione della parte al «Tutto», fino al conflitto irriducibile: resta fermo che questo schema ha funzionato come fondamento dell’idea di ordine che il pensiero occidentale si è dato, ha descritto la sua ontologia portante. All’individuo come realtà stabile, autofondata, trasparente a se stessa, dai confini sicuri e ben tracciati, si è contrapposto un soggetto collettivo che, in fondo, ne replica i tratti fondamentali: un Soggetto dai confini più ampi, semmai un macroantropo che ricomprende in sè gli «individui», come nel frontespizio del Leviatano di Thomas Hobbes, ma che dell’individuo riproduce in pieno le fattezze ontologiche, a cominciare dalla pretesa di autofondazione e di autosussistenza.
Questo dualismo di fondo ha inciso evidentemente sui modi di interpretare e di vivere la sfera pubblica: l’ontologia qui è più che mai questione politica. A partire dall’ingenua alternativa tra individuo è collettivo, la sfera pubblica o è stata assorbita all’interno di un soggetto collettivo ipercompatto, destinato a fagocitare ogni singolarità, o, simmetricamente , è impallidita all’interno di una semplice visione «intersoggettiva», frutto di un contratto o comunque parto trascendentale di un supposto e fittizio accordo tra gli individui, confermati come mattoni primi metafisici di qualsiasi costruzione pubblica.
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Scaramouche siamo noi
di Luca Cangianti
"L'Armata dei Sonnambuli" (Einaudi Stile Libero, pp. 792, € 21,00) è il nuovo romanzo storico di Wu Ming ambientato durante la rivoluzione francese. Nel corso di un susseguirsi avvincente di eventi si affrontano le dinamiche che ricorrono in ogni grande episodio di conflittualità sociale.
La testa del tiranno che rotola nel cesto, le gerarchie che implodono, il tempo che perde la sua linearità, il sovrapporsi di possibile e impossibile, la violenza, la festa, l'amore senza freni, il collasso del dominio patriarcale, l'emergenza e l'eroismo, ma anche la viltà, l'opportunismo, la stanchezza, il riflusso, la disillusione e la crudeltà senza limiti del nemico sconfitto che torna a colpire. È la rivoluzione che arde nelle pagine dell'Armata dei Sonnambuli, l'ultimo romanzo storico di Wu Ming, e dunque anche il suo doppio orrifico: la reazione.
La trama è ambientata in Francia nel biennio 1793-95 che va dalla decapitazione di Luigi XVI al dilagare della controrivoluzione termidoriana, e intreccia quattro linee narrative. Nella prima Marie Nozière, magliara e ragazza madre, prende progressivamente coscienza della più profonda e radicata delle oppressioni, quella patriarcale, fino al rifiuto blasfemo della propria prole che inevitabilmente la conferma nel ruolo di donna produttrice di forza lavoro ed erogatrice di cura: "ogni volta che ti guardo", dice al figlio "è come guardare il tempo di prima. Quando ero serva".
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Desiderio o bisogno di rivoluzione?
Daniel Bensaïd
Il partito dei fiori e degli usignoli è strettamente alleato della rivoluzione.
Heinrich Heine, De l’Allemagne
Crediamo che una rivoluzione sia una soluzione netta e sappiamo che anche questo non è esatto.Troviamo qui delle semplificazioni grossolane delle cose.
Paul Valéry
È la stessa desiderabilità della rivoluzione ciò che oggi fa problema.
Michel Foucault, 1977.
I
Qualche anno fa, la rivista Lignes ha pubblicato un’inchiesta sul «desiderio di rivoluzione»(Nuova serie, n° 4, febbraio 2001). Desiderio o bisogno di rivoluzione? Questo desiderio fittiziamente giovanile e vagamente sessantottino sprigiona l’acre profumo di un fiore appassito dimenticato su una tomba. Il desiderio e la voglia, ciò che resta quando l’iniziale slancio e l’entusiasmo della prima volta sono definitivamente esauriti: una velleità senza forza, una brama senza appetito, una pulsione di morte, un fantasma di libertà, un capriccio erotico.
Una soggettività asservita al sentimento non pratico del possibile.
Questo desiderio che crediamo liberato dai bisogni, in fondo, non è altro che la versione consumista: la macchina desiderante è innanzitutto una macchina per il consumo. Essa è il riflesso rovesciato della merce esposta, che ammiccando seduce il cliente adescato dal sortilegio luminoso della vetrina.
