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Si può salvare l’Italia dalla stagnazione economica?
di Alberto Bagnai
Nel secondo capitolo scritto per il libro L’euro est-il mort ? (qui la traduzione del primo), uscito in Francia a ottobre 2016, Alberto Bagnai risponde in maniera molto ampia, chiara e argomentata a una domanda cruciale che tutti ci poniamo: ce la farà il nostro paese a uscire dalla stagnazione economica? Se una risposta positiva sarebbe molto semplice dal punto di vista economico (eccellenti studi smascherano i falsi argomenti terroristici dei media), tuttavia le difficoltà vere sono di ordine politico e geopolitico, in quanto implicano un profondo ripensamento del ruolo dello stato nel sistema economico e un accordo a livello internazionale per una nuova regolamentazione dei mercati finanziari. C’è da augurarsi che per arrivare a questa inversione di rotta non si debba passare nuovamente attraverso gli orrori di una guerra mondiale
Mi è stato chiesto, in quanto economista italiano, di rispondere a questa domanda: «Come si può salvare l’Italia dalla stagnazione economica?» Mi sono permesso di modificarla leggermente: «Si può salvare l’Italia dalla stagnazione economica?»
Facciamo il punto
Per cominciare, facciamo il punto della situazione. Abbiamo già insistito sul fatto, oggi riconosciuto praticamente da tutti gli economisti, che la crisi in cui siamo impantanati è dovuta al debito privato. Questo vale, in misura differente, per tutti i paesi della zona euro, inclusi quelli che si credono forti (come la Germania) o che si credevano forti (come la Finlandia). Ma nel momento in cui scrivo questo capitolo (maggio 2016) l’Italia resta il paese che corre il pericolo maggiore, e quindi il più pericoloso. I media hanno sollevato il velo di oblio che copriva la Grecia, i cui problemi non sono stati risolti dal FMI (cosa su cui nessuno si faceva illusioni). Ma i problemi italiani, benché meno evidenti, sono di un ordine di grandezza infinitamente superiore.
I crediti deteriorati delle banche italiane a settembre 2015 hanno toccato i 200 miliardi di euro (ovvero il 115% del PIL greco).[i]
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Appunti per un “International social standard sulla moneta”
di Emiliano Brancaccio
Intervento alla Conferenza GUE/NGL “Resistance and alternatives to free trade”,Parlamento Europeo, Bruxelles, 7 dicembre 2016
Questa conferenza è intitolata “Resistenze e alternative al libero scambio”. Il tema è di assoluta rilevanza, ma vorrei far notare che il “libero scambio” è in crisi già da qualche anno. I dati indicano che dal 2008 ad oggi sono state introdotte e mai rimosse ben 1196 nuove misure di limitazione degli scambi commerciali tra i paesi del G20, e si è verificato un aumento del 12% del numero complessivo di restrizioni ai movimenti internazionali di capitale. Queste misure restrittive sono state adottate non solo da paesi relativamente piccoli come la Malesia o l’Argentina, ma anche da giganti del calibro di Russia, India, Cina e soprattutto Stati Uniti d’America. Solo considerando il biennio 2014-2015, gli Stati Uniti hanno avviato 385 investigazioni anti-dumping che hanno dato luogo a varie ritorsioni nei confronti di paesi concorrenti. Oggi Trump lo grida ad alta voce mentre Obama magari preferiva sussurrarlo, ma a ben guardare la politica americana asseconda già da tempo il vento protezionista che sta soffiando sul mondo.
La lotta in corso tra liberoscambisti e protezionisti è una lotta interna alla classe capitalista. Quella tendenza che Marx definiva “centralizzazione” determina una contesa tra capitali forti che intendono abbattere i confini doganali per proseguire nella loro opera di egemonizzazione dei mercati, e capitali deboli che si difendono elevando barriere. E’ facile rilevare che in questa lotta il lavoro e le sue residue rappresentanze non sono protagonisti. Il lavoro è piuttosto una variabile residuale, che subisce le iniziative altrui.
