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Tutto quello che avreste voluto sapere sul TTIP
di Grateful Dead
Nel marzo 2014, in modo ufficiale dopo alcuni anni di contatti informali , il presidente Usa Obama e l’allora commissario Europeo Barroso hanno dato il via a una serie di incontri il cui scopo finale era la firma congiunta del “Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti” (TTIP). Dopo vari round, il momento dell’accordo si sta avvicinando. Pochi parlano di tale documento e dei suoi obiettivi, poco o nulla si sa al riguardo. J. Stiglitz ha detto che “Il TTIP rappresenta la presa del potere, in segreto, da parte delle multinazionali”. Anche Rodotà ha recentemente lanciato un appello contro il TTIP e il 23 maggio è stata la giornata mondiale contro il TTIP e la Monsanto. Ecco alcune brevi informazioni, per cominciare. Di che cosa si tratta realmente, che cosa è in gioco e perché è stato così fortemente voluto.
* * * * *
La definizione ufficiale del Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (in inglese noto come Transatlantic Trade and Investment Partnership – TTIP) è la seguente: “Il TTIP ha l’obiettivo di eliminare le barriere commerciali fra Stati Uniti e Unione europea (sopprimere dogane, regolamenti inutili, restrizioni sugli investimenti, ecc.) e semplificare la compravendita di beni e servizi fra le due aree. L’eliminazione di tali barriere prevede crescita economica, creazione di impiego e diminuzione dei prezzi”.
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Hosea Jaffe e il colonialismo
Enrico Galavotti
1. Giustamente Hosea Jaffe sostiene, in Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo (ed. Jaca Book, Milano 2007), che l'idea engelsiana di favorire il colonialismo europeo per accelerare il processo d'industrializzazione nelle periferie coloniali, al fine di porre le basi per una transizione al socialismo, era un'idea non "socialista" ma "imperialista", frutto di un'interpretazione meccanicistica o deterministica del materialismo storico-dialettico.
E ha altresì ragione quando afferma che la contraddizione principale, nell'ambito del capitalismo, è diventata, a partire dalla nascita del colonialismo, non tanto quella tra capitalista e operaio delle aziende metropolitane, quanto quella tra Nord e Sud, dove con la parola "Nord" non si deve intendere solo l'imprenditore ma anche lo stesso operaio che nell'impresa capitalista si trova a sfruttare, seppure in maniera indiretta, le risorse del Terzo mondo.
Detto questo però Jaffe non è in grado di porre le basi culturali per comprendere la nascita del capitalismo (che non può essere considerato una mera conseguenza del colonialismo, in quanto quest'ultimo s'impose già nel Medioevo con le crociate ed esisteva già al tempo della Roma e della Grecia classica e non per questo è possibile parlare di capitalismo, che storicamente nasce solo nel XVI sec.). Jaffe non è neppure in grado di porre le basi politiche di un accordo tra il proletariato del Nord e quello del Sud.
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Guerra imperialista, conversioni e tradimenti
di Sandro Moiso
Mario Isnenghi, Convertirsi alla guerra. Liquidazioni, mobilitazioni e abiure nell’Italia tra il 1914 e il 1918, Donzelli Editore 2015, pp. 282, € 20,00
Nella pletora di pubblicazioni e ripubblicazioni immesse sul mercato in occasione delle funeste celebrazioni del centenario del “maggio radioso”, il testo di Mario Isnenghi si distingue per la chiarezza interpretativa oltre che per l’eleganza, l’erudizione e, talvolta, l’ironia con cui è trattato l’argomento della conversione alla scelta bellicista e al capovolgimento di schieramento militare che avvenne in Italia nel corso degli undici mesi che intercorsero tra lo scoppio del primo grande macello imperialista e l’intervento nello stesso.
Lo studio di Isnenghi, i cui ambiti di ricerca hanno sempre spaziato dalle implicazioni culturali e socio-politiche del Primo Conflitto Mondiale1 al fascismo e al discorso “pubblico” sulle guerre italiane dal Risorgimento al 1945, si rivela utilissimo in tempi oscuri come quelli attuali, in cui lo scivolamento verso conflitti sempre più allargati è accompagnato da discorsi spesso soltanto imbecilli, ma ancora più spesso da motivazioni etico-politiche che nascondono, ancora una volta, i reali interessi in gioco.
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Una testa ben piena o una testa ben fatta?
Il terzo istruito di Michel Serres
di Marco Dotti
Nel ventiseiesimo capitolo del primo libro dei Saggi, Michel de Montaigne scriveva: «Non c’è ragazzo delle classi medie che non possa dirsi più sapiente di me, che non so nemmeno quanto basta a interrogarlo sulla sua prima lezione». Che cosa accadrebbe, si chiedeva Montaigne, se a quella lezione si fosse in qualche modo costretti? Non ci si troverebbe – «assai scioccamente», puntualizzava – vincolati a una costrizione ancora più grande? Non saremmo costretti a servirci di «qualche argomento di discorso più generale, in base al quale esaminare l’ingegno naturale dei ragazzi: lezione sconosciuta tanto a loro quanto a me»? Il saggio che Montaigne pone al centro della sua idea di educazione è ricordato soprattutto per un’altra affermazione, che ha assunto il ruolo di massima e come ogni massima ha subito il non sempre fausto destino di essere più citata, che compresa. Montaigne affermava, infatti, che è meglio una testa ben fatta, che una testa ben piena.