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Un amaro «american dream»
di Luca Celada
Tempi presenti. Il libro «Capitale del secolo XXI» di Thomas Piketty, in America è diventato il caso editoriale e politico dell'anno. Con la sua analisi delle crescenti disuguaglianze sociali ha intercettato i discorsi di Obama e le istanze di Occupy
Sono passati due mesi dalla pubblicazione dell’edizione inglese del Capitale nel XXI secolo e in America il trattato economico di Thomas Piketty (696 pagine) può considerarsi senza dubbio il fenomeno editoriale e politico dell’anno. Il volume — dall’intenzionale assonanza col Kapital di Marx — è volato in testa alle classifiche delle vendite e da settimane viene dato «temporaneamente esaurito» da Amazon, nelle librerie non ce n’è traccia e nelle biblioteche pubbliche figura «in ordinazione».
Il lavoro è stato acclamato da economisti illustri come Paul Krugman, il quale ha dichiarato che l’opera dell’economista francese già consigliere di Segolène Royale, rappresenta una ricerca di portata «epocale». Il New York Times lo ha affiancato a Susan Sontag e ad Allan Bloom e lo ha definito un «fenomeno raro»: un autorevole trattato accademico capace di inquadrare la macrotendenza di un’era e, allo stesso tempo, di catturare l’ineffabile tendenza del momento culturale. Piketty ha preso residenza nel circuito americano dei talk show, facendo spola fissa fra interviste, inviti a convegni e ricevimenti con premi nobel. Nel complesso, una risonanza che l’edizione originale francese certo non aveva avuto.
In parte, si tratta del risultato di un singolare tempismo. L’edizione americana è stata pubblicata dalla Harvard Press, poche settimane dopo il discorso nel quale — a dicembre — Obama aveva indicato la diseguaglianza come la sfida fondamentale del nostro tempo («the defining challenge of our time»).
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Il disastro italiano
di Perry Anderson
L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati. Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della UE è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. Ma l’Unione non è un’escrescenza di stati membri che, senza di essa, sarebbero in buona salute. Riflette, tanto quanto aggrava, tendenze di lungo corso al loro interno. A livello nazionale, virtualmente ovunque, dirigenti addomesticano o manipolano le legislature con crescente facilità; partiti perdono iscritti; elettori perdono la fiducia di contare considerato che le scelte politiche si assottigliano e le promesse di differenze durante le campagne elettorali si riducono o svaniscono una volta in carica.
All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.
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Matteo Renzi, the Hype
nique la police
Scorrendo i risultati elettorali delle europee viene da ripensare al significato di Hype, che sta tra promozione, montatura, lancio, esagerazione, risonanza comunicativa, iperbole. Tutto un terreno di comunicazione dove i significati che si creano sono tenuti da un vero, unico campo di forza: quello della sproporzione tra l’evento creato dal marketing, che esplode nelle persone, e la portata dell’evento reale prodotto. Qualche riprova? I famosi 80 euro, rivelatisi alla fine vero napalm comunicativo in grado di disboscare intere foreste della critica, sono destinati ad essere ingoiati da una tassazione più alta. Oppure ad essere una partita di giro, con lo stato, per cui se vengono resi 80 euro, alla fine, in servizi tagliati si finisce per perderne molti di più. Ma dal punto di vista comunicativo, gli ottanta euro, comunicati con vero senso feticistico della cifra, hanno rappresentato l’evento di un governo che redistribuisce risorse. Ovviamente the Hype, come se fosse una produzione di Carpenter quando si dà all’orrore, riproduce l’evento in modo ossessivo solo grazie ad una coralità mediale. C’è un livello di disoccupazione giovanile il più alto dal ’77? The Hype produce il jobs act, del quale la risonanza comunicativa è così assordante che ci si dimentica persino che una misura legislativa di questo tipo non è mai passata, né dal parlamento né per decreto, e che non va confusa con il decreto lavoro.
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Il terremoto elettorale del 25 maggio
di Alfonso Gianni*
Questa volta, ed è già un elemento di sensibile novità, una valutazione sugli esiti del voto richiederebbe tempi e percorsi più meditati. Non è un caso che tutti i sondaggi abbiano fallito e di molto le previsioni, particolarmente in Italia, ma non solo. Un segnale del fatto che i tradizionali sensori fin qui usati non sono stati in grado di cogliere i sommovimenti in atto. Né si può francamente credere che tutti i cambiamenti siano maturati solo negli ultimi giorni, con il cosiddetto voto last minute.