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Dopo il referendum
di Il cuneo rosso
Referendum. C’è qualcosa di interessante per noi … Purché si ritorni alla lotta
Commentando la Brexit, lo storico britannico Niall Ferguson ha avuto, un paio di mesi fa, una frase felice: “Questo è l’anno orribile delle élite globali”, perché è l’anno che ha messo in luce il crescente distacco tra la ‘gente comune’, ovvero i lavoratori, e le élite capitaliste globali (occidentali). Anzi: la crescente sfiducia di massa nei confronti di queste élite.
La cosa si è puntualmente ripetuta in Italia nel referendum sulle modifiche alla Costituzione del 4 dicembre. Da una parte c’erano, a sostegno della riforma di Renzi&C., Confindustria, Bankitalia, le grandi banche, le borse, le agenzie di rating internazionali, Obama, la Merkel, la Commissione europea, pressoché tutte le televisioni e i giornali a maggiore diffusione. Dall’altra circa 20 milioni di No, nonostante una campagna contraria martellante e ricattatoria, con un’affluenza al voto molto alta, inattesa, per un referendum squisitamente politico. Interessante.
La composizione sociale del No e del Sì
Ancora più interessante è, per noi, l’analisi del voto per classi e posizioni sociali; una analisi che è sostanzialmente univoca.
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Dove va l'America di Trump?
di Pierluigi Fagan
Il 9 Novembre scorso, il giorno dopo le elezioni americane, mi son ritrovato a dover correggere le bozze del mio libro che stava per andare in stampa, un libro di geopolitica ma non solo. Trattandosi di geopolitica, era certo ben presente non solo una descrizione del ruolo e strategia degli Stati Uniti nell’ordine mondiale ma ovviamente anche una previsione sul comportamento futuro della potenza egemone. In accordo col sentimento generale, si dava per scontato che questo comportamento futuro avrebbe sviluppato le logiche già ben note ed assai prevedibili della nuova presidente Hillary Clinton. Il 9 Novembre quindi, mi sono ritrovato con un problema e con davvero poco tempo per risolverlo perché comunque si doveva chiudere il lavoro da lì a giorni. Avevo certo seguito le elezioni americane e su Trump mi ero fatto una idea che fortunatamente, non seguendo in genere e del tutto la communis opinio, aveva almeno colto alcuni punti solidi della sua logica. Non ero caduto cioè nel tranello della propaganda americana che dipingeva Trump come poco più di un cretino. Debbo però ammettere che non avevo approfondito più di tanto seguendo un sommario calcolo delle probabilità che all’inizio aveva anche preso in considerazione le previsioni di Michael Moore ed Andrew Spannaus che ammonivano sulle concrete possibilità di vittoria del magnate ma che poi si era adagiato sul più unanime consensus generale che aspettava solo l’incoronazione della Signora del Caos.
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La divaricazione del '77
Baudrillard, Camatte, Collu versus Negri, Mieli, Foucault
di Stefano Borselli
A proposito di una profezia delnociana
Quella che viene comunemente chiamata «la profezia» di Del Noce sulla inevitabile trasformazione in movimento radicalborghese, è spesso intesa come attribuita a tutto il marxismo. Per esemplificare, ecco come Vittorio Messori riassume una sua intervista col filosofo, i corsivi sono nostri:
Era prevedibilissimo», rispondeva Del Noce a chi gli chiedeva conto di queste sue virtú «profetiche». «Non occorreva davvero essere indovini: persa per strada l’utopia rivoluzionaria, l’essenza di surrogato religioso, è restato al marxismo soltanto il suo aspetto fondamentale, di prodotto dell’illuminismo scientista, del razionalismo che esclude Dio per una scelta previa e obbligata. Anche il comunismo «all’europea», dunque, si è rovesciato nel suo contrario: voleva affossare la borghesia e ne è divenuto una delle componenti piú salde ed essenziali».1
La lettura dei testi delnociani mostra tuttavia che il filosofo, ben consapevole della molteplicità delle interpretazioni di Marx, accortamente non parlava del marxismo in toto, ma si riferiva ad alcune sue aggettivazioni e segnatamente a quella cosiddetta gramsciana, in sostanza al PCI:
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L’elezione di Donald Trump
Samir Amin
1. La recente elezione di Donald Trump dopo la Brexit, l’aumento di voti fascisti in Europa, ma anche e molto meglio, la vittoria elettorale di Syriza e l’ascesa di Podemos sono tutte manifestazioni della profondità della crisi del sistema del neoliberismo globalizzato . Questo sistema, che ho sempre considerato insostenibile, sta implodendo sotto i nostri occhi nel suo centro. Tutti i tentativi di salvare il sistema – per evitare il peggio – mediante piccoli aggiustamenti sono destinati al fallimento.
