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“L’Ue è fallita, la sinistra ragioni sull’euro”
Giacomo Russo Spena intervista Emiliano Brancaccio
“Proseguendo con le politiche di austerity l’eurozona è destinata a deflagrare. Per questo, una sinistra degna di questo nome avrebbe il dovere di ragionare anche sulle modalità di uscita dalla moneta unica, per non lasciare il campo soltanto alle destre”. L’economista Emiliano Brancaccio è un convinto europeista. Nel 2011 fu invitato a Parigi dal Partito socialista europeo a presentare lo ‘standard retributivo’, una proposta per interrompere la gara al ribasso tra i salari dei paesi membri dell’Unione. “Ma i tedeschi si opposero. Di quella, come di altre ipotesi di coordinamento europeo, anche le più blande, non se ne fece nulla. Anzi, da allora i conflitti tra paesi sono aumentati”. Di fronte alla dura realtà dei fatti, Brancaccio intravede la rottura del giocattolo Europa. Per questo, accantonando utopie e impossibili riformismi, si batte da tempo per una vera discussione sul destino della moneta unica: “Il tema è complesso e va analizzato attentamente, per sgombrare il campo dalle farneticazioni”.
Pochi giorni fa una Napoli blindata ha ospitato l’incontro della Bce. Si è deciso di continuare con la linea della “austerità espansiva”, ovvero con le politiche del rigore. Di questo passo sarà mai possibile una ripresa economica dei Paesi ora in maggiore difficoltà?
Sotto l’influenza del governo tedesco, il vertice Bce ha ribadito che i singoli stati nazionali dovranno restare fedeli alla linea dell’austerity. Inoltre, dal vertice di Napoli è emerso un altro elemento che getta nuove ombre sul futuro dell’eurozona.
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Azioni e reazioni nell'epoca del caos imperiale
di Piotr
Non ho avuto nemmeno il tempo di scrivere che i terroristi addestrati nel "Califfato" avrebbero a breve operato in Cina e in Russia, che, più veloci della luce, terroristi uiguri (manovrati verosimilmente da settori dei servizi turchi) hanno compiuto un attentato nello Xinjiang e ieri in Cecenia c'è stato un attentato che ha ucciso cinque poliziotti (stessi macro-obiettivi e stessi sponsor).
Quando esposi queste tragiche previsioni in un articolo ("Il chiarimento del caos"), un buontempone commentò così: "Ah, ah, le risate. Divertentissimo articolo, che fantasia!".
Risposi che purtroppo io di fantasia ce ne ho ben poca, ma nei centri strategici dell'Impero ne hanno da vendere, ma è agghiacciante.
Visto che le cose stanno diventando sempre più preoccupanti, occorre essere un po' più seri.
Siamo infatti di fronte a un'accelerazione del conflitto mondiale. Russi e Cinesi sanno perfettamente chi sono i mandanti degli attentati. Sanno anche perfettamente che ritorsioni dirette contro i mandanti provocherebbero una guerra atomica.
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Le contraddizioni di David Harvey
Benedetto Vecchi
David Harvey, «Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo» (Feltrinelli) è l’appassionata analisi condotta dal geografo statunitense sulla crisi economica e la violenta risposta del potere per garantire l’appropriazione privata della ricchezza comune
Una scrittura chiara, essenziale per esporre esporre le contraddizioni del capitalismo, sia quelle connaturate al suo sviluppo, sia quelle che potrebbero portare all’implosione, se non al suo «crollo». Poi, improvvisamente, una deviazione improvvisa da una esposizione che ricorda più un manuale che non a un saggio teoretico. E il libro diventa improvvisamente un diario di viaggio dentro una crisi attorno alla quale sono molte le interpretazioni, ma della quel in pochi riescono a vedere la fine. Le parti più avvincenti di questo Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo (Feltrinelli, pp. 336, euro 25) scritto da David Harvey sono quelle che il geografo statunitense dedica proprio all’ipotesi, per l’autore remota, di un crollo finale del capitalismo. E questo accade quando dalla cornice teorica Harvey sposta il fuoco dell’analisi sui fenomeni sociali e politici che caratterizzano ogni contraddizione, cioè quando compie l’indispensabile movimento che, partendo da una astrazione, giunge a quella contingenza che consente, come viene suggerito da qualche filosofo, di pensare la Politica. La forma espositiva scelta da Harvey rende dunque il libro godibile e, al tempo stesso, è una delle migliori espressioni di quella analisi critica sul «capitalismo estrattivo» che rappresenta uno dei tentativi più convincenti di innovare il marxismo.
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Perché l'Italia non ce la farà
di Roberto Orsi*
Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard , Roger Bootle (entrambi del Telegraph) e Wolfgang Münchau (Financial Times) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell'Italia e l'instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei policy maker nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l'Eurozona – e non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt'altro che favorevole sulle possibilità di "guarigione" del nostro Paese.
Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l'economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16?
Bootle osserva che "l'Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano 'trappola del debito', quando cioè l'indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale. Per sfuggire a questa trappola ci sono due possibilità: svalutare la moneta o fare default.
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La dittatura dello spread
Alessandro Somma
Pubblichiamo un estratto dal libro La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito in libreria in questi giorni per le edizioni DeriveApprodi
Rating, dall’inglese «valutazione», è un vocabolo divenuto di uso corrente per indicare la descrizione di determinate caratteristiche riferite a istituzioni pubbliche e private. Dal momento che fine ultimo del rating è solitamente la compilazione di un ranking, altra espressione inglese diffusa il cui significato è «classifica», la descrizione avviene in forma di misurazione espressa in termini numerici o comunque quantitativi, in quanto tali frutto di notevoli semplificazioni e arbitri. Ciò nonostante i rating e i relativi ranking sono estremamente diffusi: hanno assunto il rango di una vera e propria forma di comunicazione, quasi uno specifico genere letterario, utilizzato per veicolare, in modo efficace e immediato, i messaggi più disparati.
Prendiamo ad esempio i rating confezionati da Transparency International, che misura la corruzione percepita nei diversi paesi del mondo. Il relativo ranking restituisce dell’Italia un’immagine tutt’altro che gratificante: si piazza al sessantanovesimo posto, a pari merito con la Romania, terz’ultima tra i paesi dell’Unione europea dopo la Bulgaria e la Grecia. Il messaggio che si ricava da questa classifica, e dal rating che la precede, è immediato: per quanto le leggi non siano sufficienti a produrre qualità morali, possono contribuirvi in modo determinante e dunque è opportuno che il parlamento si attivi per prevenire e reprimere la corruzione.Ciò nonostante, sono anni che da più parti si denuncia invece l’inerzia del legislatore italiano, se non addirittura la volontà di rendere la vita facile ai corruttori e ai corrotti.
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Le flessibilità che non servono e lo scalpo dell’articolo 18
Paolo Pini
Introduzione
La rappresentazione dell’Ocse dello stato del mercato del lavoro italiano durante la crisi è drammatica. L’Employment Outlook del settembre 2014 lo attesta senza troppe ambiguità. Peraltro nell’intera eurozona la situazione non è molto diversa, se si fa una comparazione con gli Stati Uniti ma anche con i paesi europei fuori dalla moneta unica. L’Ocse giunge a rilevare che troppa flessibilità nel mercato del lavoro, troppi rapporti di lavoro non-standard, precari e mail retribuiti, abbassano la motivazione dei lavoratori ed il loro impegno, peggiorano anche le condizioni di lavoro nell’impresa, ed infine, creano addirittura problemi sulla crescita della produttività.
Anche Mario Draghi governatore della BCE nel suo intervento di fine agosto negli Stati Uniti ha espresso preoccupazione. Draghi ha posto il problema della carenza di domanda, ed ha avanzato anche alcuni importanti distinguo circa la dimensione della disoccupazione strutturale rispetto alla disoccupazione ciclica, giungendo ad affermare che le stime della Commissione Europea sono soggette a molta incertezza ed affidabilità quindi quando si prescrivono politiche economiche dal lato dell’offerta.
Ciononostante, le due istituzioni, OCSE e BCE, non sembrano trarre dalla loro analisi alcune conseguenze importanti, ovvero che insistere sul refrain delle riforme strutturali, sul mercato del lavoro in particolare, non è la politica più adatta per contrastare la crisi ed avviare un percorso di crescita.
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Il virus mutante della condivisione
Benedetto Vecchi
Maker Faire. Economia. Il capitale a caccia di commons. Aprire la "scatola nera" di un manufatto per capire come funziona e come replicarlo con la partecipazione diretta di chi lo usa
I makers hanno conquistato il centro della scena. Ne scrivono i media di mezzo mondo. Hanno appuntamenti in tre continenti – Stati Uniti, Europa e Africa — che vedono la partecipazione di decine di migliaia di espositori e altrettanti visitatori. Possono contare su decine di blog, alcuni dei quali hanno milioni di contatti, come Boing Boing, scrittori e guru della Rete come il canadese Cory Doctorow (autore di un romanzo, Makers, considerato una sorta di bibbia di questa postmoderna cultura del fare), analisti di successo delle tendenze emergenti nella comunicazione on line (Chris Anderson), opinion makers spregiudicati come Jeremy Rifkin, nonché studiosi di peso come Yoachai Benkler (il giurista statunitense che propone la provocatoria tesi di un capitalismo senza proprietà privata) e Michel Bauwens (l’agit-prop dell’economia della condivisione).
