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L’origine della diseguaglianza. Da Rousseau al Paleolitico
di Cristina Cecchi
«Infatti è facile vedere come tra le differenze che distinguono gli uomini ve ne siano parecchie che passano per naturali, mentre sono solo il prodotto dell’abitudine e dei diversi generi di vita che gli uomini adottano in società.»
«Può esservi un uomo tanto depravato, pigro e feroce, da costringermi a provvedergli i mezzi di vita mentre se ne sta in ozio?»
«Ignorate che una moltitudine di vostri fratelli, muore, o soffre nel bisogno di ciò che voi avete di troppo, e che vi ci sarebbe voluto un consenso espresso ed unanime di tutto il genere umano per poter prelevare sui mezzi di sussistenza comune tutto quel che andava al di là del vostro bisogno?»
«È contro la legge di natura, comunque vogliamo definirla, […] che un pugno d’uomini rigurgiti di cose superflue, mentre la moltitudine affamata manca del necessario.»
Jean-Jacques Rousseau
«Liberté, égalité, fraternité ou la mort». O, per dirla con Jeremy Corbyn, «For the many, not for the few». Dacché la modernità è nata, una porzione della specie umana non ha smesso di anelare all’eguaglianza, mentre un’altra, cospicua porzione ha continuato a brigare per la sua sussistenza, possibilmente a proprio favore.
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Amazon e il capitalismo senza profitti
di Maurizio Franzini
Maurizio Franzini prende spunto dalla recente notizia secondo cui Bezos, CEO di Amazon, ha superato Bill Gates come uomo più ricco del mondo per riflettere sulla causa principale di questo sorpasso: il vertiginoso aumento del valore di Amazon in Borsa. Franzini dopo aver ricordato che esso sii è verificato in corrispondenza di profitti persistentemente molto bassi, si chiede cosa abbia reso possibile questa apparente anomalia e ipotizza che dietro di essa possa celarsi una nuova varietà di capitalismo: il capitalismo senza profitti
“Il venerdi mattina le azioni di Amazon erano cresciute dell’8% rispetto alla sera precedente facendo aumentare la ricchezza di Bezos di 7 miliardi. Nel frattempo le azioni Microsoft hanno avuto un’impennata del 7% sicché quell’aumento non è stato sufficiente a Bezos per scalzare Gates… ma alle 10 e un quarto Amazon è cresciuta ancora del 2%, così la ricchezza di Bezos è salita a 90,6 miliardi di dollari superando finalmente quella di Gates che ammontava a 90,1 miliardi”.
E’ questo il resoconto, da me liberamente tradotto, che si può leggere sul sito di Forbes della mattina di fine ottobre in cui Bezos, CEO di Amazon, è diventato l’uomo più ricco del mondo. In realtà, non è la prima volta; il sorpasso c’era già stato a fine luglio ma nel volgere di una notte si era verificato il controsorpasso e Gates si era ripreso lo scettro che è stato nelle sue mani per moltissimi anni, con l’eccezione di due brevi intervalli in cui lo ha ceduto a Warren Buffett e Carlos Slim.
Non sappiamo per quanto tempo Bezos (il cui patrimonio – non molto diversamente da quello di Gates – equivale a circa 250.000 appartamenti di buona metratura nel centro di Roma) resterà al comando di questa speciale classifica, e di per sé la questione non è molto interessante.
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Elezioni, i cinque paradossi di una strana stagione politica
di Leonardo Mazzei
Premessa
Più le urne si avvicinano, più la confusione aumenta. Di tutto si discute fuorché di un banale dettaglio: il destino del Paese. Destino che rischia di decidersi a Bruxelles o, peggio ancora, a Berlino. Ma di questo — lo nota anche Federico Fubini sul Corsera — non c'è traccia nel cosiddetto «dibattito politico».
La cosa non è stupefacente, vista l'antica tradizione di parlar d'altro per schivare i problemi veri. Stavolta però il macigno è più grande del solito, perché alla fine l'Italia ne uscirà o come stato nuovamente sovrano, o come colonia definitivamente asservita all'Euro-Germania. Ma di tutto ciò parleremo in un prossimo articolo.
Qui ci limitiamo ad osservare l'impressionante accumulo di paradossi che si vanno producendo in vista delle imminenti elezioni politiche. Il fenomeno è interessante proprio perché, almeno a giudizio di chi scrive, esso discende largamente proprio dalla gigantesca fuga dalla realtà — di certo dalle responsabilità — di un'intera classe dirigente. E' questa una tendenza di lunga durata, ma certo un bilancio dei disastri prodotti dalla Seconda Repubblica non guasterebbe.
