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Il ritorno dell’insicurezza sociale
di Robert Castel
(cfr. l'introduzione di Gianvito Brindisi)
Vivere l’insicurezza sociale equivale a trovarsi alla mercé di ogni minimo rischio dell’esistenza: una malattia, un incidente, un’interruzione del lavoro, un imprevisto nel corso della vita possono spezzare il fragile equilibrio della quotidianità e far precipitare nella disgrazia, se non addirittura nella rovina. Su scala storica, questa insicurezza sociale è stata la condizione ordinaria di quello che un tempo era detto il popolo. «Vivere alla giornata», dispiegare sforzi costanti per arrivare a «sbarcare il lunario», sfiancarsi al fine di «guadagnarsi il pane»… Sono stati questi, nel corso dei secoli, i problemi quotidiani di quanti non avevano che il frutto del proprio lavoro per vivere o per sopravvivere. Nessuna provvista, nessuna proprietà, nessun gruzzoletto: tutti i giorni la domanda imperiosa su come si presenterà il domani. L’insicurezza sociale è questa impossibilità di securizzare l’avvenire, poiché la padronanza di questo avvenire dipende da condizioni che ci sfuggono.
Tale insicurezza sociale, che per lungo tempo ha tessuto di una trama nera la storia popolare, è stata infine combattuta e sconfitta grazie alla costituzione di uno zoccolo di risorse, di uno zoccolo che dà consistenza al presente e consente di prendere in carico l’avvenire: si tratta della sicurezza sociale. Questo zoccolo di risorse è stato in origine predisposto fondamentalmente in relazione al mondo del lavoro, poiché era la vulnerabilità della condizione del lavoratore ad alimentare principalmente l’insicurezza sociale. Ma da quando abbiamo fatto il nostro ingresso nella cosiddetta «crisi», vale a dire dai primi anni Settanta, l’insicurezza sociale è tornata.
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La “dittatura del presente” e l’idealità perduta
Riflessioni in dialogo con Gustavo Zagrebelsky
di Roberta De Monticelli
Poche parole, accese e nette, di critica di metodo e di merito del programma di riforme (e del modo in cui ci si è arrivati) che dovrebbe fare dell’attuale governo un “governo costituente”. Pubblicate sul sito di “Libertà e giustizia”. Vi hanno aderito costituzionalisti di grande rilievo e molti altri cittadini. Perché ha sollevato tanta riprovazione e tanta irritazione, al punto che non si sono lesinate parole sprezzanti e toni ultimativi?
Perché quelle parole implicavano un “discorso sui fini”. Non l’accettazione passiva del discorso sui mezzi, che va sotto le etichette di “governabilità” e “stabilità”, ma la messa in questione dei fini (governabilità di cosa e per cosa?). E non va bene. E’ contro la “dittatura del presente”. Gustavo Zagrebelsky sembrava già prevedere gli episodi di intolleranza alla critica che sarebbero seguiti, e che del resto permeano il dibattito pubblico italiano, quando scriveva la breve, serrata meditazione Contro la dittatura del presente – Perché è necessario un discorso sui fini (Laterza – La Repubblica, aprile 2014).
Vi si legge un’articolata risposta in 11 punti o brevi capitoli, corredata da alcuni testi da Platone, Aristotele, Norberto Bobbio, Tzvetan Todorov, Pierre Rosanvallon, Luciano Canfora e Marc Augé, oltre a una raccolta di dati “I numeri della post-democrazia” e a una “Cronologia degli ultimatum” a cura di Giulio Azzolini).
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Euro, quelli che il “declino parte da lontano”
di Alberto Bagnai
Poveri euristi!
Glielo ha detto in faccia perfino Frits Bolkestein, uno degli artefici del Mercato Unico: “L’Unione monetaria è un esperimento fallito”. È successo a Roma, il 12 aprile, al convegno di a/simmetrie, dove 500 persone e un consistente drappello di imprenditori, sindacalisti e politici (Alemanno, Boghetta, Crosetto, Fassina, Messina, Salvini) hanno preso atto di questo certificato di morte e delle sue motivazioni: nel Nord Europa non esiste alcuna volontà di dar seguito a un progetto federale, al famoso “più Europa”, all’unione politica, per il semplice motivo che i contribuenti del Nord, istruiti da anni a ritenere che la crisi sia colpa del Sud, non hanno alcuna voglia di metter mano al portafoglio per contribuire a sanare gli squilibri europei in modo solidale. Certo, il vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, ha detto che in realtà la colpa di questo disastro è dell’atteggiamento irresponsabile delle banche del Nord. Ma questo, ovviamente, è un altro paio di maniche: l’elettore va dove propaganda vuole, e al Nord sono degli esperti nel settore…
Poveri euristi, ottusi seguaci di un progetto fallimentare e mortifero!
