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L’enigma dello Stato islamico: potere, soldi, guerra
Riccardo Narducci
Nell’epoca della globalizzazione determinate vicende assumono una conformazione totalizzante: non siamo più legati soltanto a ciò che accade nel nostro Paese, ma crisi, conflitti, mercato, politica sono dinamiche che oltrepassano i confini nazionali. Fra queste non può che esserci la questione legata al cosiddetto Stato Islamico الدولة الإسلامية (al-Dawla al-Islāmiyya) detto anche “Isis” o “Is” costituitosi tra la Siria, la Libia e l’Iraq il 3 gennaio 2014. Il governo, ufficialmente un Califfato guidato dal califfo Abu Bakr al-Baghdali, ha posto la sua capitale nella città di Al-Raqqa, una propria moneta, il Dinaro dello Stato Islamico, un proprio inno nazionale e un proprio motto Bāqiya wa Tatamaddad “Consolidamento ed espansione”. I terroristi che hanno costituito questo nuovo sistema politico, gli jihadisti, riescono a gestire problematiche economiche enormi, legate ai costi della guerra e del terrorismo internazionale.
Essi ormai operano attraverso canali non bancari, trattando petrolio e contanti non tracciati. I corridoi principalmente battuti sono quelli dell’Iraq nord-occidentale e quello della Siria nord-orientale, lontani da controlli stranieri. Per comprendere meglio dove finiscano i proventi di Is, e quanto l’occidente debba realmente preoccuparsi di questo “Stato”, farò una premessa legata alla religione su cui questi terroristi fanno riferimento: l’Islam.
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Monsters
Tracce per la decostruzione dell’immaginario distopico post-Charlie Hebdo
di Gaia Giuliani
Nelle righe che seguiranno proverò, in linea e in dialogo con quanto scritto da Gabriele, a comprendere quanto dietro all’utopia della (ri)fondazione della comunità immaginata (dei buoni, dell’occidente) stia il delinearsi di una codificazione del mostruoso che, sin dall’11 Settembre, vede nel maschio musulmano non-bianco l’altro che per contrasto definisce il Noi. La letteratura critica è, per fortuna, molto vivace e tocca tantissimi temi – quello dell’islamofobia come eredità coloniale, della nuova fondazione dello stato ‘morale’ e conservatore mediante omonazionalismo e femonazionalismo (ossia la strumentalizzazione ideologica da parte del discorso nazionalista dei discorsi emancipazionisti delle formazioni gay e femministe) contro il barbaro immorale, il razzismo multiculturalista, le nuove forme di razzismo culturalizzate. Non sto ora a darne una descrizione approfondita, ma delle fantasie di bianchezza e delle gerarchie patriarcali ed eterosessiste abbiamo scritto in ciascuno dei brevi saggi apparsi in Distopie.
Mi voglio invece soffermare sulla costruzione del Noi – bianco, borghese, cristiano, ‘moralista’ e conservatore – e dei suoi nuovi abietti, i nuovi mostri ‘alieni’ ad una supposta civiltà occidentale che viene ora descritta quanto mai omogenea e solidale al suo interno.
Ciò che vedo di solidale è solo il consenso dei potenti alle strategie neoliberiste di ristrutturazione economica, sociale e culturale, e a parte ciò, non molto altro, ‘nonostante i proclami’ – o forse sarebbe meglio dire ‘suffragate e sostenute dai proclami’ – su diritti, integrazione e uguaglianza di genere alla base dei finanziamenti europei alla ricerca e alle politiche nazionali e comunitarie.
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Sulla rottura del dispositivo keynesiano
di Biagio Quattrocchi
Recentemente Sandro Mezzadra e Toni Negri hanno aperto, per il collettivo Euronomade, una riflessione sulla concatenazione dell’imminente appuntamento elettorale in Grecia e su quello successivo, che si terrà in Spagna verso la fine dell’anno. La posta in gioco di questo doppio passaggio elettorale, senza nessuna retorica e senza alcuna particolare ingenua illusione, resta elevata. Non è in discussione né la rottura lineare del regime neoliberale europeo, né, nel tempo immediato, la definizione di un progetto compiutamente post-liberista su scala continentale. Ma si potrebbe trattare pur sempre di una rilevante rottura politica, qualora le più rosee previsioni elettorali per le due “nuove formazioni di sinistra” – Syriza e Podemos – dovessero essere confermate. Per cui, come scrivono gli autori: «questo non ci impedisce di cogliere la rilevanza che specifiche elezioni possono avere dal punto di vista della lotta di classe». Per noi, che pratichiamo la politica a partire dalla centralità delle lotte sociali, è in discussione innanzitutto la relazione tra queste lotte e la “verticalità” del soggetto politico. O, ancor più in là, il rapporto tra queste ultime due dimensioni dell’azione politica, quella istituzionale del governo e l’apertura di un terreno costituente per l’auto-organizzazione del Comune.
La rilevanza e l’urgenza di questo dibattito, è data dalle condizioni materiali che si sono concretamente determinate in questi due paesi. Il punto non è quello di discutere su un piano di trascendenza se le relazioni poc’anzi accennate possono essere in assoluto pensate o agite. Qui, si tratta di comprendere che in questi due paesi, nella violenza dell’attuale crisi, le lotte sociali in qualche caso hanno spinto, in altri hanno direttamente assunto su di sé, questo nuovo e inedito piano dell’agire politico. Eludere queste questioni sarebbe come giocare a mosca cieca. Al contempo, eludere il rischio di un “riassorbimento” delle stesse lotte sul piano istituzionale sarebbe da stupidi.
