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L'esaurimento dell'attuale fase storica del capitalismo
di Guglielmo Carchedi
Una tesi fondamentale per la teoria della storia e della rivoluzione di Marx è che “Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso” (Per la Critica dell’economia politica, prefazione). Ora, se il marxismo è una scienza, ciò deve essere verificato empiricamente. Ma questa verifica è importante anche per un altro motivo. Come dice Gramsci, “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. (Quaderni del carcere , «Ondata di materialismo» e «crisi di autorità», volume I, quaderno 3, p. 311, scritto intorno al 1930). La verifica empirica ci permette anche di capire perché e soprattutto come il vecchio muore.
Nella fase storica attuale – e cioè dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi – il capitalismo incontra un limite sempre più insormontabile a causa della contraddizione tra la crescita della forza produttiva del lavoro da una parte e il rapporto di produzione, quello tra lavoro e capitale, dall’altra. Questa contraddizione si sta facendo sempre più dirompete e il capitalismo sta esaurendo le sue capacità di svilupparsi nel contesto di questa fase storica. La forma concreta presa da questa contraddizione, da questa sua crescente incapacità di svilupparsi, sono le crisi sempre più violente.
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L’“impazzimento” della politica come riflesso della crisi di egemonia del capitale
di Mauro Casadio*
Relazione introduttiva al Forum "Il vecchio muore ma il nuovo non può nascere" organizzato dalla Rete dei Comunisti a Roma il 17 e 18 dicembre
Nell’introduzione al forum di oggi invece di partire dall’alto dell’analisi teorica scegliamo, diversamente che in altre occasioni, di partire dal “basso” dei fenomeni politici. La crisi sistemica, che da tempo come Rete dei Comunisti stiamo cercando di analizzare, si manifesta come competizione tra paesi imperialisti e con le altre potenze economiche, tramite conflitti militari ed enormi trasformazioni sociali ed oggi sta sfociando nella dimensione politico istituzionale nelle “cittadelle” imperialiste”.
I sintomi ormai sono conclamati; sia nei paesi dell’Unione Europea che negli USA è in atto uno inaspettato e sincronizzato scombussolamento politico che porta inevitabilmente a ragionare sui motivi strutturali che hanno portato a questo punto. Certamente l’esempio più eclatante è quello Statunitense dove un outsider come Trump sembra aver trionfato sulla stantia e familista classe dirigente democratica ma anche repubblicana, in quanto parte di questa a cominciare dai Bush si è subito schierata contro la candidatura di Trump.
Associata a questi eventi dai commentatori politici è la Brexit dove l’insubordinazione della vecchia e “diligente” classe operaia laburista al proprio storico partito ha avviato un incerto percorso esterno all’Unione Europea sovraesponendo, nel contempo, le acrobazie tattiche fatte dal partito conservatore e da Camerun. Certamente quello che sta emergendo è l’emergere della “faglia atlantica” tra il mondo anglosassone e l’Europa che manifesta, però, gli stessi acciacchi politici.
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Tutta la post-verità sulla post-verità
di Enrico Gullo
D'accordo, bufale e balle imperversano ovunque: ma quale nucleo di verità nascondono? E a questo punto, non sarà il caso di cominciare a prenderle sul serio?
Oh, ma la sapete quella del Prete Gianni? Ve la racconto velocemente. Tra il 1143 e il 1146 il vescovo Ottone di Frisinga scrisse una Chronica nella quale – tra un pistolotto sulla Babele terrena e qualche borbottio sulla condizione umana – tenta di tracciare una storia dell’umanità che include la narrazione della storia a lui contemporanea. Tra le notizie fornite dalla Chronica c’è questa curiosa storiella, di cui Ottone viene a conoscenza a Viterbo tramite intrallazzi papali: racconta che esiste un Principe e Prete cristiano, tale Prete Gianni (o Preteianni o Presbyter Johannes), che vive da qualche parte di là dal Mediterraneo – forse in Africa o in Asia – e che, pur essendo nestoriano, desidera avvicinare se stesso e il suo popolo alla Cattolica Dottrina di Santa Romana Chiesa, anche in virtù della sua inimicizia coi limitrofi domini musulmani. Neanche a dirlo, è pure ricco da far schifo e il suo regno è pieno di meraviglie. Fin qui tutto bene, sembra. A parte il dettaglio che il fatterello è una colossale balla, certo. E che viene raccontato in una delle più influenti cronache medievali.
Il risultato è che una bufala di proporzioni bibliche (è il caso di dirlo) conosce una larghissima fortuna nel corso del basso Medioevo: lettere false, tentativi di corrispondenza da parte dei sovrani occidentali, mercanti che identificano il Prete Gianni in tale o talaltro sovrano incrociato lungo la via della seta… Sarà forse Gengis Khan? Oppure un suo avversario?
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Capitalismo 2016. L’anno più nero dal 20091
di Antonio Carlo
1) Tutto peggiora: a) PIL inadeguato; b) disoccupazione incurabile; c) banche sull’orlo del baratro; d) diseguaglianze ingovernabili; e) mercato e commercio mondiale in crisi; 2) Segue: f) gli scandali fiscali; g) la guerra dei tassi bancari; h) l’emigrazione; i) il fallimento del G20 cinese e la debolezza dei poteri forti (e occulti); 3) Gli USA verso la stagnazione; 4) Cina e Giappone: declino senza ritorno; 5) L’Europa e la Brexit. L’inizio della fine; 6) Italia: finisce la farsa del governo Renzi; 7) Crisi economica e crisi politica. Impotenza e dissoluzione delle democrazie occidentali. USA verso un’esplosione socio-politica?
