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palermograd

Lavoro, reddito, genere

Che dibattito sia...

Marco Palazzotto

4109848Reddito minimo, reddito incondizionato, reddito di dignità? Attraverso questo intervento di Marco Palazzotto – che esamina criticamente le proposte di legge attualmente in ballo - PalermoGrad entra nel dibattito in corso oggi in Italia, con l’ambizione di precisarne ulteriormente i termini e di allargarlo a tutte le realtà di movimento, sindacali, politiche etc. etc. disposte a confrontarsi. L’obiettivo politico che ci interessa è impedire che la montagna inaccessibile del Reddito Universale Incondizionato finisca col partorire il ratto di una riforma “alla tedesca”, con un mercato del lavoro spezzato in due tronconi; e, visto che siamo in Italia, col rischio tangibilissimo che il troncone “buono” cominci a gravitare verso il basso, “tanto c’è il reddito minimo”. Pensiamo che, accanto alla doverosa erogazione di un reddito sociale per i disoccupati, la crisi occupazionale vada affrontata nell’ottica del “Lavorare Meno, Lavorare Tutti”. Una logica solidale che peraltro può reggersi soltanto sulle gambe della creazione di nuovo lavoro, attraverso l’imprescindibile intervento del “pubblico”.

In questo scenario, la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario può costituire la base materiale per un nuovo spirito di condivisione e partecipazione che possa aggredire sul serio il nodo del lavoro di riproduzione , contestando in pratica quel “compromesso tra capitalismo e istituzioni eteropatriarcali” (si veda  in proposito l’incisivo contributo del Laboratorio Smaschieramenti qui, al di là dell’ancoraggio al discorso del reddito incondizionato)  - con il suo welfare al contempo scadente e modellato intorno alla famiglia “tradizionale” -  che scarica il peso del lavoro di cura sulla donna e mimetizza la realtà LGBTQ.

Non ci consideriamo detentori di verità precostituite, ma di sicuro vorremmo contribuire alla definizione di parole d’ordine che non ricalchino – paradossalmente! – quell’atomizzazione capitalista che a parole tutti denunciano.

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Di recente è tornato in auge il dibattito sulle forme di sostegno al reddito per cittadini che si trovano in condizioni economiche disagiate.

Il confronto, soprattutto a sinistra, si è rinvigorito dopo le recenti proposte legislative del gruppo parlamentare di SEL e Movimento 5 Stelle su, rispettivamente, “reddito minimo” e “reddito di cittadinanza” e (qui e qui trovate due articoli che ne parlano). Tralasciando gli aspetti tecnici sulle differenze tra i due strumenti di welfare, la proposta del M5S prevede una erogazione di un reddito di € 9.360 annui a tutti i cittadini italiani ed europei residenti. Il costo è stimato in circa 17 miliardi di Euro annui da finanziare attraverso i tagli delle pensioni d’oro, tagli alle spese militari, pagamento IMU da parte della Chiesa Cattolica, aumenti di tassazione del gioco d’azzardo.

Sinistra Ecologia e Libertà invece propone un reddito minimo di € 7.200 annui aumentabile in base al nucleo familiare. La proposta è rivolta a inoccupati, disoccupati e precari. Oltre alla somministrazione monetaria SEL propone una integrazione in natura, attraverso aiuti per l’acquisto di libri, prestazioni sanitarie, abbonamenti bus, ecc. Le risorse finanziarie per coprire questa proposta derivano dalla <<fiscalità generale>>.

Le misure sopra descritte si inseriscono in un quadro europeo di welfare dove già esistono forme di reddito garantito e il cittadino italiano che guarda a queste proposte a tutta prima non può che trovarsi d’accordo, vista la situazione di crisi economica che ci attanaglia dal 2008.

Nella realtà le forme di assistenza reddituale pongono alcuni problemi scaturenti da considerazioni di tipo sia teorico che politico.

Tenterò di suddividere l’analisi ripercorrendo due filoni di pensiero che caratterizzano la discussione a sinistra su questi temi. Discussione che già prima della crisi del 2008 è stata arricchita da molti contributi, tra i quali quelli riportati sul Manifesto diversi anni fa e ripresi in questa rassegna di articoli di recente pubblicata da Contropiano.org.

Il primo filone al quale si può far riferimento considera funzionante un sistema capitalistico in cui la produzione sia “data”, predeterminata, e pensa che malfunzionamenti e disuguaglianze che ne scaturiscono dipendano da una iniqua distribuzione del prodotto sociale. L’azione politica pertanto andrebbe rivolta verso una riduzione delle disparità tra percettori di reddito. Un sistema economico di tal fatta, come il sistema capitalistico, sarebbe quindi riformabile e stabilizzabile grazie ad un intervento politico che tenda a ridurre drasticamente, se non eliminare, gli squilibri distributivi. Un capitalismo quindi “buono”, con un welfare evoluto, un ritorno al keynesismo europeo post bellico, come cerca di prefigurare l’economista Thomas Piketty nei suoi bestseller “Il Capitale nel XXI secolo” e “Disuguaglianze”.

