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La natura deterministica di questa guerra
di ALGAMICA*
Di fronte alla aggressione terrorista dello Stato di Israle contro l’Iran, che fa il lavoro sporco per conto dell’Occidente, e agli Stati Uniti, che dopo tanto tentennare, sono intervenuti con i loro bombardieri B-2, molti temono che si sia oltrepassata una linea rossa. Tutto sta precipitando improvvisamente verso gli scenari politici, sociali e militari del secolo scorso?
Prima di addentrarci su questa domanda vogliamo chiarire un punto. Israele aggredisce perchè insieme all’Occidente, si è ficcato in un vicolo cieco nel genocidio del popolo palestinese, nella deportazione di tutti i palestinesi da Gaza. In sostanza agisce in preda a una crisi esistenziale infiammando l’intera area mediorientale. Gli Stati Uniti, che non vorrebbero impantanarsi in guerre che non possono vincere fino in fondo – basta vedere come è andata a finire per l’invicibile armada contro lo Yemen degli Houthi – di fronte a un pazzo che getta una bomba dentro una sala dove stai negoziando, è assalito dal dubbio amletico: « vorrei rilanciare l’american dream smettendo di promuovere guerre infinite, ma la guerra infinita è arrivata a me, mi lascio trascinare o non mi lascio trascinare? Temporeggio due settimane oppure agisco immediatamente sperando di risolvere il tutto con un paio delle mie super bombe? »
Dietro alla retorica anche per gli Stati Uniti e, di conseguenza, per l’insieme dell’Occidente, si pone lo stessa dilemma esistenziale. Sotto i colpi di una crisi generale dell’accumulazione e una crisi demografica, la cosiddetta civiltà occidentale si trova a dover segnare il passo in Africa, in Medio Oriente in Asia e in America Latina. La questione palestinese, anch’essa irrisolvibile nell’attuale quadro. Nonostante questi mesi abbiano segnato passaggi a favore di Israele, nel genocidio di Gaza e nella frantumazione della Siria cannibalizzata, lo Stato sionista non è in grado di reinvertire il corso della sua crisi. Circa l’aggressione militare israeliana all’Iran, Steve Bannon lucidamente sintetizzava il dilemma che continua a logorare gli Stati Uniti attraverso una domanda rivolta all’establishment israeliano:
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Utopie letali 2
di Carlo Formenti
Quasi dodici anni fa (ottobre 2013) usciva, per i tipi di Jaka Book, Utopie letali, un saggio in cui analizzavo gli svarioni teorici, le derive ideologiche e i miti che stavano sprofondando le sinistre radicali nella più totale incapacità di analizzare, e ancor meno di contrastare, le strategie di ricostruzione egemonica del progetto neoliberale che, dopo la crisi del 2008 che ne aveva evidenziato contraddizioni e debolezze, era impegnato a restaurare il consenso delle larghe masse occidentali, in parte tentate dalle insorgenze populiste. In quelle pagine accusavo, nell’ordine, le teorie postoperaiste che rimpiazzano la lotta di classe con fantasmatiche “moltitudini”; l’idiosincrasia dei movimenti libertari nei confronti di qualsiasi forma di organizzazione e potere politico (stato e partito eletti a simboli del male assoluto); la fascinazione delle tecnologie digitali gabellate per strumenti di democratizzazione economica, politica e sociale; l’eurocentrismo incapace di prendere atto dello spostamento dell’asse antimperialista verso l’Est e il Sud del mondo; il dirottamento dell’impegno politico e sociale verso obiettivi rivendicativi di carattere particolaristico (libertà civili e individuali versus interessi e libertà collettive).
Da allora l’offensiva capitalista si è incattivita, assumendo i connotati di un liberal fascismo di nuovo conio (confuso, ahimè, con il liberalismo e il fascismo “classici”, e quindi affrontato con i vecchi arnesi del frontismo). Abbiamo assistito a una reazione rabbiosa di fronte all’impossibilità di restaurare il sogno di una pax atlantica e di un nuovo secolo americano, accarezzato dopo il crollo dell’Unione Sovietica; una reazione che ha sfruttato la pandemia del Covid19 per imporre un ferreo disciplinamento ideologico, politico e sociale; che ha avuto ragione con relativa facilità dei populismi di sinistra (Syriza, Podemos, Sanders, Corbyn, M5S, di Mélenchon diremo più avanti), mentre ha integrato quelli di destra (Trump in testa) nel proprio progetto; che ha identificato nella Terza guerra mondiale (di cui abbiamo visto i prodromi in Ucraina, in Siria, nel genocidio di Gaza e nella guerra che Israele e Stati Uniti hanno scatenato contro l’Iran) la soluzione finale alla crisi secolare iniziata negli anni Settanta del Novecento.
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La situazione del dollaro dietro la decisione di Trump
di Alessandro Volpi*
Il vero pericolo. Penso che uno dei motivi principali dell'attacco di Trump all'Iran sia la volontà di dimostrare la forza militare degli Stati Uniti nel tentativo di riconquistare la "fiducia" del mondo, o di una parte di esso, nei confronti dei simboli dell'economia americana, costituiti dal dollaro e dai titoli del debito pubblico. In realtà non si tratta affatto solo di simboli perché il dollaro sta perdendo sempre più rapidamente la condizione di valuta di riserva e di scambio internazionale; una condizione che permetteva alla Federal Reserve di stampare dollari a suo piacimento per finanziare la spesa federale americana, dunque per coprire le spese militari, per fare giganteschi salvataggi come nel caso delle banche dopo il 2008, per stimolare i consumi interni con continui incentivi e per evitare di aumentare le imposte.