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Elezioni, conflitto sociale e sovranità nazionale
di Fabrizio Marchi
In queste settimane, in vista delle prossime elezioni politiche, sono in corso, in un’area variegata e che impropriamente potremmo definire di “movimento” e/o di “sinistra”, alcuni tentativi di dar vita a delle liste alternative ai partiti tradizionali. Questa esigenza, è importante sottolinearlo, è nata anche in seguito alla svolta centrista e moderata del M5S che, con la candidatura di Di Maio (che non ha mancato, come nella migliore tradizione di tutti i candidati premier, di mandare messaggi più che rassicuranti a Washington, Bruxelles, Londra e Berlino) ha virato decisamente verso destra. Il M5S, infatti, esattamente come tutti gli altri partiti, cerca ormai di accreditarsi come una forza politica in grado di garantire la famosa “governance”, cioè quella pace sociale dove i padroni del vapore possono continuare a fare quello che gli pare in totale assenza di conflitto sociale. Questo gli elettori pentastellati probabilmente non lo capiranno mai, non perché sono stupidi ma perché è assai difficile che il M5S possa andare al governo – con la inevitabile conseguenza di far esplodere le proprie contraddizioni – a meno di giravolte e tripli salti carpiati (leggi alleanze improbabili con altri partiti) che però gli sarebbe impossibile gestire di fronte al proprio elettorato. E’ da ricordare che il M5S negli anni scorsi è stato elettoralmente sostenuto, anche se non esplicitamente, anche da una buona fetta di elettorato di sinistra radicale e di “movimento”, sindacati di base, centri sociali, associazionismo vario ecc.
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La faglia destra-sinistra è morta in Italia
Vincent Dain intervista Samuele Mazzolini
Pubblichiamo la versione italiana dell’intervista realizzata da Vincent Dain a Samuele Mazzolini e pubblicata originalmente dal media francese Le Vent Se Lève il 4/12/2017
Le elezioni municipali di giugno 2017 sono state vinte in modo netto dai due principali partiti di destra: Forza Italia di Silvio Berlusconi e la Lega Nord di Matteo Salvini. Benché distanziate nei sondaggi nazionali dal Movimento 5 Stelle (M5S) e dal Partito Democratico (PD), le destre italiane sembrano avere il vento in poppa. Quali sono gli orientamenti e le strategie rispettive di queste due formazioni?
In effetti le destre italiane erano state date per morte troppo presto e le elezioni municipali di giugno 2017 l’hanno dimostrato, così come l’hanno fatto le recenti elezioni regionali in Sicilia. Con la caduta del governo di Berlusconi nel 2011 e una serie di scandali coevi che hanno interessato la Lega Nord, la destra ha vissuto certamente uno sconquasso, ma è riuscita a rientrare in carreggiata. Partiamo dalla Lega Nord che ha compiuto un vero e proprio exploit. Pochi giorni fa è stato definitivamente sancito che il suo nome sarà Lega e non più Lega Nord. Questa trasformazione nominalistica suggella un processo avviato dal segretario Matteo Salvini sin da quando ha preso le redini del partito nel 2013. In nuce, il progetto salviniano è quello di trasformare il proprio partito nel corrispettivo italiano del Front National di Marine Le Pen, con la quale – non a caso – ha mantenuto in questi anni una stretta vicinanza. Non più, quindi, un partito che si occupa di rivendicazioni regionaliste, a trazione settentrionale e con tinte secessioniste, bensì un partito nazionale che offre un discorso a uso e consumo di tutto il Paese.
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L’etica di Lenin (ed altre note sul ’17)
di Mimmo Porcaro
1914 – 1917
Una inesausta tradizione critica imputa alla Rivoluzione del 1917 l’ ingiustificabile, eccessiva violenza che essa avrebbe esercitato contro gli uomini e le cose, ma soprattutto contro le leggi dell’evoluzione economica e della dinamica storica. Lo si chiami blanquismo, lo si imputi a hybris, lo si veda come opera dei demoni dostoevskijani o come applicazione delle aride geometrie sociali di Cernisevskij, l’errore imperdonabile dei bolscevichi sarebbe sempre lo stesso: l’aver agito fuori tempo e fuori luogo, imponendo la rivoluzione ad un paese troppo arretrato e smorzando sul nascere le possibilità di lento ma sicuro progresso della democrazia, e poi del socialismo, aperte dalla fine dello zarismo. Basta però tornare di poco indietro nel tempo e questa critica mostra tutta la propria infondatezza. Nell’agosto del 1914 la socialdemocrazia tedesca, stupor mundi, vanto del movimento operaio internazionale, immensa e rodata macchina concepita proprio per accompagnare lo sviluppo del dinamico capitalismo germanico verso un esito socialista, vota i crediti di guerra, si allea strettamente con la burocrazia e con l’esercito (iniziando così a legittimare quelle stesse forze che vent’anni dopo avrebbero condotto al nazismo) e contribuisce in maniera decisiva allo scatenamento del primo macello mondiale.
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Il difetto fatale del neoliberismo: è un modello economico scadente
di Dani Rodrik
Il difetto fondamentale del neoliberalismo – o neoliberismo, come siamo abituati a chiamarlo in Italia – non è che è cinico, egoista, arido e privo di ideali. È proprio che tradisce l’economia, nella convinzione ideologica di possedere l’unica ricetta buona per lo sviluppo, da applicare uguale dappertutto. Con numerosi esempi il celebre economista Dani Rodrik dimostra sul Guardian che questa è una distorsione delle corrette idee economiche mainstream e che dove è stata applicata ha portato ad autentici disastri. Mentre un ricorso ai princìpi dell’economia di mercato graduale, temperato e adeguato alle esigenze dei singoli paesi è alla base dei grandi sviluppi economici dell’ultimo secolo. Il problema dei neoliberisti non è tanto che sono cattivi, insomma: è più che non capiscono l’economia
Il neoliberismo e le sue ricette usuali – sempre più mercato, sempre meno Stato – di fatto sono una distorsione della scienza economica tradizionale.