1) Tutto peggiora: a) PIL inadeguato; b) disoccupazione incurabile; c) banche sull’orlo del baratro; d) diseguaglianze ingovernabili; e) mercato e commercio mondiale in crisi.
A) PIL inadeguato. L’anno scorso la signora Lagarde in un’intervista affermò che la crescita del PIL mondiale era mediocre e tale sarebbe rimasta fino al 2020, dopo non era dato sapere cosa sarebbe accaduto2. Quest’anno l’elegantissima signora ha espresso posizioni analoghe3, di rincalzo la capo economista dell’OCSE, signora Mann, ha detto che siamo prigionieri di una crescita bassa e per il 2016 la previsione è ridotta al 2,9% (precedente 3,1%)4. Non ci si azzarda a parlare di stagnazione secolare come fa Larry Summers (e non solo lui), ma il concetto è sostanzialmente simile, si cresce poco e male: la tabella che segue basata sui dati del FMI, evidenzia come i sette grandi (G7), che hanno nelle loro mani il grosso della produzione mondiale con una frazione modesta della popolazione, siano sostanzialmente al ristagno.
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Più flessibilità del lavoro crea davvero più occupazione?
Ecco cosa dicono i dati
di Emiliano Brancaccio, Nadia Garbellini e Raffaele Giammetti *
Studi pubblicati dalle principali istituzioni internazionali smentiscono l’idea che le deregolamentazioni del lavoro aiutino a creare occupazione e a ridurre la disoccupazione. La letteratura empirica in materia rivela che la riduzione delle tutele dei lavoratori risulta statisticamente associata non alla crescita degli occupati ma all’aumento delle disuguaglianze
La libertà di licenziamento e le altre forme di deregolamentazione del lavoro favoriscono le assunzioni? Svariati esponenti di governo e del mondo dei media hanno sostenuto che l’aumento dell’occupazione che si è registrato negli ultimi mesi in Italia sarebbe frutto della ulteriore flessibilità dei contratti sancita dal Jobs Act. Questa tesi, come vedremo, non trova riscontri nella ricerca prevalente in materia. Un primo dubbio sulla supposta relazione tra riforma del lavoro e occupazione sorge mettendo semplicemente a confronto i dati ufficiali sull’Italia con quelli relativi agli altri paesi europei. Dall’entrata in vigore del Jobs Act, la crescita dell’occupazione dipendente nel nostro paese è stata molto più modesta rispetto all’aumento medio degli occupati che si è registrato nell’eurozona; nello stesso arco di tempo, inoltre, non si rilevano significativi avvicinamenti dell’Italia alla media europea (dati Ameco Eurostat). In altre parole, paesi in cui negli ultimi due anni non si sono registrati cambiamenti nella legislazione del lavoro, hanno visto crescere l’occupazione decisamente più che in Italia.
L’esito di questa banale comparazione non è casuale. Dopo un ventennio di ricerche dedicate all’argomento, la più influente analisi economica ha escluso l’esistenza di relazioni statistiche significative tra precarizzazione del lavoro e occupazione.
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Referendum: l’avvento di TINA Trump
Tomaso Montanari
Non si deve a un costituzionalista, ma a don Luigi Ciotti, la migliore tra le analisi della riforma costituzionale su cui gli italiani voteranno il 4 dicembre 2016:
La democrazia, con il suo sistema di pesi e contrappesi, di divisione e di controllo dei poteri, rappresenta un ostacolo per il pragmatismo esibito da certa politica come segno di forza. Le richieste di delega, la sollecitazione a fidarsi delle promesse e degli annunci, l’ottimismo programmatico, così come l’accusa di disfattismo o di malaugurio (il “partito dei gufi”) verso chi critica o solo esprime perplessità, rivelano una concezione paternalistica e decisionista del potere, dove lo Stato rischia di ridursi a una multinazionale gestita da super manager e il bene comune a una faccenda in cui il popolo non deve immischiarsi. Tentazione anche questa non nuova ma a cui la globalizzazione ha offerto inedite opportunità, visto l’asservimento, salvo eccezioni, delle istituzioni politiche alla logica esclusiva del “mercato”, cioè di quel sistema che proprio la politica dovrebbe regolamentare. (L. Ciotti, Dal “no” a un impegno collettivo, in Io dico no, Gruppo Abele, pp. 75-76)
La democrazia come ostacolo. È in fondo questo ciò che dovrebbe essere scritto sulle schede del 4 dicembre: “Siete voi convinti che la democrazia sia un ostacolo al governo?”
Perché la diagnosi cui fa seguito la terapia della riforma è proprio questa: l’Italia sarebbe malata di troppa democrazia. Votiamo troppo, protestiamo troppo, siamo troppo rappresentati e troppo garantiti: i cittadini hanno troppa voce in capitolo, e se vogliamo che il governo decida, è necessario ridurre gli spazi di democrazia.
Tuttavia, un certo numero di intellettuali di sinistra si è schierato per il Sì, pur dichiarando di ritenere la riforma, nel merito, “una schifezza” (così, letteralmente, Massimo Cacciari). Perché lo ha fatto?