Oggi questa prerogativa, di fatto, non esiste più: solo nei confronti dell'euro il dollaro è ormai ben sotto la parità, con un cambio sceso da 0,95 a 0,86 in pochissimo tempo e non si tratta solo di una manovra di voluta svalutazione ma di vera perdita di credibilità, ancora più marcata verso altre monete mondiali. In queste condizioni se gli Stati Uniti emettessero carta moneta per affrontare la crisi - cosa che non fanno peraltro dal 2020 - è molto probabile che il dollaro vedrebbe ulteriormente ridotto il proprio valore.
Nel caso del debito, la situazione Usa è ancora più critica. Oggi per collocare un titolo a dieci anni il Tesoro degli Stati Uniti deve pagare il 4,38 contro il 2,53 della Germania, l'1,69 della Cina e l'1 del Giappone. Nel giro di un anno, per effetto di ciò, il costo degli interessi è passato da 753 miliardi a 1235 miliardi di dollari, superando ampiamente la spesa militare.
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Il comunismo nel buio (2)
di Ezio Partesana
L’intervento di Fortini su cosa sia “comunismo” è una forma sublime di dialettica, purtroppo la dialettica mal sopporta il sublime; l’idea è raccontata come se fosse in movimento, ma dentro al motore è nascosto un abilissimo nano. La storia non è questa.
La lotta per il comunismo non è già il comunismo. Se un’anticipazione del futuro è entrata nell’esistenza dei compagni, lo ha fatto nonostante il furore, non grazie a esso. L’esperienza che “una volta per sempre” ci mosse, è stata tuttavia anche quella dei limiti, della finitezza, umana; non sono scorsi latte e miele e il deserto non è fiorito.
Lo scritto di Fortini – che ritrovo in Extrema Ratio (Garzanti, 1990) – uscì originariamente per un supplemento satirico dell’Unità, non senza ragione come ricorda in introduzione lo stesso autore, e se fu “una sfida, come una scommessa metrica” la stesura, non lo è meno la decifrazione dei nessi che reggono la certezza e il dubbio intorno a quel concetto.
Non si tratta di mettere ordine e neanche certo di “esattezza”; se nessun pensiero è immune dalla sua espressione, certo quello di Fortini si è vaccinato come pochi altri per studi, autocritica e, si ammetta, una virtù letteraria fuori del comune. L’idealismo, la mossa della volontà che ferma le cantilene sulla “liberazione”, sta tutto nell’invocazione di un passaggio da una contraddizione, oggi dominante (e cioè quella tra capitale e lavoro), a “una contraddizione diversa” che sarà reale una volta raggiunto un luogo più alto, “visibile e veggente”.
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Le due manifestazioni contro la guerra ci dicono cose importanti
di Sergio Cararo
Le due manifestazioni contro il riarmo e la guerra che hanno sfilato nelle strade di Roma sabato scorso, inducono a qualche considerazione utile per il presente e per il futuro.
Nel paese c’è una forte sensibilità contro le minacce di guerra che incombono nelle relazioni internazionali e nella tenuta democratica del “fronte interno”. Come questa sensibilità troverà la strada per darsi rappresentanza politica nel paese è ancora una incognita e una sfida tutta aperta.
La partecipazione di massa, niente affatto scontata ma visibile a tutti, rende superflua ogni guerra di cifre tra le due manifestazioni, anche perché i due cortei hanno indicato una composizione sociale – oltre che piattaforme e prospettive politiche – diverse tra loro.
La composizione sociale del corteo partito da Porta San Paolo non è andata oltre i soggetti tradizionali dell’associazionismo, del terzo settore, dei sindacati concertativi e di qualche residuale partito e realtà della sinistra radicale. Una composizione vista e ripetuta nel tempo che ripropone un consueto perimetro sociale, politico e culturale che si riproduce ma non si espande.
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Sull’avvenire intelligente delle nostre scuole
di Giorgio Mascitelli
A partire dagli scorsi mesi si è cominciato ad assistere anche in Italia a una campagna mediatica sommessa ma costante sull’uso dell’Intelligenza artificiale a scuola. Dall’appello a non trascurare l’occasione eccezionale e irrinunciabile fino al richiamo del rischio di perdere il treno del futuro passando per la denuncia della paura dell’innovazione, una serie di argomenti già usati nel passato per abituare l’opinione pubblica all’ineluttabilità di altre innovazioni tecnologiche è tornata a circolare. Sarebbe riduttivo spiegare questo fatto con il tentativo di creare una domanda per questo genere di prodotti magari intercettando fondi o creando un consenso per stanziamenti pubblici in tal senso, non perché interessi del genere non esistano ma perché queste reazioni esprimono uno dei punti chiavi dell’ideologia contemporanea in cui la fiducia razionale nella tecnologia produce atteggiamenti irrazionali nei confronti delle conseguenze sociali che le innovazioni generano.
I toni sono ragionevoli e moderati: si ricorda che in ogni caso l’IA non sostituisce l’insegnante, ma è un prezioso strumento in grado di rinnovare la didattica, addirittura in un supplemento dedicato all’argomento del Corriere della sera, Paolo Ferri con indubbia abilità persuasiva nei confronti del mondo docente arriva a suggerire che chatGpt potrebbe incaricarsi della stesura di verbali e di altre corvée burocratiche che infestano la vita dell’insegnante.
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Putin come Netanyahu. Lo dice anche Potere al Popolo…
di Fabrizio Marchi
E’ quanto meno singolare che una forza sedicente antagonista e antimperialista che sostiene di appoggiare il processo verso un mondo multipolare, equipari il leader di uno dei due bastioni dei BRICS, la Russia, al macellaio nazista/sionista Netanyahu.
Eppure è proprio quello che è accaduto e che accade. Cito testualmente uno stralcio del comunicato di Potere al Popolo pubblicato poco dopo una delle due manifestazioni che si sono svolte ieri a Roma contro la guerra e il riarmo:”Non saranno generici “No alla guerra” a fermare i Netanyahu, Trump, Von der Leyen, Rutte, Putin e Meloni ma la capacità di individuare i nemici dei nostri popoli…” ecc.