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Cosa sapete della Grecia? (fact checking)
di Alberto Bagnai
Nei prossimi giorni si parlerà molto di Grecia. Ma voi, della Grecia, cosa sapete? Se siete qui per la prima volta, è probabile che sappiate solo quello che avete potuto apprendere dai mezzi di comunicazione italiani.
L'associazione a/simmetrie segue da quando si è costituita (due anni or sono) la vicenda greca, e ha raccolto autorevoli testimonianze di prima mano, che trovate sul suo sito.
Ve ne parlerò dopo, ma qui voglio occuparmi di quello che a noi è arrivato attraverso i mezzi di comunicazione. Cosa vi hanno detto, questi mezzi di comunicazione, e voi cosa avete, quindi, potuto capire?
Vi hanno detto che la Grecia era il più gran successo dell'euro.
Forse ve ne siete dimenticati, ma prima che la Grecia venisse ridotta a un cumulo di macerie dalle politiche della troika, qualcuno disse che essa era stata il più gran successo dell'euro proprio perché l'euro l'aveva spinta ad adottare queste politiche. Quel qualcuno era Mario Monti:
Quando quella persona disse quelle parole, la Grecia si trovava nella posizione evidenziata dal puntino rosso:
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Gli effetti di un’uscita dall’euro su crescita, occupazione e salari
Riccardo Realfonzo e Angelantonio Viscione
L’analisi tecnica dimostra che hanno torto sia i catastrofisti sostenitori dell’euro senza se e senza ma sia gli ingenui teorici della moneta unica come origine di tutti i mali. L’euroexit potrebbe essere una strada per tornare a crescere, ma al tempo stesso cela gravi rischi, soprattutto per il mondo del lavoro. A ben vedere, tutto dipende da come si resta nell’euro e da come, eventualmente, se ne esce.
1. Con l’austerity l’euro non regge
È dalla fine del 2007 che l’eurozona ha smesso di crescere e i processi di divergenza tra i Paesi centrali e quelli periferici si fanno sempre più impetuosi[1]. Continuando con le politiche economiche di austerità imposte dai Trattati la crisi dell’eurozona è solo questione di tempo[2]. D’altra parte, la permanenza dei paesi periferici nell’euro, nel quadro delle politiche restrittive, produce effetti sociali ed economici drammatici. Il caso italiano è eloquente: stiamo assistendo a un lento, progressivo, declino; con una economia ampiamente decresciuta, la disoccupazione dilagante, una distribuzione del reddito sempre più diseguale, la ritirata dello stato sociale. Certo, cambiare il segno delle politiche europee sarebbe senz’altro l’opzione migliore. Ma si tratta di una soluzione politicamente sempre meno probabile, dal momento che la Germania e i suoi paesi-satellite continuano a respingere ogni apertura in tal senso. Bisogna quindi domandarsi quali potrebbero essere le conseguenze di una fuoriuscita dall’euro.
Naturalmente, non è semplice prevedere gli scenari successivi a una crisi dell’euro. Anche perché molto dipenderebbe dalla possibilità che l’euroexit coinvolga uno o più Paesi, e grande rilievo avrebbe il “peso” economico-politico di tali paesi. Ancora, le cose cambierebbero molto se le fuoriuscite fossero o meno coordinate e se sfociassero o meno in uno o più accordi di cambio. Ed è inutile dire che su tutto ciò per adesso si brancola nel buio.
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La sinistra assente
Francesco Algisi intervista Domenico Losurdo
Domenico Losurdo è professore emerito di Storia della filosofia presso l'Università degli Studi di Urbino. Autore di numerose pubblicazioni – tra le quali ricordiamo "Controstoria del liberalismo" (Laterza, 2006), "Stalin. Storia e critica di una leggenda nera" (Carocci, 2008), "La lotta di classe" (Laterza, 2013), "Nietzsche, il ribelle aristocratico" (Bollati Boringhieri, 2014, II edizione) – ha recentemente dato alle stampe "La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra" (Carocci, 2014). Al pari dei precedenti, anche quest'ultimo saggio si legge con grande profitto. Su alcuni dei temi affrontati nel testo, abbiamo rivolto alcune domande all'Autore.
Prof. Losurdo, lei scrive che "ogni leader sgradito a Washington, che si tratti di Castro, Gheddafi o Saddam Hussein, sa che deve guardarsi quotidianamente e in ogni istante della giornata dalle trame e dai tentativi di assassinio orchestrati dalla CIA" (pag.127). Questo fatto incontestabile giustifica, a suo avviso, il mancato (o comunque "problematico") sviluppo "di rapporti realmente democratici all'interno dei paesi più deboli" (pag.136) e costretti "a vivere sotto l'incubo dell'aggressione" (pag.194) da parte degli USA?
Rispondo formulando a mia volta una domanda: il pericolo del ripetersi negli USA di attentati terroristici «giustifica» la decisione di rinchiudere a Guantanamo, senza processo e anzi senza neppure una notificazione del reato contestato, persone della più diversa età (compresi ragazzini e vegliardi) e di torturarle sistematicamente? E «giustifica» la decisione di procedere, grazie ai droni, a esecuzioni extragiudiziarie senza curarsi neppure dei cosiddetti «danni collaterali»?