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Krisis. Il rifiuto da destra che interroga la sinistra
di Giovanna Cracco
Alla fine, le persone hanno iniziato a dire basta. Lo hanno fatto prima gli inglesi con la Brexit e poi gli statunitensi con l’elezione di Trump. Un rifiuto che ha spaccato come una me-la entrambi i Paesi: 51,9% Leave contro 48,1% Remain in Gran Bretagna, con un’affluenza del 72,2%; 46,4% Trump e 47,9% Clinton per il voto popolare negli Usa, con il 53,9% dei votanti (il meccanismo dei ‘grandi elettori’ ha poi portato la vittoria al candidato Repubblicano). Colpisce la forza del No: 17,4 milioni di inglesi e 62,2 milioni di americani lo hanno espresso resistendo alla battente campagna mediatica degli organi di informazione mainstream, schierati in blocco per il Sì.
In Gran Bretagna, un’analisi disaggregata del voto pubblicata dal Telegraph (1) mostra come abbiano votato in maggioranza per il Remain solo la Scozia, Londra e l’Irlanda del Nord; nel resto del Paese ha vinto il Leave, con le ex zone manifatturiere Midlands, Yorkshire e Nord-Est, oggi impoverite e disoccupate dopo deindustrializzazioni e delocalizzazioni, che hanno visto le percentuali più alte di rifiuto.
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La nuova ragione del mondo, di Pierre Dardot e Christian Laval
Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
di Militant
E’ un libro importante e contraddittorio questo opus magnum uscito nel 2009 in Francia e nel 2013 in Italia, tanto da diventare – come si legge nella quarta di copertina – “opera di riferimento nel dibattito internazionale” sul neoliberismo. E in effetti il corposo libro (500 pagine) si presenta come indagine sulla genealogia, le forme e i contenuti del liberismo dal XVIII secolo ad oggi, attraverso una vasta ricognizione delle principali linee teoriche che hanno ispirato l’attuale “ragione del mondo”, quella razionalità governamentale liberista (per usare il tipico lessico foucaultiano) che oggi dispone non solo i rapporti di produzione, ma la politica e la stessa antropologia dell’uomo contemporaneo. Nonostante gli autori scelgano un’impostazione rigidamente foucaultiana, l’opera riesce a far luce e a smascherare una serie di confusi cliché ideologici che ancora trovano spazio nel dibattito politico sulla natura del liberismo attuale. Primo e più deviante dei quali, quello sul ruolo dello Stato. Vulgata vuole che il liberismo, in una sorta di continuum storico-politico che va dall’800 ad oggi, miri costantemente al ridimensionamento delle funzioni dello Stato, riducendone gli spazi di manovra, puntando a quello Stato minimo di smithiana memoria oggi apparentemente imperante. Niente di più sbagliato, eppure in molti ancora credono alla favoletta dello Stato nazionale che scompare abbattuto dalla marea montante liberista. In realtà, e forse questo è lo specifico più rilevante dell’intera opera di Dardot e Laval:
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Storia naturale della post-verità
Mario Pireddu
“Le verità vere sono quelle che si possono inventare”, scriveva Karl Kraus circa un secolo fa. Lo scrittore e polemista austriaco, celebre anche per i suoi aforismi, amava dire che chi esagera ha buone probabilità di venir sospettato di dire la verità, e chi inventa addirittura di passare per ben informato. Più o meno nello stesso periodo, lo scrittore anarchico statunitense Ambrose Bierce definiva così il termine verità nel suo splendido Dizionario del diavolo: “ingegnoso miscuglio di apparenze e utopia”. Veritiero nel libro di Bierce equivale così a “ottuso, stolto, analfabeta”. Con tutt’altro approccio, nel 1967 Guy Debord scriveva che “nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”. Il filosofo Baudrillard, riprendendo il Qōhelet, ci ha informati invece della scomparsa della realtà, sostituita dalla realtà dei simulacri.
Nel corso della nostra lunga storia europea siamo stati messi in guardia più volte sui pericoli della manipolazione del senso comune, delle verità e delle informazioni di qualsiasi tipo. La notizia più recente riguarda però l’elezione di “post-truth” a parola dell’anno per l’Oxford Dictionary: dopo un lungo dibattito la scelta è caduta su post-verità come termine che definisce le circostanze in cui, per la formazione dell’opinione pubblica, i fatti oggettivi sono meno influenti degli appelli all’emozione e alle convinzioni personali. Tra le motivazioni della scelta vi è l’elevata frequenza d’uso del termine nell’ultimo anno, con particolare riferimento al referendum britannico sulla Brexit e alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti.
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Alzando gli occhi sul campo: una analisi di fase
Un ’93 al quadrato?
di Aldo Giannuli
1) La lezione non è stata capita
A distanza di una settimana dal voto referendario, credo sia il caso di distogliere l’attenzione dalle cronache della crisi, per fare una valutazione più ampia e di lungo periodo.
Partecipando a diversi dibattiti televisivi, mi sono spesso trovato di fronte a interlocutori che ipotizzavano, chi augurandoselo chi per scongiurarlo, un governo Pd-Forza Italia come esito fatale della vittoria del No, unito alla conformazione tripolare del sistema ed all’indisponibilità del M5s ad alleanze.
Ho risposto che questo presupponeva il mantenimento dell’attuale quadro politico con questi partiti con il peso elettorale attuale (Pd e M5s intorno al 30% e Lega e Fi al 10-15% ciascuno) ma che questo non mi sembra affatto scontato. Infatti, sono convinto che la situazione attuale può riassumersi in una frase: “è un 1993 al quadrato”.