Come anche i suoi critici più severi ammettono, il neoliberismo è difficile da definire. In termini generali, denota una preferenza per i mercati rispetto allo Stato, per gli incentivi economici rispetto alle regole culturali e per l’imprenditoria privata rispetto all’azione collettiva. È stato usato per descrivere una vasta gamma di fenomeni – da Augusto Pinochet a Margaret Thatcher e Ronald Reagan, dai Democratici di Clinton e del New Labour nel Regno Unito all’apertura dell’economia in Cina alla riforma dello stato sociale in Svezia.
Il termine è usato come una sorta di passepartout per indicare tutto ciò che sa di deregolamentazione, liberalizzazione, privatizzazione o austerità di bilancio pubblico. Oggi è regolarmente vituperato come epitome delle idee e pratiche che hanno prodotto insicurezza economica e disuguaglianza crescenti, hanno portato alla perdita dei nostri valori e ideali politici, e addirittura hanno fatto precipitare la reazione populista.
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Benvenuti nel Capitalocene!
D. G. Alì intervista Elmar Altvater
Come il capitalismo ha cambiato il rapporto uomo-natura: Antropocene, Capitalocene, Ecocapitalismo e Chthulucene
«Bisogna smetterla con questa costosissima cagata del riscaldamento globale».
(Donald J. Trump, Twitter, 1 gennaio 2014)
A 550 km dal circolo polare artico, sulle coste orientali della Groenlandia, si trova la Warming Island (‘l’isola del riscaldamento globale’), riconosciuta come tale nel 2005, quando il ghiacciaio che la univa alla terraferma, ritirandosi a causa dell’aumento della temperatura globale, ne provocò il definitivo distacco.
Quello del riscaldamento globale è uno dei fenomeni che appare oggi in cima alla lista delle principali emergenze ambientali del nostro pianeta. Il progressivo aumento della temperatura terrestre è dovuto all’emissione nell’atmosfera di crescenti quantità di gas serra, strettamente correlate ad attività umane industriali e a politiche economiche imperialiste. Tra gli altri fenomeni antropogenici di mutamento ambientale, la comunità scientifica annovera l’inquinamento (con l’immissione nell’atmosfera, nell’acqua e nel suolo di sostanze contaminanti), il buco dell’ozono, l’effetto serra, l’elettrosmog e l’estinzione di numerose specie naturali (con i suoi annessi fenomeni di deforestazione e desertificazione).
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La corsa alla produttività e la distruzione della produzione di valore
di Norbert Trenkle
«Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo» (Marx)
Ma questo obbligo ad ammassare quantità sempre maggiori di lavoro astratto tuttavia si oppone ad un'altra dinamica sistemica, quella che parallelamente appartiene all'essenza della logica capitalistica e che, in quanto tale, costituisce l'altro lato dell'autocontraddizione interna del capitalismo: se si è detto che il lavoro di ciascun individuo è socialmente valido solo in quanto "lavoro astratto", vale a dire come rappresentazione di un certo numero di unità di tempo astratto che sono state spese nella produzione di una qualsiasi merce, ciò include il fatto che la misura secondo cui ciascun lavoro viene valutato è allo stesso modo una categoria sociale che sfugge al controllo dell'individuo e della società nel suo insieme. La quantità di valore che rappresenta la realizzazione di un certo lavoro non si definisce a partire da quel lavoro, ma sempre in rapporto da uno standard sociale generale presupposto, che riflette il livello del progresso della produttività della società. In altre parole: il valore di una merce non è definito dal tempo di lavoro individuale che un individuo o una certa impresa impiega per la sua fabbricazione, ma dal tempo di lavoro che corrisponde al livello attuale della produttività della società Un lavoro è socialmente valido solo nella misura in cui viene utilizzato a tale livello.
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Sinistra ed elezioni, la traversata nel deserto è appena iniziata
di Militant
Ogni situazione concreta impone un ragionamento anch’esso il più possibile concreto. Le elezioni non sfuggono a questa semplice regola della politica, quella per cui non esistono schemi precostituiti. Ecco il motivo per cui le imminenti elezioni di marzo costringono la sinistra (quantomeno la sinistra credibile, ché quella incredibile già va indossando il costume double-face elettoralista/astensionista) ad una riflessione seria e originale. Il progetto di una lista di sinistra, Potere al popolo, in questi giorni ha contribuito a movimentare il dibattito elettorale, costretto fino a pochi giorni fa a barcamenarsi tra le pastoie liberali di Mdp-Si e il folklore opportunista del Brancaccio. Un dibattito che avremmo volentieri evitato, per due motivi: siamo, in fondo, un piccolo collettivo cittadino, incapace di spostare alcunché in termini politici ed elettorali nazionali; parliamo di una lista fatta in gran parte da compagni riconosciuti, dunque anche posizioni critiche esasperate avrebbero avuto poco senso. Lo scorso sabato però Eurostop, la piattaforma politica anti-europeista di cui facciamo parte, ha deciso di aderire al progetto della lista Potere al popolo. A questo punto ci è parso giusto dire la nostra in merito, perché è un evento che ci coinvolge direttamente.