Le ragioni di questa complessità sono diverse. Anzitutto si tratta di valutare il significato del voto sul terreno europeo. Tanto più che per la prima volta da quando si vota per nominare il parlamento di Strasburgo, cioè dal 1979 in poi, non si è avuto un calo dei partecipanti, attestatisi sul 43%, media che differisce di un solo decimale rispetto a cinque anni fa. L’altra ragione deriva dal risultato eccezionale verificatosi nel caso italiano, dove il calo dei votanti è stato invece marcato, il 7.7% in meno rispetto al 2009, che solo un’analisi puntuale dei flussi elettorali può permettere di esaminare in profondità. Infine in Italia si è votato anche per il rinnovo di importanti consigli regionali e comunali, sulla base di una offerta politica che non corrispondeva in tutto e per tutto a quella presente nelle elezioni europee.
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Il Marx di David Harvey*
di Giorgio Cesarale
Urbanesimo e capitalismo
Della ampia e stratificata opera di David Harvey, di questa singolare figura che si colloca a metà fra urbanistica e teoria sociale, si conosce ormai molto, vista la larga circolazione ottenuta da libri come La crisi della modernità, La guerra perpetua e Breve storia del neoliberismo. Meno conosciuta, tuttavia, è la sua attenta e proficua ricerca sul Capitale marxiano; ricerca che è, peraltro, alla base delle tesi sostenute nelle opere appena menzionate. Ciò che in prima battuta ci proponiamo in questo articolo è di esporre le linee fondamentali di questa ricerca, valutandone meriti e specificità. In conclusione, cercheremo di dire in quale direzione la rilettura del Capitale compiuta da Harvey ha influenzato il corso delle sue più recenti indagini teoriche.
Della ermeneutica marxiana di Harvey si può dire che è peculiare anzitutto l’ispirazione generale: nessun autore, fra coloro i quali hanno recentemente provato a riattivare il contenuto problematico della critica marxiana dell’economia politica, è stato più fermo di lui nel rivendicare l’esigenza che sia sul terreno della analisi della crisi e delle “contraddizioni” del capitalismo che debba essere verificata la validità teorica di tale critica. Si tratta di un approccio che, pur comportando una certa riduzione della molteplicità di temi e “aperture” problematiche che Marx è venuto promuovendo nella sua matura critica dell’economia politica, non determina una incongrua dogmatizzazione del dettato testuale marxiano: il Capitale è anzi considerato come una sorta di cantiere a cielo aperto, come un testo pieno di “empty boxes”, che occorre riempire di significati e contenuti.
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Ve lo meritate, il lepenismo
di Adriano Scianca
Chi l’avrebbe mai detto che quell’uomo che cadeva da un palazzo di 50 piani nel prologo de “L’Odio”, commentando a ogni piano “fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene”, fosse in realtà il corpo esausto della vecchia Francia moralista, custode dei valori della République. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. Dove a godersi lo spettacolo ci sarà una raggiante Marine Le Pen ormai stabilmente accampata a ridosso della cittadella del potere. In un ultimo incrocio di sguardi, prima dello schianto finale, sicuramente il corpo in caduta libera penserà: “Ma come è potuto accadere?”. A spiegarglielo ci proverà Pierre-André Taguieff, uno dei maggiori politologi europei, direttore di ricerca al Centro nazionale francese per la Ricerca scientifica e docente all’Istituto parigino di Studi politici. Il 15 maggio è uscito in Francia “Du diable en politique. Réflexions sur l’anti-lepénisme ordinaire” (Cnrs, 400 pp., 22 euro), in cui Taguieff racconta alla rive gauche il suo più grande fallimento: l’incomprensione totale e infine suicida del lepenismo montante.
“La sinistra francese – ci spiega lo studioso – utilizza sempre la retorica della demonizzazione, anche se essa ha fallito. Si continua a lanciare imprecazioni e a sgranare cliché: ‘Il Fn non è cambiato’, ‘Il Fn avanza camuffato’ etc. La maggior parte degli attori politici, degli editorialisti e degli intellettuali di sinistra persevera, senza dar mostra della minima immaginazione, nel discorso della denuncia e dello smascheramento, pretendendo di svelare ‘il vero volto del Fn’, lasciando intendere che esso sarebbe ‘fascista’ e ‘razzista’. Lo stesso ritornello è ripetuto da trent’anni.