Vorrei motivare questa mia affermazione ed approfondirla meglio di quanto non possa fare nei tempi ristretti del salotto televisivo.
2) Il crollo del sistema del 1992-93
Nel 1992-93, sia per l’emergere della Lega che per l’ondata di scandali tangentizi e per il profilarsi di una notevole perturbazione monetaria, iniziò il crollo della prima repubblica, poi conclamato con il referendum sulla legge proporzionale, che spalancava la porta all’epoca del maggioritario.
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Marx, il marxismo e gli storici della Rivoluzione francese nel XX secolo(1)
di Julien Louvrier
L’autore del saggio che segue adotta un approccio rigorosamente diacronico. Partendo dalle analisi di Marx sulla Rivoluzione francese, egli dimostra come gli scritti di quest’ultimo, spesso associato a Engels riguardo a tale soggetto, siano sempre precisamente contestualizzati e legati al tentativo di comprendere il presente. È Jean Jaures, con la sua Storia socialista della Rivoluzione francese, a fornire per primo una lettura globale degli eventi rivoluzionari basata sulla griglia interpretativa proposta da Marx. Una forma di banalizzazione di questa lettura si produce in seguito, attraverso lo sviluppo della storia economica e sociale, ad opera di storici che, senza aver letto troppo Marx, conservano del suo pensiero l’idea dell’importanza determinante della realtà economica. Nel contesto della Guerra fredda, tale interpretazione «sociale» della Rivoluzione è oggetto di vigorosi attacchi e condanne, in quanto espressione di un marxismo riduttivistico. Una rimessa in causa che prende le mosse da letture privilegianti il fattore politico, le quali, tuttavia, si aprono nuovamente, dopo alcuni anni, a ricerche che ripropongono la questione delle appartenenze sociali.
* * * *
Pensare il rapporto tra il marxismo e la storiografia della Rivoluzione francese comporta l’affermazione di un’ovvietà e di un paradosso. Lo storico della rivoluzione francese, che sia marxista o meno, non può fare a meno di Marx. Per descrivere le lotte sociali caratteristiche della società di Ancien Régime, comparare l’economia francese della fine del XVIII secolo con quella di altre potenze europee, formulare delle ipotesi circa le origini della Rivoluzione, appare difficile sottrarsi al lessico e alle analisi sviluppati dal filosofo di Treviri in tutta la sua opera.
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La dittatura degli intelligenti
di Il Pedante
Con questa pedanteria mi piace sviluppare una riflessione già avviata ne Lo schiavismo dei buoni, sui modi in cui concetti verbalmente consegnati a un passato da deplorare - lo schiavismo e il colonialismo nell'articolo citato, il totalitarismo e l'eugenetica nel caso qui rappresentato - ritornano a sedurre la coscienza delle masse e, in particolare, di coloro che se ne reputano i nemici culturalmente ed eticamente più attrezzati.
L'occasione è offerta dalle note reazioni al voto del 23 giugno sull'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea. Una valutazione degli effetti geopolitici dell'evento eccede le competenze di chi scrive, né in fondo è rilevante. La narrazione politico-mediatica che ne è scaturita indica infatti una ben più urgente, tangibile e immediata intolleranza alla democrazia come norma costituente del pensiero e dell'azione in politica che, come si è già scritto su questo blog, si manifesta nella normalizzazione culturale della critica non già alle decisioni (ad rem), ma al metodo democratico (ad medium) e a chi vi partecipa (ad personas).
Complice anche la mancanza pressoché totale di argomenti razionali, all'indomani del voto coloro che speravano nella permanenza degli inglesi nell'Unione si sono esibiti, con la certezza dell'impunità e dell'autogiustificazione che solo il branco sa dare, in un'esercizio di delegittimazione non solo della volontà popolare ma anche del popolo stesso, disprezzato nella sua maggioranza democratica in quanto vecchio, pavido, ignorante e protervo.
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Gli errori di Tsipras, M5S e sinistra sull'euro
Come sganciarsi dalla moneta unica senza uscire dall'eurozona
di Enrico Grazzini
L'opposizione democratica – quella dei 5 Stelle e della Sinistra – dovrebbe preparare urgentemente un piano chiaro sull'euro e sull'Europa. La situazione italiana è infatti molto più preoccupante di quanto ci fanno apparire. È più che grave: è disastrosa (anche se al peggio purtroppo non c'è fine). La crisi bancaria è serissima, e quella dell'intero Paese prelude a probabili rotture con l'Unione Europea e con i mercati finanziari. In effetti l'Italia è sull'orlo del baratro: l’esito è incerto, ma senza svolte sicuramente avanziamo verso la catastrofe. Il contesto è pessimo: l’euro è una moneta strutturalmente fragile e perennemente a rischio di sopravvivenza, l’eurozona è già in coma, e l'Italia è il punto debole di questa eurozona malata.