Dunque sono un fenomeno sociale e «controculturale» niente affatto effimero, anche se alcune tematiche dei makers – le stampanti 3D — sono state ridotte a chiacchiere da bar da nostrani esponenti politici, Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, che fanno la loro fortuna economica con l’antipolitica. E neppure una realtà che sarebbe fin troppo facile liquidare come rappresentazione dell’«individuo proprietario», la figura chiave della controrivoluzione neoliberista, anche se molti makers hanno indicato nel loro «fai da te»una possibile soluzione imprenditoriale alla disoccupazione di massa che coinvolge ormai anche ingegneri, informatici, fisici. E qui è la prima caratteristica dei makers: sono uomini, la maggioranza, e donne con una formazione universitaria di buon livello.
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Kobanê è sola?
di Sandro Mezzadra
Nei giorni scorsi, H&M ha lanciato per l’autunno una linea di capi d’abbigliamento femminili chiaramente ispirata alla tenuta delle guerrigliere curde le cui immagini sono circolate nei media di tutto il mondo. Più o meno nelle stesse ore, le forze di sicurezza turche caricavano i curdi che, sul confine con la Siria, esprimevano la propria solidarietà a Kobanê, che da settimane resiste all’assedio dello Stato islamico (IS). Quel confine che nei mesi scorsi è stato così poroso per i miliziani jihadisti oggi è ermeticamente chiuso per i combattenti del PKK, che premono per raggiungere Kobanê. E la città curda siriana è sola davanti all’avanzata dell’IS. A difenderla un pugno di guerriglieri e guerrigliere delle forze popolari di autodifesa (YPG/YPJ), armati di kalashnikov di fronte ai mezzi corazzati e all’artiglieria pesante dell’IS. Gli interventi della “coalizione anti-terrorismo” a guida americana sono stati – almeno fino a ieri – sporadici e del tutto inefficaci. Già qualche bandiera nera sventola su Kobanê.
Ma chi sono i guerriglieri e le guerrigliere delle YPG/YPJ? Qui da noi i media li chiamano spesso peshmerga, termine che evidentemente piace per il suo “esotismo”.
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Craxi, Berlusconi, Renzi. Tre autori del disastro
Eddytoriale 163
Edoardo Salzano
Inseriamo questa volta come eddytoriale il contributo del direttore di eddyburg al prezioso libro, Rottama Italia, inventato e curato da Tomaso Montanari e Sergio Staino, e gratuitamente edito e distribuito da Altreconomia. Rispetto al testo riportato nel libro abbiamo aggiunto alcune note a pie' di pagina
Tutti gli elementi nefasti della controriforma iniziata trent’anni fa sono presenti nel decreto Sblocca Italia. Ho parlato di una controriforma iniziata trent’anni fa. Infatti Matteo Renzi è il prolungatore e completatore di un processo iniziato in Italia tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Non è casuale la coincidenza temporale tra quel processo e l’affermazione del dominio di quello che chiamiamo “neoliberismo”, e che Luciano Gallino ha definito “Finanzcapitalismo”. Mentre in Gran Bretagna e negli USA trionfano Margaret Thacher e Donald Regan, mentre Milton Friedman e i Chicago Boys diventano, dopo l’esperienza cilena, i consiglieri dei governi del Primo mondo, in Italia sale al potere Bettino Craxi. E’ l’inizio dell’affermazione di un’ ideologia e una prassi che si riveleranno vincenti. “Meno stato e più mercato”, “via lacci e lacciuoli” , “privato è bello” ne sono gli slogan, proclamati non solo dai “modernizzatori” craxiani ma anche nella sinistra[1].
Tra gli strumenti principali della prassi craxiana ecco apparire, e presto dominare, l’”urbanistica contrattata” (cioè l’assunzione degli interessi immobiliari come motori delle scelte sull’uso del territorio), e la deroga sempre più ampia degli interventi sul territorio dalla logica e dalle regole della pianificazione.
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Viktor Orban è bianco o nero? O è grigio?
di Riccardo Achilli
E’ di un certo interesse analizzare la situazione politica interna all’Ungheria del premier Orbán, perché rappresenta un possibile “caso di studio” di Paese che si colloca fuori dall’euro e dalle sue politiche. Un caso di studio che diverrebbe anche attuale, nell’ipotesi in cui le politiche economiche europee non cambiassero, costringendo, per motivi di sopravvivenza, i Paesi più sotto pressione ad uscirne, oppure ad iniziare una linea della disobbedienza sistematica nei confronti dell’Europa.
E’ anche utile dare una visione oggettiva di Orbán, che rifugga dalle due estremizzazioni: da un lato una sinistra radicale acefala, che è diventata sovranista, e che vede in lui l’Eroe della Lotta di Liberazione dei Liberi Popoli Contro L’Euro, d’altro lato, i media e gli analisti di sistema, che, siccome Orbán sfugge al loro ricettario tecnocratico, lo qualificano come un satrapo da Repubblica centroamericana. Orbán, come vedremo, non corrisponde a nessuna delle due estremizzazioni, collocandosi in un’area grigia, che è importante analizzare in modo il più possibile obiettivo (per quanto evidentemente chi scrive non provi nessuna simpatia nei suoi confronti).