Parlando di «tête bien faite» e contrapponendola alla «tête bien pleine» intendeva riferirsi prima di tutti al precettore, all’insegnante e, per estensione, anche al ragazzo che dovrebbe essere assecondato nel desiderio. Altrimenti, scrive, concludendo la propria dissertazione, «non si fanno che asini carichi di libri». Ma che cos’è un «asino carico di libri»? Che cos’è, oggi? E che cosa significa, sempre oggi, nell’educazione, nell’istruzione e nella ricerca, in sostanza nella scuola e nella società, puntare a una «tête bien faite»?
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Merito e valutazione. Avanti, a destra
Luca Illetterati
La competizione tra insegnanti, alunni,dirigenti, istituti, quartieri e città. La riforma di Renzi porta nella scuola un’idea di società dove vincono i più buoni sono anche i più forti
Sulla sua pagina Facebook Mariapia Veladiano, che oltre a essere scrittrice è anche una dirigente scolastica, ha riportato queste parole, rivolte da uno studente a una docente che lo rimproverava per un lavoro non consegnato: «Ma lo sa che l’anno prossimo siamo noi a valutarvi?».
Forse non c’è risposta più convincente ad alcune considerazioni provenienti (per così dire) da sinistra. Mi riferisco all’articolo di Marco Lodoli (anch’egli scrittore e insegnante) uscito su Repubblica il 22 maggio e ad alcuni commenti del direttore del Post, Luca Sofri.
L’articolo di Marco Lodoli, il quale ha partecipato all’elaborazione del Ddl la buona scuola (“confessa” anzi di essere lui l’autore del nome) muove dalla schietta constatazione di non essere riuscito a spiegare ai propri colleghi cosa c’è di davvero buono in quel testo che ora la Camera ha approvato; di essersi scontrato con una sorta di muro di gomma dovuto, dice, a una sfiducia che si è incrostata negli anni, a un irrigidimento frutto di troppe delusioni, ma anche – e lo si coglie nelle descrizioni che propone di questi personaggi strampalati che sarebbero i colleghi di Lodoli – da una sorta di volontà preconcetta che fa da ostacolo all’accettazione di quelle trasformazioni che potrebbero ridare invece fiato a una istituzione sfiancata, rimettere energia dentro un corpo esangue, portare una qualche luce dentro ai corridoi ammuffiti delle nostre scuole.
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SYRIZA (e Podemos)
«Inclusione populista» o interruzione della rappresentanza?
di Akis Gavriilidis
Quando arriva il momento di descrivere e spiegare che cosa sia SYRIZA, nel discorso dei media mainstream, degli analisti e dei politici nel resto d’Europa (e talvolta anche in Grecia) il termine «populista» torna utile e appare in bella vista. Lo stesso epiteto viene affibbiato anche al Podemos spagnolo. Questa descrizione è naturalmente un chiaro esempio di «come fare cose con le parole», poiché essa crea associazioni «oggettive» con etichette dispregiative come «nazionalista/anti-europeo», anche se queste non sono esplicitate (un tentativo di risignificazione paragonabile a questo, e più ambizioso, è stato poi messo in campo con il termine «radicalizzazione», che è stato praticamente trattato come sinonimo di «adesione al jahadismo»). Per quanto ne so, la sfida più seria e interessante a questa politica linguistica è stata ingaggiata da Yannis Stavrakakis, teorico politico formato nel solco della tradizione della cosiddetta Scuola di Essex e collaboratore di Ernesto Laclau. Negli ultimi tre o quattro anni – con una serie di articoli scritti da lui o in collaborazione con Yorgos Katsambekis, pubblicati su diverse riviste di teoria politica – Stavrakakis ha offerto argomenti ampi e forti contro l’uso stigmatizzante e unidimensionale di «populismo» e contro il corrispondente «bombardamento a tappeto».
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Le regionali di Renzi
Analisi del voto delle regionali: “Matteo stai sereno”
di Aldo Giannuli
Manca ormai una manciata di sezioni che, a questo punto, sono totalmente ininfluenti rispetto al risultato finale, per cui possiamo, pur con un minimo di approssimazione, fare un ragionamento più compiuto sull’accaduto e partiremo da un ragionamento sui numeri assoluti.
Nelle sette regioni considerate i vito validi espressi sono stati 2.130.000 circa, l’anno scorso (arrotondando per comodità) furono 4.260.000 dunque, il numero è letteralmente dimezzato. In minima parte questo è dovuto a fluttuazioni demografiche, ma nella quasi totalità si tratta di un astensionismo aggiuntivo a quello già abbastanza alto degli ultimi anni ed, in diverse regioni, i votanti sono scesi sotto il 50%. Ormai si è presa l’abitudine di non comunicare il numero delle schede bianche e nulle, per cui non sappiamo quanto in questo dimezzamento incida questa componente.
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Regionali 2015, Renzi ha già il fiatone
Dieci riflessioni sul voto
di Andrea Scanzi
Renzi ha già il fiatone. Da vecchio democristiano quale è, dirà di avere vinto anche quando ha perso. In realtà ha preso una botta in fronte (quella fronte così inutilmente spaziosa) così grande che ancora deve accorgersene. Dieci considerazioni.