Pochi dati sintetici (fonte: Istat) illustrano la drammatica condizione a cui è giunto il nostro Paese. Dal 2007 al 2015 l'Italia dell'euro ha perso quasi 10 punti di PIL (circa 140 miliardi in meno) e un quarto della produzione industriale. I disoccupati sono passati da un milione e 150 mila unità a quasi tre milioni. Il reddito medio è sceso fino al livello pre-euro (primi anni '90) e 4,6 milioni di famiglie sono ormai entrate in condizione di povertà assoluta. Gli investimenti sono caduti del 30% circa. Con i famigerati tagli alla spesa pubblica, i servizi per i cittadini (sanità, istruzione, trasporti) sono in condizioni di degrado. Al sud l'unico business fiorente e liquido è quello delle mafie. I giovani più bravi vanno all'estero. Paghiamo più tasse di quanto lo stato spende per i servizi pubblici, ma lo stato è ugualmente in deficit perché paga circa 70-80 miliardi all'anno di interessi sul debito agli investitori finanziari.
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Economia malata, teoria convalescente
M. Palazzotto intervista Giorgio Gattei
Abbiamo assistito al fallimento del movimento per Tsipras in Europa e il governo greco oggi non fa che perpetrare una politica di austerità in continuità con i precedenti governi (in teoria) più a destra. Podemos sembra non riuscire a superare l’impronta populista dell’anti-casta in salsa grillina. Idem in Italia in cui il M5S si accinge, probabilmente, ad accrescere il proprio potere, soprattutto se il governo Renzi non riuscirà a superare il voto referendario. Alcuni segnali positivi arrivano dall’Inghilterra, che almeno vede ricompattare una sinistra attorno a Corbyn. Che percorsi occorre intraprendere in Italia e in Europa, secondo te, per costruire un movimento di massa che faccia da contraltare alle politiche di austerità e che tenti di superare il potere dei grandi comitati d’affari europei rappresentati dalle istituzioni UE e dal blocco franco-tedesco?
Sullo stato attuale di ciò che avrebbe dovuto essere una “sinistra eterna” e di cui ha parlato da qualche parte François Furet (ma che adesso proprio ‘eterna’ non può dirsi), al momento la vedo andare alla deriva per la perdita del doppio ancoraggio alla marxiana critica dell’economia politica e alla pratica della lotta di classe che è stata sostituita da una accozzaglia di “scontri di civiltà”, guerre di religione, conflitti geopolitici e quant’altro. Va però detto che questo fallimento della “sinistra” non è proprio tutto colpa sua, perché come si poteva mantenere “marxista” e “classista” dopo lo squagliamento vergognoso (perché senza nemmeno un gemito) dell’URSS e dopo la dimostrazione logica dell’erroneità di quella “trasformazione dei valori in prezzi di produzione” che avrebbe dovuto confermare che il profitto non è altro che sfruttamento del lavoro altrui?
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Un «Testamento» senza eredi. Lukács e lo stalinismo
di Matteo Gargani
In margine a una raccolta di scritti di Lukács contro lo stalinismo, che prende nome da una importante intervista del 1971, inedita in italiano. Dal 1930 in poi è presente nella produzione del filosofo ungherese la lotta per la «democratizzazione». Il tema della «trasformazione del lavoro in lavoro socialista». La radicale alterità di Lukács allo stalinismo
Il 28 giugno 1956 le maestranze degli stabilimenti Zispo di Poznań sono riunite per discutere il contenuto degli accordi raggiunti tra la propria delegazione di ritorno da Varsavia e il governo centrale. Dall’assemblea si stacca un corteo spontaneo, raggiunge il centro della città ingrossandosi, i principali edifici della città sono assaltati. Il bilancio della giornata sarà drammatico: 38 morti e 270 feriti. La lettura degli eventi di Poznań costituisce per la sinistra italiana un primo banco di prova rispetto a un fenomeno molto complesso, che nell’imminente autunno ungherese assumerà dimensioni ben più drammatiche. Al comunicato pubblicato su l’Unità del 2 luglio in cui Di Vittorio invita a interrogarsi non solo sui provocatori, ma anche sulle ragioni del «profondo malcontento» serpeggiante tra gli operai polacchi, Togliatti risponderà l’indomani con una dura spalla intitolata La presenza del nemico. Lo stesso 28 giugno, a Budapest, Lukács tiene presso l’Accademia politica del Partito dei lavoratori la conferenza La lotta tra progresso e reazione nella cultura d’oggi. Siamo appena agli inizi di quel lungo periodo di conseguenze innescato dal XX congresso del Pcus di febbraio.
Nella sua relazione all’Accademia politica, Lukács espone senza infingimenti la complicata situazione presente, gli errori del passato, le difficili sfide future. Egli presagisce che dal XX Congresso potrebbe benissimo scaturire – come effettivamente sarà – un terremoto che, alla prova dei fatti, non cambierà nulla. La strada che quindi Lukács indica nel giugno 1956 al movimento socialista mondiale è quella di un’uscita culturale e politica da sinistra alla problematica istanza di rinnovamento apertasi con l’ultimo congresso del Pcus. L’uditorio è sollecitato, sopra ogni altra cosa, a scansare la schematica immagine di socialismo e capitalismo quali indistinto campo del progresso il primo e della reazione il secondo. Lukács esorta in tal senso a riprendere lo spirito del VII Congresso del Comintern del 1935, ossia a tradurre la linea dei Fronti popolari nell’odierna lotta politica tra capitalismo e socialismo.
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La variante Formenti: un congedo dalla sinistra globalista
Mimmo Porcaro
L’ultimo lavoro di Carlo Formenti (La variante populista, Derive e approdi, Roma, 2016) è talmente denso di riferimenti e attraversato da così tante tensioni concettuali – effetto del passaggio dell’autore da un paradigma teorico ad un altro – da costringere chi voglia abbozzarne una recensione ad una drastica semplificazione che punti direttamente all’essenza del testo. E l’essenza si può riassumere in tre tesi.