L’implosione del sistema non è sinonimo di progressi sul cammino verso la costruzione di una alternativa veramente migliore per i popoli: l’autunno del capitalismo non coincide automaticamente con la primavera dei popoli.
Una cesura li separa, che dà alla nostra epoca un tono drammatico convogliando i pericoli più gravi. Ciò nonostante, l’implosione – perché è inevitabile – deve essere afferrata con precisione come l’occasione storica offerta ai popoli. Si apre la strada per possibili progressi verso la costruzione dell’alternativa, che comprende due componenti indissociabili: (i) a livello nazionale, l’abbandono delle regole fondamentali della gestione economica liberale a beneficio di progetti di sovranità popolare che danno luogo a progresso sociale; (Ii) a livello internazionale, la costruzione di un sistema di globalizzazione policentrica negoziata.
I progressi paralleli su questi due livelli diventano possibili solo se le forze politiche della sinistra radicale concepiscono la strategia per loro e riescono a mobilitare le classi popolari per progredire verso la loro realizzazione.
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“Sei lezioni di economia”: un libro per capire la crisi dell’Europa. E uscirne
di Vladimiro Giacché
Giunti al termine delle “Sei lezioni di economia” di Sergio Cesaratto si hanno due certezze. La prima è che il testo di Cesaratto è molto di più di un libro di lezioni di economia: è senz'altro un compendio delle principali teorie economiche tra Otto e Novecento, ma anche una storia economica d'Italia dagli anni Settanta in poi, una ricostruzione molto accurata della crisi europea dal 2010 a oggi, e anche – aspetto quest’ultimo da leggersi un po’ in filigrana, ma importante – una ragionata e al tempo stesso appassionata ricostruzione dell'itinerario intellettuale del suo autore nel contesto delle controversie economiche degli ultimi decenni. La seconda certezza è che si tratta senz'altro di uno dei più importanti contributi al dibattito economico italiano degli ultimi anni. Se la seconda certezza rende più gratificante il compito del recensore, la prima lo rende più arduo, costringendo a selezionare tra gli aspetti del libro da trattare: selezione che necessariamente sacrifica qualcosa.
In questa sede ci si occuperà della ricostruzione della crisi europea offerta da Cesaratto, e non senza rammarico: le pagine sulla rivoluzione incompiuta di Keynes e sulla conseguente successiva riconduzione di questo autore nell'alveo della teoria marginalista (riconduzione che Cesaratto considera forzata, ma fondata su alcuni limiti del suo pensiero) avrebbero meritato pari attenzione (lo stesso non si può dire purtroppo delle pagine sbrigative dedicate a Marx, e in particolare alla teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto: che, a differenza di quanto sembra pensare l'autore, non è una spiegazione delle singole crisi, ma un’interpretazione delle tendenze di lungo periodo del modo di produzione capitalistico).
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L'investitura. La continuità. Il decreto
di Quarantotto
"...bisogna impedire qualunque interpretazione che un giorno possa far pensare a sovranità trasferite o comunque delegate. Ecco perché al termine «appartiene», come pure al termine «emana», preferisco il termine «risiede».
Gli organi attraverso i quali la sovranità e i poteri si esercitano nella vita di un popolo, sono organi i quali agiscono in nome del popolo, ma che non hanno la sovranità, perché questa deve restare al popolo. Ecco perché è preferibile il termine «risiede» in confronto a quello di «appartiene».