Un caveat: va ovviamente premesso che l’Ungheria ha una serie di specificità che nessun Paese dell’area euro possiede.
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Arriva il Fiscal Compact
La prova del fuoco dell'Unione europea
di Leonardo Mazzei
Cosa è successo in questi giorni tra Parigi, Roma e Berlino? Cosa è successo ieri a Napoli da mandare in tilt il listino di Milano, e non solo? E' successa una cosa semplice, semplice. Da noi da tempo prevista e del resto facilmente immaginabile. In breve: la crisi del mostro eurista sta giungendo ad un punto di svolta, rimettendo giocoforza al centro i diversi interessi nazionali.
Partiamo innanzitutto dai fatti.
Martedì scorso il governo italiano ha varato la nota di aggiustamento del DEF (Documento di Economia e Finanza), con la quale Renzi ha annunciato di voler riprendere nel 2015 una politica dideficit spending(spesa a debito), rinviando di due anni (al 2017) il pareggio di bilancio strutturale, e sospendendo almeno per il 2015 il percorso previsto dalfiscal compact.
Il giorno dopo è toccato al governo francese, che per bocca del ministro delle Finanze Michel Sapin ha spostato di 3 anni (dal 2014 al 2017) l'obiettivo del 3% nel rapporto deficit/Pil. Una decisione, che insieme a quella italiana, ha suscitato l'immediata reazione della Merkel che ha ribadito la necessità di «rispettare le regole» e gli impegni presi.
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Il sicario e la Grecia
Intervista a John Perkins
Perkins è autore del libro biografico “Confessioni di un sicario dell’economia”, dove racconta la sua decennale esperienza al soldo di multinazionali e governi occidentali come procacciatore di indebitamento e asservimento dei paesi in via di sviluppo.
Il giornalista greco Michael Nevradakis lo ha intervistato su Dialogos Radio. L’intervista è disponibile in podcast qui, e trascritta su TruthOut.
A mio parere una buona parte della sua analisi è condivisibile, e in ogni caso la sua testimonianza fotografa uno dei più gravi aspetti del clima culturale che caratterizza il nostro tempo: il prevalere degli interessi delle multinazionali sopra qualunque altra considerazione di benessere delle collettività, con tutte le conseguenze che ciò comporta per la democrazia e l’autodeterminazione dei popoli. È pur vero che la prevaricazione dei potentati economici è una costante della storia moderna, ma oggi il fenomeno della globalizzazione ha conferito alle grandi corporazioni un potere decisivo, che sovrasta e condiziona qualunque altra struttura – quella politica in primo luogo; e mai come oggi questo potere appare inattaccabile e il processo del suo consolidamento irreversibile.
In questo senso, l‘accordo di libero scambio transatlantico TTIP, portato avanti senza alcun serio dibattito e zelantemente ignorato dai media, va visto come un ulteriore e forse decisivo passo verso la definitiva consacrazione del loro potere come nuovo sistema di governo globale.
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Lavoro e diritti: l'insegnamento dell'Internazionale
di Marcello Musto
Il manifesto del 2 ottobre ha recensito, in occasione del 150° anniversario di fondazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, il volume curato da Marcello Musto, studioso di Marx e tra i curatori della «Mega2». Il volume che ha per titolo “Prima Internazionale, Indirizzi, Risoluzioni, Discorsi, Documenti”, a cura di Marcello Musto (Donzelli, pp. XVI-256, euro 25), si distingue per due obiettivi, entrambi raggiunti. Una messa a punto della ricerca attuale su questo fondamentale episodio della storia dei mondi del lavoro e una sua riproposizione come esperienza esemplare che ritrova nel presente una nuova attualità. Di Musto pubbliamo un articolo uscito su A l’encontre.
Il 28 settembre del 1864 la sala del St. Martin’s Hall, un edificio situato nel cuore di Londra, era affollatissima. A gremirla erano accorsi circa 2.000 lavoratrici e lavoratori, per ascoltare il comizio di alcuni sindacalisti inglesi e colleghi parigini. Grazie a questa iniziativa nacque il punto di riferimento di tutte le principali organizzazioni del movimento operaio: l’Associazione Internazionale dei Lavoratori.
In pochi anni, l’Internazionale suscitò passioni in tutta l’Europa. Grazie a essa, il movimento operaio poté comprendere più chiaramente i meccanismi di funzionamento del modo di produzione capitalistico, acquisì maggiore coscienza della propria forza e inventò nuove forme di lotta. Viceversa, nelle classi dominanti, la notizia della fondazione dell’Internazionale provocò orrore. Il pensiero che gli operai reclamassero maggiori diritti e un ruolo attivo nella storia generò ripugnanza nelle classi agiate e furono numerosi i governi che la perseguitarono con tutti i mezzi disponibili.