1) La cultura egemone nella sinistra (e nella stessa sinistra radicale) è ormai parte organica dell’ ideologia delle classi dominanti ed ha la funzione di legittimare la globalizzazione, l’Unione europea ed il nuovo capitalismo esaltandone le presunte potenzialità democratiche e libertarie, e salutando l’indebolimento degli stati come un rafforzamento dell’autorganizzazione sociale. Punta di lancia di questa mutazione della sinistra è la cultura postoperaista che si presenta ormai come autoglorificazione di uno strato superiore del lavoro sociale (il lavoro ad alta qualificazione intellettuale) che ha rotto ormai ogni legame con gli strati inferiori.
2) Il soggetto della trasformazione sociale non deve essere cercato nei punti alti dell’organizzazione capitalistica del lavoro, come suggerisce di fare il postoperaismo, ma piuttosto nei punti più bassi o comunque nei luoghi tendenzialmente esterni alla logica della modernizzazione capitalistica: in ogni caso il soggetto non deve essere dedotto da categorie sociologiche, ma deve essere reperito nel corso di un’analisi concreta di ogni fase storicamente determinata della lotta di classe in una fase determinata;
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Pour en finir avec la souveraineté?
di Toni Negri
Il testo qui pubblicato è quello pronunciato da Toni Negri al festival di DeriveApprodi, a Roma il 25 novembre scorso. Questo testo riprende parzialmente un paio di paragrafi di un nuovo libro, Assembly, di Michael Hardt e Toni Negri, che sarà presto pubblicato da Oxford University Press.
Dunque, se non fosse stato montato e detto da uno solo, dovrebbe esser firmato da tutti e due
Comincerò dalla critica dell’autonomia del politico (nazionale) sotto la cui bandiera si muovono varie posizioni, tutte nostalgiche della sovranità.
“L’autonomia del politico” è infatti oggi da molti concepita come una forza di redenzione per la sinistra – di fatto la ritengo una maledizione dalla quale rifuggire. Uso la frase “autonomia del politico” per designare argomenti che pretendono che il processo decisionale in politica possa e debba essere tenuto al riparo dalle pressioni della vita economica e sociale, dalla realtà dei bisogni sociali
Alcune delle figure contemporanee più intelligenti che propongono l’autonomia del politico lo concepiscono come un mezzo per restaurare il pensiero politico liberal (di sinistra) strappandolo al dominio ideologico del neoliberismo, come antidoto non solo e non tanto alle politiche economiche distruttive del neoliberalismo, ivi comprese privatizzazione e deregulation, ma piuttosto ai modi nei quali il neoliberalismo trasforma e domina il discorso pubblico e politico: il modo nel quale esso impone una razionalità economica sopra il discorso politico e mina ogni ragionamento politico che non obbedisca alla logica di mercato. Laddove la “democrazia liberal” – ci spiega Wendy Brown – mantiene “una modesta separazione etica fra economia e politica”, la razionalità politica neoliberale chiude questa separazione e “sottomette ogni aspetto della vita sociale e politica al calcolo economico”. Secondo questo punto di vista, il neoliberalismo è la faccia discorsiva ed ideologica della “sussunzione reale” della società sotto il capitale ovvero, come si esprime Wendy Brown, “la saturazione delle realtà politiche e sociali da parte del capitale”.
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Cosa fare dopo il NO?
Note dall'assemblea sul potere popolare
Ex OPG Je so' Pazzo
Ripubblichiamo alcune riflessioni sul potere popolare dei compagni napoletani del "Ex OPG Je so' Pazzo". Il NO al referendum è stata una grande e fondamentale vittoria sia per inceppare l'avanzata del progetto autoritario dei padroni, sia per dimostrare a noi stessi che quando ci mettiamo all'altezza della sfida, quando siamo capaci di entrare nelle corde dei nostri nessuna vittoria ci è preclusa.
Ma il difficile viene ora, perché i loro si riorganizzaranno, tenteranno di trovare un nuovo Renzi (o di rimettere in sella il vecchio Renzi), cercheranno altre vie per imporre il loro modello di governo che significa più sfruttamento per tutti noi. Per questo non possiamo perdere tempo, non possiamo disperdere l'accumulazione di forze che abbiamo raccolto in questa campagna referendaria: dobbiamo trovare metodi di lotta e di autogoverno che ci diano in reale efficacia di intervento. Qui i compagni, a seguito di una partecipata assemblea, ci danno alcuni spunti: mutualismo, controllo popolare e battaglie nazionali su temi centrali come lavoro, formazione, sanità [ccw].
* * * *
Sabato scorso a Napoli è successo qualcosa di davvero importante.
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Si può salvare l’Italia dalla stagnazione economica?
di Alberto Bagnai
Nel secondo capitolo scritto per il libro L’euro est-il mort ? (qui la traduzione del primo), uscito in Francia a ottobre 2016, Alberto Bagnai risponde in maniera molto ampia, chiara e argomentata a una domanda cruciale che tutti ci poniamo: ce la farà il nostro paese a uscire dalla stagnazione economica? Se una risposta positiva sarebbe molto semplice dal punto di vista economico (eccellenti studi smascherano i falsi argomenti terroristici dei media), tuttavia le difficoltà vere sono di ordine politico e geopolitico, in quanto implicano un profondo ripensamento del ruolo dello stato nel sistema economico e un accordo a livello internazionale per una nuova regolamentazione dei mercati finanziari. C’è da augurarsi che per arrivare a questa inversione di rotta non si debba passare nuovamente attraverso gli orrori di una guerra mondiale
Mi è stato chiesto, in quanto economista italiano, di rispondere a questa domanda: «Come si può salvare l’Italia dalla stagnazione economica?» Mi sono permesso di modificarla leggermente: «Si può salvare l’Italia dalla stagnazione economica?»