Ora, se è ovviamente legittimo non nutrire particolare simpatia per Putin e per il sistema sociale e politico vigente in Russia, è decisamente e politicamente idiota (e grave) porre il leader russo sullo stesso piano del segretario generale della NATO e soprattutto del criminale genocida Netanyahu, per ragioni talmente ovvie che non dovrebbe neanche esserci il bisogno di spiegarle. Sorvolo sulla equiparazione fra Putin e Netanyahu che è a dir poco di pessimo gusto e resto all’analisi politica.
PaP chiede a gran voce l’uscita dell’Italia dalla NATO contro la quale la Russia sta combattendo, non a chiacchiere, e sappiamo che USA, Israele e NATO – che sono pressoché la stessa cosa – hanno appena sferrato un violento attacco all’Iran e quindi indirettamente (ma neanche tanto) alla Russia e a tutti i paesi BRICS.
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Il Re del Mondo nichilista
di Geminello Preterossi
L’America sembra irredimibile, soprattutto quando c’è di mezzo Israele. Ma il vero tema è: Netanyahu pensa di essere il Re del Mondo sionista, e agisce di conseguenza. In realtà è l’Anticristo. Qual è il katechon oggi? L’unico che si intravede è forse Putin, ma non è in grado di impegnarsi su più fronti. Alla Cina è estranea questa logica, e poi – almeno per ora – sembrano interessati a gonfiarsi sfruttando la globalizzazione e a presidiare Taiwan. Per questo, ferocemente, il capo mondiale dei liberal-nichilisti neocon fa quello che vuole, e impone l’agenda all’Occidente.
Israele ha bisogno del nemico: essendosi costituito come Stato-guerra, non può farne a meno, verrebbe meno la sua ratio. Nel frattempo, questa norma fondamentale dell’inimicizia, che fonda la costituzione materiale dello Stato ebraico, si è fatta sempre più assoluta, generando una totalizzazione culturale e politica che spiega almeno in parte i mutamenti intervenuti all’interno della società israeliana (nel senso dell’estremismo, del fanatismo e dell’assuefazione alla disumanità), la politica di colonizzazione aggressiva dei territori palestinesi, gli slittamenti teocratici e anticostituzionali del suo ordinamento, che un pezzo di società israeliana contrastava, prima dell’escalation bellicista (molto funzionale a puntellare il potere di Netanyahu e a scongiurare il benché minimo cambiamento).
Robert Kaplan ha sostenuto di recente che “il diritto internazionale è un inganno” e che Israele vive sotto una minaccia esistenziale, ciò che non possono dire gli europei, grazie agli Usa (e non all’ONU). Kaplan è il politologo neocon il cui cavallo di battaglia è rappresentato dallo schema “Marte contro Venere”: gli americani, figli di Ares, sono diversi dagli europei ormai divenuti venusiani (dopo la seconda guerra mondiale), e perciò incapaci di combattere, adagiatisi come sono sulla sicurezza garantita dallo zio Sam. Uno schema un po’ semplicista e brutale, ma in parte vero, che viene riproposto oggi. Peccato che Kaplan lo abbia elaborato per giustificare la seconda guerra in Iraq, basata sulle bugie relative alle armi di distruzione di massa di Saddam (le uniche trovate furono quelle portate dagli americani invasori).
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Bernard-Henri Lévy: ideologo dell’Occidente?
Ritratto di un disturbatore diplomatico.
di Paolo Mossetti
Il sogno è stato quello di raccogliere l’eredità di Voltaire, Zola e Sartre, incarnando l’ideale del grande intellettuale pubblico francese. Per quasi quarant’anni Bernard-Henri Lévy, filosofo più a suo agio come performer che dietro a una cattedra, ci è riuscito. Con una clausola, secondo i suoi nemici: diventando un abile ideologo, capace di travestirsi da paladino dell’umanesimo per difendere l’esistente. Un globetrotter da 150 milioni di euro sul conto in banca le cui parole hanno funzionato, con straordinaria costanza, come proiettili sparati sempre nella stessa direzione: quella dei nemici dell’Occidente. Polemista, reporter, esteta, seduttore, consigliere di presidenti e soprattutto disturbatore diplomatico, BHL ‒ l’acronimo con cui lo chiamano in Francia ‒ continua a dominare la scena intellettuale europea come una figura mitologica.
Nato a Beni Saf, in Algeria, nel 1948, Lévy appartiene a una famiglia ebraica sefardita che si trasferì in Francia quando lui aveva sei anni. Figlio di un ricco industriale del legno, Lévy è cresciuto in un contesto agiato, intellettualmente esigente e profondamente consapevole del proprio privilegio. Ha frequentato l’École Normale Supérieure, sotto la guida di intellettuali come Louis Althusser e Jacques Derrida. Invece di restare nell’ambito del mondo accademico, però, Lévy ha deciso presto di fare della figura pubblica la sua vera opera. È diventato giornalista e corrispondente di guerra, coprendo la guerra di indipendenza del Bangladesh nel 1971. Nei primi anni Settanta è stato anche tra i fondatori del movimento dei Nouveaux philosophes, una corrente antitotalitaria che si scagliava contro il marxismo, l’URSS e i dogmi della sinistra radicale ereditati dal maggio del Sessantotto.
È stato in quegli anni che, secondo il suo stesso racconto, nasceva il filosofo engagé. Insieme ad André Glucksmann, Alain Finkielkraut e Pascal Bruckner ha rivendicato la sua partecipazione alla lotta studentesca per farne un ingrediente biografico decisivo, salvo poi attaccarla nei decenni successivi, per il suo lascito nella morale sessuale, i diritti umani, la religione e l’antisemitismo.