Quell'«emana», originario, dà il senso di una sovranità che si può trasferire agli organi i quali la esercitano; quell'«appartiene» dà un senso di proprietà; mentre il termine «risiede» consolida il possesso; non la proprietà. Il popolo, cioè, rimane possessore di questa che è la suprema potestà democratica.
Può sembrare una sottigliezza, ma sottigliezza non è. La verità è un'altra. Esistono fra gli uomini due categorie di persone di fronte ai problemi costituzionali: quelli che credono nelle Costituzioni e quelli che non credono nelle Costituzioni.
Per quelli che non credono nelle Costituzioni, cioè che pensano che il giorno che avessero la maggioranza farebbero quello che vogliono, un'affermazione di principio può sembrare una sfumatura, e non ha importanza; ma per coloro che, come me, credono profondamente nelle Costituzioni e nelle leggi, ogni parola ha il suo peso e la sua importanza per il legislatore di domani.
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Strike against the machine! Appunti sul presente
di Berlin Migrant Strikers
Ouverture
“Dove c’è rivoluzione… c’è confusione… dove c’è confusione un uomo che sa ciò che vuole ci ha tutto da guadagnare.” (James Coburn in “Giù la testa” – 1971)
“Tu… tu credi che io voglia derubarti? No… no, vedi… no! Non sono io il ladro. Non sono io che chiedo 85 cents per una Coca-Cola, sei tu il ladro! Io sto solo difendendo i miei diritti di consumatore, e riporto i prezzi al 1965…che te ne pare?!” (Michael Douglas in “Un giorno di ordinaria follia” – 1993)
I mesi appena trascorsi ci consegnano diversi fatti politici importanti che riguardano il conflitto capitale-lavoro, la produzione di soggettività e l’organizzazione delle lotte anticapitaliste. Fatti che si danno su una scala talmente ampia da meritare uno sforzo di lettura globale; fatti inoltre che parlano in modo così profondo delle trasformazioni presenti da diventare indizi utili a individuare un lavoro politico possibile.
Tra i diversi vogliamo in particolare soffermarci sullo sciopero in nero delle donne polacche che ha incendiato la prateria di un rinnovato conflitto di genere (dall’Argentina all’Italia, finanche negli USA), sullo sciopero dei lavoratori Foodora in Italia e Deliveroo a Londra (a cui seguono le nuove norme in UK contro Uber) ma anche le lotte dei portuali in Svezia e la firma dell’accordo sui magazzini nel settore della logistica in Italia che definisce un campo di battaglia nuovo e più avanzato in una lotta decennale (da confrontare con il deludente accordo dei sindacati confederali dei metalmeccanici).
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L'Italia capitalista è in grosse difficoltà
Ma la classe lavoratrice, al momento, non sta meglio
di Il cuneo rosso
Queste note sono un primo contributo all'analisi dello stato della classe proletaria oggi in Italia. Per evitare - per quanto possibile - fraintendimenti, facciamo tre precisazioni preliminari che chiediamo ai compagni di tenere bene presenti. La prima: il nostro discorso è qui circoscritto esclusivamente (o quasi) all'Italia per ragioni di utilità, per cercare di andare un po' più a fondo nell'indagine e perché è questo il campo principale della nostra attività. Ma non dimentichiamo certo che il proletariato è una classe internazionale per definizione, sia per il legame inscindibile che il mercato mondiale ha costruito tra i proletari di ogni angolo del globo, sia per la sua composizione di fatto multinazionale all’interno dei singoli recinti nazionali. La situazione italiana ha dei tratti specifici, ma il destino dei lavoratori in Italia è indissolubilmente legato al destino dei lavoratori del Nord e del Sud del mondo. La seconda: il quadro tracciato dello stato della classe oggi in Italia potrà apparire a qualche compagno pessimista (di sicuro quello di altri paesi è molto, o enormemente, più mosso specie in Asia, o anche in Francia), ma nel tracciarlo ci siamo attenuti al motto di Rosa Luxemburg, "Dire ciò che è, rimane l'atto più rivoluzionario", che riprende in pieno un concetto e un'attitudine espressi con altre parole cento volte da Marx e da Lenin. La nostra analisi può essere incompleta (lo è) o sbagliata (crediamo di no), ma risponde al criterio: partire dai fatti, non dai nostri desideri, quanto mai lontani, oggi, da essi.