Le organizzazioni che fondarono l’Internazionale erano molto differenti tra loro. Il suo centro motore iniziale furono le Trade Unions inglesi, che la considerarono come lo strumento più adatto per lottare contro l’importazione della mano d’opera dall’estero, durante gli scioperi.
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Nazione e stato nazionale nell'epoca della sussunzione totalitaria del mondo al capitale
Sebastiano Isaia
La nazione come area di sfruttamento locale (o regionale) da parte di un Capitale privo, sostanzialmente, di attributi nazionali. Lo Stato nazionale come potere locale posto al servizio di una Potenza sociale mondiale: il Capitale, appunto. Alla base di questa concezione insiste il concetto di Capitale come rapporto sociale, e non come cosa, come tecnologia economica posta al servizio della società. Sono questi i concetti, peraltro già altre volte da me trattati, che intendo sviluppare nelle righe che seguono, sperando di introdurre nell’argomentazione nuovi spunti di riflessione intorno a vecchi temi, di offrire nuove prospettive dalle quali approcciarli. Mi scuso per la sintesi di alcuni passaggi storici e logici cui sono stato costretto nel tentativo di rendere quanto più stringato possibile il discorso posto all’attenzione del lettore.
***
Creare un ambiente favorevole (friendly) agli investimenti del «capitale straniero: di qui,la necessità di «riforme a tutto campo», a «360 gradi», della sempre più decotta Azienda Italia (vedi i pessimi e depressivi dati sull’economia italiana resi noti l’atro ieri dal Ministro Padoan e dal moribondo Cnel).
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Eutanasia del reale
di Rosanna Spadini
Fine dell’empatia comunicativa e inizio della distopia sociale, indotta ad arte dalla meraviglia multimediale dei visual network. Il 1989 è un anno di svolta, è l’anno in cui la società dello spettacolo diventa schiava di se stessa, in cui lo spettacolo viene trasformato in strumento di disperazione e di morte e si rompe quel patto millenario dell’illusione scenica utilizzato fino a quel momento per la promozione culturale della società, ridotta ora a semplice scenografia teatrale. Un teatro che rinnega se stesso, un teatro che uccide.
Il senso dell’incertezza della “società liquida” lo si riconosce anche nell’esercizio ossessivo della “navigazione in rete”, dove ci si connette immediatamente con gli altri, ma in realtà con altrettanta facilità ci si disconnette, smantellando con un canc i legami interpersonali che ci disturbano.
Navigazione rischiosa e temeraria, in cui viene consentito all’individuo di essere in un altrove extraterritoriale e slegato dallo spazio fisico del suo corpo e dal tempo della sua coscienza. Lo dice anche Giorgio Agamben, illustre filosofo italiano, che ha sintetizzato in modo magistrale la vicenda di Timisoara e del “falso genocidio” che la polizia di Ceausescu avrebbe provocato appunto nel 1989, anno in cui si manifesta la nascita delle notizie/spettacolo, funzionali al sostegno delle guerre moderne.
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La rivoluzione (colorata) francese
di Piero Pagliani
Gli USA accelerano la deglobalizzazione conflittuale. Cambia tutto. Hollande attacca l'austerity tedesca, ma per riportare l'Europa nell'ovile del TTIP. Ecco lo scenario
Hollande in rotta di collisione con l'austerity della Merkel?
È una notizia buona o cattiva?
Per certi versi è la riesumazione di alcune delle idee con le quali il socialista francese approdò all'Eliseo nel 2012. All'epoca erano più o meno confezionate così: nei vincoli europei non deve essere conteggiata quella parte di deficit che serve a rilanciare lo sviluppo.
Un programma quindi tenuto in sonno per due anni, nonostante la situazione economica in Francia peggiorasse in termini esponenziali. Ora, evidentemente, qualche cosa è cambiato. Cosa? Molte cose. Per ordine d'importanza, anche se sono tutte interlacciate in modo complicato:
1) Gli USA stanno stringendo i tempi della deglobalizzazione conflittuale. Il golpe nazista a Kiev ha, in questo rispetto, contribuito a isolare la UE, e in primis la Germania, dalla Russia: Fuck the EU! (Victoria Nuland, responsabile per l'Europa della Segreteria di Stato USA).
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Il Califfato non esiste...
Spigolature geopolitiche (2.0)
di rk
E tutti lo sanno. È il segreto di Pulcinella, il non detto dell’attuale situazione geopolitica in Medio Oriente che è, insieme, quella di un caos inarrestabile ma anche di una leggibilità cristallina. Partiamo dal cuore della questione, per i principianti.
Un anno fa ad Obama non era riuscito il bombardamento aereo della Siria come passaggio decisivo per un regime change a Damasco. Non era riuscito per l’opposizione russa in primis ma anche per il nullo consenso nell’opinione pubblica occidentale. E ne aveva ricevuto la riprovazione al limite dell’insulto da parte della tacita alleanza tra petrolmonarchie e Israele, già scosse dalla sollevazione araba del 2011 prima contenuta e poi rovesciata sì, ma con una certa fatica.