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Contro Houellebecq
La sottomissione di Sisifo
di Lorenzo Mecozzi
Prima di iniziare la lettura dell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, Soumission (Sottomissione, nella traduzione italiana Bompiani, uscita nelle librerie il 15 gennaio), e viste le polemiche suscitate dal romanzo a seguito degli eventi degli ultimi giorni, avevo iniziato a far mente locale sul rapporto tra romanzo e morale, tra i diritti del racconto e i doveri del romanziere, ma soprattutto sulle responsabilità del giudizio critico.
Per la vicinanza tematica e di visione del presente che lega Houellebecq a Walter Siti (due “apocalittici-integrati” della letteratura contemporanea secondo la bella definizione di Carlo Mazza Galanti), per prima cosa mi era tornata in mente la lunga ed appassionata discussione nata su Le parole e le cose, a seguito di un articolo nel quale Gianluigi Simonetti rispondeva al saggio che Andrea Cortellessa aveva voluto dedicare a Resistere non serve a niente di Siti. Così avevo iniziato a riflettere su quel “purtroppo”, pronunciato da Cortellessa, che aveva dato il via alla discussione (“E Resistere non serve a niente – purtroppo – è il libro più bello dell’anno”) e sui tre argomenti con i quali Simonetti ne aveva negato la legittimità (l’«argomento-Bataille», l’«argomento De Sanctis», l’«argomento Engels» – anche se le definizioni sono sempre di Cortellessa), preparandomi a dover affrontare problematiche simili nel recensire Houellebecq. Le prime pagine del romanzo, tuttavia, disinnescavano ogni preoccupazione, almeno nel senso che le roboanti critiche al libro lasciavano immaginare, consegnandomi alla lettura di un’opera allo stesso tempo tipicamente houellebechiana e in qualche modo diversa da tutti gli altri romanzi di Houellebecq.
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Francia – l’appello alla “santa alleanza”*
di Alain Bihr
Al di là dell’inevitabile emozione e della legittima condanna, come (re)agire all’assassinio di una dozzina di persone nei locali di Charlie Hebdo e fuori, di cui buona parte della redazione, seguito da quello di altre quattro persone in un supermercato kasher di Porte de Vincennes? E soprattutto come non re/agire?
Non si tratta, infatti, di urlare con i lupi dell’estrema destra e della destra estrema, indistintamente, che additano già l’insieme dei musulmani che vivono in Francia, e magari in tutto il mondo, come responsabili collettivi e i colpevoli provati di quest’azione, in nome della presunta natura intrinsecamente criminale dell’islam o del presunto “scontro di civiltà”, che lo renderebbe incompatibile con la modernità occidentale. Ciò facendo, queste correnti non fanno che continuare e aggravare la loro normale propaganda razzista, di cui l’islamofobia costituisce una dimensione essenziale, additando tutti/e quelli/e quelle che mettono insieme sotto il nome di “immigrati” come capri espiatori gravati di tutti i mali, reali o immaginari, che ci assillano e come bersagli predestinati, che alcuni non hanno tardato a perseguire nelle ultime ore prendendosela con alcune moschee, negozi o ristoranti frequentati da musulmani.
Di fronte a queste imprese di strumentalizzazione politica dell’odio razziale occorre continuare a ricordare che, come tutte le religioni, l’islam cambia nello spazio e nel tempo e che non lo si può ridurre alle sue tendenze fondamentaliste o integraliste e, meno ancora, ai movimenti, gruppi o individui che possono richiamarsi al jihadismo.
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Un mondo di simulacri: sul futuro della democrazia e del capitalismo
Andrea Muzzarelli* intervista Roberto Orsi
Con immenso piacere, ricevo e pubblico l'intervista di Andrea Muzzarelli al Prof. Roberto Orsi (PhD alla London School of Economics, docente e ricercatore all’Università di Tokyo), che abbiamo avuto già l'onore di ospitare in questo sito, con questo bellissimo articolo
Cominciato sotto il segno di due eventi – la strage di Parigi e la mossa a sorpresa della BNS sul franco svizzero – che mostrano quanto sia instabile l’ordine globale sia sul piano geopolitico che su quello economico-finanziario, il 2015 promette di porre un’altra pietra miliare sull’impervia strada della Grande Crisi che ci accompagna dal 2008.
Con la complicità del mondo politico, la finanza internazionale e le principali banche centrali ha scientemente deciso di nascondere la polvere sotto il tappeto, ignorando la realtà e gonfiando una bolla infinitamente più grande di quella appena scoppiata – secondo una ferrea logica di irresponsabilità che ci appare come una delle cifre stilistiche fondamentali di quest’epoca. La Grande Crisi ha comunque l’indiscutibile merito di spingerci a mettere in discussione teorie, idee, categorie concettuali, “valori” che nello stanco Occidente si davano ormai per scontati, acquisiti in via definitiva. Se il sonno della ragione genera mostri, il declino di una riflessione filosofico-politica “forte” rischia infatti di renderci ciechi di fronte al progressivo svuotamento di parole come “democrazia”, “mercato”, “capitalismo”, “denaro”, “libertà”.