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Effetto Stranamore
Come ci stanno convincendo ad accettare un'altra guerra mondiale
di John Pilger
L’altro giorno mi sono rivisto il Dr. Stranamore. L'avrò visto forse una dozzina di volte, rende bene il concetto delle notizie senza senso. Quando il maggiore Major T.J. “King” Kong va “in punta di piedi con i Rooskies” e vola con il suo bombardiere nucleare B-52 verso un obiettivo in Russia, lascia al Gen. "Buck" Turgidson il compito di rassicurare il Presidente.
- “Dovremo essere i primi a sparare” - dice il generale - " e ne potremo ammazzare massimo 10- 20 milioni, non di più".
- Il Presidente Merkin Muffley : "Non mi farete passare alla storia come il più grande genocida dopo Adolf Hitler ."
- Generale Turgidson : "Forse potrebbe essere meglio, signor Presidente , se Lei fosse più interessato al bene del popolo americano che a come Lei sarà ricordato nei libri di storia "
Il genio del film di Stanley Kubrick è che ha rappresentato con precisione la follia e i pericoli della guerra fredda. La maggior parte dei personaggi sono basati su persone reali e maniaci veri. Oggi non c’è niente che equivalga a Stranamore, perché la cultura popolare ormai guarda quasi esclusivamente dentro la propria vita interiore, come se l'identità personale fosse lo spirito della morale dominante e la satira, quella vera, supera la realtà; ma i pericoli restano gli stessi. L'orologio nucleare è rimasto fermo a cinque minuti a mezzanotte e sventolano ancora le stesse "false flag" con gli stessi obiettivi dettati dallo stesso "governo invisibile", come spiegò Edward Bernays, l'inventore delle pubbliche relazioni, quando descriveva cos'è la propaganda moderna.
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Alcune riflessioni sull’euro
di Andrea Baranes
L’Euro è sbagliato quindi fuori dall’Euro?
L’Euro è sbagliato. Tiene legate insieme economie diversissime per forza economica, tassi di inflazione, competitività e produttività, senza che nell’UE esistano meccanismi di riequilibrio o compensazione efficaci. In breve, l’Italia si ritrova una valuta troppo forte, la Germania troppo debole rispetto a quelli che sarebbero i fondamentali delle rispettive economie. La Germania può esportare grazie a una moneta sottovalutata, l’Italia e gli altri Paesi della periferia europea vedono al contrario i propri conti con l’estero peggiorare sempre di più.
Non potendo aggiustare i cambi, tali squilibri si risolvono sui costi di produzione, e tra questi, principalmente sul costo del lavoro. Semplificando, se non puoi svalutare la moneta devi “svalutare” stipendi e diritti di lavoratrici e lavoratori per tornare competitivo. Negli slogan del governo, la soluzione passa dalla diminuzione del cuneo fiscale, ovvero diminuire il costo del lavoro agendo sulla leva fiscale. In realtà, essendo tale intervento del tutto insufficiente, l’unica strada è un calo degli stipendi e un aumento della precarietà.
Ecco spiegata austerità, perdita di diritti, aumento della disoccupazione. Con l’austerità diminuisce la spesa pubblica ma soprattutto si ha un aumento della disoccupazione, il che porta lavoratrici e lavoratori ad accettare condizioni di lavoro peggiori, permettendo all’Italia di recuperare almeno in parte il gap di competitività con il centro dell’UE e la Germania in particolare.
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Il fascino discreto della crisi economica
Intervista a Joseph Halevi
Con Joseph Halevi iniziamo un ciclo di interviste ad economisti ed economiste sulla perdurante grave crisi economica. Benché la crisi abbia messo in discussione il pensiero economico dominante negli ultimi 30 anni, ci sembra che sia mancato finora a sinistra un dibattito appropriato che provasse a mettere a fuoco le determinanti del crollo e le prospettive future.
In ciò ha avuto un ruolo anche il “Manifesto” stesso, che ha ormai eliminato l’uso di alcune chiavi di lettura del presente, finendo a concentrarsi solo su certi aspetti della crisi (la questione ambientale, i beni comuni). Proviamo quindi a smuovere le acque, intitolando l’ iniziativa “Il fascino discreto della crisi economica”, prendendo spunto da un articolo di Fernando Vianello e Andrea Ginzburg pubblicato su “Rinascita” nel 1973. Benché gli scriventi abbiano una prospettiva teorica diversa dagli autori di quell’articolo, l’intenzione è di rendere omaggio alla tradizione eterodossa italiana (chi scrive si è laureato a Modena, in cui hanno insegnato sia Vianello che Ginzburg), oggi marginalizzata.
Halevi è docente di economia presso la University of Sidney ed è stato per anni collaboratore del “Manifesto”. I suoi interessi di ricerca coprono l’economia politica, le teorie della crescita e del commercio, l’Asia ed il pensiero marxiano e post-keynesiano.