Oggi? Obama sta facendo esattamente quello che non gli era riuscito allora: bombarda il territorio siriano distruggendone il residuo di infrastrutture e soprattutto stringendo come un avvoltoio il cerchio intorno al vero obiettivo, il regime di Assad. E lo fa non solo con l’appoggio militare-logistico dei suddetti ma anche con il consenso o l’acquiescenza passiva del pubblico occidentale bombardato anche lui dalla caterva di news incontrollabili intorno al rinnovato refrain della guerra al terrorismo.
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Postdemocrazia e responsabilità della sinistra italiana
Nicola Tanno intervista Stefano G. Azzarà
La crisi della democrazia italiana? Colpa della sinistra. Berlusconi? Solo l'interprete. Renzi? Ciò che D'Alema ha sempre sognato di essere. Un saggio politico e filosofico, che recupera la lotta di classe e va all'attacco dei postmodernisti di destra e di sinistra
È uscito da qualche settimana per Imprimatur Democrazia Cercasi. Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia di Stefano G. Azzarà. Si tratta di un’analisi che cerca nella storia (e negli errori) del Pci le radici del renzismo e che riabilita il percorso politico e culturale del ’900. Con Azzarà, allievo di Domenico Losurdo e profondo conoscitore di Nietzsche e del pensiero conservatore, abbiamo parlato del suo lavoro concentrandoci sulla parte più politica, inerente alla crisi della democrazia e della rappresentanza.
La crisi della democrazia in Italia – a tuo giudizio – non avviene col “berlusconismo”, anzi critichi la postura di chi ha gridato al fascismo durante gli anni del suo Governo. Scrivi piuttosto che essa prende luogo tra il 1989 – anno della caduta del Muro – e il 1993, quando in Italia prende piede il sistema elettorale maggioritario. In che forme questo avviene e perché il “berlusconismo” è stato solo un fenomeno successivo?
Democrazia moderna è sinonimo di equilibrio relativo nei rapporti di forza politico-sociali. Essa nasce quando, dopo la Seconda guerra mondiale e anche grazie all'organizzazione che erano state capaci di darsi, le classi subalterne acquisiscono una forza tale da conquistare il riconoscimento e di conseguenza l'inclusione nella cittadinanza. Da qui quella grande operazione di redistribuzione della ricchezza e del potere che ha caratterizzato i decenni fino agli anni Settanta.
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Come uscire dalla crisi senza uscire dall’euro
di Enrico Grazzini
"Per rilanciare l’economia lo Stato deve creare nuova moneta – in forma di Certificati di Credito Fiscale – senza passare per le banche e la BCE". La proposta avanzata nel libro “Soluzione per l'euro. 200 Miliardi per rimettere in moto l'economia Italiana” di Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi (Hoepli) è forse la più convincente e praticabile finora suggerita. Vediamo perché.
Come raccogliere l'appello di Luciano Gallino contro la dittatura dell'Unione Europea?1 Come uscire dalla crisi sfuggendo ai diktat della UE e della BCE che controllano la moneta unica e che soffocano la nostra economia?
Non vi è alcun dubbio che la dittatura della UE si esprima soprattutto a livello economico nella forma di dittatura dell'euro. La moneta unica infatti impedisce i riallineamenti competitivi (cioè le svalutazioni monetarie dei paesi deboli e le rivalutazioni della moneta di quelli forti) e quindi provoca crescenti squilibri commerciali e debiti con l'estero. A causa dell'euro i paesi creditori, come la Germania e i paesi dell'area del marco (Olanda, Austria, Finlandia, ecc), possono dettare legge e strangolare economicamente i paesi debitori, i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) a cui bisogna aggiungere la Francia.