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Che fine ha fatto Baby Jane?
di Elisabetta Teghil
C’era una volta lo stadio di calcio dove i cancelli si aprivano alle 10 della domenica mattina, fermo restando che le partite, anche allora, cominciavano alle 15. Questo per permettere alle famiglie di poter andare a fare una scampagnata sui generis sugli spalti. Prendevano posto dove nel corso della partita i tifosi che vi assistevano in piedi non avrebbero impedito la visuale, portavano da mangiare e da bere e la comitiva comprendeva ragazzini, nonni, padri,madri,sorelle, zii e cognati….Il tifoso era abitudinario, ritornava sempre nello stesso posto e nascevano amicizie. Un quarto d’ora prima della fine della partita i cancelli venivano aperti per permettere a chi stava fuori dallo stadio di vedere uno scampolo di gioco.
Non c’erano i seggiolini separati, ma le panchine lunghe di legno o di cemento, e i tifosi spesso si stringevano per poter far sedere i bambini. Quando si entrava allo stadio tanti presentavano il biglietto che veniva strappato dagli addetti, ma tanti entravano, approfittando del momento di ressa, senza pagare con la solidarietà, non manifesta ma implicita, dei tifosi paganti e delle maschere. Gli abbonati, quando non potevano usare, per qualche motivo personale, l’abbonamento, lo cedevano senza problemi a qualche amico o parente.
I tifosi organizzati, vale a dire i club, che non sono una creazione di questi anni, ma che ci sono sempre stati, mettevano con molto anticipo i loro striscioni sugli spalti.
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La perversa "morale del potere" davanti all'atto rivoluzionario
Vincenzo Morvillo
In un’intervista, rilasciata alcuni giorni fa al Corriere di Romagna, in occasione della presentazione del suo ultimo romanzo “Lascia che il mare entri”, Barbara Balzerani, scrittrice, ex militante delle Brigate Rosse, che ha pagato le sue scelte con 30 anni di carcere duro e senza mai pentirsi, dice:
«Il vincitore, oltre alla resa, pretende tutte le ragioni e fa della ricostruzione storica un’arma per l’esercizio del suo potere. Infatti, la nostra vicenda è stata talmente trasfigurata e decontestualizzata che viene usata come deterrente per il presente. Come se l’ipotesi stessa del conflitto sociale abbia esaurito la sua legittimità una volta e per sempre. La mia scrittura non può che partire da qui perché la storia dell’insorgenza degli anni ’60 e ’70 è il prodotto di violenza, illibertà e ingiustizie di antica memoria. Le responsabilità politiche di chi ha governato questo paese, anche con le stragi, e di chi se ne è fatto alleato, ne hanno costituito le ragioni. Io non intendo cercare giustificazioni per le mie scelte ma neanche darne a nessuno».
E poi, di seguito:
«Nella sostanza, sono ignorata dalla critica letteraria e ai margini del mercato editoriale, quando non direttamente sanzionata per la mia presunzione di esistenza in vita, ossia con facoltà di parola. Ma non mi lamento, voglio solo scrivere per chi, come me, soffre la povertà dei valori oggi dominanti, che fanno del mercato di tutto e di tutti la misura del bene e del male».
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Elezioni europee
(segue...)
Il boom di Renzi riorganizza il blocco conservatore
di Pino Cabras
Il PD renziano rafforza la propria funzione: riorganizzare efficacemente il blocco sociale conservatore mentre crolla l'analoga funzione berlusconiana
L'Anna Karenina di Lev Tolstoj inizia con il ricordare che «tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo». L'Europa uscita da queste elezioni continentali è più che mai una realtà estremamente variegata, e probabilmente infelice. Il regime dell'austerity ha colpito in modi diversi i popoli europei, provocando reazioni molto differenziate. Queste reazioni sono state influenzate dalla maggiore o minore velocità della crisi, dalla diversa tenuta dei partiti tradizionali, dalla capacità di rassicurare gli elettori da parte dei partiti nuovi e di rottura, dalla traiettoria dell'azione dei rispettivi governi. In certi importanti paesi (come nel Regno Unito e in Francia) si sono affermati in modo clamoroso come primi partiti delle forze di netta rottura.