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"Esistere forte" di Stefano Scrima
di Daniele Baron
Il libro di Stefano Scrima, da poco edito, Esistere forte. Ha senso esistere? Camus, Sartre e Gide dicono che…, Ed. Il Giardino dei Pensieri, Bologna 2013, ha già nel titolo lo stigma che ci consente di decifrarne la chiave di lettura: la domanda sul senso dell’esistenza ne è al centro. Essa viene affrontata in un percorso che si articola in una serie di piccoli saggi (alcuni già apparsi in rivista) e si concentra principalmente su tre autori: Sartre, Camus e Gide. Si aggiunge ad essi poi la presenza a scopo didattico di brevi biografie degli autori trattati e del riassunto delle loro opere principali: ciò rende fruibile l’opera di Scrima sia a chi conosce già gli autori tematizzati sia a chi li affronta per la prima volta.
L’aspetto apparentemente frammentario, che può risultare dalla forma scelta, cela una coerenza di fondo dell’interrogazione di Scrima sul senso dell’esistere, una sostanziale unitarietà di discorso. Parimenti, pare a prima vista che ci si occupi solo di un periodo circoscritto, di un fenomeno e fermento culturale datato, quello dell’esistenzialismo francese e dei suoi prodromi, di un’epoca ormai superata, mentre la lettura dell’opera ci rende sensibile il fatto che le tematiche affrontate dagli autori francesi sopra citati sono ancora più che mai attuali.
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Oltre il 12 aprile
Dare identità al nostro blocco sociale e un volto al nemico
Mauro Casadio*
Abbiamo scelto di “far abbassare la polvere” dopo la manifestazione, gli scontri e l’acceso dibattito che c’è stato sul 12 Aprile per fare una valutazione della situazione più oggettiva, più distaccata. La scelta nasce dall’esigenza di gettare uno sguardo più lungo e più profondo sugli eventi che attraversiamo, altrimenti si corre il rischio di seguire la via indicataci dalla cultura egemone, la quale basa tutto sugli eventi e la loro rappresentazione, ma che il giorno dopo rapidamente vengono dimenticati e rimpiazzati da altri eventi che seguiranno esattamente la stessa parabola e conclusione.
Per fare questa operazione di “cultura” politica non si può prescindere dalla dinamica di come si è arrivati al 12 Aprile. Balza agli occhi di tutti e si impone nelle valutazioni politiche il confronto con le giornate del 18 e del 19 Ottobre, ma non possiamo fare questo confronto se si prescinde da come si sono prodotte quelle giornate e quali conseguenze hanno avuto già dal giorno dopo.
Quelle giornate sono state l’effetto di almeno cinque mesi di confronti e relazioni che sono sfociate in due manifestazioni separate temporalmente ma unite politicamente dall’accampata a San Giovanni fatta tra il 18 al 19, in cui tutte le espressioni di classe e antagoniste, politiche, sociali e sindacali nazionali, si sono sentite in “dovere” di intervenire nei dibattiti e nei diversi momenti di confronto organizzati.
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I cecchini della libertà
di Lanfranco Binni
Arriva la tempesta. Alla vigilia della prossima crisi finanziaria globale, preannunciata dalla crisi del 2008, la guerra in corso tra poteri finanziari e politici per il controllo delle aree di influenza e di dominio sta accelerando strategie attive di posizionamento degli attori principali su tutti gli scenari. L’iniziativa è agli Stati Uniti e all’Unione europea. Ci sono società da disintegrare, mercati da «liberare», processi «democratici» da imporre con la forza delle armi e con le armi della comunicazione. Il percorso è tracciato dagli anni novanta del secolo scorso: Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, «primavere arabe», Libia, Iran, Siria, Grecia, oggi Ucraina e Venezuela, prossimamente Russia e Cina. Sono soltanto gli scenari principali, ai quali si aggiungono le numerose guerre locali, più o meno “coperte”, in tutto il mondo.
Dagli anni novanta, dopo la caduta del muro di Berlino e l’implosione dell’Unione Sovietica, lo schema tattico politico-militare è sempre lo stesso, sperimentato e attuato dall’Unione europea a guida tedesca e dagli Stati Uniti nella disgregazione della Federazione jugoslava: in quel caso, il sostegno all’indipendenza della Croazia e della Slovenia, con politiche di divisione e pulizia “etnica” che avrebbero massacrato la multietnica Bosnia Erzegovina, fino all’indipendenza del Kosovo sancita da un referendum secessionista preparato dai bombardamenti della Nato. Le successive aggressioni americane all’Iraq e all’Afghanistan, con la partecipazione attiva dell’Unione europea e della Nato, introdussero il nuovo delitto internazionale delle «guerre umanitarie» a copertura degli interessi della “democrazia” occidentale: risorse energetiche e dominio su aree strategiche da un punto di vista geo-politico. Stati Uniti e Unione europea conducono un gioco di squadra, articolando gli strumenti tattici nel rispetto dei propri interessi economici, talvolta contraddittori.
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La teoria di Marx, la crisi e l'abolizione del capitalismo
Domande e risposte sulla situazione storica della critica sociale radicale
Intervista a Robert Kurz*
Cosa distingue questa crisi dalle precedenti?