1. E’ difficile perdere quando si vince 5-2: è proprio un controsenso logico palese. Renzi però ce l’ha fatta. Quattro regioni erano scontate (Toscana, Marche, Umbria, Puglia) e ciò nonostante in Umbria – regionali e comunali – il Pd ha rischiato tanto. Inoltre i candidati in queste regioni non erano renziani della prima ora, ma più spesso politici che c’erano già molto prima di Renzi, e talora anche poco ortodossi (Emiliano, Rossi).
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“Cinque a due”
di Elisabetta Teghil
Commentare l’esito delle recenti votazioni, che hanno interessato sette regioni italiane e un cospicuo numero di comuni, presuppone partire dalla campagna elettorale. Per la prima volta ambienti e singolarità di sinistra hanno dichiarato che il PD non andava votato perché sarebbe stata un’occasione per dare una lezione a Renzi, ridimensionarlo e, magari, liberarsene.
Potremmo dire meglio tardi che mai.
Invece questo proverbio non ci può consolare perché una lettura di questo tipo dimentica che Renzi è figlio legittimo del PD e che non c’è un PD cattivo rappresentato da Renzi e un PD buono che fa capo ai suoi oppositori interni.
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Renzi schiacciato da destra e 'sinistra'
di Giulietto Chiesa
Le elezioni erano regionali e parziali (solo in sette regioni), quindi a metà strada tra quelle politiche e amministrative. Quindi è difficile trovare punti di riferimento per vedere chi è andato "avanti" e chi "indietro".
Dunque ci sarà la solita gara a tingere di bianco la propria sconfitta, per trasformarla in vittoria. Ma alcune cose sono apparse subito chiare e "non verniciabili". La prima è che Matteo Renzi, il premier fino ad ora invitto (anche se mai eletto in una regolare consultazione politica) esce da questa consultazione con le ossa rotte.
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Se posso essere cattivo (sulle regionali)
Giulio Cavalli
Matteo Renzi (e il suo PD) ci hanno sfracellato l’anima per anni insistendo sui meriti, su una classe dirigente vecchia e incapace, da sostituire con gente veramente nuova.
Poi hanno candidato:
– in Veneto la portavoce di Bersani che dopo avere sputato in faccia a Renzi è diventata ultrarenziana ma purtroppo sempre poco preparata e ha collezionato gaffe per tutta la campagna elettorale.
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Renzi #staisereno
di ilsimplicissimus
Non c’è bisogno di profonde analisi per capire che il progetto renziano ha subito un colpo di arresto: non certo sul piano parlamentare, ma su quello politico nel quale non è più vero, anche se continueranno a dirlo fino allo spasimo, che il renzismo e il Partito della nazione sono l’oscuro oggetto del desiderio dei cittadini. Il risultato delle regionali non restituisce affatto un pareggio 5 a 2 come certamente si dirà per carità di patria piddina, perché, appunto il renzismo avrebbe dovuto trasformare e in qualche caso ribaltare assetti di 5 anni fa, quando ancora c’era in sella il Cavaliere: invece dovunque il Pd ha avuto risultati inferiori a quelli delle precedenti elezioni regionali.
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La disfatta delle figurine di Renzi
Andrea Daniele Signorelli
E meno male che doveva essere 6-1; con il sogno iniziale di poter conquistare addirittura un 7-0, cappotto che avrebbe distrutto definitivamente un agonizzante centrodestra che, dopo queste elezioni regionali, si ritrova invece con un po’ di ossigeno in più. È finita 5-2, ed è pure andata bene al Pd e a Matteo Renzi, visto che a un certo punto è sembrato che pure l’Umbria (!) fosse a rischio.
La vittoria è solo nel risultato numerico, che se fosse calcistico darebbe spazio a pochi dubbi. Ma la politica è cosa ben diversa, e quindi non si può affermare altro che quella a cui abbiamo assistito nella notte è la sconfitta di Renzi, pura e semplice.
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Il Nuovo che indietreggia
di ilsimplicissimus
Non ho voglia di insistere sul risultato delle elezioni, anche se le grottesche interpretazioni che vengono elucubrate dal bamboccio di Rignano e dal suo cerchio magico dopo il fallimento del gioco di prestigio, gridano vendetta. Ma insomma ciò che ho detto ieri a botta calda mi sembra sufficiente anche se scritto a risultati ancora parziali: soprattutto mi pare evidente che con queste regionali il potere renziano (o meglio i poteri che lo hanno assunto come co.co. premier), passa da una legittimazione mediatico – salvifica a quella di ultima spiaggia. Un giro di boa nel quale ciò che ora garantisce il disegno reazionario di una terza repubblica oligarchica, non è tanto l’apparente spinta propulsiva verso il nuovo, ma la semplice mancanza di un’opposizione organizzata ed efficace.
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Un mesto anniversario per la nostra vecchia Europa*
di Alfonso Gianni
Nella prima decade di maggio, il nostro vecchio continente ha celebrato la vittoria contro il nazismo e i 65 anni della dichiarazione di Robert Schumann che pose la prima pietra per la costruzione della unità europea, pur nella forma squisitamente economica della Comunità del carbone e dell’acciaio, la Ceca. Ma non si può dire che siano stati anniversari lieti per l’Europa. La crisi economica e soprattutto le politiche dei suoi gruppi dirigenti la schiacciano e i rischi di implosione si moltiplicano.