Queste sono alcune delle considerazioni chi ci hanno spinto a rivolgere alcune domande al professor Roberto Orsi, PhD in Relazioni Internazionali alla London School of Economics. Docente e ricercatore all’Università di Tokyo, Orsi è l’acuto e originale autore di alcuni articoli lucidi e impietosi sul declino dell’Italia (diventati rapidamente virali sul web), e in tempi recenti si è occupato della crisi ucraina e del futuro dell’ordine mondiale.
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"Non è affatto detto che la fine dell’euro comporti una svalutazione di una 'nuova lira' italiana"
Cesare Sacchetti intervista Gennaro Zezza*
Professore secondo i recenti dati dell’Istat, l’Italia nell’ultimo trimestre del 2014 ha superato il rapporto deficit/PIL dei parametri di Maastricht, toccando quota 3,5%. Il Governo ha dichiarato che con le misure correttive inserite nella legge di stabilità, conta di ridurre la percentuale fino al 3% nel corso dell’anno. Lei crede che tutto ciò basterà a Bruxelles, o corriamo il rischio di nuove misure correttive con un commissariamento ancora maggiore? Quali sono gli effetti delle politiche procicliche di riduzione del deficit in questa fase congiunturale?
Quanto è successo in Europa, ed in particolare in Grecia, negli ultimi anni dovrebbe aver chiarito che il tentativo di ridurre il rapporto tra debito pubblico e PIL con una contrazione fiscale – aumentando le tasse e riducendo la spesa pubblica – ha effetti devastanti sull’economia. Il reddito diminuisce, e con il reddito cala anche il gettito fiscale, l’economia va a rotoli e – se pure si riesce a diminuire il deficit, la caduta contestuale del PIL rende la manovra insostenibile per il Paese. La Grecia ha raggiunto a stento un precario equilibrio dei conti pubblici, pagando un prezzo esorbitante in termini di disoccupazione e di povertà. I governi italiani non sembrano aver imparato la lezione: a mio avviso la lunga recessione italiana è dovuta in gran parte alla politica di “risanamento” dei conti pubblici attuata nel momento peggiore. Sarebbe invece urgente sospendere i vincoli imposti dai trattati europei per pensare alla creazione di posti di lavoro.
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Grexodus
Elezioni, debiti, e il fantasma del post-auto-colonialismo
di Akis Gavriilidis
Pubblichiamo un primo contributo in vista delle elezioni greche del prossimo 25 gennaio. Si tratta di un testo di notevole interesse, perché può aiutare a prendere le distanze dalle contrapposizioni domestiche, sia dalla fedeltà dichiarata ai principi sia dallo schieramento occasionale. Akis Gavriilidis affronta in maniera originale due nodi fondamentali: il ruolo e la posizione dei movimenti e lo specifico significato politico del momento rappresentativo nell’attuale situazione greca. Per Akis il rapporto tra movimenti sociali e SYRIZA non è riducibile all’alternativa tra la presa di parola diretta e il silenzio mentre parla il partito. Allo stesso tempo il momento rappresentativo è preso contraddittoriamente e ineludibilmente dentro la crisi della rappresentanza. Il sostegno elettorale a SYRIZA non si configura perciò come una cessione della possibilità di azione, ma come un modo per uscire dalla minorità in cui i greci sono stati obbligati negli ultimi anni, in quanto non adeguati agli standard del regime neoliberale. La possibilità di rendere contagiosa per l’Europa quella che è stata indicata come l’eccezione greca è una delle poste in gioco. Mai come in questo caso, delle elezioni nazionali sono un problema che va ben oltre il confine nazionale. Mai come in questo caso l’eventuale riaffermazione della sovranità porterà il segno della sua crisi.
***
Se in una repubblica parlamentare le elezioni sono viste come una specie di rappresentazione o sostituto istituzionale dello stato di eccezione al livello del potere costituito, cioè come il momento che sospende temporaneamente la normalità per ristabilirla, allora la Grecia negli ultimi anni ha vissuto uno stato di «eccezione permanente» anche da questo punto di vista.
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Amadeo Bordiga e il Partito Comunista Internazionale
di Diego Giachetti
Nel 1929 Trotsky definì «vivente, muscoloso, abbondante» il pensiero di Amadeo Bordiga, il quale si era schierato al suo fianco nella lotta contro lo stalinismo, nonostante la diversità dei rispettivi punti di vista su alcuni problemi di non poco conto. Non a caso la sua espulsione dal Partito Comunista d’Italia, avvenuta nel marzo del 1930, fu motivata proprio sulla base del suo “filostrotskismo” manifestato nel confino di Ponza. L’espulsione giungeva a conclusione di una parabola politica consistente, nella quale il rivoluzionario napoletano aveva svolto un ruolo di primo piano nel partito socialista e poi in quello comunista sorto nel 1921. L’arco di tempo che comprende questa lunga e intensa militanza politica è l’oggetto del lavoro svolto e pubblicato da due autori, Corrado Basile e Alessandro Leni (Amadeo Bordiga politico, Colibrì, Torino, 2014). Nel libro si affiancano in modo circostanziato i fatti della lotta di classe con il pensiero e l’operato di Bordiga, l’attenzione si concentra in particolare sul lavoro politico compiuto da Bordiga fino al 1926, data con la quale si identifica la sconfitta della tendenza da lui rappresentata. La biografia politica del protagonista è attentamente messa in relazione al contesto storico, sociale, politico entro il quale si sviluppò evitando avvitamenti celebrativi su se stessa. Il lettore percepisce, pagina dopo pagina, il confronto vivo e vivace tra interlocutori politici e contesto storico entro il quale si sviluppò l’analisi bordighiana di fenomeni rilevanti per la storia del movimento operaio italiano e internazionale: dalla prima guerra mondiale, alla rivoluzione russa, alla fondazione del nuovo partito comunista, all’emergere della reazione fascista accanto ai primi sintomi di involuzione staliniana del potere bolscevico.