Il capitalismo non è l’eterno ritorno ciclico dell’identico, ma un processo storico dinamico. Ogni grande crisi si incontra a un livello di accumulazione e di produttività superiore a quelle del passato. Quindi, la questione della gestibilità o non gestibilità della crisi si pone in forma sempre nuova. I precedenti meccanismi di soluzione perdono validità. Le crisi dell’ottocento furono superate perché il capitalismo ancora non aveva coperto tutta la riproduzione sociale. C’era ancora spazio interno per lo sviluppo industriale. La crisi economica mondiale degli anni ’30 rappresentò una rottura strutturale a un livello di industrializzazione molto più elevato. Essa fu dominata grazie alle nuove industrie fordiste e grazie alla regolazione keynesiana, il cui prototipo furono le economie di guerra della seconda guerra mondiale. Quando l’accumulazione fordista urtò contro i suoi limiti, negli anni ‘70, il keynesianismo sfociò in una politica inflazionaria, sulla base del credito pubblico. La cosiddetta rivoluzione neoliberale, intanto, spostò solo il problema dal credito pubblico ai mercati finanziari. Lo sfondo era una nuova rottura strutturale dello sviluppo capitalista, causato dalla terza rivoluzione industriale della microelettronica. Su questo livello qualitativamente differente di produttività non fu più possibile sviluppare alcun terreno di accumulazione reale.
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Fiscal compact: come stanno veramente le cose?
Leonardo Mazzei
Sono o no una realtà i 50 miliardi annui di sacrifici per i prossimi vent'anni?
Ci vediamo costretti a tornare sul tema del Fiscal compact. Del resto, repetita iuvant. Il fatto è che c'è chi sta lavorando a far credere che il Fiscal compact non sia un problema, come se gli eurocrati di Bruxelles l'avessero messo lì per scherzo, un modo per intimidire ma senza fare sul serio. Purtroppo non è così, checché ne dicano governanti disonesti e giornalisti superficiali.
La cosa è troppo importante per lasciare spazio alle rassicuranti leggende del mainstream, spesso rilanciate a casaccio nel mare magnum del web, magari anche solo per assoluta ignoranza della materia. E' troppo importante perché qui sono in gioco il futuro dell'economia nazionale, le prospettive occupazionali, l'accentuazione del massacro sociale in corso.
Per fortuna non siamo i soli ad aver notato la diffusione in rete di alcune interpretazioni rassicuranti sull'applicazione del Fiscal compact. Ecco, ad esempio, come ha reagito su Facebook Marco Passarella, anch'egli evidentemente irritato da certi faciloni:
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Le lotte in Cina, il Manifesto di Confindustria
La mobilità del capitale e quella del conflitto
Clash city workers
Ieri è arrivata dalla Cina la notizia che migliaia di lavoratori di una delle più grande fabbriche di scarpe sono in sciopero dal giorno prima, nel Sud del paese, per il miglioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro. Ben 60 mila operai della Yue Yuen (gruppo che produce scarpe per Nike, Crocs, Adidas, Reebok, Asics, New Balance, Puma, Timberland), fra cui molti immigrati da altre regioni della Cina, lottano da due settimane per ottenere il riconoscimento della previdenza sociale. La polizia è intervenuta più volte quando i manifestanti hanno cercato di assaltare le vetture dei dirigenti, mentre le grandi multinazionali sono molto preoccupate che lo sciopero possa bloccare l’arrivo delle merci sui mercati occidentali.
Ora, quello che è interessante di questa notizia non è solo che gli operai esistono (anzi: che a livello mondiale gli operai siano la maggioranza dei lavoratori ormai lo dicono anche quei teorici che fino a qualche anno fa li volevano scomparsi e marginali). E non è nemmeno una sorpresa che lottino: come ha dimostrato ad esempio Beverly Silver studiando proprio il caso cinese, “laddove va il capitale segue il conflitto”. Nemmeno la forma di lotta ci colpisce: lo sciopero, condito da assalto al nemico di classe e picchetto alla fabbrica, è ancora un’arma utilissima nelle mani dei lavoratori.
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Esercizi di retorica sul DEF
di Maurizio Sgroi
La retromarcia dell’avanzo primario
Mi sorprendo sempre nel notare il grande consumo di intelligenza e talento che circonda le cose economiche. Cervelli oltremodo eccellenti si cimentano in esercizi astrusi, compilano tabelle e disegnano grafici, al solo fine di convincere qualcuno di qualcosa, in un modernissimo esercizio di retorica.
E poiché questo qualcosa ha a che fare con il denaro, in un modo o nell’altro, ecco che ricevono un’attenzione ormai quasi più a nessuno riservata. Sicché finisce che gli economisti, o i semplici compilatori di tabelle e grafici, diventino delle piccole star.
La seduzione dell’economia è il modo contemporaneo col quale celebriamo l’antica e immutabile seduzione del denaro, a ben vedere.
Ed è comprensibile che tutto ciò, specie in tempi di crisi, germini una pletora di popolazioni economaniache.
Oggidì gli studiosi/esperti/appassionati/doscenti/discenti di cose economiche nel nostro paese è probabile abbiano superato per numero quelli che una volta compilavano formazioni e strategie della nazionale di calcio.