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Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo italiano
Giacomo Gabbuti
Dall’Unità in poi l’Italia ha compiuto un percorso “subottimale” ed è sempre cresciuta meno di quanto avrebbe potuto. Una recensione al volume curato da Vasta e Di Martino
Il volume curato da Di Martino e Vasta rappresenta probabilmente una svolta nella crescente pubblicistica storico-economica. Il lavoro, frutto di un collettivo di accademici (oltre agli autori, in ordine di apparizione, E. Felice, G. Cappelli, A. Nuvolari, A. Colli e A. Rinaldi), nasce da uno speciale di Enterprise & Society, intitolato Wealthy by accident? Il punto interrogativo era forse più in linea con l’interpretazione; ma più che in questa, la principale novità del volume sta nel modo in cui si concepisce il ruolo della disciplina nel più generale dibattito pubblico.
Nel 1990, Zamagni mandava alle stampe una delle più importanti e citate sintesi della storia economica d’Italia. Se, come scriveva Fenoaltea, il ruolo della disciplina (e delle scienze sociali) è quello di proiettare, come nelle leggende dei nostri antenati, l’immagine che abbiamo del nostro presente, è inevitabile che le interpretazioni riflettano i tempi in cui vengono scritte. Il titolo del volume – Dalla Periferia al Centro – rifletteva l’ottimismo e l’orgoglio di un Paese che, forse ancor più che dopo il Miracolo, sentiva di essere scampato per sempre dalla miseria. In un modo che colpisce chi quegli anni non li ha vissuti, e ne ha spesso letto descrizioni incentrate su inflazione e finanza pubblica fuori controllo, la pubblicistica dell’epoca sembra riflettere, forse per la prima volta, la voglia degli italiani di definirsi e raccontarsi in virtù della propria economia, atipica, ma di successo; calabroni industriosi e lavoratori, seppur allergici al fisco.
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L'economia della rivoluzione
di Ascanio Bernardeschi
Riflessioni a partire da un importante lavoro di Vladimiro Giacché
Antonio Gramsci definì l'Ottobre russo una rivoluzione contro il capitale, in quanto si discostava dalle previsioni marxiane secondo cui la rivoluzione sarebbe stata possibile in paesi ad avanzato sviluppo capitalistico e non nell'arretrata Russia. Probabilmente il grande dirigente politico e teorico italiano non poteva disporre di alcuni scritti dell'ultimo Marx proprio sulla Russia che non escludevano invece una possibilità di rottura rivoluzionaria in quel paese [1]. Ma a prescindere da ciò, Gramsci aveva ragione a respingere le posizioni dogmatiche che pretendevano un'applicazione senza mediazioni della teoria del Capitale a tutte le situazioni.
Questa teoria, che poi in realtà è un grande abbozzo incompiuto, è stata elaborata a un elevato livello di astrazione: parla del modo di produzione capitalistico, dei suoi caratteri generali, comuni a tutte le realtà economico-sociali in cui prevale tale modo di produzione.
Naturalmente essa è indispensabile per individuare, partendo da questi caratteri generali, le particolarità delle singole, diverse realtà. Ma andremmo fuori strada se pensassimo che basti usare questa teoria generale per giungere a corrette decisioni politiche contingenti.
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Ricominciare da Keynes?
di Massimo D’Angelillo
Domenica 26 Novembre 2017 presso il Coworking Moltivolti di Palermo la redazione di PalermoGrad ha incontrato in un forum di discussione l’economista Massimo D’Angelillo. Abbiamo chiesto a Massimo, traendo spunto dai contenuti di un memorabile libro pubblicato insieme a Leonardo Paggi per Einaudi nel 1986, I comunisti italiani e il riformismo, delle ragioni storiche che hanno determinato la tragica deriva della sinistra che ha finito per abbracciare, culturalmente oltre che politicamente, le parole d’ordine dell’austerità liberista. A partire da questa ricostruzione storica, l’autore di La Germania e la crisi europea (Ombre corte, 2016) e di un saggio all’interno del volume collettaneo Rottamare Maastricht (DeriveApprodi, 2016), si è soffermato sulle cause della crisi economica del 2008, sui vincoli della moneta unica e dell’egemonia tedesca, sul declino italiano e sulle drammatiche condizioni del Mezzogiorno. Nel ringraziare D’Angelillo, pubblichiamo un suo contributo e ci auguriamo di collaborare con lui anche in futuro.
* * * *
Gli ultimi anni si sono contraddistinti per una stagnazione economica decennale, e allo stesso tempo per una singolare incapacità di comprendere le origini della crisi italiana, soprattutto da parte dello schieramento culturale e politico che è sempre stato fonte di visioni alternative allo status quo: la sinistra.