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Destabilizzare per stabilizzare. Vale anche per gli attacchi di Parigi?
di Simone Santini
I fatti terroristici francesi potrebbero essere l'inaugurazione della terza fase delle 'primavere arabe'. Con un profondo rimodellamento geopolitico
I fatti terroristici francesi potrebbero essere l'inaugurazione della terza fase delle "primavere arabe".
La prima fase fu l'innesco dell'incendio nel grande progetto di rimodellamento del Medio Oriente allargato, un passaggio epocale nel mondo arabo simile a quanto visto in America Latina tra gli anni '70-'80, con il passaggio dai regimi autoritari a quelli democratici, e nell'Europa orientale con la transizione dal socialismo reale al capitalismo negli anni '90. Per ottenere tale risultato alcuni dei regimi di più lunga durata dovevano essere spazzati via o destabilizzati. Rivolte popolari ed insurrezioni armate sono servite a tale scopo.
La seconda fase è stata dominata per alcuni anni dal caos determinato, soprattutto, dalla lotta per il dominio, tutta intestina al mondo arabo, in particolare tra sauditi e qatarioti, per ottenere posizioni privilegiate e di controllo nella terza fase (lotta complicata anche dalla presenza della Turchia, che ha cercato di giocare un proprio ruolo autonomo ed avendo interessi diretti da salvaguardare nella regione allargata del Kurdistan).
La terza fase, tendente alla risoluzione dei conflitti, è cominciata con un attacco terroristico in Francia che, se inquadrato in una logica di strategia della tensione, potrebbe pienamente rientrare nella formula "destabilizzare per stabilizzare", già teorizzata e sperimentata in passato nei laboratori del terrorismo di Stato nei paesi NATO.
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Quante balle sulla Grecia e il suo debito!
Redazione di "il cuneo rosso"
La Grecia torna a fare notizia. Si è interrotto il silenzio sulle intollerabili misure di “austerità” (=impoverimento di massa) che hanno colpito gran parte della popolazione negli ultimi anni, e ora suona l'allarme sulla possibilità che l'"estrema sinistra" di Syriza vinca le prossime elezioni del 25 gennaio, e sulle catastrofiche conseguenze che ciò potrebbe avere sulle nostre vite e soprattutto sui nostri portafogli. Si sostiene da più parti, infatti, che "noi tutti" ("ciascun cittadino" dell'Europa) siamo creditori della Grecia, e se per caso la Grecia dovesse non ripagare il suo debito a seguito dell'avvento al governo di Syriza, ci trufferebbe circa 600 euro a testa, in quanto "a soffrirne le conseguenze non sarebbero potenti banche o speculatori misteriosi, ma gli Stati", e quindi "noi cittadini" (così Stefano Lepri, "La Stampa", 31 dicembre 2014). In definitiva, saremmo "noi", gente che vive del proprio lavoro, a pagare per il fatto che la Grecia, il cui debito statale è intorno al 175% del Pil, ha speso più di quanto poteva - il sottinteso, non troppo sottinteso, è che i greci (tutti i greci) hanno preteso di vivere al di sopra delle loro possibilità e presentano ora agli altri europei, a tutti gli altri europei, il loro conto-spese in rosso da ripianare.
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Sarete assimilati?
Due riflessioni sulla sovranità dello Stato e l’amministrazione delle periferie
Raffaele Alberto Ventura
Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro della banlieue. Catastrofe finale dell’entropia migratoria, paradigma dello “stato di eccezione” o rompicapo amministrativo, scenario post-atomico senza la deflagrazione d’alcuna bomba, la periferia francese è diventata un luogo cruciale del nostro immaginario politico. Mito ma anche concetto, paura irrazionale e profezia ragionevole. Il disaccordo sulle cause — tsunami demografico, delirio urbanistico, ideologia comunitarista, capitalismo selvaggio, ecc. — non serve a nascondere che qualcosa di terribile sta accadendo nella polis occidentale. Il ministro leghista che evoca per l’Italia un “rischio banlieue” non dice nulla di scandaloso e peraltro ripete ciò che disse il leader del centro-sinistra cinque anni fa: “Noi abbiamo le peggiori periferie in Europa. Non credo che le cose siano molto diverse rispetto a Parigi. È solo questione di tempo.” Bene, anzi male, ma tempo per cosa?
Il “rischio banlieue” non evoca semplicemente in un generale disfacimento della periferia — aumento della criminalità, deterioramento delle condizioni economiche, accentuazione dei conflitti comunitari: che sarebbero un rischio soltanto per chi vive — ma un fenomeno politico cruciale, ovvero la costituzione di spazi autonomi dalla giurisdizione statale.