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Il caso del caso Moro ep. 7
Complotti di ieri e di oggi
di Davide Carrozza
In quel mare magnum impazzito che rappresenta l’epopea del complottismo sul caso Moro, in quella selva di teorie strampalate e di scienza incompiuta, a cui è dedicata questa serie di articoli, ci occupiamo oggi di due teorie complottiste (chiamarle così sembra quasi un complimento) di ieri e di oggi. La loro dislocazione temporale (1995 e 2025) contribuisce alla comprensione della vastità del fenomeno e di quanto duratura sarebbe stata l’eredità storica di quel tragico evento. Mi viene in mente Cassio davanti al corpo di Giulio Cesare, appena pugnalato a morte dai congiurati, che esclama “In quante epoche future questa nostra scena solenne verrà recitata di nuovo, in nazioni ancora non nate e in lingue ancora sconosciute”. Vera fu questa premonizione per il Giulio Cesare di Shakespeare e per il regicidio più famoso della storia. Altrettanto vera potremmo dire sarebbe questa affermazione per il più famoso “regicidio” della nostra storia repubblicana, il sequestro e l’assassinio dell’On. Aldo Moro, evento per il quale in 47 anni si inonderanno fiumi di inchiostro, si produrranno centinaia di migliaia, secondo alcuni milioni di pagine di documenti ufficiali (spesso ignorate) e si racconteranno una serie innumerevoli di balle con vari scopi funzionali (per le molteplici motivazioni del complottismo si veda l’episodio 2 di questa serie). Le due storie potrebbero annoverarsi fra quelle che non ce l’hanno fatta, il cui eco è stato talmente irrilevante da non potersi annoverare forse nemmeno realmente fra le teorie complottiste “ufficiali”, talmente insensate a volte da non convincere nemmeno chi le aveva sdoganate, in uno dei due casi per ammissione stessa del suo creatore, quelle che Vladimiro Satta con un tocco un po’ romantico chiamerebbe romanzi d’appendice del caso Moro.
Complotti di ieri
Nel lontano 2000 l’ex agente dei servizi segreti Antonino Arconte, nome in codice G-71, viene attraversato da un’improvvisa epifania, ricordandosi a 22 anni di distanza di essere stato destinatario di un compito delicatissimo e urgentissimo attinente al caso Moro.
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Giochi d’intelligence: le “bravate” ucraine e israeliane pari sono
di Fabio Mini
Mentre il mondo trema, Trump e Netanyahu festeggiano il bombardamento sull’iran. Israele ha incassato l’entrata in guerra degli Usa e Trump tuona minaccioso chiedendo la resa iraniana che di fatto è l'unica soluzione che può permettergli di cantare vittoria. Tuttavia l’Iran non ha più intenzione di assecondarlo nel giochetto dei negoziati e Israele non ha alcuna voglia di ottenere una vittoria a tavolino.
Non si cura tanto della distruzione dei siti nucleari quanto della eliminazione della leadership sciita (che trova concordi molti paesi arabi e tutti gli europei) e dell’Iran dalla geopolitica. Israele non nasconde il ruolo avuto nella preparazione e nella conduzione dell’attacco ma non lo fa pesare e lascia che Trump gongoli solo perché sa usare benissimo tutti gli strumenti di guerra compresa la circonvenzione degli alleati. Ci tiene però a ribadire che lo spettacolo è suo. Lo ha dimostrato aprendo il sipario del conflitto con l’attacco di sorpresa senza chiedere permessi a nessuno consapevole di poter fare e far fare ciò che vuole. Questa consapevolezza viene dalla capacità militare ma soprattutto da intelligence e disinformazione.
Molti commentatori hanno descritto l’operazione contro l’Iran esattamente come l’ha venduta Israele. Pochi hanno fatto caso alle implicazioni che la narrazione israeliana comporta. Secondo l’agenzia Nova (17.6) “L’attuale scontro militare tra Iran e Israele rappresenta l’apice di un’operazione d’intelligence preparata da anni, nella quale Tel Aviv avrebbe penetrato in profondità l’apparato di sicurezza iraniano”.
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L'attacco Usa: l'atomica israeliana e quella iraniana (che non c'è)
di Davide Malacaria
Così le più fosche previsioni si sono realizzate. Trump si è consegnato alla religione delle guerre infinite e ha attaccato (il 22 giugno, il doppio di 11… magie della cabala). Un crimine contro l’umanità che non vale se a compierlo sono Israele o Stati Uniti. E l’ipotesi che possa restare “one shot” a oggi è più che labile.
Il fallito summit di Istanbul
Ciò non solo perché Trump alterna bizzarre proposte di pace a minacce, ultima delle quali il via libera al regime-change, smentendo le dichiarazioni contrarie di altri funzionari Usa. Ma anche perché si chiede scioccamente all’Iran di non rispondere in alcun modo, né attaccando obiettivi americani né bloccando lo Stretto di Hormuz, chiusura deliberata oggi dal Parlamento iraniano che deve essere ratificata dalle massime autorità dello Stato. Addirittura il Segretario di Stato Marco Rubio, noto falco anti-cinese, ha implorato Pechino di far pressione sull’Iran perché non dia seguito al voto parlamentare. Siamo alla farsa.
Come farsesca risulta la Ue, che nella sua ossessione verso Mosca stava per varare il “price cap” contro il petrolio russo per ridurne drasticamente le entrate, proprio nel giorno in cui Israele ha aperto il vaso di Pandora iraniano, che rischia di far diventare l’oro nero più prezioso che mai. Tale la genialità della leadership europea.
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Gli Stati Uniti e la lezione definitiva al resto del mondo
di Andrea Zhok*
Gli Stati Uniti hanno insegnato a tutto il mondo una lezione definitiva, scolpita nella roccia della storia, irrevocabile.