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Quattro futuri, la vita dopo il capitalismo
di Peter Frase
Il testo che segue è l'introduzione al libro di Peter Frase, "Four Futures: Life After Capitalism", pubblicato nel 2016. Il testo è un'espansione delle idee contenute nell'articolo originale, del 2011, "Four Futures" [qui tradotto e pubblicato col titolo « E dopo? »]. Le idee sono fondamentalmente le stesse, ma il libro continua ed approfondisce diverse questioni che il testo originale toccava solamente, ed altre che non toccava nemmeno. Vale la pena leggerli entrambi
« Si è molto parlato degli impatti che avranno congiuntamente sul nostro futuro, la Crisi Climatica e le nuove tecnologie di Automazione dei posti di lavoro. Come si inseriscono in questo quadro le relazioni capitaliste di proprietà e la produzione, e la politica, specificamente per quanto attiene alla Lotta di Classe? Sarà sufficiente la possibilità di un'automazione quasi generalizzata per garantire che avvenga questa automazione? E quale sarà l'impatto che essa avrà sulle condizioni di vita delle persone? A partire dalla fine del capitalismo, sulla base di questi elementi, quale tipo di scenari ci possiamo aspettare? »
(da: Peter Frase, " Four Futures: Life After Capitalism" ["Quattro futuri: la vita dopo il capitalismo"].)
Nel XXI secolo due spettri si aggirano sulla Terra: lo spettro della catastrofe ecologica e quello dell'automazione.
Nel 2013, un osservatorio del governo degli Stati Uniti ha registrato, per la prima volta nel registro storico, che la concentrazione atmosferica globale di anidride carbonica aveva raggiunto le 400 parti per milione (ppm).
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Je so' pazzo: l'esercito dei sognatori
di Moreno Pasquinelli
Cancellata la seconda assemblea del Brancaccio, prevista per il 18 novembre, il gruppo napoletano Je So' Pazzo ha preso la palla al balzo per riunire, lo stesso giorno, quelli che essi stessi han chiamato "l'esercito dei sognatori".
La proposta che i ragazzi napoletani, non senza intelligenza, hanno messo sul tavolo era chiara: costruire una lista elettorale la quale non usasse più i simboli del tradizionale antagonismo d'estrema sinistra, che sapesse parlare alla grande maggioranza dei cittadini maciullati dalla crisi sistemica. In poche parole: una lista populista di sinistra. Il grido di battaglia proposto è stato, non a caso, "potere al popolo".
Chissà, ci siamo detti, che proprio da quel di Napoli, anche grazie alla semina di De Magistris, non arrivi la resipiscenza tanto attesa di una sinistra incartapecorita e abbarbicata alla vetusta iconografia identitaria. Chissà, ci siamo detti, che non si recepisca finalmente la lezione d'Oltralpe di France Insoumise.
L'inferno, tuttavia, è lastricato di buone intenzioni. Detto in altri termini: accettabile il punto di partenza, non è detto che lo sia il punto d'arrivo.
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Intorno al patto di Abidjan. Immigrazione, Africa, Europa
di Il Pungolo Rosso
Per qualche giorno – proprio mentre le istituzioni statali disperdevano la protesta dei rifugiati di Cona – i mass media rigurgitavano di buoni propositi verso gli africani, con tanto di piani Marshall per l’Africa, spettacolari programmi di investimenti, propositi di implementare i diritti democratici, e chi più ne ha più ne metta. Per l’istruzione, il futuro e la felicità dei giovani africani, anzitutto.
Cos’è successo?
E’ successo che il 29-30 novembre si è tenuto in Costa d’Avorio, ad Abidjan, il quinto vertice congiunto dei capi di stato e di governo dell’Africa e dell’Unione europea e in circostanze come queste, la retorica istituzionale supera sé stessa in virtuosismi parossistici. Tanto più perché le vecchie potenze coloniali europee si vedono sottratto spazio vitale da Cina, India, Turchia, monarchie petrolifere, oltre che dal sempre incombente e insaziabile zio Sam, e sentono di dover recuperare terreno e credito.
In questo vertice si sono ovviamente intessuti rapporti di affari, ma al centro di tutto è stata la “questione migratoria”, e l’impegno imposto agli stati africani a selezionare e controllare il movimento migratorio verso l’Europa. E’ il tentativo di estendere all’intero continente il metodo-Minniti per la Libia, con la creazione di un sistema di spietati campi di concentramento per emigranti in fuga dalle guerre, dalla fame, dalla spoliazione delle loro terre, nei quali schiacciare la loro dignità e comprimere al massimo le loro aspettative prima di dare il via libera ai sopravvissuti a questi inferni perché affrontino la sempre più pericolosa traversata del Mediterraneo.