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A proposito di qualche testo: Anselm Jappe, Jaime Semprun, Robert Kurz
di François Bochet
Per Bordiga, nel socialismo il valore non esisterà più - così come non esisterà la moneta, il salariato, l'impresa, il mercato -, laddove c'è valore, come in Unione Sovietica, non ci può essere socialismo. Anselm Jappe - già autore di un "Guy Debord", apparso nel 2001 - ha scritto un libro ambizioso ed interessante, "Le avventure della merce. Per una nuova critica del valore", Denoêl, 2003; dove fa una distinzione fra un Marx essoterico partigiano dei Lumi e di una società industriale diretta dal proletariato - un Marx che si interessa ai problemi contingenti, politici, alla lotta di classe e al movimento del proletariato, quello del Manifesto e della Critica al Programma di Gotha - ed un Marx esoterico, quello del Contributo alla Critica dell'Economia politica, dei Grundrisse, dell'Urtext, del VI capitolo inedito del Capitale e dei quattro libri dello stesso Capitale, un Marx che si pone il problema del capitale, della sua definizione, della sua origine, del suo divenire e del suo superamento nel comunismo e nella comunità. Scrive Jappe (pag.11) che il pensiero di Marx è servito a modernizzare il capitale - cosa innegabile - e che i marxisti tradizionali si sono posti solo il problema della ripartizione del denaro, della merce e del valore senza metterli in discussione in quanto tali. Per Jappe il movimento rivoluzionario avrebbe perciò accettato valore, salario, merci, denaro, lavoro, feticismo, ecc. - cosa che è insieme falsa e vera - e lui, Jappe, si propone di "ricostruire la critica marxiana del valore in modo abbastanza (?) preciso" (pagina 15). Rimprovera giustamente a Rubel di avere edulcorato il linguaggio hegeliano di Marx, nella sua edizione delle opere di quest'autore, e di avere chiamato opere "economiche" delle opere "anti-economiche" (molto tempo fa, Paul Mattick aveva fatto la stessa critica al "Trattato di economia marxista" di Ernest Mandel).
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Lo Statuto dei lavoratori e l’articolo 18
di Francesco Ciafaloni
Il senso della protezione giuridica dei lavoratori stabili
Sembra, a leggere molti giornali, che la difesa giuridica dei lavoratori abbia a che fare col posto a vita, con gli inetti e sfaticati; che riguardi pochi privilegiati; che sia un intrigo di cavilli che esclude e costringe alla disoccupazione e alla precarietà giovani e meno giovani. Un residuo dei tempi del boom in cui c’è stato un eccesso di retribuzioni e garanzie che “non possiamo più permetterci”, come si usa dire. L’articolo 18 dello Statuto è diventato il simbolo del rifiuto del nuovo, della rigidità, del “conservatorismo sindacale”. Un simbolo da abbattere – o da difendere. Come fa un giudice a decidere se quel lavoratore è utile o no, se è capace o incapace? è il mercato che deve decidere, si sostiene.
E' utile ricordare che l’articolo 18, nella sua forma originaria, non attenuata, obbliga l’azienda al di sopra della soglia dei 15 dipendenti a reintegrare nel posto di lavoro solo chi sia stato ingiustamente licenziato per la sua fede religiosa, per la sua appartenenza politica o sindacale, perché si è sposato/a, perché è incinta, per motivi razziali, per motivi di genere. L’elenco dei casi è facilmente accessibile nelle prime righe dell’articolo, con la sola fatica, in alcuni casi, di digitare il nome e il numero della legge che li precisa. Se non sono vietati i licenziamenti per questi motivi e non c’è il reintegro diventano parole vuote le norme a difesa della maternità. Diventano vuote per i lavoratori dipendenti le libertà religiose e politiche; diventa vuota la democrazia. Cosa se ne fa una lavoratrice incinta dei mesi di retribuzione in più se perde il lavoro?
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Le rivoluzioni colorate e la Cina da Tienanmen a Hong Kong
Un estratto da La sinistra assente*
Domenico Losurdo
4.1. Un terrorismo dell’indignazione coniugato al passato
Oltre che al presente, il terrorismo dell’indignazione può essere coniugato al passato. È possibile per così dire impiccare a un’immagine, vera o falsa e comunque accuratamente e strumentalmente selezionata, un concorrente, un potenziale nemico, un nemico da screditare o, più esattamente, da additare al pubblico ludibrio dell’opinione pubblica internazionale. Nel ricordare ogni anno la tragedia di Piazza Tienanmen, agli inizi di giugno i media occidentali ripropongono immancabilmente il fotogramma del giovane cinese che, disarmato, fronteggia con coraggio un carro armato dell’esercito. Il messaggio che si vuole trasmettere è chiaro: a sfidare la prepotenza e il dispotismo è un combattente della libertà al quale l’Occidente non si stanca di rendere omaggio e che solo in Occidente può trovare la sua patria elettiva.
Ma realmente tutto è così evidente? Realmente non c’è spazio per il dubbio e la sfumatura? Voler riflettere un po’, prima di introiettare e far proprio il messaggio manicheo che viene proposto o che si cerca di imporre, è solo sinonimo di atteggiamento sofistico e di sordità alle ragioni della morale? Il terrorismo dell’immediata percezione e indignazione è in agguato. Chi voglia evitare di cadere in trappola farebbe bene a esitare per un attimo e a porsi alcune domande, prima di giungere a una conclusione non solo frettolosa ma soprattutto imposta prepotentemente dall’esterno.
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A Krugman servono nuovi occhiali da sole
Fantascienza, ecocidio e cambiamento a basso costo
di Paul Street
Preparatevi a un’invasione aliena
Soltanto perché uno ha un dottorato, un Premio Nobel, un’importante cattedra a Princeton e una posizione da opinionista regolare sul The New York Times non significa che sia davvero così tanto in gamba.