Facciamo il punto
Per cominciare, facciamo il punto della situazione. Abbiamo già insistito sul fatto, oggi riconosciuto praticamente da tutti gli economisti, che la crisi in cui siamo impantanati è dovuta al debito privato. Questo vale, in misura differente, per tutti i paesi della zona euro, inclusi quelli che si credono forti (come la Germania) o che si credevano forti (come la Finlandia). Ma nel momento in cui scrivo questo capitolo (maggio 2016) l’Italia resta il paese che corre il pericolo maggiore, e quindi il più pericoloso. I media hanno sollevato il velo di oblio che copriva la Grecia, i cui problemi non sono stati risolti dal FMI (cosa su cui nessuno si faceva illusioni). Ma i problemi italiani, benché meno evidenti, sono di un ordine di grandezza infinitamente superiore.
I crediti deteriorati delle banche italiane a settembre 2015 hanno toccato i 200 miliardi di euro (ovvero il 115% del PIL greco).[i]
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Appunti per un “International social standard sulla moneta”
di Emiliano Brancaccio
Intervento alla Conferenza GUE/NGL “Resistance and alternatives to free trade”,Parlamento Europeo, Bruxelles, 7 dicembre 2016
Questa conferenza è intitolata “Resistenze e alternative al libero scambio”. Il tema è di assoluta rilevanza, ma vorrei far notare che il “libero scambio” è in crisi già da qualche anno. I dati indicano che dal 2008 ad oggi sono state introdotte e mai rimosse ben 1196 nuove misure di limitazione degli scambi commerciali tra i paesi del G20, e si è verificato un aumento del 12% del numero complessivo di restrizioni ai movimenti internazionali di capitale. Queste misure restrittive sono state adottate non solo da paesi relativamente piccoli come la Malesia o l’Argentina, ma anche da giganti del calibro di Russia, India, Cina e soprattutto Stati Uniti d’America. Solo considerando il biennio 2014-2015, gli Stati Uniti hanno avviato 385 investigazioni anti-dumping che hanno dato luogo a varie ritorsioni nei confronti di paesi concorrenti. Oggi Trump lo grida ad alta voce mentre Obama magari preferiva sussurrarlo, ma a ben guardare la politica americana asseconda già da tempo il vento protezionista che sta soffiando sul mondo.
La lotta in corso tra liberoscambisti e protezionisti è una lotta interna alla classe capitalista. Quella tendenza che Marx definiva “centralizzazione” determina una contesa tra capitali forti che intendono abbattere i confini doganali per proseguire nella loro opera di egemonizzazione dei mercati, e capitali deboli che si difendono elevando barriere. E’ facile rilevare che in questa lotta il lavoro e le sue residue rappresentanze non sono protagonisti. Il lavoro è piuttosto una variabile residuale, che subisce le iniziative altrui.
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Dopo il referendum
di Il cuneo rosso
Referendum. C’è qualcosa di interessante per noi … Purché si ritorni alla lotta
Commentando la Brexit, lo storico britannico Niall Ferguson ha avuto, un paio di mesi fa, una frase felice: “Questo è l’anno orribile delle élite globali”, perché è l’anno che ha messo in luce il crescente distacco tra la ‘gente comune’, ovvero i lavoratori, e le élite capitaliste globali (occidentali). Anzi: la crescente sfiducia di massa nei confronti di queste élite.
La cosa si è puntualmente ripetuta in Italia nel referendum sulle modifiche alla Costituzione del 4 dicembre. Da una parte c’erano, a sostegno della riforma di Renzi&C., Confindustria, Bankitalia, le grandi banche, le borse, le agenzie di rating internazionali, Obama, la Merkel, la Commissione europea, pressoché tutte le televisioni e i giornali a maggiore diffusione. Dall’altra circa 20 milioni di No, nonostante una campagna contraria martellante e ricattatoria, con un’affluenza al voto molto alta, inattesa, per un referendum squisitamente politico. Interessante.
La composizione sociale del No e del Sì
Ancora più interessante è, per noi, l’analisi del voto per classi e posizioni sociali; una analisi che è sostanzialmente univoca.
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Dove va l'America di Trump?
di Pierluigi Fagan
Il 9 Novembre scorso, il giorno dopo le elezioni americane, mi son ritrovato a dover correggere le bozze del mio libro che stava per andare in stampa, un libro di geopolitica ma non solo. Trattandosi di geopolitica, era certo ben presente non solo una descrizione del ruolo e strategia degli Stati Uniti nell’ordine mondiale ma ovviamente anche una previsione sul comportamento futuro della potenza egemone. In accordo col sentimento generale, si dava per scontato che questo comportamento futuro avrebbe sviluppato le logiche già ben note ed assai prevedibili della nuova presidente Hillary Clinton. Il 9 Novembre quindi, mi sono ritrovato con un problema e con davvero poco tempo per risolverlo perché comunque si doveva chiudere il lavoro da lì a giorni. Avevo certo seguito le elezioni americane e su Trump mi ero fatto una idea che fortunatamente, non seguendo in genere e del tutto la communis opinio, aveva almeno colto alcuni punti solidi della sua logica. Non ero caduto cioè nel tranello della propaganda americana che dipingeva Trump come poco più di un cretino. Debbo però ammettere che non avevo approfondito più di tanto seguendo un sommario calcolo delle probabilità che all’inizio aveva anche preso in considerazione le previsioni di Michael Moore ed Andrew Spannaus che ammonivano sulle concrete possibilità di vittoria del magnate ma che poi si era adagiato sul più unanime consensus generale che aspettava solo l’incoronazione della Signora del Caos.