Naturalmente non manca chi cerca di fare almeno un po’ di training autogeno, non fosse altro che per sollevare il morale. The European Economic Forecast, le previsioni economiche di primavera 2015, rese note dalla Commissione europea agli inizi di maggio, sembrano appartenere a questo tipo di pratiche e infatti recano un incipit davvero ottimistico, che in inglese suona ancora più enfatico: “The outlook for economic growth in the EU has brightened”. Ma davvero le prospettive economiche nel nostro continente sono diventate addirittura luminose? Scorrendo il resto del rapporto, e in particolare la prima tabella, si ha ragione di dubitarne. La crescita del Pil nell’Eurozona è stimata per il 2015 fino all’1,5%, per il 2016 all’1,9%. Tra i fanalini di coda troviamo l’Italia con un +0,6% nel 2015 e un +1,4% per l’anno successivo. Alla pari con Cipro e migliore solo rispetto alla Finlandia.
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Il Capitalismo all’offensiva su tre fronti
Fabrizio Marchi
Ho appena letto questo articolo Tutte zitte se il “raptus” viene attribuito a una madre assassina?di “Eretika” (questo è il nick che utilizza da tempo e con cui è conosciuta), una “femminista critica” – definiamola così – sulla recente sentenza che ha di fatto assolto la madre di Lecco che aveva assassinato le sue tre figlie.
Eretika ha assunto da tempo posizioni sicuramente coraggiose, molti dei suoi articoli sono apprezzabili e condivisibili, per lo meno in parte, e in un’ occasione in cui fu duramente attaccata da alcune sue ex compagne ed ex compagni, presi anche pubblicamente le sue parti, esprimendole la mia solidarietà.
Tuttavia non riesce (non vuole? non può?…) a fare il salto definitivo (e anche il più coerente…), cioè a fuoriuscire dall’ideologia femminista che pure ha sottoposto ad una critica molto severa. Ma questo è eventualmente un suo problema. L’ articolo in ogni caso ha avuto il merito di sollecitarmi ad una riflessione più ampia e la ringrazio per questo.
Per lei l’attuale contesto sociale sarebbe tuttora dominato dalla cultura maschilista e patriarcale, e anche quest’ultimo articolo lo conferma. E’ ovvio che dal mio punto di vista è un’analisi a dir poco obsoleta, perché l’attuale sistema capitalistico tutto può essere e tutto è tranne certamente che maschilista e patriarcale.
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Il regno perduto della libertà on line
di Tiziana Terranova
Gilles Deleuze, si sa, considerava i giornalisti che scrivono libri, come uno dei segni più nefasti della decadenza dei tempi. In un certo senso, la sua diagnosi è stata anche confermata e superata dalla tendenza contemporanea che vede libri scritti da giornalisti come Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo e Bruno Vespa raggiungere le cime delle classifiche dei best seller. Si tratta spesso di libri che raccontano delle storie che sebbene i dettagli cambino, restano sempre le stesse, che contribuiscono a consolidare un ordine del discorso già dato (la legalità, la casta, il potere). Deleuze, però, non sarebbe sicuramente indignato dal volume La rete dall’utopia al mercato (ecommons-manifestolibri, pp. 173, euro 16) di Benedetto Vecchi, giornalista di una testata libera come il manifesto, e in particolare giornalista culturale che negli anni ha seguito con costanza l’evoluzione delle tecnologie di rete, vedendo appunto la rete scivolare inesorabilmente «dall’utopia al mercato».
All’apparenza anche questa potrebbe sembrare una storia scontata. Nel titolo del volume, troveremmo condensata tutta la parabola discendente della breve storia della Rete a quella di un paradiso perduto, in cui l’utopia si fa brutalmente commercio, consumo, scambio, accumulazione, alienazione, controllo, e sfruttamento. E purtuttavia nello spazio che si dispiega tra il titolo e la serie di saggi che compongono il volume, questo slittamento dall’utopia al mercato lungi dal risolversi in una storia banale, si rivela essere pieno di pieghe e di sfumature inattese, che si aprono anche alla possibilità che la rete possa tornare ad essere non tanto utopia quanto un potente mezzo di rovesciamento dei rapporti di forza.
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Il rivelatore greco
Jacques Sapir
L’Unione europea vanta per sé i valori più alti. Con la voce dei dirigenti suoi e di quelli dei suoi paesi membri afferma di rappresentare la democrazia, la libertà e la pace. Tuttavia ne dà concretamente un’immagine molto differente. Non soltanto viola i propri valori a più riprese, ma sviluppa un’ideologia che è in realtà opposta ai valori che pretende incarnare.
L’Unione europea pretende di instaurare regole comuni e di solidarietà tra i paesi membri e anche oltre questi; i fatti smentiscono tragicamente e sempre più le idee di solidarietà, anche di quella al suo interno. Il budget comunitario, pur ridotto a meno dell’1,25% del PIL, è destinato a ridursi ancora. Queste due contraddizioni alimentano la crisi politica e insieme economica che l’UE conosce. Ne minano le fondamenta e oscurano in misura considerevole l’avvenire.
Il rivelatore greco
Il trattamento inflitto alla Grecia è un buon esempio della realtà delle pratiche in seno all’UE; aggiungiamo che, ahimè, non è il solo. Ma serve da rivelatore e manifesta la profonda ipocrisia della costruzione europea.