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Slavoj Žižek, Hegel e "Meno di niente"
di Filippo Fiabeschi
Slavoj Zizek è senz’altro un personaggio singolare, acuto, spregiudicato e senz’altro, filosoficamente, “controverso”. Controverso, nel senso che nel panorama filosofico attuale i giudizi sullo sloveno sono quanto meno contrastanti. Chi lo annovera come uno dei più validi e pungenti critici dell’ideologia del nostro tempo vede nelle sue analisi una geniale sintesi di psicanalisi strutturalista (Lacan), marxismo (Lukàcs, Althusser), dialettica idealista (Hegel) e pensiero della differenza e ripetizione di matrice “postmoderna” (Deleuze, Derrida). Chi lo critica, anche aspramente, vede le sue opere come ciarle che disinnescano la critica rendendola una sorta di divertimento colto da “radical chic” di sinistra in cui si alterna la critica sociale alla decostruzione della cultura di massa (film, romanzi, ecc.) senza mai giungere a un vero programma di superameno dell’esistente. Tra i sostenitori di questa tesi vi è anche Diego Fusaro che però sembra non voler distinguere nella sua analisi (comparsa in rete pochi mesi fa) del “fenomeno Zizek” gli aspetti più propriamente speculativi del pensiero dello sloveno dal “personaggio-Zizek” in quanto tale: infatti a più riprese, particolarmente nel passato, il “gigante di Lubiana” (così come viene descritto dalle note sulle copertine delle sue opere) si è lasciato andare ad interviste in cui, più che la sua carica critica nei confronti del capitalismo mondiale, ha mostrato l’intenzione di apparire simpatico (cosa che è indubbiamente), diventando un personaggio pubblico a tutti gli effetti, oscurando di fatto la cosa più importante, cioè il suo pensiero, e attirandosi un’ondata di critiche, spesso ingiustificate, che lo dipingono come “filosofo-pop” o cose di questo genere, concentrando le critiche sulle uscite (talvolta senz’altro di dubbio gusto) del pensatore invece che sulle sue opere mentre un vero grande filosofo, quale Zizek è, ha il diritto e la dignità di essere criticato sul piano speculativo, cosa che nemmeno lo stimabilissimo Diego Fusaro ha fatto nel suo articolo limitandosi ad indicare in Zizek un “disinnescatore” della critica.
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I rischi di una nuova estetica del conflitto
Militant
L’assedio ad un palazzo vuoto, elevato ad emblema feticizzato del proprio malessere, per di più da anni svuotato di concreti poteri politici che non siano la ratifica amministrativa di decisioni economiche prese all’interno delle istituzioni neoliberiste della UE, non può che farci tornare alla mente le giornate di Genova e la successiva discussione politica che qualcuno cercò di intraprendere nel valutare quegli anni e quel movimento. Una delle principali critiche politiche al movimento no-global fu proprio quella di aver edificato il livello simbolico, scenico, mediatico a protagonista assoluto, scalzando ogni dinamica materiale. Sebbene non fosse dentro quella zona rossa che il potere decideva per sé e per le popolazioni subalterne, ogni rivolo conflittuale doveva convergere verso l’assedio del “palazzo” (in quel caso, peraltro, una nave). In quegli anni la dinamica “assediante” fu rivolta contro i famosi “vertici” europei (la stagione dei controvertici), generando quell’accumulazione di forze che vide nelle giornate di Genova il punto culminante. Come andò a finire è storia nota. La sconfitta, politica e non (solo) militare, fu determinata proprio dalla concentrazione di tutte le proprie forze sul livello mediatico-evenemenziale, credendo di giocare alla guerriglia semiotica in un luogo e contro forze che non rappresentavano il vero nemico, ma solo la sua rappresentazione scenica (rappresentazione che comunque si incazzò parecchio e reagì alla vecchia maniera, demolendo pistola alla mano la post-modernità).
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Forum su Maurizio Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato.
Saggio sulla condizione neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013 (216 p.)
Federico Chicchi, Stefano Lucarelli, Sandro Mezzadra
Domanda: Ne Il governo dell’uomo indebitato (2013) – ma ancor più, in effetti, nel precedente La fabbrica dell’uomo indebitato (2012) – Maurizio Lazzarato lega l’emergere e il consolidarsi delle politiche di austerità al progressivo introiettamento di un senso di colpa legato al debito in quanto dispositivo autoritario di controllo. Prova dell’esistenza pervasiva del debito-colpa sarebbe, secondo il filosofo italiano, l’attuale onnipresenza di richiami all’auto-limitazione, alla cautela, alla circospezione dopo anni di “vita vissuta al di là delle proprie possibilità”. Ritiene che questa chiave di lettura possa risultare utile alla comprensione critica del presente – e alla sua trasformazione?
Federico Chicchi: Quello che mi convince del lavoro di Lazzarato è la descrizione che l’autore svolge, seguendo le analisi di Deleuze e Guattari, di due modalità, diciamo convergenti e complementari, di cattura e messa a valore della vita da parte del capitalismo neoliberale. Da un lato l’assoggettamento, che fabbrica ideologicamente un soggetto “adeguato” a livello morale e legale (il debitore, appunto), e dall’altro lato l’asservimento, che invece non funziona a livello individuale ma preindividuale e opera attraverso dispositivi tecnici macchinici e automatici, che poco hanno a che fare con la coscienza e la dimensione rappresentazionale e giuridica del soggetto.