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La divaricazione del '77
Baudrillard, Camatte, Collu versus Negri, Mieli, Foucault
di Stefano Borselli
A proposito di una profezia delnociana
Quella che viene comunemente chiamata «la profezia» di Del Noce sulla inevitabile trasformazione in movimento radicalborghese, è spesso intesa come attribuita a tutto il marxismo. Per esemplificare, ecco come Vittorio Messori riassume una sua intervista col filosofo, i corsivi sono nostri:
Era prevedibilissimo», rispondeva Del Noce a chi gli chiedeva conto di queste sue virtú «profetiche». «Non occorreva davvero essere indovini: persa per strada l’utopia rivoluzionaria, l’essenza di surrogato religioso, è restato al marxismo soltanto il suo aspetto fondamentale, di prodotto dell’illuminismo scientista, del razionalismo che esclude Dio per una scelta previa e obbligata. Anche il comunismo «all’europea», dunque, si è rovesciato nel suo contrario: voleva affossare la borghesia e ne è divenuto una delle componenti piú salde ed essenziali».1
La lettura dei testi delnociani mostra tuttavia che il filosofo, ben consapevole della molteplicità delle interpretazioni di Marx, accortamente non parlava del marxismo in toto, ma si riferiva ad alcune sue aggettivazioni e segnatamente a quella cosiddetta gramsciana, in sostanza al PCI:
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L’elezione di Donald Trump
Samir Amin
1. La recente elezione di Donald Trump dopo la Brexit, l’aumento di voti fascisti in Europa, ma anche e molto meglio, la vittoria elettorale di Syriza e l’ascesa di Podemos sono tutte manifestazioni della profondità della crisi del sistema del neoliberismo globalizzato . Questo sistema, che ho sempre considerato insostenibile, sta implodendo sotto i nostri occhi nel suo centro. Tutti i tentativi di salvare il sistema – per evitare il peggio – mediante piccoli aggiustamenti sono destinati al fallimento.
L’implosione del sistema non è sinonimo di progressi sul cammino verso la costruzione di una alternativa veramente migliore per i popoli: l’autunno del capitalismo non coincide automaticamente con la primavera dei popoli.
Una cesura li separa, che dà alla nostra epoca un tono drammatico convogliando i pericoli più gravi. Ciò nonostante, l’implosione – perché è inevitabile – deve essere afferrata con precisione come l’occasione storica offerta ai popoli. Si apre la strada per possibili progressi verso la costruzione dell’alternativa, che comprende due componenti indissociabili: (i) a livello nazionale, l’abbandono delle regole fondamentali della gestione economica liberale a beneficio di progetti di sovranità popolare che danno luogo a progresso sociale; (Ii) a livello internazionale, la costruzione di un sistema di globalizzazione policentrica negoziata.
I progressi paralleli su questi due livelli diventano possibili solo se le forze politiche della sinistra radicale concepiscono la strategia per loro e riescono a mobilitare le classi popolari per progredire verso la loro realizzazione.
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“Sei lezioni di economia”: un libro per capire la crisi dell’Europa. E uscirne
di Vladimiro Giacché
Giunti al termine delle “Sei lezioni di economia” di Sergio Cesaratto si hanno due certezze. La prima è che il testo di Cesaratto è molto di più di un libro di lezioni di economia: è senz'altro un compendio delle principali teorie economiche tra Otto e Novecento, ma anche una storia economica d'Italia dagli anni Settanta in poi, una ricostruzione molto accurata della crisi europea dal 2010 a oggi, e anche – aspetto quest’ultimo da leggersi un po’ in filigrana, ma importante – una ragionata e al tempo stesso appassionata ricostruzione dell'itinerario intellettuale del suo autore nel contesto delle controversie economiche degli ultimi decenni. La seconda certezza è che si tratta senz'altro di uno dei più importanti contributi al dibattito economico italiano degli ultimi anni. Se la seconda certezza rende più gratificante il compito del recensore, la prima lo rende più arduo, costringendo a selezionare tra gli aspetti del libro da trattare: selezione che necessariamente sacrifica qualcosa.
In questa sede ci si occuperà della ricostruzione della crisi europea offerta da Cesaratto, e non senza rammarico: le pagine sulla rivoluzione incompiuta di Keynes e sulla conseguente successiva riconduzione di questo autore nell'alveo della teoria marginalista (riconduzione che Cesaratto considera forzata, ma fondata su alcuni limiti del suo pensiero) avrebbero meritato pari attenzione (lo stesso non si può dire purtroppo delle pagine sbrigative dedicate a Marx, e in particolare alla teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto: che, a differenza di quanto sembra pensare l'autore, non è una spiegazione delle singole crisi, ma un’interpretazione delle tendenze di lungo periodo del modo di produzione capitalistico).
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