Nel nuovo mondo coraggioso che essi stessi hanno portato alla luce esisteranno solo due tipi di soggetti: i servi di bottega e i detentori di ordigni nucleari.
Se una nazione vorrà essere uno stato sovrano, indipendente, non dovrà solo avere un esercito, che di per sé può essere in gran parte decorativo: dovrà presentarsi come una credibile minaccia nucleare.
Da oggi, con tanti saluti ai trattati di non proliferazione nucleare, varrà il "liberi tutti" e i decenni a venire saranno decenni di rinnovata corsa agli armamenti di tipo terminale (per lo più clandestina, perché se ti sottoponi ai controlli internazionali, poi basta un Raphael Grossi a molla qualunque e ti ritrovi bombardato).
L'evidente colpa dell'Iran non è stata di essere una minaccia eccessiva, ma di non esserlo a sufficienza.
La sua colpa non è stata di essere immorale, ma di aver ecceduto - per gli standard internazionali correnti - in scrupoli morali.
Questo vale anche sul piano interno, per inciso. Se l'Iran fosse stato il terribile, occhiuto stato di polizia che viene dipinto essere, non avrebbe avuto decine di scienziati e vertici militari che dormivano a casa, in famiglia, con indirizzi pubblicamente reperibili. Nessuna infiltrazione dell'Intelligence di questo livello sarebbe potuta avvenire nei paesi del vecchio blocco comunista, precisamente perché erano stati di polizia.
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L’Europa dei due pesi per Netanyahu e per Putin
di Barbara Spinelli
Gli Stati europei hanno reagito scandalizzati, al vertice del G7 il 15-17 giugno, quando Trump ha accennato a possibili mediazioni russe nel conflitto Israele-Iran, considerata la vicinanza di Putin non solo a Teheran, con cui esiste un accordo di cooperazione (senza clausola di assistenza militare), ma anche a Israele, dove vive una forte minoranza russa: 1,3 milioni, il 15% della popolazione.
Il presidente Usa ha aggiunto, non senza ragione, che se Mosca non fosse stata espulsa dal G8 nel 2014 – quando scoppiò il conflitto civile in Ucraina, seguìto dall’annessione russa della Crimea – le guerre in Ucraina e in Iran potevano forse esser evitate.
Di tutt’altro parere l’Ue. Affinché nulla cambi e in vista di un vertice Nato che benedirà il riarmo europeo avversato solo da Madrid, occorre che le figure del dramma restino ferme come statue: Putin è il criminale, l’Iran è l’aggressore terrorista, Israele è l’eterna “vittima invincibile”. I governi europei sperano probabilmente che Trump non entri in guerra e che Israele “finisca il lavoro”. Ma non si può escludere che accettino, nelle prossime ore o giorni, un attacco mirato degli Stati Uniti sul sito nucleare iraniano di Fordow.
Intanto alcuni media anche italiani cominciano ad ammettere l’evidenza: l’aggressore è Israele, non l’Iran. Per mantenere ferma la linea anti-Putin, tuttavia, l’ammissione s’accompagna al paragone con l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022.
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Noi, Occidente, stiamo vincendo
di Emanuele Maggio
La propaganda è come l’illusione: è falsa ma necessaria. L’occidentalista vive di propaganda, l’antioccidentalista di illusione.
Se tu che leggi sei occidentale, che tu sia di destra o di sinistra, colonialista o terzomondista, lettore del Corriere o di Ottolina, che tu ne sia consapevole o meno, con le tue tasse hai dichiarato guerra al mondo e la stai vincendo.
Per ora, perché non è detto che alla fine vinceremo, anzi, nella nostra civiltà c’è un inquieto sentore di sconfitta futura (crisi interna Usa, avvento della Cina, debolezza dell’Europa, Brics, materie prime ecc).
Proprio per scongiurare questo scenario di sconfitta abbiamo dichiarato guerra al mondo.
Più precisamente, definiamo questo “noi”: noi “occidentali”, d’accordo, ma soprattutto le talassocrazie atlantiche che ne sono la guida militare.
Non sempre i loro interessi coincidono con gli europei del continente. La sfida occidentalista è che tali interessi convergeranno nel lungo periodo, quando verranno blindati e prolungati gli ultimi cinque secoli di supremazia mondiale dell’Occidente, contro i rivali asiatici.
Queste talassocrazie, vincitrici delle due guerre mondiali, si confermano maestre nell’arte della strategia imperiale. Seguendo i principi di Von Clausewitz, sono perennemente aggressive finché sono in vantaggio, mantenendo il monopolio dell’iniziativa.
Di guerra regionale in guerra regionale, corrono sull’orlo dell’escalation mondiale, fidando sul fatto che nessuno la vuole. Scelta rischiosa, ma finora vincente.
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L’Italia al fronte. Destre globali e conflitto sociale nell’era Trump
di Mimmo Porcaro
Introduzione
«La fabbrica della guerra» è un ciclo di incontri organizzato a Modena, ospitato dal Dopolavoro Kanalino78, con l’obiettivo di cercare chiavi per comprendere e afferrare la complessità della fase storica in cui siamo immersi, nella quale eventi sempre più accelerati fanno sfuggire la leggibilità del presente. Come coordinata interpretativa abbiamo voluto usare la guerra perché pensiamo sia il grande fatto sociale centrale, la determinante che sta riorganizzando tutto il nostro mondo e le altre dimensioni di questo momento storico, la realtà in cui siamo collocati.
La tendenza alla guerra delle società capitalistiche è diventato un fatto innegabile, lo vediamo sempre più concretamente; ed è una dinamica che arriva a toccarci sempre più direttamente; in altri termini, un fenomeno che sta trasformando non solo il sistema internazionale in cui abbiamo vissuto finora, ma anche la nostra vita quotidiana. Attraversati da questa dinamica, cambiano in profondità i nostri territori, le nostre città, i nostri quartieri, e insieme a loro stili di vita, bisogni, aspettative, punti di vista, comportamenti sociali.