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L'attentato contro Charlie Hebdo
L'occultamento politico e mediatico delle cause, delle conseguenze e della posta in gioco
Saïd Bouamama
«È ancora fecondo il ventre dal quale è uscita la bestia immonda» - Bertold Brecht
L’attentato contro il settimanale satirico Charlie Hebdo è destinato a segnare la nostra storia attuale. Resta solo da capire in che senso e con quali conseguenze. Nell’attuale contesto della «guerra al terrorismo» (beninteso, guerra esterna), oltre che di razzismo e di islamofobia di Stato, gli autori di questa azione hanno accelerato – coscientemente o meno – un processo di stigmatizzazione e isolamento della componente mussulmana, reale o presunta tale, delle classi popolari.
Sono già di per sé disastrose le conseguenze politiche dell’attentato per le classi popolari, ma peggioreranno ancora se non verrà proposta un’alternativa politica alla famosa «Unione Nazionale».
In effetti il modo in cui reagiscono i media francesi e una schiacciante maggioranza della classe politica è a dir poco criminale. Sono queste reazioni ad essere pericolose per il futuro, sono gravide di numerosi «effetti collaterali» e di futuri 7 e 9 gennaio, ancora più letali. Comprendere e analizzare per agire è oggi l’unico atteggiamento che possa permettere di evitare strumentalizzazioni e usi di un’emozione, di una collera e di una rivolta legittima.
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Una domanda semplice ad Alesina e Giavazzi
di Piergiorgio Gawronski
Sul Corriere, dopo aver ricordato che in Italia “il Prodotto interno lordo scende da 13 trimestri”, i due alfieri del liberismo nostrano offrono la loro ricetta 2015.0 per “porre fine alla recessione”. E spiegano: “La riforma del mercato del lavoro non basta. Ci vuole anche più domanda”. Bene. Cioè… insomma: se ci vuole più domanda, allora la riforma del mercato del lavoro non è che “non basta”, è proprio dannosa: deprime la domanda! “Ci vuole più domanda” é come dire che c’è un eccesso di potenziale di offerta. Ma il Jobs Act mira a stimolare ulteriormente questo potenziale; se proprio lo si vuole approvare, adesso, sarebbe meglio che entrasse in vigore quando la domanda si sarà ripresa.
Domanda (aggregata) nel linguaggio degli economisti significa spesa, acquisti, e – dal punto di vista delle imprese - vendite. In effetti il grafico dell’Istat sulle vendite delle imprese mostra che la domanda continua a contrarsi: in ottobre il calo a/a è stato -0,8%.
Ripetiamolo: non basta che il barista prepari “100 caffè all’ora” (Bagnai) e li poggi sul banco (con efficienza, produttività, onestà): deve anche venderli. E perché mai la gente non dovrebbe comprarsi un buon caffè caldo, con freddo che fa? Sì, è così: perché ha paura poi di trovarsi in difficoltà economiche - con la crisi, le nuove leggi che facilitano i licenziamenti, il debito pubblico che se esplode sarà peggio che in Grecia, ecc. Perciò s’indebolisce anche la domanda di lavoro da parte delle imprese (grafico sotto), e il cerchio si chiude.
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Il nuovo spirito del capitalismo
di Luc Boltanski e Ève Chiapello
[E’ uscita da poco la traduzione italiana di Le nouvel esprit du capitalisme (1999) di Luc Boltanski e Ève Chiapello (Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis). Questo è un estratto del saggio]
Il concetto di spirito del capitalismo, così come lo definiamo, ci permette di superare l’opposizione, che ha dominato buona parte della sociologia e della filosofia degli ultimi trent’anni – almeno per quanto riguarda i lavori che si collocano all’intersezione tra sfera sociale e sfera politica – tra le teorie, spesso di ispirazione nietzschiano-marxista, che hanno visto nella società solo violenza, rapporti di forza, sfruttamento, dominio e scontri di interessi e, sul fronte opposto, le teorie ispirate soprattutto alle filosofie politiche contrattualiste, che hanno posto l’accento sulle forme del dibattito democratico e sulle condizioni della giustizia sociale. Nei testi che fanno capo alla prima corrente, la descrizione del mondo appare troppo negativa per essere reale. In un mondo del genere non si potrebbe vivere a lungo. Mentre la realtà sociale descritta dai testi della seconda corrente è innegabilmente troppo rosea per essere credibile. Il primo orientamento teorico si occupa spesso del capitalismo, ma senza riconoscergli una dimensione normativa. Il secondo tiene conto delle esigenze morali che derivano da un ordine legittimo; ma, sottovalutando l’importanza degli interessi e dei rapporti di forza, tende a ignorare la specificità del capitalismo, i cui contorni si sfumano confondendosi nell’intreccio delle convenzioni su cui si fonda sempre l’ordine sociale.
Il concetto di spirito del capitalismo ci permette anche di coniugare all’interno di una stessa dinamica le evoluzioni del capitalismo e le critiche che gli vengono mosse. Nella nostra costruzione, infatti, faremo svolgere alla critica un ruolo determinante nei cambiamenti dello spirito del capitalismo.
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Parigi 2015, tappa strategica verso il disordine globale
Che si può ancora fermare
di Rodolfo Ricci
Prima o poi, bisognerà prendere coscienza che siamo tutti sulla stessa barca, anzi sullo stesso mare. Il Mediterraneo. Se ciò non accadrà, sarà la catastrofe. Dopo secoli di commerci, di domini incrociati tra est e ovest, di scambi economici e culturali a cui tutti hanno attinto ed attingono, forse ora, a distanza di 60 anni dalla fine – formale ma non sostanziale – della colonizzazione europea dell’Africa e del Medio Oriente, dovremmo prendere atto che siamo interconnessi, definitivamente.