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L’organetto di Draghi
Prima lezione: moneta endogena e politica monetaria
di Sergio Cesaratto
Pubblichiamo alcune lezioni preparate da Sergio Cesaratto per economiaepolitica.it, dedicate alla BCE e alla politica monetaria. La serie, intitolata l'”Organetto di Draghi”, prevede quattro lezioni: 1) Moneta endogena e politica monetaria; 2) La BCE di fronte alla crisi; 3) LTRO, Target 2, Omt; 4) Forward guidance e Quantitative easing.
Si è fatto un gran parlare nelle scorse settimane – e invero se ne discuteva da un po’ di tempo – di una misura che la BCE ha adottato il 22 gennaio 2015 nota come Quantitative Easing (QE). Di cosa si tratta? Cosa intende Draghi quando parla di riportare il bilancio della BCE a 3 trilioni (3000 miliardi) di euro? Come si colloca il QE rispetto a ciò che la BCE ha fatto dal 2008 per fronteggiare la crisi? Poteva e può fare di più? In questa mini serie di articoli proveremo a darci qualche risposta inoltrandoci nel terreno un po’ esoterico della politica monetaria.
Nella prima delle nostre quattro lezioni vedremo da cosa dipendono domanda e offerta di liquidità emessa dalla banca centrale in relazione al suo obiettivo di un certo tasso di interesse a breve termine. Entreremo insomma subito al cuore della politica monetaria, politica che potete identificare con la determinazione del tasso dell’interesse, una variabile che ha grande influenza sull’attività economica.
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Scuola, feticci e bugie
di Renata Morresi
Il riordino della scuola in atto non crea lavoro ma lo precarizza, non affronta i problemi degli alunni ma li rimanda, non riguadagna autorevolezza al sapere e alla professione docente ma accentra l’autorità. Eppure abbiamo assistito a scene di commozione alla Camera, abbracci, giubilo. Perché? Chi governa e legifera è davvero così avanti, così illuminato circa le sorti della scuola italiana? Prosegue imperturbabile a costruire un futuro migliore per tutti? O non è – come sostiene chi a scuola ci vive ogni giorno – che semplicemente ignorante? O non è che invaghito della nuova, dilagante, sindrome efficientista? O non fa che rispondere al risentimento di una società in crisi, che ancora crede di vedere negli insegnanti dei privilegiati? Sì, io credo che vi sia una arroganza illusa, l’allucinazione presuntuosa di essere i punitori dell’improduttività, i guaritori del disagio sociale e della depressione (in termini quasi psichiatrici), nonché gli autori delle arcinote, ormai quasi mitiche, RIFORME. Quelle moderne, quelle che yes, we can, quelle che nessuno finora ha avuto il coraggio di bla-bla. Quelle che nemmeno la Gelmini… la quale si era “limitata” a tagliare risorse, far classi pollaio e sbandierare l’importanza del grembiulino. Invece qua, caspita: la smania utilitarista si è splendidamente fusa al controllo biopolitico. Il feticcio del “merito” viene ribadito ad ogni piè sospinto; giusto ieri Renzi a Mentana: “lei non ha incontrato un insegnante più bravo di un altro? Siamo d’accordo che ci vuole un po’ di merito?”
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“Dobbiamo riappropriarci della sovranità monetaria perduta”
C. Rossitto intervista Tonino Perna
Un’intervista a Tonino Perna di Concetto Rossitto su La Civetta press in occasione del terzo convegno di Siracusa Resiliente. L’economista: “Ci sono state ben sette crisi finanziarie dal 1987 ad oggi. La prossima, che potrebbe scoppiare quest’anno, sarà più catastrofica del 2007”
Prof. Perna, si sta cercando di ovviare all’attuale crisi attraverso l’immissione di cospicue dosi di moneta nei sistemi economici. Lo sta facendo da tempo l’America di Obama e ora lo fa anche la BCE di Draghi. Lo sta facendo Abe in Giappone (che però punta anche su un aumento della spesa pubblica, al contrario di quanto impone la troika). Lei crede che siano interventi risolutivi? Semplici palliativi? O scelte pericolose?
Sono interventi di pura somministrazione di oppiacei che prolungano l’agonia di un modello socio-economico fallimentare. Sono flussi di denaro che finiscono solo in minima parte nell’economia reale, mentre servono a capitalizzare le banche e far crescere i titoli di Borsa fino a che non scoppia la prossima bolla finanziaria. Ricordo che ci sono state ben sette crisi finanziarie dal 1987 ad oggi. La prossima, che potrebbe scoppiare entro il prossimo autunno, sarà ancora più catastrofica del 2007.
Una maggiore quantità di denaro fresco può rappresentare una boccata di ossigeno per le banche, che forse hanno in pancia prodotti tossici e rischiano parecchio. Ma quella nuova massa monetaria si trasferirà all’economia reale o rischia di finire (del tutto o in massima parte) nel buco nero della finanza speculativa? Non sarebbe preferibile scoraggiare la turbofinanza per far rifluire risorse monetarie già esistenti verso l’economia reale?
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Io sono il mio denaro
Karl Marx
Il denaro, poiché possiede la proprietà di comprar tutto, la proprietà di appropriarsi tutti gli oggetti, è così l'oggetto in senso eminente. L'universalità della sua proprietà è l'onnipotenza del suo essere, esso vale quindi come ente onnipotente... Il denaro è il lenone fra il bisogno e l'oggetto, fra la vita e il mezzo di vita dell'uomo. Ma ciò che mi media la mia vita mi media anche l'esistenza degli altri uomini. Questo è l’altro uomo per me. –
Goethe, Faust (Mefistofele):
Che diamine! Certamente mani e piedi e testa e di dietro, questi, sono tuoi! E pure tutto quel di cui frescamente godo è perciò meno mio? Se io posso comprarmi sei stalloni, le loro forze non sono mie? Io ci corro sopra e sono un uomo più in gamba, come se avessi ventiquattro piedi.