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Nazionalizzare!
di Leonardo Mazzei
Perché la nazionalizzazione del sistema bancario è necessaria, giusta e perfino conveniente. Piccolo problema: per farla come si deve ci vuole la Nuova Lira
Ieri la vicenda del Monte dei Paschi di Siena (Mps) si è tinta di giallo. C'è o no lo stop della Bce alla richiesta di proroga dei termini per la ricapitalizzazione chiesta dalla banca senese? Ad oggi non si sa: le agenzie hanno battuto la notizia, ma il vertice di Mps dice di non aver avuto comunicazioni ufficiali...
Ovvio perciò il dubbio che si sia trattato del solito trucchetto della tecnocrazia eurista per ottenere una rapida soluzione della crisi di governo, cercando di indirizzarla verso uno sbocco che non dispiaccia a Bruxelles e Francoforte. Per costoro l'Italia è solo una scomoda colonia da tenere sotto controllo, ed a tal fine ogni mezzo è lecito.
Se questo è il risvolto politico delle mosse di ieri, nulla cambia riguardo agli aspetti di fondo della crisi bancaria italiana, della quale Mps è solo la punta dell'iceberg.
Ricapitoliamo perciò rapidamente la questione per trarne alcune conclusioni più generali. Da molto tempo le cose al Monte dei Paschi vanno male. Anzi, malissimo. Negli ultimi cinque anni la banca ha dovuto effettuare due ricapitalizzazioni da 5 e 3 miliardi, convertendo inoltre in azioni 240 milioni dei Monti bond. Al tempo stesso la capitalizzazione borsistica è scesa dai 6 miliardi del 30 giugno 2011 ai 600 milioni di ieri.
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La guerra che incombe sulla Cina
John Pilger
Quando andai a Hiroshima per la prima volta nel 1967, l’ombra sui gradini era ancora lì. Era l’impronta quasi perfetta di un essere umano rilassato: le gambe larghe, la schiena curva e una mano lungo il fianco mentre aspettava l’apertura di una banca. Alle otto meno un quarto della mattina del 6 agosto 1945, una donna e la sua silhouette furono impresse a fuoco nel granito. Rimasi a fissare quell’ombra per un’ora o forse più: non sarei mai riuscito a dimenticarla. Molti anni più tardi, al mio ritorno, non c’era più: spazzata via, “svanita”, motivo di imbarazzo politico.
Ho trascorso due anni nella realizzazione di un film documentario, The Coming War on China, nel quale prove e testimonianze mettono in guardia contro una guerra nucleare che non è più un’ombra, ma una eventualità concreta. La più massiccia mobilitazione di forze armate usamericane dopo la Seconda guerra mondiale è già ben avviata. Sono localizzate nell’emisfero settentrionale, ai confini occidentali della Russia, e in Asia e nel Pacifico, faccia a faccia con la Cina.
Il grande pericolo che ciò richiama non fa notizia, se non una sepolta e distorta da un bombardamento di falsità mediatiche che fa eco alla paura psicopatica infissa nella coscienza pubblica per gran parte del XX secolo.
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Crisi Infinite
di Jacob Blumenfeld
Il mondo è già finito? Ci siamo persi il momento della nostra scadenza?
In questo momento, sembra essere questa la domanda che ci stiamo collettivamente ponendo attraverso i medium della cultura popolare.
Non siamo più soddisfatti dal vedere il nostro pianeta ripetutamente minacciato da alieni, epidemie, robot, esplosioni nucleari, o dalla natura, e ci piace guardare l'umanità mentre si trova a dover gestire le conseguenze del disastro anziché prevenirlo. Non più convinti dall'unificazione dell'umanità contro la minaccia universale, traiamo piacere dal guardare le persone dividersi e combattere a morte gli uni contro gli altri secondo la razza, lo stato e la nazione. Credere in quello che una volta era l'ideale utopico delle classi lavoratrici, che vedeva tutte la nazioni unirsi insieme per rendere il mondo più perfetto, certifica, oggi più che mai, che uno è pazzo.