Tristi elezioni
Militant
Tutto, più o meno, come previsto. La centralità della nuova DC appariva probabile, sebbene non in questi termini, che non possono che peggiorare le nostre aspettativa per il futuro. Un sistema che si stabilizza, che si cementa attorno all’uomo forte e al partito asse del sistema politico-istituzionale. Niente di buono per le speranze antagoniste in Italia, che ora avranno di fronte un nemico molto più coeso dal risultato, che andrà avanti a spron battuto tacitando, con la forza se necessario, chiunque osi opporsi al suo liberismo europeista. Un M5S che, come ampiamente previsto, riduce i suoi voti, anche se meno di quanto potessimo aspettarci.
Un risultato molto chiaro. Ma non definitivo
di Aldo Giannuli
Risultato netto e di non ardua interpretazione: Renzi ha vinto, il M5s ha perso, il centro non esiste più, la destra è in via di dissoluzione, piccole ma significative affermazioni di Lega e Lista Tsipras. Inutile cercare attenuanti o giustificazioni: i numeri parlano chiaro. Ora cerchiamo di vedere cosa c’è “dentro” questi numeri, cercando di tener presenti percentuali e voti assoluti anche se non completissimi (mancano solo 60 sezioni, per cui possiamo ritenere i dati definitivi, salvo piccolissimi discostamenti finali). In primo luogo, va detto che la forte astensione prevista c’è stata, ma si è distribuita in modo molto più disomogeneo del passato: è stata molto alta nel sud e nelle isole, mentre, al contrario i risultati più favorevoli alla partecipazione si sono avuti nei due collegi settentrionali ed, in parte, al centro.
Grillo, e ora che si fa?
Francesco Santoianni
In fondo, questo calo elettorale del Movimento Cinque Stelle (pur facendo la tara con la relativa crescita del PD, che ha trasformato questo calo in una débâcle) era facilmente prevedibile. Per carità, nessun link a miei precedenti articoli. Sarebbe bastato riflettere sul suo progressivo calo nelle varie elezioni amministrative; alle sempre più asfittiche sue iniziative, al progressivo disimpegno dei suoi “militanti” (nonostante l’aumento degli “Attivisti certificati” che nessuno ha visto mai ma buoni per votare in Rete qualche candidatura o espulsione).
Il tutto comincia a ridosso delle elezioni febbraio 2013 quando, il riversarsi di una fiumana di persone cariche di speranze e aspettative, verso il Movimento Cinque Stelle fu visto da Grillo non come occasione per strutturare un Movimento democratico e articolato con il quale interagire con la società bensì come una minaccia alla sua Chiesa che avrebbe dovuto portarlo oltre la soglia del 51%”.
Europa, i conti non tornano
di ilsimplicissimus
Ciò che sta accadendo è confuso, caotico, ma al tempo stesso chiarissimo: l’Europa del trattato di Roma, delle speranze germogliate nel dopoguerra, è definitivamente defunta. In due grandi Paesi storici ,Francia e Gran Bretagna ha vinto la voglia di andarsene da un consesso sempre più a guida bancario tedesca. In altri, Grecia, Spagna, Portogallo, Austria, Danimarca, Polonia vincono o aumentano fortemente le forze critiche sia di sinistra radicale che di destra o di protesta. Dappertutto, salvo che in Svezia e in Portogallo dove ci sarebbe anche la possibilità di un governo tutto a sinistra, perdono le socialdemocrazie colpevoli di essersi appiattite sulla politica dell’austerità e dei massacri e in qualche caso di esserne divenute persino protagoniste.
Ha vinto Renzi. Il berlusconismo è risorto, più forte e più bello che pria. Grazie. Prego
Lanfranco Caminiti
L’astensionismo non ha sfondato. Più di metà degli elettori che non votano non è certo un “dato fisiologico” (sarebbe come dire che la disoccupazione giovanile al 45 per cento è fisiologica), ma non è un valore sufficiente per parlare di delegittimazione del parlamento europeo.
L’affluenza europea è nella media delle votazioni precedenti, sempre in calo, cioè, ma benché in alcune nazioni importanti (Olanda, Gran Bretagna) ci siano state punte notevoli di non-voto, in altrettante nazioni importanti (Germania, Francia) c’è stato addirittura un aumento dei votanti. La sovrapposizione fra voto europeo e voto “nazionale” non è stata solo una prerogativa italiana: vale per la Francia, la Germania, la Spagna, la Gran Bretagna, la Grecia (a proposito, auguri a Tsipras). E non poteva essere altrimenti, è uno dei “sensi” del voto di cui l’elettore si riappropria ed esercita: protestare, approvare, investire, ritirare.