Shakespeare, in Timone d’Atene:
Oro? Prezioso, scintillante, rosso oro? No, dei, non è frivola la mia supplica. Tanto di questo fa il nero bianco, il brutto bello, il cattivo buono, il vecchio giovane, il vile valoroso, l’ignobile nobile.
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La demagogia, le sue forme
S. Cingari intervista Luciano Canfora
Proponiamo qui un’intervista raccolta nel 1994 da Salvatore Cingari presso la Scuola Superiore di Studi storici dell’Università di San Marino dove il Prof. Canfora ha tenuto un ciclo di lezioni su La democrazia in Occidente: il concetto e la cosa. Ci pare oggi rilevante rimarcare, a diciassette anni di distanza, l’assoluta, precisa scansione di alcuni passaggi, confermati d’altronde dalle cose, appunto, e dagli eventi.
Nel suo saggio su La democrazia come violenza (commento dello pseudo-senofonteo Atenaion politeia, Palermo, Sellerio, 1988), lei ricorda come Aristotele, nella Politica, abbia sottolineato che la definizione di democrazia non è inclusa nell’idea del “maggior numero”, perché se “i più” fossero i “ricchi”, nessuno definirebbe democratico quel regime, così come nessuno definirebbe oligarchico quell’altro regime in cui la minoranza dei “poveri” detenesse il potere all’interno di una società composta in prevalenza da benestanti. Ciò sembra confortare la sua critica nei confronti delle democrazie contemporanee in cui i tre quarti dei cittadini vivono nel benessere e costituiscono una maggioranza governante a scapito di una minoranza di persone socialmente disagiate (cfr. anche i suoi ultimi interventi sul Corriere della sera del 17 Maggio e del 1 Giugno: E per un piccolo scarto di voti Socrate bevve la cicuta e Ma in democrazia lo spartiacque è tra povertà e ricchezza). Riflettendo su queste sue posizioni mi era in un primo momento sembrato che per lei “democrazia” significasse governo “dei”ceti svantaggiati o “per” tali ceti, anche se essi ceti fossero la minoranza del paese (con eventuale evocazione della dittatura giacobina o bolscevica); in un secondo tempo ho pensato invece che forse la sua idea di democrazia è questa: un regime che non esercita il potere grazie alla ricchezza. Insomma, professore, cos’è, per lei, “democrazia”?
Una volta mi è accaduto di formulare una definizione della democrazia in un seminario dell’ Istituto Gramsci, non moltissimi anni fa. Sono tuttora legato a quella definizione: la democrazia come uno stato provvisorio instabile, che si dà, cioé, in alcuni momenti, ma, nelle medesime forme esteriori giuridiche, non si dà più in altri momenti.
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L'OCSE e l'illusione finanziaria al servizio dell'imminente neo-welfare bancario
(l'ingiustizia sociale, no?)
di Quarantotto
1. Vi propongo un fresco indizio a pistola fumante:
Da http://www.independent.co.uk
"I paesi sviluppati con maggiori disparità?? di reddito
Uno studio dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico dimostra come la disparità di reddito ostacoli la crescita economica e rovini il tessuto sociale.
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Franco Lolli, Günther Anders
di Alessio Cernicchiaro
La casa editrice Orthotes, da anni attiva nel campo della saggistica filosofica, ha lanciato nel 2014 la collana Sillabario, il cui scopo dichiarato – come spiega in apertura il direttore della collana Federico Leoni – è quello di presentare un autore classico (della filosofia, della letteratura o della storia dell’arte) in modo tutt’altro che classico tentando, come diceva Nietzsche, «un esperimento con la Verità» (p. 2).
In questo primo (e per ora unico) volume della nuova collana lo psicoanalista lacaniano Franco Lolli, autore già di numerose pubblicazioni,1 ci racconta la sua passione segreta per il filosofo Günther Anders, maturata dopo «l’incontro folgorante con i suoi testi più conosciuti» (p. 5), vale a dire i due volumi de L’uomo è antiquato.
In questa sua opera capitale, Anders sostiene che la tecnica moderna sia ormai diventata l’unico soggetto incontrastato della storia, detronizzando da tale ruolo l’umanità, e che sia inoltre responsabile di una vera e propria mutazione antropologica: l’uomo contemporaneo, difatti, è diventato antiquato di fronte ai propri prodotti, i quali hanno effetti ormai così smisurati ed imprevedibili da non riuscire più ad essere compresi e neppure immaginati dal loro utilizzatore; il risultato finale di quest’incapacità di previsione degli effetti del proprio fare è che l’essere umano oggigiorno non è più nelle condizioni di potersi assumere la responsabilità delle azioni che compie direttamente o indirettamente.