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I Paria urbani fra le due sponde dell’Atlantico
Analogie e differenze fra ghetto americano e banlieue francese
di Francesco Biagi
La redazione di Thomasproject ringrazia la rivista «Il Ponte» per la possibilità di riprodurre la recensione di Francesco Biagi al libro I reietti della città. Ghetto, periferia, stato di Loïc Wacquant (edizione italiana e traduzione a cura di Sonia Paone e Agostino Petrillo, Pisa, ETS, 2016, pp. 372; ed. or. Urban Outcasts: A Comparative Sociology of Advanced Marginality, Cambridge, Polity Press, 2008). L’articolo è uscito nel n. 10 de «Il Ponte», Ottobre 2017, ISSN: 0032-423 X
«Parlare oggi di “banlieue problematica” o di “ghetto” significa evocare, in modo quasi automatico, non delle “realtà”, d’altronde largamente sconosciute da parte di quelli che ne parlano più volentieri, ma dei fantasmi, nutriti di esperienze emotive suscitate da parole o immagini più o meno incontrollate. […] È dunque, più che mai necessario praticare un pensiero para-dossale: ossia il pensiero che, erigendosi al tempo stesso contro il buon senso e contro i buoni sentimenti, si esponga di apparire ai benpensanti delle due sponde o come un partito preso, mosso dal desiderio di épater le bourgeois, o come una forma d’indifferenza insopportabile nei confronti della miseria dei più bisognosi. Si può operare una rottura rispetto alle false evidenze e agli errori inscritti nel pensiero sostanzialista dei luoghi, solo a condizione di operare un’analisi rigorosa dei rapporti tra le strutture dello spazio sociale e le strutture dello spazio fisico.»[1]
* * * *
Ludwig Wittgenstein nelle annotazioni filosofiche presenti in Pensieri diversi sostiene che «il linguaggio ha pronte per tutti le stesse trappole» come se fosse «un’enorme rete di strade sbagliate ben praticabili» dove impietriti assistiamo «l’uno dopo l’altro percorrere le stesse strade e sappiamo già dove adesso devierà, dove proseguirà dritto senza notare la biforcazione».[2]
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Il "Che fare?" di Carl Schmitt
Europa, Nuovi Stati, Nomos del Mondo
di Pierluigi Fagan
A cominciare da questo scritto, tratteremo una materia aggrovigliata che comprende l’attualità e la crisi del concetto di Stato, la risposta data con l’Unione europea e l’euro, questi due argomenti in relazione al divenire multipolare del Mondo, quale altra possibile strada si potrebbe percorrere riconoscendo l’esistenza di un problema-Stato ma non riconoscendosi nelle attuali soluzioni date. Lo faremo “con” e “contro” C. Schmitt che ci aiuterà anche a sviluppare -in seguito- una riflessione sulla geofilosofia
Ci sono pensatori politici di due tipi, quelli che rimangono teorici e quelli che bordeggiando contingenze pratiche, finiscono con l’addomesticare la propria teoria alla contingenza. Il “bordeggiamento” citato è in qualche modo fisiologico visto che la destinazione della filosofia politica è la ragion pratica ma un conto è prevederla nel pensiero, altra cosa è piegare il pensiero alle occasioni della partecipazione della contingenza pratica. La linea del pensiero politico -diciamo così- “puro” la possiamo rappresentare con Aristotele, Machiavelli, Hobbes, Rousseau, Kant, Marx; la linea teorica che ha avuto contatti con la pratica la possiamo rinvenire in Platone, Bodin, Locke, Montesquieu, Hegel, Lenin-Mao. Ognuno di essi fa coppia con il corrispettivo dell’altra linea che gli è a volte coevo, a volte di poco successivo o comunque connesso per ispirazione od opposizione ideologica[1]. La prima linea ha il suo problema detto “problema teoria-prassi”, la seconda linea ha il problema di come la prassi, che essendo storica è sempre contingente, ha piegato la teoria. Carl Schmitt, il cui pensiero ha rilievo sul concetto del politico soprattutto in senso giuridico, si inserisce in questa seconda linea ed ha in Hans Kelsen il suo corrispettivo inverso.
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Il ritorno allo "stato forte"? L'innesco della globalizzazione ulteriore...
di Quarantotto
1. I segnali che lancia il sistema mediatico-culturale di controllo possono apparire contrastanti.
Se l'obiettivo finale, o meglio lo step prossimo venturo, sarebbe quello di diffondere e rendere operativo il paradigma della self-sovereign identity, rendendo progressivamente e irreversibilmente "inutili" gli Stati, occorre comprendere, tuttavia, che, per poter avviare questa mega start-up politico-tecnologica hanno bisogno dell'attuale cooperazione degli stessi Stati, affinchè, mediante la forza normativa formale, ed ancora decisiva, di cui dispongono, apprestino il quadro regolatorio fondamentale in cui il paradigma sia inizialmente validato e reso cogente.
Insomma, l'innesco ha bisogno della sovranità statale, a condizione che essa già risulti pre-orientata e fondamentalmente condizionata, dal diritto internazionale privatizzato.
2. Di questo fenomeno, di cooperazione attiva degli Stati nella loro stessa de-sovranizzazione, ne abbiamo vasti esempi già operativi: il primo, il più eclatante, è la stessa moneta unica, con il processo a cascata della soft law realizzativa dell'Unione bancaria; ma certamente non è da meno il sistema dell'accoglienza no-limits, fondato sul recepimento statale di fonti €uropee forzate fino all'alterazione sistematica delle stesse previsioni dei trattati, che pure, già di per sè, assolvono allo scopo di prefigurare il mercato del lavoro deflazionista-salariale globale (in particolare, e correlato allo "ius soli", p.12), condito di africanizzazione e islamizzazione per consolidare meglio l'accettazione della destrutturazione istituzionale, sociale e identitaria che il sistema comporta.