L'avanzata del populismo di regime
redazione Contropiano
Uno sconfitto clamoroso, nelle elezioni italiane per il parlamento europeo, sicuramente c'è: gli exit poll. Mai come questa volta la rilevazione a campione fuori dai seggi elettorali ha fornito dati fantasiosi, in contrasto aperto cone la realtà del voto. Chi fosse andato a letto intorno alla mezzanotte si è addormentato “sapendo” che Renzi veniva dato poco sopra il 30%, mentre Grillo viaggiava poco sotto. Riaprendo gli occhi ha appreso che Renzi aveva “trionfato sfiorando il 41%, mentre il comico genovese retrocedeva intorno al 21%, parecchio sotto i risultati di appena un anno fa. In via di dissoluzione il blocco berlusconiano, trasmigrato nel bacino elettorale “democratico” (il Nordest...) in misura molto più consistente che in quello alfaniano, salvatosi per il rotto della cuffia (appena sopra la soglia del 4%, come anche la lista Tsipras).
I dati definitivi sono comunque questi:
Plebiscito Renzi: e se fosse un voto in maschera?
di Pierfranco Pellizzetti
L’imprevisto plebiscito nazionale pro Renzi, balzato fuori dall’urna elettorale europea, ha indotto all’immediata autocritica molti commentatori della mia parte (ammesso che io una parte ce l’abbia; se non quella di voler stare dalla parte della gente seria, dunque capace di autocriticarsi). Sicché – pur trovando insopportabili certe autoflagellazioni di ex cerchiobottisti pentastellari – condivido l’opinione severa di Gomez e Padellaro sui toni sovreccitati della campagna grillesca. Cui aggiungerei una deleteria (autolesionistica) esposizione dell’impresentabile Casaleggio, nell’inquietante ruolo de “la cosa venuta dallo spazio”.
Certo, il Beppe Grillo urlante e il Gianroberto Casaleggio sibilante hanno terrorizzato non poco. Ma il trionfo renziano non può essere spiegato solo con un eccesso di decibel e un difetto di icone nella comunicazione avversaria.
Motivi per cui ha stravinto Renzi
di Christian Raimo
Nessuno si aspettava un risultato così clamoroso per il PD. Figuriamoci io, che scrivevo due giorni fa un articolo in cui dicevo che era spompato. Nessuno tranne Matteo Renzi stesso che nel 2012, nella corsa alle primarie contro Bersani, dichiarava: “Il mio Pd può arrivare al 40%, il loro al massimo al 25”. Ha avuto ragione, e altri – molti, mi ci metto nel mucchio – hanno avuto torto. Ma i motivi (i meriti e le fortune, del resto occorre essere golpe et lione) per cui Renzi ha stravinto sono molteplici, proviamo a elencarne solo i primi che saltano all’occhio.
1. Gli 80 euro. Mossa elettorale? Elemosina? Primo timido tentativo di una redistribuzione economica dalle rendite al reddito? Fatto sta che a me venerdì, ossia due giorni prima del voto, nella scuola dove lavoro mi hanno fatto firmare un foglio su cui dovevo autocertificare se ero nelle condizioni di beneficiare del bonus.
Hanno vinto loro. Per adesso
Segreteria nazionale del MPL
26 maggio. Ci vorrà tempo per svolgere un’analisi non grossolana delle elezioni del 25 maggio. Lo faremo, come siamo abituati a fare, quando disporremo di tutti i dati. Solo allora si potranno decodificare i segni che stanno dietro allo sfondamento del Pd di Matteo Renzi e al flop di M5S di Beppe Grillo.
Come c’era da aspettarsi, un simile responso delle urne, sta facendo esultare le classi dominanti e, in particolare, l’aristocrazia finanziaria.
Il Sole 24 ore per descrivere il clima euforico che regna a Piazza Affari, fa parlare i pescecani. Lo squalo n.1 esordisce:
«È il risultato migliore che si potesse ottenere per i mercati finanziari, l'Italia è stato l'unico Paese a esprimere un voto europeista fra i fondatori e, contemporaneamente, ha ottenuto dopo anni un risultato di stabilità politica».
Moriremo (neo) democristiani?