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L’eurozona e l’attacco alla democrazia
Antonio Lettieri
Siamo di fronte a un paradossale rovesciamento del senso stesso della democrazia. Per l'oligarchia europea ciò che conta non è la rappresentatività democratica dei governi nazionali, ma la loro sottomissione o complicità nell’attuazione delle politiche fissate dalla tecnocrazia che guida l’eurozona
La democrazia è un tema affascinante della storia e della filosofia politica sin dai tempi dell’antica Grecia. Con la modernità è diventata un patrimonio ordinario della coscienza politica. Si critica il suo funzionamento ma non la sua essenza. Nessuno vorrebbe rinunciare al diritto di esprimere il proprio giudizio sul comportamento dei governi attraverso l’espressione del voto con la possibilità di cambiarli, se questa diventa la scelta maggioritaria. Il voto non è l’unica caratteristica di un regime democratico, ma ne è la nota essenziale.
Nel merito del giudizio possono entrare altri elementi. La democrazia americana, orgogliosamente stabile da oltre due secoli, può essere criticabile per molti aspetti, fra i quali l’elevato tasso di diseguaglianza o la tendenza ad aprire fronti di guerra disastrosi e senza soluzione, com’è successo con la presidenza del giovane Bush. Ma rimane il fatto incontestabile per ogni comune mortale che gli Stati Uniti sono una democrazia, mentre la Cina, sotto la guida di un partito unico, non lo è non ostante i suoi innegabili successi economici.
I due più importanti risultati elettorali di questo inizio d’anno ci confermano con i loro esiti contrapposti il senso e il valore di un regime democratico. In Gran Bretagna è stato confermato il governo conservatore di David Cameron. L’esatto contrario si è verificato in Grecia.
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Non votare Pd!
L'unico antidoto al potere assoluto renziano
di Giorgio Cremaschi
Nel 1953 quella che fu allora chiamata legge elettorale truffa non scattò perché la Democrazia Cristiana ed i suoi alleati non raggiunsero il quorum richiesto del 50%+1 dei voti validi. Quella che doveva essere un'alleanza al centro in grado di acchiappare consenso in tutte le direzioni perse invece voti ad ampio raggio, alla sua sinistra prima di tutto, ma anche alla sua destra. Il progetto autoritario allora aveva respinto, invece che attrarre.
Oggi l'Italicum è molto più pericoloso della legge truffa del '53, che comunque assegnava un premio parlamentare consistente a chi già avesse conseguito la maggioranza assoluta dei voti. Oggi grazie al trucco del ballottaggio, che aggira la sentenza della Corte Costituzionale, un partito come il PD che, aldilà dell'exploit delle europee si attesta normalmente attorno al 30% dei voti validi, potrà conseguire una maggioranza assoluta priva di contrappesi e controlli. Ho detto il PD ma in realtà avrei più correttamente dovuto dire il suo segretario presidente Renzi, che si è costruito un sistema di governo che gli darà un potere praticamente assoluto.
Come ha notato eufemisticamente Eugenio Scalfari siamo a una democrazia che affida il potere all'esecutivo. Che è ciò che normalmente avviene in ogni dittatura.
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Come ripensare oggi crisi e patologie sociali?
di Rahel Jaeggi
Dal 28 maggio si troverà nelle librerie italiane il testo ("Alienazione", a cura di Giorgio Fazio) che ha dato notorietà a una figura della filosofia tedesca contemporanea, Rahel Jaeggi, di cui si è già avuto occasione di parlare sul Rasoio di Occam. Qui, per gentile concessione della casa editrice (Editori Riuniti Int), pubblichiamo come anteprima un estratto del libro
«Ancora un altro lavoro sull’alienazione?».[1] In questo modo, o in modo simile, cominciavano ancora all’inizio degli anni Ottanta molti libri, a cospetto della sovrabbondante letteratura secondaria sul tema. Oggi la situazione è mutata. Il concetto di alienazione sembra essere divenuto problematico e sotto certi aspetti anche inattuale. Se esso è stato per lungo tempo il concetto centrale della critica sociale di sinistra (ma anche di quella conservatrice) – un motivo cruciale della filosofia sociale marxista e quindi di importanza fondamentale per il «marxismo occidentale» e per la «teoria critica» – e se allo stesso tempo esso ha influenzato in vari modi la critica della cultura ispirata dall’esistenzialismo, oggi non solo esso è pressoché sparito dalla letteratura filosofica, ma non gioca più alcun ruolo neanche come vocabolo usato per una diagnosi del nostro tempo. Il concetto di alienazione ha avuto un uso troppo inflazionato negli anni del suo boom; i suoi fondamenti filosofici sembrano fuori moda nell’età postmoderna; le sue implicazioni politiche appaiono troppo problematiche nell’età del «liberalismo politico» – e forse anche le aspirazioni della critica dell’alienazione appaiono senza speranza nel tempo del capitalismo trionfante.