C'è rimasta una qualche speranza per un futuro senza che ci sia una guerra perpetua, crisi economiche, catastrofi ambientali, misoginia dilagante, violenza razzista, disuguaglianze enormi, terribili prigioni, lavoro senza fine? Non c'è niente che punti a questo. Utopia è sempre stata un'idea nata morta, dichiarata morta al suo arrivo in questo mondo che dobbiamo lasciare. Per qualcuno, il mondo diventa migliore solamente se si fanno partecipare più persone della ricchezza della società.
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Il nómos della modernità
di Robert Kurz
Pubblichiamo il capitolo IX del libro Weltordnungskrieg1 di Robert Kurz, inedito in Italia, nella traduzione di Samuele Cerea.
Ecco la prima parte
Abstract:
La crisi del diritto è solo uno dei molteplici livelli su cui si manifesta la crisi complessiva della modernità capitalistica. La crisi degli Stati nazionali nel processo della globalizzazione coincide con la crisi della possibilità regolative degli apparati statali sui rapporti sociali all’interno e, soprattutto, con una crisi fondamentale del diritto internazionale, ossia della regolazione del rapporto tra gli Stati. Un aspetto quest’ultimo drammaticamente evidenziato dalle guerre dell’ordine mondiale, condotte dagli USA sotto l’amministrazione Bush: la costruzione pericolante del diritto internazionale classico non viene sostituita da un nuovo nomos giuridico ma dalla legge del più forte. Robert Kurz analizza questo processo di deriva anomica sia all’interno che all’esterno dello Stato, facendo riferimento alla categoria schmittiana dello stato di eccezione e al costrutto dell’”homo sacer” di Agamben. Secondo Kurz la dicotomia stato normale/stato di eccezione, uno dei cardini del pensiero schmittiano, si risolve, nella società della merce, nell’alternativa tra uno stato di eccezione coagulato (la cosiddetta normalità) e uno stato di eccezione fluido mentre la forma-diritto, kantianamente modellata sulla soggettività moderna del denaro e del valore, contiene in sé il nucleo della riduzione dell’uomo a “homo sacer” nel senso di Agamben, liquidabile in ogni momento se superfluo per la logica del valore.
* * * *
Parte prima:
La fine del diritto, lo stato di eccezione globale e il nuovo «homo sacer»
Quando la sovranità si dissolve, si dissolve necessariamente anche ogni relazione giuridica e contrattuale tra gli Stati.
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Il populismo al tempo degli algoritmi / 3
Giso Amendola e Paolo Gerbaudo
Pubblichiamo oggi con gli interventi di Giso Amendola e Paolo Gerbaudo la terza e ultima parte di uno speciale che, prendendo spunto da alcuni temi trattati nel recente volume di Carlo Formenti La variante populista (già recensito su alfabeta2 da Cristina Morini), si propone di affrontare le nuove declinazioni del cosiddetto populismo.
* * * *
Macché populismo, macché comunità: nelle città oggi si muove tutta un’altra lotta di classe
Giso Amendola
1. Nella politica moderna, almeno nel suo filone maggioritario, quello nato attorno all’esperienza dello stato sovrano, rappresentanza, sovranità e popolo stanno insieme e muoiono insieme. Le regole del gioco le detta Thomas Hobbes in modo estremamente cogente e preciso: il popolo è costituito come unità politica solo attraverso la sovranità. Ricordare questo nodo indissolubile che stringe, nella modernità, popolo, sovranità e rappresentanza, può aiutare a districarci in qualche apparente paradosso che abita la nozione di populismo.
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Antropologia, progettualità neo-liberale, Soggetto
Un dialogo con Adelino Zanini
Pierluigi Marinucci – Adelino Zanini
D.: Affrontare il tema delle relazioni tra antropologia ed economia richiede una riflessione preliminare: in merito cioè a quanto questo complesso viluppo di relazioni abbia innanzitutto trovato esplicazione ”progettuale” nel campo epistemologico delle scienze umane, intese in chiave necessariamente e sufficientemente ampia da includere nel loro alveo concettuale anche la disciplina economica.