Per i militanti è diventato dunque imprescindibile comprendere queste trasformazioni per agirle, e potenzialmente per ribaltarle. Come recita un vecchio slogan: «Chi pensa deve agire». Noi crediamo che per agire bene bisogna prima pensare bene, ed è questo l’obiettivo del ciclo di incontri.
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Perché gli Stati Uniti hanno attaccato l’Iran?
di Paolo Cornetti
Alla fine, è accaduto. Il solstizio d’estate di quest’anno ha segnato non soltanto un passaggio stagionale, ma l’inizio di una nuova e drammatica stagione bellica.
Alle 2:10 iraniane della notte tra il 21 e il 22 giugno, dopo nove giorni di continui bombardamenti israeliani, sono intervenuti i velivoli bombardieri B-2 americani che, trovandosi la strada del cielo completamente spianata, hanno agito in profondità nel territorio nemico e sganciato le loro bombe sui siti nucleari di Fordow e Natanz. Contemporaneamente i sottomarini nucleari della U.S. Navy posizionati nel Mar Arabico colpivano con una ventina di missili da crociera Tomahawk il sito di Isfahan, nel quale è presente l’impianto in cui l’uranio naturale viene processato per poi essere trasferito nelle centrifughe di Natanz e Fordow.
I B-2 hanno, invece, attaccato Fordow e Natanz con le ormai famigerate bunker buster bombs, sganciandone un totale di 14, in quello che è il più importante raid aereo mai svolto con questo tipo di armamento.
Questa particolare e potente bomba che può essere trasportata e sganciata solo dai B-2 statunitensi, ha capacità di distruzione nel sottosuolo ed è, infatti, stata impiegata sui siti di Fordow, costruito all’interno di una montagna una novantina di metri sottoterra, e di Natanz, costruito parte in superfice e parte sotto.
Se una valutazione più precisa dei danni effettivi può essere fatta soltanto con il passare delle ore, le dichiarazioni iraniane e americane tendono a contraddirsi. Secondo Donald Trump l’attacco avrebbe completamente distrutto le centrali nucleari iraniane; mentre secondo fonti iraniane non ci sarebbe stata nessuna fuoriuscita di radiazioni, come per il momento ha confermato anche l’AIEA, ma ci sarebbero alcuni feriti e nessuna vittima. Il numero dei feriti e delle loro condizioni non è stato invece divulgato.
Apparentemente ad avere subito i danni maggiori sembra essere stata la centrale di Natanz, mentre la posizione di Fordow è più complicata da valutare, anche se membri delle istituzioni iraniane hanno dichiarato che tutto il materiale pericoloso era stato preventivamente evacuato e che la contraerea che si è efficacemente attivata ha evitato danni importanti a tutto l’impianto.
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Il Teatro delle Ombre arriva a Teheran
di Giuseppe Masala
Parte prima
Proprio quando molti commentatori iniziavano a ipotizzare uno scenario di lenta pacificazione in Europa è esploso, inaspettato per potenza e pericolosità, un conflitto tra Iran e Israele che si innesta in quel grande gioco mediorientale partito con i gravi attentati del 7 e 8 Ottobre del 2023.
Per comodità e per rendere maggiormente intellegibile ciò che sta avvenendo - così da individuarne le cause - è necessario analizzare il contesto generale consentendo così di comprendere la reale posta in palio e non rimanendo ipnotizzati da quel Teatro delle Ombre fatto di falsi bersagli, ballon d'essai e provocazioni di ogni tipo che hanno il solo scopo di nascondere le reali cause del conflitto e gli attori coinvolti con i propri ruoli e interessi materiali.
A mio modo di vedere, solo dei sonnambuli ipnotizzati dalle ombre messe in scena dalle sapienti mani intente a manipolare le opinioni pubbliche, possono credere alla narrazione che ci viene proposta dal mainstream informativo occidentale, che illustra questo conflitto come causato dalla necessità di evitare che l'Iran si doti di armi nucleari. Gli osservatori più attenti e onesti hanno lucidamente fatto notare che sono trenta anni che Israele abbaia alla luna dicendo che l'Iran è a un passo dall'ottenere un'arma nucleare; affermazione questa che non merita di essere manco smentita essendo ridicolizzata direttamente dal trascorrere degli anni e dei decenni senza che Teheran si doti di armi nucleari. E che dire poi delle disamine di esperti del livello di Massimo Zucchetti che hanno definito le ipotesi che il programma nucleare iraniano sia finalizzato alla costruzione di bombe nucleari come “sterminati branchi di castronerie”!
Se questa è la situazione non ci rimane che provare a dipanare il Nodo di Gordio delle reali motivazioni che stanno spingendo in guerra il Medio Oriente utilizzando la tecnica dell'analisi del contesto generale, delle motivazioni e degli interessi che muovono i protagonisti diretti e soprattutto quelli più o meno occulti.