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Il Def e la teoria della “precarietà espansiva”
di Paolo Pini
La ricetta del Def è un connubio perverso di “austerità espansiva” e “precarietà espansiva”. Una miscela che gioca a favore dei populismi europei e contro l’Europa stessa
Vi sono molti interrogativi e contraddizioni che emergono dal Def 2014 presentato dal Governo Renzi la scorsa settimana (http://www.tesoro.it/doc-finanza-pubblica/def/). Tra le tante criticità (http://ilmanifesto.it/la-finanziaria-della-continuita-per-il-def-una-sonora-bocciatura/), ci occupiamo qui di un aspetto che riguarda la fotografia del paese che il Def 2014 ci consegna, e le fonti della non-crescita che mette in campo (1).
La fotografia di un paese che fatica a crescere
Il documento programmatico da un lato fotografa un paese che faticherà assai a crescere negli anni a venire, che al 2018 non avrà recuperato la perdita di 9 punti percentuali di reddito accumulati dall’inizio della crisi, il 2008, e quindi si allontanerà ancor di più dall’Europa continentale che crescerà ben sopra l’1,5%, cioè la crescita media prevista per l’Eurozona. Il Def 2014 prevede una crescita dello 0,8% nel 2014, quando solo a dicembre 2013 era stata fissata dal governo Letta all’1,1%, ma già allora le istituzioni internazionali prevedevano tale scenario dello 0,8%, ed oggi lo hanno abbassato allo 0,6%. Il Def 2014 quindi rivede al ribasso le stime di quattro mesi orsono, ma non quanto altri organismi internazionali fanno, ultimo la settimana scorsa il Fondo Monetario Internazionale. Il Def 2014 rivede al ribasso anche le stime per il 2015 e 2016 (1,3% e 1,6% contro il 2% del governo Letta), mentre si spinge ottimisticamente all’1,8% e 1,9% per il 2017 e 2018.
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Marxismi e Classi
L'affermazione, secondo la quale "la crisi del capitale internazionale è anche la crisi del sistema statale internazionale", così come viene espressa da Sol Picciotto, nel "Dibattito sullo Stato" di "Open Marxism", è un evidente truismo, che, tuttavia, rischia di diventare ambiguo e fuorviante, quando si pensa, o si porta a pensare, che quello che stiamo affrontando non sia un'unica medesima crisi, ma che si possa trattare, invece, di due differenti crisi. Del resto, l'approccio da parte di Simon Clarke allo Stato, avviene nei termini per cui "I nuovi approcci che emergono, conservano l'insistenza socialdemocratica sull'autonomia dello Stato, al fine di sottolineare la specificità della politica e l'irriducibilità della politica ai conflitti economici". Dal momento che per "Open Marxism", il "politico" e "l'economico" sono separati in modo irriducibile, ne consegue che, a livello di mercato mondiale, ci sono due crisi separate in modo irriducibile: una crisi economica capitalista, ed una crisi del "sistema Stato"; dove la crisi del capitalismo sarebbe determinata dalla legge del valore e la crisi dello Stato sarebbe determinata dalla lotta di classe.
Il "difetto" dei marxisti classici del periodo fra le due guerre, nelle parole di Picciotto, sarebbe stato quello per cui "Le contraddizioni dell'accumulazione" sono state troppo spesso pensate come 'leggi economiche' operanti dall'esterno sulle relazioni politiche fra le classi." Ovviamente, l'obiezione pone la domanda: "Dall'esterno di cosa?" La risposta, si limita ad insistere che la "crisi economica" è la crisi di "una forma, storicamente specifica, del dominio di classe".
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Euro-exit concordata o "disordinata", da sinistra o da destra
Una via di composizione ragionata
di Quarantotto
1. In margine all' "evento" oggettivamente costituito dal convegno di a/simmetrie di ieri, alcune osservazioni legate allo specifico tema, "Un'europa senza euro", che era poi il baricentro su cui si aggiravano l'insieme degli interventi.
La maggior focalizzazione del tema, non a caso, è venuta dal dibattito finale tra gli esponenti politici intervenuti.
Il clima inevitabilmente pre-elettorale ha agevolato prese di posizione (almeno un pò) più stringenti; se non altro perchè in questa fase, nulla si può ancora escludere sull'esito delle elezioni, in termini di composizione delle forze politiche che risulterà dal voto e che potrebbe o meno essere destabilizzante dell'attuale governance deflattivo-finanziaria.
La stessa evoluzione europea del sentiment sulla moneta unica, rischia infatti di far apparire "cauta", se non superabile dagli eventi, la posizione del, diciamo così, fronte italiano del dissenso.