Riccardo Achilli
Il risultato del PD è oltre ogni possibile dubbio analitico. Rispetto alle politiche di febbraio (anche se non è del tutto corretto metodologicamente confrontare le due scadenze) il PD ha preso 2,6 milioni di voti in più. E’ presto detto: ha recuperato un pezzo dell’elettorato PD che a Febbraio era fuggito verso il M5S, composto, essenzialmente, da piccoli imprenditori, artigiani, in breve quella piccola borghesia che, come bene ci illustra Marx, oscilla sempre, in funzione dei suoi interessi, fra ribellismo e conformismo. E che in un PD a guida Bersani, e dominato ancora dagli ex Ds, vedeva un ostacolo, sia pur in effetti molto blando, ai suoi interessi, perché la sua segreteria era ancora targata di un qualche residuo di socialdemocrazia che la rendeva ostica a smantellare lo Stato e la funzione pubblica, ed a trasformare il Paese in quella prateria dove il piccolo borghese italiano sogna, da sempre, di correre come il Generale Custer (salvo poi tornare da Mamma Stato per chiedere protezione, se le cose vanno male).
Questi elettori in fuga sono tornati non appena hanno visto che il PD era in grado di abolire le province, smantellare i sindacati, distruggere ciò che resta del sistema pubblico, e promettere soldi e regalie.
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Europa 2020 e noi
di Paolo Pini , Roberto Romano
Come si si ricostruisce l'infrastruttura della piena occupazione? Il Def del governo accoglie solo in parte la sfida delineata dall'Unione Europea con il programma Europa 2020. Perchè mentre l'Europa prefigura il governo dei processi di cambiamento, l'Italia li de-regola lasciandoli al mercato
Prefigurare delle buone politiche economiche e industriali in particolare significa studiare cosa si nasconde dietro i movimenti dei redditi, dei prezzi e della produzione; nello sviluppo c’è qualcosa di diseguale: gli investimenti nella tecnologia. La riflessione supera la distinzione statistica tra spesa in investimenti e spesa in ricerca e sviluppo, indagando le conseguenze che gli investimenti e la spesa in ricerca e sviluppo, che rimane una declinazione del progresso tecnico, hanno sulla struttura e la composizione del reddito:
“in una analisi dinamica lo sviluppo economico è da riguardare, non semplicemente come un aumento sistematico del prodotto nazionale concepito come aggregato a composizione data ma, necessariamente, come un processo di mutamento strutturale, che influisce sulla composizione della produzione e dell’occupazione e che determina cambiamenti nelle forme di mercato, nella distribuzione del reddito e nel sistema dei prezzi” (Sylos Labini, 1993).
Non si tratta di un generico aumento degli investimenti o di un altrettanto generico ritmo dell’innovazione tecnologica. Il progresso tecnico non è (solo) l’invenzione di una nuova macchina o di un nuovo principio fisico o meccanico: è la variazione dell’organizzazione economica di una unità produttiva, quindi dell’economia nel suo insieme:
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Socialismo, nè sinistra nè destra
di Alain De Benoist
Un saggio provocatorio sull'ultimo libro di Jean-Claude Michéa
Il gennaio 1905, il «regolamento» della Sezione francese dell'Internazionale operaia (SFIO) – il partito socialista dell'epoca – indicava ancora quest'ultima come un «partito della classe operaia che si prefigge di socializzare i mezzi di produzione e scambio, ossia di trasformare la società capitalistica in società collettivista o comunista, attraverso l'organizzazione economica e politica del proletariato». Beninteso, nessun partito «socialista» oserebbe oggi dire una cosa del genere, essendo i socialisti diventati socialdemocratici o social-liberali.
Che oggi la «sinistra», nella sua quasi totalità, sia divenuta riformista, che abbia aderito all'economia di mercato, che si sia progressivamente separata dai lavoratori e dalle classi popolari, non è certo una rivelazione. Lo spettacolo della vita politica ne è una ininterrotta dimostrazione. Per questo, ad esempio, le grida della sinistra sono così deboli nella grande tormenta finanziaria mondiale attuale: semplicemente, essa non è disposta più della destra a prendere le misure che permetterebbero di intraprendere una vera guerra contro l'influenza planetaria della Forma-Capitale. Come osserva Serge Halimi, «la sinistra riformista si distingue dai conservatori per il tempo di una campagna elettorale grazie a un effetto ottico. Poi, quando le è data l'occasione, si adopera a governare come i suoi avversari, a non disturbare l'ordine economico, a proteggere l'argenteria della gente del castello».
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