Lo siamo in particolare, grazie all’immigrazione cosiddetta terzomondiale giunta in Europa dopo le ondate dei sud europei nel dopoguerra verso Francia, Gran Bretagna, Germania e altri paesi del nord Europa. Un’immigrazione che è il frutto della nostra geopolitica.
L’Europa è multiculturale di fatto, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso. Lo è da tempo, anche se le è sempre mancata adeguata coscienza. L’Europa, come dimostrano gli eventi della crisi, è interculturale (e ben problematica) anche al suo interno, come mostra solo per citare un esempio, il crescere delle espulsioni di cittadini intra-europei dai territori di altri stati membri causate da una costitutiva assenza di solidarietà tra i suoi paesi. (vedi: http://www.funkhauseuropa.de/av/audiobelgien100-audioplayer.html)
Adesso questa coscienza deve emergere.
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Sulla reificazione: nuove prospettive teoriche
Carlo Crosato
È possibile riarticolare il concetto di “reificazione”, scoprendone nuove dimensioni e aggiornando le vecchie? Una riconsiderazione di tale concetto avviene in Teorie della reificazione, volume curato da Alessandro Bellan per Mimesis
Spesso la filosofia si è contraddistinta per l’utilizzo di un lessico divergente rispetto a quello quotidianamente utilizzato e per ragionamenti intorno a oggetti ritenuti assolutamente ovvi. Operando in questa maniera, essa ha però via via perso la propria centralità, spesso confusa con la poesia o con pratiche meditative. Un processo di marginalizzazione quanto mai notevole oggi, in un’epoca in cui è l’apparato economico e finanziario a determinare i fini delle attività: attività che, perciò, devono rispondere a esigenze in larga misura estranee alla riflessione filosofica.
Di questo processo, tuttavia, la stessa filosofia ha a lungo parlato, attraverso una lunga serie di concetti, tra cui quello di “reificazione”. Alla esplicitazione di quest’ultimo è consacrato Teorie della reificazione (a cura del recentemente scomparso Alessandro Bellan, edito da Mimesis, nel 2013). L’obiettivo generale del libro, infatti, è chiarire il significato della reificazione, depurarlo da letture fuorvianti e da incomprensioni che lo identificano con altri concetti – quali l’alienazione (altro termine centrale nel pensiero marxiano) e il feticismo (su cui la Scuola di Francoforte ha molto ragionato, specie per voce di Adorno e Horkheimer) –; inquadrare la dinamica reificante all’interno delle relazioni che l’uomo intrattiene con il mondo, precisando in modo quanto più intensivo possibile il campo d’interesse.
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Considerazioni sulla strage di Charlie Hebdo
Diego Fusaro
Premetto che fino a qualche giorno fa non conoscevo neppure di nome il comico Dieudonné, prima che venisse arrestato per apologia di terrorismo. Premetto anche che, ascoltandolo, non lo trovo neppure poi divertente, e nemmeno condivido larga parte delle cose che dice, con un’ironia che anzi trovo piuttosto volgare e crassa.
Ma non è questo il punto. Il punto sta invece altrove. La vicenda del comico Dieudonné, arrestato per apologia di terrorismo, la dice lunga sull’ipocrisia dell’ordine neoliberale e sulla sua libertà di espressione a corrente alternata. La libertà di espressione è difesa fintantoché esprime liberamente ciò che il nuovo ordine mondiale vuole che sia espresso: volgare presa in giro delle religioni, delegittimazione degli Stati sovrani, identificazione senza riserve tra Islam e terrorismo, ecc. Non appena si devia dal percorso preordinato, si è puniti con l’accusa di terrorismo, la nuova arma con cui si metteranno a tacere le voci fuori dal coro. L’apologia di terrorismo costituirà, da qui in avanti, la nuova frontiera del politicamente corretto e della sua criminale strategia di diffamazione, persecuzione e silenziamento di ogni prospettiva non allineata.
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Riflessioni sui noti fatti parigini
Sebastiano Isaia
Il mondo islamico non ha conosciuto la rivoluzione borghese di tipo occidentale (dalla rivoluzione olandese a quella inglese, da quella americana a quella francese, dal Risorgimento tedesco a quello italiano), ed è precisamente questo il suo più radicale e cattivo vizio d’origine che tocca ogni aspetto della vita sociale dei Paesi che ne fanno parte. L’Islam, al contrario del cristianesimo, non è stato attraversato dalla Ragione, e questo punto Benedetto XVI, il Papa teologo tanto bistrattato e incompreso dal progressismo mondiale, lo aveva colto bene, ad esempio nella famigerata Lezione Magistrale tenuta all’Università di Ratisbona il 12 settembre 2006. Quel mondo non baciato dai Lumi sta ancora facendo i conti con questo cattivo retaggio storico e culturale, e anche l’Occidente ne paga le conseguenze, perché non solo esso non ha saputo o voluto favorire lo sviluppo della modernità nelle terre di Allah e di Maometto, ma ha fatto di tutto per renderle facili prede del fondamentalismo più retrivo e violento.