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Le radici profonde della crisi della sinistra
di Geminello Preterossi
Siamo stati travolti dal neoliberismo: questo è il mantra che, finalmente, da un po’ di tempo (in particolare dopo la crisi economica del 2008, che ha svelato il fallimento della globalizzazione finanziaria), si sente ripetere a sinistra. Ad esempio D’Alema, che non difetta di lucidità quando non si limita a difendere il proprio operato, lo ha ribadito anche di recente. Ma la vera domanda è: perché? A questo interrogativo una vera risposta neppure la si tenta. Com’è stato possibile che quel travolgimento sia avvenuto repentinamente, e senza quasi trovare ostacoli? Tranne qualche voce robusta e critica, come fu ad esempio quella di Claudio Napoleoni, quando nella fase finale della sua riflessione denunciava lucidamente il cedimento culturale in atto verso le politiche neoconservatrici e l’incapacità di pensare alla radice le ragioni di una crisi d’identità che affondava le sue radici in cause non contingenti: ad esempio nella fascinazione per il capitale (mentre stava venendo meno la teologia politica inconsapevole legata alla Rivoluzione d’ottobre), dovuta anche a un certa tendenza al determinismo economicistico, mai del tutto superata, che si saldava a pulsioni scientiste e tecnocratiche. Quel certo riduzionismo materialistico non ha consentito di cogliere che, come disse la Thatcher, la posta in gioco del neoliberismo erano le anime. Tale sordità era dovuta a limiti interni alla cultura marxista media, al suo senso comune. Ad esempio, l’incapacità di cogliere la vera natura dell’alienazione, che oltre a essere economica e sociale è anche esistenziale e spirituale, e quindi il carattere strutturale della dimensione antropologica.
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Déja Vu di guerra
di Chris Hedges* - Scheerpost
Ci sono poche differenze tra le menzogne raccontate per scatenare la guerra con l'Iraq e quelle raccontate per scatenare una guerra con l'Iran. Le valutazioni delle nostre agenzie di intelligence e degli organismi internazionali vengono, come già accaduto durante le richieste di invadere l'Iraq, liquidate con disinvoltura come allucinazioni.
Tutti i vecchi luoghi comuni sono stati riesumati per spingerci verso un altro fiasco militare. Un Paese che non rappresenta una minaccia né per noi né per i suoi vicini è sul punto di acquisire un'arma di distruzione di massa (WMD) che mette in pericolo la nostra esistenza. Il Paese e i suoi leader incarnano il male puro. La libertà e la democrazia sono in pericolo. Se non agiamo ora, la prossima prova schiacciante sarà un fungo atomico. La nostra superiorità militare assicura la vittoria. Siamo i salvatori del mondo. I bombardamenti massicci, una versione aggiornata dello Shock and Awe, porteranno pace e armonia.
Abbiamo sentito queste falsità prima della guerra in Iraq del 2003. Ventidue anni dopo sono state riesumate. Chiunque sostenga i negoziati, la diplomazia e la pace è un tirapiedi dei terroristi.
Abbiamo imparato qualcosa dai fallimenti in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, per non parlare dell'Ucraina?
Tutti i demoni che ci hanno venduto queste guerre passate con false pretese, come il conduttore conservatore di talk show Mark Levin, Max Boot – che scrive: «quell'imperativo strategico giustifica il bombardamento di Fordow», dove è sepolto il programma di arricchimento nucleare iraniano – David Frum, John Bolton, il generale Jack Keane, Newt Gingrich, Sean Hannity e Thomas Friedman, sono tornati a saturare le onde radio con allarmismo senza fiato.
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Il giornalista perfetto per un mondo impresentabile: Enrico Mentana e il consenso
di Lavinia Marchetti*
C’è un motivo per cui ho scelto Enrico Mentana come caso di studio. Non perché sia il peggiore, ma perché è il più rappresentativo. Perché nel suo giornalismo si condensa un’intera sintassi dell’egemonia, per dirla con la scuola di Francoforte. Mentana è lo specchio brillante, e dunque deformante, di un sistema mediatico che ha smesso di informare per iniziare a costruire consenso.
L’egemonia, oggi, non si annuncia né si proclama: si installa. Non è una vera e propria censura, ma una selezione. Funziona come una specie di grammatica segreta che ti fa parlare la sua lingua mentre credi di scegliere la tua, la concretizzazione di una pensiero magico in atto. Così il frame diventa destino. E Mentana, in questo sistema, non è il più servile, ma il più raffinato. Il più rappresentativo. È lì che risiede il suo potere: nella perfetta simulazione della libertà, nella competenza a selezionare ciò che può esistere nello spazio della parola pubblica.
La domanda è: “lui ne è consapevole?”. L’intellettuale che dirige opera una specie di sospensione dell’incredulità. Ci crede e non ci crede allo stesso tempo. Il concetto di sospensione dell’incredulità, che nasce in ambito estetico, viene qui trasposto alla politica e al giornalismo: come lo spettatore che decide di credere a una finzione cinematografica per goderne appieno, Mentana sembra stringere un patto ambiguo con la narrazione dominante.
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Sul conflitto ucraino: “La Russia non ha fretta ma l’offensiva su Dnipro cambia tutto”
Roberto Vivaldelli intervista Stephen Bryen
Stephen Bryen è una voce autorevole voce nel campo della Difesa e dell’analisi militare: ex sottosegretario durante l’amministrazione Reagan e già presidente di Finmeccanica North America (oggi Leonardo), Bryen vanta una lunga carriera nel campo dell’industria bellica e della sicurezza internazionale. Lo abbiamo intervistato per porgli qualche domanda sulla guerra tra Russia e Ucraina alla luce degli ultimi eventi.
* * * *
Dopo l’attacco dell’Ucraina alle basi russe, si aspettava una risposta più dura da parte di Mosca? Quali potrebbero essere le conseguenze se la Russia decidesse di colpire più duramente?
“La maggior parte dei rapporti indica che la Russia sta iniziando a rispondere e a effettuare rappresaglie dopo l’attacco alle sue basi aeree strategiche. Negli ultimi giorni, i russi hanno lanciato una serie di attacchi con missili e droni, causando danni significativi a depositi di munizioni, centri di comando e addestramento, e impianti di produzione di droni. In particolare, i russi hanno preso di mira i sistemi di difesa aerea Patriot a Kiev e in altre località, con presunti successi. Sostituire i sistemi Patriot danneggiati è quasi impossibile, poiché le scorte di missili, radar e sistemi di comando e controllo sono quasi esaurite in Europa e negli Stati Uniti”.