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Annotazioni sullo sciopero astratto*
di Toni Negri
Che cos’era lo sciopero? Era un’astensione dal lavoro da parte operaia, una rottura partigiana e selvaggia (di classe operaia) del rapporto di sfruttamento, che si qualificava come un attacco diretto alla valorizzazione capitalista. Ma, dal punto di vista operaio, lo sciopero non era solo questo; era anche qualcosa di molto materiale, un’azione che doveva “far male al padrone” e che, allo stesso tempo, metteva in gioco la vita del lavoratore. C’era qualcosa di carnale, di immediatamente biopolitico nello sciopero, una violenza che trasformava l’azione economica in rappresentazione politica, l’atto di astensione in una pratica di diserzione dal capitale. Ora si sa che il rapporto di capitale è sempre diverso, sia perché il soggetto lavoratore in ciascuna fase dello sviluppo capitalistico è diversamente qualificato, sia perché il comando sul lavoro è contestualmente diverso. Lo sciopero dunque è sempre diverso anch’esso: lo sciopero dell’operaio industriale e quello del bracciante agricolo erano esperienze, avventure diverse, anche se ognuna metteva in gioco la stessa materialità – la continuità del sabotaggio e dell’astensione prolungata dal lavoro presso gli operai industriali; la violenza carnale, puntuale e durissima della lotta contadina. Per i braccianti agricoli, la lotta non poteva durare più di tanto: raccontano che le vacche muggivano disperate che nessuno ne traesse il latte e che i raccolti, non realizzati, marcissero – bisognava dunque intensificare lo scontro nel tempo breve. Per gli operai industriali, tempi e figure della lotta erano ben altri, e non esigevano di essere contratti, se non “in ultima istanza” per il limite imposto all’astensione dal lavoro dalla misura del salario necessario, di sopravvivenza.
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L’inchiesta prima di tutto: Vittorio Rieser
di Damiano Palano
In una famosa fotografia scattata all’inizio degli anni Sessanta, probabilmente nel settembre 1962, si trova fissato un frammento della vita dei «Quaderni rossi», una delle riviste che più ha inciso nella storia intellettuale italiana del secondo dopoguerra (e forse dell’intero Novecento). L’uno accanto all’altro, con le spalle rivolte al muro e gli occhi diretti verso un oggetto che rimane fuori dal campo, nella foto sono ritratti Gaspare De Caro, Raniero Panzieri, Toni Negri e Mario Tronti.
Con l’eccezione di De Caro, che dopo aver fornito alcuni contributi importanti negli anni Sessanta preferì assumere una posizione più defilata, gli altri tre protagonisti dell’immagine sarebbero stati ricordati – e sono ancora oggi in gran parte considerati – come i principali esponenti del cosiddetto «operaismo» italiano.
E una simile ricostruzione ha senza dubbio più di qualche fondamento, perché il contributo dei tre intellettuali – ognuno dei quali ha proceduto peraltro in direzioni politiche molto differenti – ha davvero impresso un’impronta indelebile a quella rilettura del marxismo in cui si può intravedere il tratto forse più originale della «Italian Theory» (sempre che una simile formula abbia davvero qualche utilità).
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La breve estate del keynesismo
Dalla coscienza infelice alla perdita della memoria collettiva della teoria economica
di Robert Kurz
John Maynard Keynes (1883-1946) è stato forse uno degli uomini più interessanti del XX secolo. Come specialista della teoria del denaro e della moneta, godeva già di un'eminente reputazione fin dalla prima guerra mondiale. Ma i suoi interessi erano molto più vasti. Matematico nato, in principio guadagnò fama mondiale con il suo "Trattato sulla probabilità" (1921). Il suo vero amore, però, era la filosofia. Ma non gli venne data la possibilità di esercitare funzioni accademiche in quest'aera a Cambridge, come sperava. Si immerse nella politica, fu funzionario del Dipartimento per l'India e ebbe successo anche come economista nel settore assicurativo e in Borsa. Il suo patrimonio gli conferiva indipendenza finanziaria; mecenate artistico, è stato anche un grande collezionista. Si aggiudicò i manoscritti di Isaac Newton, li rese accessibili alla ricerca e fece anche una pubblicazione sull'argomento.
Quest'ampiezza di orizzonte intellettuale non si lasciava rinchiudere negli stretti confini di una disciplina accademica. A somiglianza di Marx, si possono trovare ad ogni passo, negli scritti di Keynes, riflessioni interdisciplinari nelle quali riaffiora l'unità fra filosofia, politica ed economia.
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Perché è urgente lottare contro la NATO e riscoprire il senso dell’agire politico
di Domenico Losurdo
A quanti anche a sinistra esprimono riserve ed esitazioni sull’appello e sulla campagna «No Guerra No Nato. Per un paese sovrano e neutrale» vorrei suggerire di riservare particolare attenzione a quello che scrivono da qualche tempo la stampa e i media statunitensi. Al centro del discorso è ormai la guerra; ed essa, ben lungi dal configurarsi come una prospettiva del tutto ipotetica e comunque assai remota, viene sin d’ora discussa e analizzata nelle sue implicazioni politiche e militari. Su «The National Interest» del 7 maggio scorso si può leggere un articolo particolarmente interessante. L’autore, Tom Nichols, non è un Pinco Pallino qualsiasi, è «Professor of National Security Affairs at the Naval War College». Il titolo è di per sé eloquente e quanto mai allarmante: In che modo America e Russia potrebbero provocare una guerra nucleare (How America and Russia Could Start a Nuclear War). È un concetto più volte ribadito nell’articolo (oltre che nelle lezioni) dell’illustre docente: la guerra nucleare «non è impossibile»; piuttosto che rimuoverla, gli USA farebbero bene a prepararsi a essa sul piano militare e politico.
Ma come? Ecco lo scenario immaginato dall’autore statunitense: la Russia, che già con Eltsin nel 1999 in occasione della campagna di bombardamenti della Nato contro la Jugoslavia ha profferito terribili minacce e che con Putin meno che mai si rassegna alla disfatta subita nella guerra fredda, finisce con il provocare una guerra che da convenzionale diventa nucleare e che conosce una progressiva scalata anche a questo livello.
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