È, questa, una tesi che nei salotti buoni della cultura europea ha riscosso molto successo in questi tormentati e luttuosi giorni di dibattito intorno ai cosiddetti “valori repubblicani” e alla Civiltà Occidentale. Se posta nei termini corretti, vale a dire storico-dialettici, la tesi sopra esposta può anche offrire interessanti spunti di riflessione. Rimane da capire fino a che punto ha senso, al di là della strumentalità politico-ideologica certamente non posta al servizio della verità, continuare a parlare in modo astratto e astorico di Occidente, di Civiltà Occidentale.
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Il partito democratico getta la maschera
I primi due decreti attuativi del Jobs Act
di Joe Vannelli
Il 24 dicembre 2014 il governo Renzi ha approvato il testo dei primi due decreti attuativi collegati alla legge delega 10 dicembre 2014 n. 183, nota come Iobs Act. Il primo decreto riguarda i licenziamenti (sono 12 articoli); il secondo decreto (16 articoli) contiene invece le nuove norme sulla indennità legata alla disoccupazione (involontaria naturalmente, con esclusione delle dimissioni). Il meccanismo utilizzato non è di agevole comprensione per chi non sia un addetto ai lavori. In buona sostanza con il varo della legge delega l’esecutivo non ha più bisogno dell’approvazione parlamentare e dunque i decreti (una volta pubblicati in Gazzetta Ufficiale) sono ad ogni effetto in vigore. Ma va detto (ad evitare equivoci) che allo stato il percorso non è ancora concluso e che non possano escludersi modifiche (nel bene o nel male; più facile la seconda ipotesi vista la situazione politica). Nel seguito andrò ad esaminare le novità, per come attualmente codificate, senza poter escludere gli aggiustamenti di tiro che potenti gruppi di pressione richiedono in danno dei pur già bastonatissimi lavoratori (fissi e precari, autonomi e subordinati, tutti quanti). I due testi, varati con gran fretta, sono in discussione nelle commissioni lavoro della Camera e del Senato; in entrambe le commissioni gli unici a opporsi davvero sono i gruppi di Cinque Stelle (un po’ assottigliati) e di SEL (falcidiati, specie al Senato, dagli arruolamenti nelle furerie renziane, a partire dal capogruppo Migliore).
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Il default strisciante dell'Italia in un mondo pieno di incognite
Intervista a Paolo Cardenà
Dopo il grandissimo successo dalla prima intervista, LA DURA VERITA' SULL'ITALIA, torna su Tradingnetwork Paolo Cardenà, blogger di straordinario spessore - www.vincitorievinti.com - e consulente finanziario, per fare il punto della situazione attuale in questo inizio del 2015, tra aspettative sul QE in salsa europea, crollo del petrolio e del rublo, e le crescenti tensioni derivante dalle elezioni anticipate in Grecia, anche per le eventuali ripercussioni che queste potranno avere sull'euro e su tutti gli altri paesi periferici dell'eurozona, Italia in testa, di cui sotto possiamo vedere un grafico del 2014, dove si vede chiaramente come i mercati siano stati positivi di fatto nella prima parte dell’anno, sulle aspettative del “nuovo” governo made in trojka Renzi, e negativi invece nel secondo semestre, ritornando per ben due volte già sui 17500-18000 toccati a dicembre 2013 (tutto questo, nonostante lo spread sia praticamente sui minimi degli ultimi anni, gli sforzi di Draghi comunicativi e non di tenere alte le aspettative per il QE europeo, liquidità abbondante, prezzo del petrolio in decisa flessione. Basterebbe questo per dire che i mercati hanno già scaricato Renzi?).
Buona lettura.
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"Il Piano Draghi ideato per salvare l'euro e imporre l'Unione Politica non è sostenibile"
Intervista a Piergiorgio Gawronski*
Piergiorgio Gawronski. Economista, pubblicista. In passato ha lavorato all’ufficio studi della BNL, all’OCSE, all’UNCTAD, alla “policy unit” della Presidenza del Consiglio. E’ stato attivista e consulente di numerose Ong in Italia e all’estero (Amnesty International, Observatoire de la Finance). Cura un blog sul Fatto Quotidiano
Keynes definì i politici che gestirono la crisi degli anni '30 come dei “pazzi al potere”. Come dobbiamo definire i politici che dal 2011 ad oggi hanno catapultato l'Europa nella disoccupazione di massa, nella povertà diffusa, nella deflazione e nella rinegoziazione di diritti sociali acquisiti per seguire le stesse strategie fallimentari di quegli anni?
Sembra un andare sopra le righe, ma in realtà è proprio così. In passato, personalmente, nel 2011 li ho definiti personaggi straordinariamente incompetenti e mi riferivo in particolare alla Banca centrale europea, quella stessa istituzione che - Draghi ha coraggosamente ammesso, nel celebre discorso dell’Agosto 2014 di Jackson Hole - ha provocato il disastro attuale. Il presidente della Bce ha, nello specifico, sottolineato che gli spread schizzarono in su “non tanto per i debiti pubblici, bensì per l'assenza di una rete protezione adeguata della Bce”. Già…
Naturalmente ci sono altre motivazioni, oltre all'incompetenza. L’ho scritto in un mio articolo intitolato “La strategia della tensione della zona euro”, dove riportavo un dialogo con un mio caro amico.
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