Prendete il liberale e filodemocratico statunitense di spicco Paul Krugman, benedetto da tutte queste cose. Negli ultimi anni l’amante della fantascienza Krugman ha scherzosamente proposto un’idea interessante per trarre dalla stagnazione l’economia USA: prepararsi a un’invasione aliena.
Nel 2011 Krugman ha parlato alla CNN di un episodio della serie “Ai confini della realtà” in cui “scienziati fingono una minaccia aliena per realizzare la pace mondiale”, aggiungendo che “questa volta … ne abbiamo bisogno … per ottenere un qualche stimolo fiscale”.
“Se … guardiamo a che cosa ci ha tirato fuori dalla Grande Depressione”, ha detto Krugman nel 2012, “è stato l’ingresso dell’Europa nella seconda guerra mondiale e l’armamento degli Stati Uniti … Dunque se potessimo ottenere qualcosa che inducesse il governo al dire: ‘Oh, lasciate perdere tutte quelle questioni di bilancio; spendiamo, semplicemente, e produciamo un sacco di roba’ … la mia finta minaccia degli alieni spaziali è l’altro percorso”, ha detto Krugman davanti a un pubblico divertito. “Ho proposto questa”.
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Quel capitale pericoloso: tutte le formule di Piketty
Giorgio Gattei
1. Se si fa tanto di arrivare alla fine del Capitale nel XXI secolo (Bompiani, 2014, ma le indicazioni bibliografiche del testo sono dall’edizione inglese) di Thomas Piketty il godimento è assicurato – però che fatica! S’imparano tante cose, tranne forse l’impianto analitico che le regge, che può sfuggire al lettore sommerso com’è da una quantità di grafici e tabelle. Eppure quell’impianto teorico è ben presente a partire dalla conclusione teorica che dice che, quando il tasso di rendimento del capitale (al netto delle tasse) supera il saggio di crescita del reddito, le diseguaglianze economiche aumentano fino a poter risultare «incompatibili con i valori meritocratici e i principi di giustizia sociale su cui si fondano le moderne società democratiche» (p. 26). Infatti, quando «l’imprenditore tende inevitabilmente a diventare un rentier sempre più dominante su coloro che non posseggono altro che il proprio lavoro, il capitale si riproduce più velocemente dell’aumento della produzione e il passato divora il futuro» (p. 571).
Ora questa «contraddizione centrale del capitalismo: r > g» (p. 571), che sta «alla base di una società di rentier» (p. 564), si è mantenuta per tutto il Sette e Ottocento e fino al 1913 (a che serve, come fa l’autore, cominciare dall’anno zero d.C.?), salvo però franare sotto l’urto delle due guerre mondiali e di una Unione Sovietica vista quale concreto competitor rispetto al capitalismo. Fu allora che vennero introdotte politiche economiche di welfare e redistribuzione della ricchezza che portarono a (r < g), ma è stata una parentesi nella storia economica (cfr. fig. a p. 356) perché, non appena scomparsa l’URSS, è ritornato trionfante (r > g) con tendenza del differenziale a crescere illimitatamente anche nel XXI secolo. Ma dove la causa della diseguaglianza tra r e g? Secondo Piketty bisogna partire dal rapporto del capitale sul reddito:
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La deflazione dei diritti e la rottamazione del dizionario politico
di Lelio Demichelis
Facciamo un gioco: se la deflazione – come dicono i manuali di economia – è quella fase di contrazione o di stagnazione o di sviluppo nettamente inferiore al normale, della produzione e del reddito, allora oggi (ma in progressione crescente a partire dai primi anni ’80 del ‘900)siamo in piena deflazione politica, civile e sociale. I diritti sociali si contraggono in nome della competitività; la democrazia ristagna sotto il mantra delle larghe intese e della coesione nazionale e del ‘lo impongono i mercati’; i diritti politici e civili sono progressivamente compromessi.
Deflazione. E non recessione. Perché la deflazione – rispetto alla recessione – viene determinata anche dai comportamenti della politica, che appunto producono (consapevolmente o per la reiterazione di un errore) un arresto dello sviluppo. E se questa fase di crisi economica in Europa è l’effetto delle politiche di austerità di questi ultimi anni – politiche lapalissianamente surreali ma in realtà adottate e perseguite con ostinazione in nome della prosecuzione con altri mezzi di quell’ideologia neoliberista che ha portato il mondo (e soprattutto l’Europa) allo sfascio ma che resta saldamente al potere – ebbene era evidente da subito che questa fase sarebbe stata anche l’occasione ulteriore (un’occasione ghiotta, da non perdere) per accentuare ancora di più lo smantellamento dello stato sociale nato nel secondo dopoguerra e per de-democratizzare il capitalismo (ovvero per far regredire il sistema rispetto alla sua fase di democratizzazione avvenuta in quelli che si definiscono come i gloriosi trent’anni).
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