Un secondo filone di pensiero, invece, affascina i teorici post-operaisti secondo i quali il “capitalismo post-fordista” avrebbe reso obsoleta la teoria del valore-lavoro. Il capitalismo dell’organizzazione manifatturiera taylorista sarebbe stato sorpassato da una economia terziarizzata e l’occupazione sarebbe creata fuori dall’industria. In questo contesto si sarebbe sviluppato un capitalismo “cognitivo” rappresentato soprattutto dalla produzione “immateriale” in cui il tempo di vita e le relazioni sul territorio producono valore. Pertanto il tempo di vita deve essere remunerato integrando la retribuzione salariale.

Quest’ultima visione del capitalismo offre una interpretazione parziale della realtà, focalizzata oltretutto sulla parte più sviluppata del mondo. Tale visione taglierebbe fuori l’80% del pianeta che invece dipende ancora dal settore manifatturiero nel blocco occidentale e nei paesi oggi chiamati B.R.I.C.S. (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa). Anche l’Italia, tuttora secondo paese manifatturiero in Europa e ottavo nel mondo, vede sì una crescita del settore terziario, ma dipende pur sempre dall’industria. Pensiamo ad esempio ai precari delle pulizie, o al settore informatico, o alle finte partita IVA dei servizi, o ancora ai call center. Tutti settori che nella realtà offrono servizi per il funzionamento del settore manifatturiero. In un interessante saggio dei Clash City Workers “Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell'Italia della crisi” (pubblicato da La Casa Usher nel 2014), gli autori producono una fotografia molto particolareggiata dell’economia italiana, offrendo un quadro diverso rispetto a quello raccontato da chi tenta di superare il valore- lavoro per rappresentare i rapporti di produzione e quindi la struttura stessa della società.

Insomma, un reddito di esistenza, o di cittadinanza, o minimo, produrrebbe l’effetto, in un periodo come quello che attraversiamo, di peggiorare le condizioni delle classi meno abbienti. Infatti i governi, una volta attivate queste forme di supporto, giocheranno sempre al ribasso, vendendo come aumento dell’occupazione l’introduzione di forme lavorative con redditi base. Si creerà un mercato del lavoro frammentato (come è successo in Germania con i mini jobs) fatto da sempre meno “privilegiati” (gli stabili e qualificati) e sempre più precarizzati.

Come nota l’economista Joseph Halevi in questa presentazione queste tipologie di reddito sono inconcepibili se non agganciate ai salari medi da fissare tra governo e parti sociali. Ma tale contrattazione può avvenire solo in un momento in cui le forze sindacali abbiano maggiore potere contrattuale cioè in un periodo di piena o quasi piena occupazione. Infatti queste erogazioni erano più sostanziose – vedi l’esempio dei paesi scandinavi - in periodi di bassa disoccupazione. Dopo lo scoppio della crisi dei subprime questi sostegni si sono ridotti drasticamente e hanno spinto i salari verso il basso, in una spirale senza fine.

Guardiamo ad esempio cosa sta succedendo in aree come la Scandinavia, o Francia o Germania, dove è attiva una forma di welfare di questo tipo, e dove i tassi di povertà sono in aumento pur avendo avviato questi strumenti da molti anni.

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Insomma sembra che questa tipologia di proposte rischino di creare ulteriore frammentazione all’interno del mondo del lavoro. Le esperienze, come da ultimo le riforme Hartz in Germania, hanno avuto lo scopo di mantenere bassa l’inflazione comprimendo la domanda interna grazie a salari reali al di sotto della produttività, rendendo così appetibili i prodotti del manifatturiero tedesco nel mondo e allo stesso tempo mantenendo alti tassi di profittabilità. Guardate il grafico dei salari reali in Germania durante e dopo le riforme Hartz e l’andamento della quota salari rispetto al reddito nazionale:

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Le proposte presentate in premessa infatti somigliano tanto alle riforme Hartz I, II, III, IV concluse con l’ultimo governo Schröder. Lotta alla disoccupazione con i mini jobs (più di 7 milioni di tedeschi lavorano per 450 € mensili e 14 milioni per meno di 900 €) o in alternativa forme di sussidi di disoccupazione con una integrazione in natura (edilizia residenziale sociale ed energia elettrica).

Tra l’altro la proposta presentata dal gruppo parlamentare di Sinistra Ecologia e Libertà indica come copertura finanziaria la <<fiscalità generale>>, lasciando pensare ad un aggravio fiscale su tutte le fasce di reddito e quindi anche sui lavoratori stessi che vedrebbero ridursi il potere di acquisto. Quantomeno, da questo punto di vista, la proposta del Movimento 5 Stelle non caricherebbe la misura sulle spalle delle famiglie.

Ovviamente il momento storico non permette di incidere, dal punto di vista politico, sulle modalità di controllo della produzione sociale, ma se l’obbiettivo è quello di ridurre le disuguaglianze gli strumenti appena descritti risultano inefficaci, e anzi controproducenti, se non accompagnati da altre misure.

Senza poter gestire le componenti autonome del reddito (in primis gli investimenti pubblici) e la finanza, risulta impossibile incidere sui livelli di produzione e occupazione. Quindi perché non proporre soluzioni che rendano più stabili e più numerosi - riducendo magari l’orario di lavoro per diminuire, in questo senso, i tassi di profitto - i posti di lavoro, anziché rischiare di attivare circuiti di maggiore precarizzazione e impoverimento come sta succedendo in quei paesi dove esistono già queste forme di welfare?

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