2. Provo a partire da una cosa affermata in quel dibattito da Fassina e che, come ho già detto su twitter, contiene in sè una obiettiva verità: se si guarda all'effettivo contenuto dei trattati, e quindi al disegno consolidato che perseguono, incentrato com'è, fin dallo SME, sul coronamento di un modello socio-economico legato al vincolo monetario "one size fits for all" (con tutte le sue implicazioni), immaginare un'euroexit concordata esigerebbe una convergenza, un'apertura alla revisione dei rapporti di forza, almeno pari a quella della stessa revisione dei trattati.
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Chi ha paura di essere libera?
di Elisabetta Teghil
Contributo per l’Incontro Nazionale Separato/Seconda parte/ del 13 aprile 2014 “I ruoli, le donne, la lotta armata/ questioni di genere nella sinistra di classe”
La lettura vincente delle stagioni passate avanza pretese di assolutismo e di valore extratemporale mentre non è altro che la manifestazione della verità della classe e del genere dominante.
Dietro la seriosità e l’accademicità degli studi e dei saggi con cui si racconta la nostra storia, si celano la unilateralità e la manipolazione e la falsificazione della stagione del femminismo.
E’ una lettura violenta ed ipocrita che mira, non solo a riscrivere la storia, ma a rimodellarla e, con lei, la nostra coscienza, dimenticando che la coscienza personale non è altro che coscienza sociale.
Il femminismo ha rivelato un mondo nuovo, è stato ed è l’arma della libertà nelle nostre mani.
E’ stato ed è questo o non è niente.
Il patriarcato intimidisce, esige, vieta, minaccia, coltiva la rassegnazione, offusca la coscienza e i desideri delle donne.
Il femminismo rivela il mondo nuovo, smaschera la pretesa del patriarcato di essere eterno ed immutabile. E’ la vittoria sulla paura, è stato ed è coscienza di forza, di rinnovamento, legata al nuovo, al futuro, è una macchina necessaria per sgombrare la strada e permettere il nostro cammino.
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Il progetto eurasiatico si scontra con le politiche imperialiste della Triade
Samir Amin
1. L'attuale scenario globale è dominato dal tentativo dei centri storici dell'imperialismo (Usa, Europa centrale e occidentale, Giappone: successivamente definiti "la Triade") di mantenere un loro controllo esclusivo sul pianeta attraverso una combinazione di:
- le cosiddette politiche economiche neoliberali di globalizzazione, che permettono al capitale finanziario transnazionale della Triade di decidere autonomamente su ogni questione, nel suo esclusivo interesse;
- il controllo militare del pianeta da parte degli Usa e dei loro alleati subordinati (Nato e Giappone), in modo da annichilire ogni tentativo, di qualsiasi Paese non appartenente alla Triade, di muoversi fuori del suo giogo.
In questo senso, tutti gli Stati del mondo che non sono della Triade sono nemici o potenziali nemici, eccetto quelli che accettano una completa sottomissione alla strategia politica ed economica della Triade, come le due nuove "repubbliche democratiche" di Arabia saudita e Qatar! La cosiddetta "comunità internazionale", a cui i media occidentali si riferiscono in continuazione, è quindi ridotta al G7 più Arabia saudita e Qatar.
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Perchè e come l'euro va eliminato
di Domenico Moro
“Sono sicuro che l’euro ci obbligherà ad introdurre una serie di strumenti di politica economica. È politicamente impossibile proporli ora. Ma un giorno ci sarà una crisi e nuovi Strumenti saranno creati.”
Romano Prodi, Financial Times, ottobre 2001
“So bene che il Patto di stabilità è molto stupido, come tutte le decisioni che sono rigide.”
Romano Prodi, Le Monde, dicembre 2002
1. Una crisi di straordinaria gravità perché strutturale
Non ha senso parlare di ripresa economica, di lotta alla disoccupazione, di difesa del welfare e della democrazia in Italia o in Europa senza fare i conti con l’euro e senza assumere una posizione chiara in merito. Né è possibile procrastinare un tale chiarimento perché i dati ci dicono che quella in corso è la crisi economica più grave dal ’29, se non dall’unificazione d’Italia.
Nel 2013 il Pil italiano è risultato inferiore del 7 per cento rispetto al 2007, ultimo anno pre-crisi1 . L’indice della produzione industriale, fatto 100 nel 2007, è risultato ancora a quota 75 nel 2013. Eppure, a sei anni dall’inizio delle crisi precedenti, negli anni ’70 e ’90, l’indice era risalito rispettivamente a 105 e a 120 punti rispetto all’indice 100 del rispettivo anno pre-crisi2. Secondo l’ufficio studi di Confindustria, il nostro Paese ha già distrutto un quinto della sua capacità manifatturiera3. Intanto, tra 2001 e 2011 gli addetti alla manifattura sono diminuiti di quasi un milione di unità, pari al -20 per cento4. La perdita di capacità manifatturiera è grave per un Paese come l’Italia che ha un’economia di trasformazione.