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Chi è assente ha sempre torto?
di Marta Mancini
Sullo sfondo degli avvenimenti internazionali e delle emergenze globali, reali o presunte, l'ultimo rapporto Censis descriveva l'Italia come un paese intrappolato in uno stato di "galleggiamento" riguardo ai consueti indicatori socio-economici (PIL, consumi delle famiglie, occupazione, investimenti, ecc.). Fedele alla proverbiale attitudine a navigare, la popolazione italica si mostrerebbe capace di riprendersi da ogni tempesta senza scosse e ammutinamenti. Nella dinamica sociale - si legge ancora nel documento - "la sequela di disincanto, risentimento, frustrazione, senso di impotenza, sete di giustizia, brama di riscatto, smania di vendetta ai danni di un presunto colpevole (...) non è sfociata in violente esplosioni di rabbia". Da altri comportamenti si coglie semmai il segnale dello scontento diffuso, visibile nell'indifferenza verso le forme di mobilitazione collettiva, considerate inefficaci; nella sfiducia nei sistemi democratici e nelle istituzioni europee, giudicate dannose; nel distacco dai valori un tempo aggreganti e nell'avversione verso l'egemonia dell'Occidente, ritenuto responsabile dei conflitti in corso. Queste tendenze si aggiungono a quelle rilevate l'anno precedente dove erano emersi il declassamento del lavoro nella gerarchia dei valori personali, il ripensamento del senso della vita e il reindirizzamento delle energie verso desideri individuali a bassa intensità. La metafora usata in questo caso paragona la condizione degli italiani allo stato di sonnambulismo (57° rapporto Censis).
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Israele e Iran salvano la faccia, Trump vince (e anche Putin)
di Gianandrea Gaiani
(aggiornamento alle ore 17,00 del 24.6)
La tregua stabilita nelle scorse ore è stata annunciata da Donald Trump e poi dai governi di Teheran e Tel Aviv ha preso corpo troppo in fretta lasciando il dubbio che facesse parte di un piano già predefinito, probabilmente fin dall’avvio dei bombardamenti statunitensi sui centri nucleari iraniani.
Gli ultimi sviluppi del conflitto sembrano indicare che abbia trovato ampie conferme l’ipotesi formulata da Analisi Difesa di “un’ammuina” statunitense tesa a salvare la faccia a Benjamin Netanyahu offrendo una via d’uscita a Israele ormai a corto di armi antimissile.
USA e Israele hanno annunciato la “missione compiuta” dicendosi certi della totale distruzione del programma nucleare iraniano Trump nonostante non vi siano certezze circa i danni inflitti ai bunker sotterranei, alcuni dei quali peraltro non noti, e nonostante non vi sia traccia di oltre 400 chili di uranio arricchito.
Richard Nephew, ex funzionario statunitense esperto di Iran Usa, ha detto il Financial Times che nessuno sa dove siano finiti i 408 chili di uranio arricchito al 60 per cento. Gli Stati Uniti e Israele non hanno la capacità per riuscire a individuarlo a breve. L’intervento militare americano ha al più ritardato di qualche mese il programma atomico di Teheran.
Mohammad Eslami, capo dell’Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran, ha dichiarato che Teheran sta “valutando la possibilità di riparare e rilanciare le parti danneggiate dell’industria nucleare. Abbiamo pianificato in modo che non ci fossero interruzioni nel processo produttivo”, ha aggiunto.
L’impianto nucleare iraniano di Fordow ha subito solo danni parziali a seguito dell’attacco statunitense di domenica sera e la situazione nell’area è tornata alla normalità” ha riferito ieri l’agenzia di stampa ufficiale iraniana Tasnim citando le autorità locali.
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Otto note sulla guerra Israele-Iran
di Enrico Tomaselli
Superata la settimana di guerra tra Israele e Iran, analizziamo la situazione – e i suoi possibili sviluppi – focalizzando l’attenzione sui vari aspetti più significativi, al fine di inquadrare il conflitto nella sua dimensione più ampia, propriamente strategica e geopolitica
La trattativa
La questione della trattativa avviata dagli USA con l’Iran, che precede l’avvio del conflitto, è alquanto controversa, e secondo molti analisti – soprattutto dell’area dell’informazione alternativa – si sarebbe trattato di una mossa coordinata tra Washington e Tel Aviv, finalizzata a ingannare Teheran. Sappiamo che, in effetti, ha almeno in parte ottenuto questo risultato – anche se ciò non dimostra che fosse questa l’intenzione. In effetti, il Maggiore Generale dell’IRGC Mohsen Rezaei ha recentemente dichiarato che “fin da marzo, eravamo certi che ci sarebbe stata una guerra con Israele. Ci eravamo preparati in modo esaustivo a questo scenario. Tuttavia, non ce lo aspettavamo prima della fine dei negoziati; è stata una sorpresa”.
Contrariamente a quella che sembra essere la lettura di area, sono portato a ritenere che l’avvio del negoziato con l’Iran fosse – coerentemente con la linea politica pacificatrice di Trump – finalizzata a prevenire la situazione conflittuale (poi invece concretizzatasi), ma che sia stata vanificata, già prima che dall’attacco israeliano, dalla confusione con cui è stata affrontata.
Il punto di partenza, necessario, è che tutti – letteralmente – sapevano e sanno che l’Iran non ha armi nucleari, non è sul punto di realizzarle e, cosa non da poco, non ha intenzione di farlo (almeno sino a oggi). La decisione di non dotarsi di armamento nucleare può, ovviamente, essere criticabile – anche con validissimi argomenti – ma ciò nonostante è indubbio che è stata presa, e che l’Iran vi si sia attenuto strettamente. Il fatto stesso che sia stata emessa una fatwa in merito (cioè una sorta di ordinanza giuridico-religiosa) attesta che il dibattito interno relativo abbia a un certo punto richiesto di essere risolto definitivamente, al massimo livello.
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