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Alternanza scuola-lavoro
La nuova schiavitù del lavoro minorile voluta da padroni e Unione Europea
di Noi Restiamo
In vista dell’assemblea nazionale della campagna “BastaAlternaza” che si terrà Sabato 2 Dicembre a Roma al Csoa “Intifada” in Via Casalbruciato 15, proponiamo il documento che come Noi Restiamo abbiamo elaborato sull’ASL e la buona scuola
Il Contesto Europeo
Per una riflessione sul senso della legge 107/15 (la cosiddetta Buona Scuola) e in particolare sull’universalizzazione dell’alternanza scuola-lavoro non si può prescindere da una valutazione, seppur breve, del contesto nazionale e internazionale in cui si colloca, e in generale sulla fase storica che il modo di produzione capitalista sta vivendo oggi.
La crisi sistemica in cui viviamo si è manifestata ormai da più di dieci anni e non accenna a risolversi. L’incapacità del sistema di ritrovare un adeguata valorizzazione del capitale, unita alla tendenziale ritirata degli USA come unico stato egemone a livello mondiale, ha portato ad un forte incremento delle pressioni competitive inter-imperialistiche, e alla conseguente destabilizzazione di numerose regioni del mondo. Questa velocizzazione della competizione internazionale ha dato un forte impulso alla necessità di centralizzazione e rafforzamento dell’Unione Europea. Tale processo ovviamente non può che essere fortemente contraddittorio, e ha dato luogo a significative spinte contrarie, sia derivanti dall’opposizione popolare che alle contrapposizioni interne alle varie borghesie nazionali. La forma con cui il polo imperialista in costruzione sta rispondendo a tali contraddizioni passa attraverso la costituzione di un’Europa a due velocità, a cerchi concentrici, in cui il piano decisionale viene definitivamente trasferito nelle mani di una serie di paesi centrali, stretti intorno all’asse franco-tedesco.
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Potere al Popolo! Una proposta di programma
di JeSo'Pazzo
Alcuni spunti di riflessione a partire dall’assemblea del 18 novembre a Roma
In queste pagine abbiamo provato a sintetizzare i contenuti espressi dalle mobilitazioni degli ultimi dieci anni di crisi: assistiamo ogni giorno alla guerra dei ricchi contro i poveri, di quelli che hanno gli strumenti – economici, tecnici, legislativi – per arricchirsi sempre di più e quelli che resistono solo col proprio lavoro e la propria determinazione.
Di tutte queste mobilitazioni abbiamo registrato le voci all’assemblea del 18/11 a Roma, dove decine di interventi, da più parti d’Italia, hanno raccontato esperienze di resistenza, partecipazione, attivismo, lotta; abbiamo provato a costruire un programma minimo che le tenga dentro e le connetta tutte.
Abbiamo voluto scrivere un testo breve e incisivo perché crediamo che non ci serva un lunghissimo elenco di promesse e proposte, ma pochi punti forti su cui in tanti possiamo continuare a impegnarci con l’obiettivo del protagonismo delle classi popolari.
Vorremmo provare a formulare assieme alcuni elementi di metodo e di intervento quotidiano, da portare avanti anche a prescindere dalla prossima scadenza elettorale: sui temi qui indicati vogliamo crescere e tornare ad essere protagonisti nei nostri territori, prima, durante e dopo le elezioni. Speriamo davvero che questo testo possa essere dibattuto, integrato, migliorato dalla partecipazione di tante e tanti.
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Il mito dell’autonomia intellettuale
di Mimmo Cangiano
“L’economia è il metodo. L’obiettivo è cambiare l’anima”
Margaret Thatcher
I.
Una volta Lukács ha scritto che quando tutte le strade per esprimersi sembrano chiuse, quando il contesto nel quale si opera non offre (come la weberiana gabbia d’acciaio) nessuno spazio per la libera azione del soggetto, quando il sistema sociale che abbiamo davanti appare come un Moloch inattaccabile e immodificabile, allora il soggetto muove verso l’unico luogo che gli appare intatto, modificabile, non compromesso: la propria interiorità.
Per Lukács è un trucco. Quell’interiorità è già assolutamente colonizzata dallo spazio esterno, ma la sua presunta autonomia garantisce al sistema sociale un doppio risultato. Da un lato, se tale spazio di libertà persiste, allora il sistema non apparirà così oppressivo; dall’altro il soggetto interiormente autonomo potrà sviluppare una proprio etica, creare nell’isolamento della propria interiorità un sistema di valori, anche in opposizione al sistema medesimo. Questa è la ragione per cui Lukács ce l’ha a morte con l’etica, che chiama, con chiaro intento sarcastico, “la prassi dell’individuo isolato”, vale a dire un sistema ideologico che, non interessato a socializzarsi, rafforza la percezione psicologica di una possibile separazione (autonomia) fra l’interiorità del soggetto e lo spazio esterno della prassi collettiva.
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A proposito di "Populismo"
Un commento delle elezioni del 2017 in Francia
di Tom Thomas
Quella che segue è la traduzione della postfazione all'ultimo libro di Tom Thomas, "Le capital automate", in uscita in Francia a fine novembre per le "Editions Jubarte". Inutile sottolineare che naturalmente l'analisi e le considerazioni espresse più avanti, si attagliano benissimo anche alla situazione italiana, pure in mancanza [per ora] del "fattore Macron"!