Solo esportando manufatti il nostro Paese può acquistare le materie prime (energetiche e non) di cui abbisogna e di cui è totalmente priva. La formazione di un attivo commerciale con l’estero negli ultimi due anni non deve ingannare. Nel 2013, in particolare, l’attivo è il risultato del crollo delle importazioni (-5 per cento), causato dal crollo del mercato interno, invece che la conseguenza di un inesistente aumento delle esportazioni (+0 per cento)5. In ogni caso, anche se ci fosse un limitato aumento delle esportazioni questo non sarebbe in grado di compensare il crollo della dei consumi interni (-2,2 per cento) 6.
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Ecco svelato l'imbroglio del DEF
di Leonardo Mazzei
Al liceo "Dante" i compagni lo chiamavano «il bomba». Soprannome azzeccato come pochi. Certo, presentando il Documento di economia e finanza (DEF), il bomba ha dovuto darsi una calmata: niente slide, né sforature dei vincoli europei, ma tuttavia tante balle da far impallidire perfino il ricordo delle performance del suo amico barzellettiere.
Ha torto perciò Massimo Giannini (La Repubblica del 9 aprile) nel ritenere che l'imbonitore fiorentino stia tornando nel «mondo reale». Non ci sta tornando affatto, che le capacità illusionistiche sono il suo unico piatto forte. Se per una volta è apparso meno irreale del solito è solo perché l'imbroglio sta già tutto nel DEF e nelle sue cifre.
Ce ne occuperemo perciò nel dettaglio. Ma prima è necessaria una premessa: a Renzi oggi interessa solo e soltanto una cosa, il risultato che riuscirà a conseguire alle elezioni europee. Questo obiettivo viene prima di tutto, a questo obiettivo tutto è finalizzato. La sarabanda propagandistica è dunque destinata a continuare, con le mistificazioni populistiche su tagli, rottamazioni, costi della politica, semplificazioni, eccetera. Ma al Renzi populista dedicheremo un apposito articolo, qui ci interessa invece andare a vedere come le trovate propagandistiche del bomba vadano ad intrecciarsi con i vincoli europei. E da questo punto di vista il DEF è un buon banco di prova.
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La congiura contro i giovani
Nicola Villa
La congiura contro i giovani è un libro radicale e importante che arriva dopo più di dieci anni di studi dal primo libro del suo autore, Il furto. La mercificazione dell'età giovanile (L'ancora del Mediterraneo 2000). Quello di Laffi è un libro radicale per l'estrema consapevolezza, più antropologica che sociologica, su quanto le regole del mercato abbiano mutato il nostro rapporto con le cose e con i consumi. La congiura contro i giovani, è vero, è un libro che capovolge – l'autore direbbe smaschera – il ritornello dei media, degli esperti e dei genitori sulla crisi dei giovani. La crisi è del mondo e della società degli adulti, il rifiuto dell'esperienza, delle menzogne e delle aspettative di questo mondo è una difesa legittima da parte dei giovani.
Per arrivare a demistificare quello che è definito l'ultimo "fotogramma" di una rinuncia a una vita autentica giovanile, Laffi ripercorre tutto il film già visto, dalla culla ai trent'anni, per scoprire che c'è una regia già decisa, una sceneggiatura già scritta che i giovani sono costretti a seguire. Il titolo di questo film potrebbe essere quello del prologo, "nascere in una società assurda", perché già da una nascita sempre più medicalizzata, in realtà anche prima nelle gravidanze dipendenti dalle macchine, il neonato è pedinato da pediatri e medici, è controllato da concetti arbitrari quali norma, media e percentile, è segnato dalla provenienza sociale. Nel nostro paese infatti, tra i più diseguali e con meno mobilità sociale d'Europa, statistiche Istat alla mano, è praticamente impossibile che il figlio di un operaio possa diventare medico o magistrato. L'"ossessivo regime di confronto" in cui è calato il bambino è con la norma, e la norma è il mercato.
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Euro, diamo la parola ai cittadini
di Enrico Grazzini
Sì, lo confesso, sono un euroscettico, anzi di più, sono euro-contro, ma sono anche antifascista e di sinistra. Sì lo confesso: voto lista Tsipras ma sono anche per recuperare la sovranità nazionale per contrastare questa Europa anti-democratica e oppressiva.
Lo stato nazionale non è un ferrovecchio da buttare come suggerisce l'ideologia liberista della globalizzazione. Infatti solo nelle loro nazioni (e certamente non nell'Unione Europea) i popoli riescono a esercitare la democrazia. La democrazia nazionale è nata con decenni di lotte popolari e ha realizzato lo stato sociale. Non buttiamola via, come vorrebbe la destra liberista europea e italiana; difendiamola. Recuperare la sovranità nazionale non significa rincorrere lo sciovinismo nazionalista e xenofobo di Marine Le Pen, o sognare di riscattare improbabili glorie del passato: al contrario, indire dei referendum nazionali su euro e fiscal compact significa decidere per un futuro migliore.
Confesso: sono contro questa Europa che agisce in nome e per conto di una finanza malata e delle banche sovranazionali “troppo grandi per fallire” (ma che sono in grado di fare fallire gli stati più deboli).
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