Queste elezioni sono un'occasione per tornare al termine "populismo", termine mistificante come si vedrà, ma abbondantemente utilizzato dai media per stigmatizzare il "Front Nazional" ed il partito degli "Insoumis". La crescita esponenziale dell'influenza di questi partiti riguardo un numero non trascurabile di proletari, ha in effetti mostrato assai bene quanta importanza abbia avuto sostenere che non serva a niente sostituire, come essi sostengono, dei dirigenti del "Comitato per la politica monetaria" (MPC) con degli altri dirigenti che affermano di essere "anti-sistema", mentre aspirano solo a dirigere loro stessi quel sistema con lo scopo dichiarato di stimolarne meglio la sua "crescita", vale a dire la valorizzazione e l'accumulazione di capitale.
Questo piccolo libro ci ha ricordato il modo in cui l'opera geniale di K. Marx consente di affermare che, nel Comitato per la politica monetaria, è il movimento di auto-valorizzazione del capitale - in altre parole, il capitale che esiste solo in quanto valore che si valorizza - a dirigere gli agenti della produzione; e non loro a dirigere il capitale. Loro, vale a dire principalmente coloro che occupano i posti più elevati nel mondo aziendale, nei media, nella finanza e, in particolare, negli apparati dello Stato, e che si sforzano di assicurare una riproduzione sempre più allargata del capitale (la sua accumulazione). Loro sono - e non possono essere altro se non - i «funzionari del capitale».
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Puidgemont o Ada Colau?
Il feticcio dell'indipendentismo e l'alternativa possibile
di Steven Forti e Giacomo Russo Spena
In tutta Europa, come reazione all'attuale crisi socioeconomica e democratica, si stanno diffondendo pulsioni indipendentiste: nuove mini statualità in opposizione allo strapotere finanziario di Bruxelles. Ma, come dimostra la Catalogna, sono illusioni più che vie percorribili per un reale cambiamento. Che passa invece attraverso la valorizzazione dei cittadini nel governo delle città, come dimostra Barcellona con Ada Colau.
Lo scorso 5 ottobre Mauro Pili, deputato sardo di Unidos e appartenente al gruppo Misto, ha presentato alla Camera una proposta di legge costituzionale per avviare un percorso “democratico per far scegliere ai cittadini se continuare a essere discriminati dallo Stato italiano o meno”. La sua non è una voce isolata: a quanto si apprende da un recente sondaggio, in Sardegna aumenta la percentuale del fronte indipendentista. I cittadini sardi si sentirebbero abbandonanti dallo Stato centrale, la disperazione per la crisi economica, la sfiducia nei confronti delle istituzioni, la burocrazia invincibile e impermeabile completerebbero il desolante quadro. Ma le pulsioni indipendentiste sono in crescita. Ovunque. Dal Nord al Sud Europa. Da Ovest ad Est. Non è un caso che una delegazione di indipendentisti sardi, così come di indipendentisti fiamminghi e veneti, senza contare la presenza del leghista Mario Borghezio, sia volata lo scorso 1 ottobre a Barcellona per vigilare sulle votazioni del referendum di autodeterminazione convocato unilateralmente dal governo catalano. Quella consultazione poi repressa dal governo centrale guidato da Mariano Rajoy.
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Sul Trattato del ribelle di Jὒnger
di Salvatore Bravo
Ernest Jὒnger è stato un Ribelle, un non allineato, ha vissuto il lungo secolo che ci ha preceduto “il secolo breve” con il coraggio delle idee che si fanno carne e diventano parole. Ha smascherato la mediocrità conformista degli intellettuali che hanno omaggiato la fine della natura umana e con essa ogni paradigma di verità. Il postmodernismo con la sua razionalità debole, un esempio è il pensiero debole di Vattimo, ha contribuito a spezzare il senso di ribellione, favorendo l’accettazione omologante all’interno del paradigma dell’economia. Ha denunciato la bandiera del “non impegno”, consapevole che non è sufficiente la negazione, ma essa deve trasformarsi in impegno per la libertà. Di intellettuali come Jὒnger sentiamo tutti nostalgia e ne avvertiamo il terribile vuoto: “horror vacui” è la nostra condizione. La sinistra è dialettica, vive del polemos, ogni cultura ed identità necessitano della differenza per misurare in senso qualitativo la propria storia. Il pensiero di Junger ci sollecita a dare risposte a sollecitazioni che benchè formulate da una prospettiva altra, non possono che essere condivise. La forza plastica che ne possiamo trarre è d’ausilio per tollerare le difficoltà della resistenza nel contesto-mondo irrazionale in cui la comunità pensante pare arretrare, per lasciare spazio al deserto dell’ultimo uomo, all’anomia collettiva. E. Junger tratta del tempo anonimo della società dello spettacolo nel quale l’omogeneità e la linearità sono gli attributi di espressione del tempo incardinato nella produzione, e che trasforma gli uomini in consumatori. E’ il regno animale dello spirito secondo la definizione di Hegel.
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