R.: Per quanto concerne lo statuto delle scienze umane, c’è un prima e un dopo Foucault (mi sia permesso di richiamare direttamente ciò che ho scritto nel mio libro dedicato al filosofo francese). Egli ci ha insegnato, infatti, come nel caso di tali scienze non vi sia “discorso” capace di restituire, attraverso un’unità architettonica formale, la totalità della propria storia. Il ricorso storico-trascendentale (l’individuazione di una fondazione originaria) e quello empirico (la ricerca del fondatore) appaiono, rispettivamente, tautologici ed estrinseci. Ciò che, ad esempio, permette di individuare un discorso come “economia politica”, non è l’unità di un oggetto, non è una struttura formale, un’architettura concettuale o una scelta filosofica fondamentale, appunto; è piuttosto l’esistenza di regole di formazione per tutti i suoi oggetti, per tutte le sue operazioni, per tutti i suoi concetti, per tutte le sue opzioni teoriche. È per questo che un’episteme non è la somma di conoscenze di un’epoca, bensì lo scarto, le distanze, le opposizioni, le differenze, le relazioni dei suoi molteplici discorsi scientifici. Essa non è una grande teoria sottostante, ma uno spazio di dispersione: non è uno stadio generale della ragione; è un complesso rapporto di spostamenti successivi.
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La voce dal padrone
La psicoanalisi ai tempi della Leopolda
di Maurizio Montanari
Non so se, quando lo psicoanalista J.A. Miller sosteneva la necessità di ‘parlare la lingua dell’altro’, cercando di rendere l’analista una figura attuale, elastica, capace di lasciare sempre più le mura dello studio, si riferisse anche alle kermesse di corrente di partito, come quella tenutasi alla Leopolda. La passerella fiorentina rappresentava invero più un salotto esclusivo, il défilé di una piccola élite, che non le voci della città.
La psicoanalisi, piuttosto che accasarsi presso un’avanguardia benpensante e piena, satolla di mezzi e verità, dovrebbe andare laddove la carne della città è viva, in bilico, precaria, disoccupata. Dove c’è il vuoto, dove qualcosa manca, cercando di dare voce a tutti coloro i quali la voce l’hanno persa, al prezzo di volgarizzarsi. Non è populismo dire che là dentro non erano rappresentate che alcune delle voci della società. Non certo quelle dei docenti toccati dalle recenti riforme, nè quelle dei giovani vittime del jobs act, manco quelle degli operai della Fiat colpiti dal ‘modello Marchionne’, uomo col quale il leader della Leopolda si dice in piena sintonia. Se la psicoanalisi la si vuole usare in città, dans la rue, si deve cercare di arrivare anche nelle periferie. Pena, il cadere in un gioco di specchi dove il padrone si bea delle sue parole e dei suoi tecnicismi, che si stagliano, ma sfumano in mezzo alla pletora di applausi e voci univoche del coro.
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Populismo di secondo grado e manipolazione dell’esito referendario
di Elena Maria Fabrizio
Tra i sintomi che affliggono le democrazie occidentali, la manipolazione dell’opinione pubblica e la manipolazione del voto sono i più noti. E non c’è consultazione politica e referendaria, con o senza quorum, che non confermi questo trend. Così, puntualmente, nell’ultima consultazione la tutela della Costituzione e il conseguente rigetto di una riforma irresponsabile che non ci avrebbe protetto da maggioranze retrograde, populiste e autoritarie, viene surclassato da altri dati, dotati di scarsa oggettività e più semplicistici. Non solo i cittadini avrebbero innanzi tutto votato per dire Sì o No al Presidente del Consiglio Renzi e al suo governo, ma con questa scelta, più che esprimersi sulla sua politica e le sue leggi, si sarebbero di fatto espressi sull’alternativa Renzi o il populismo, che è ovviamente sempre quello degli altri, Salvini e Grillo in primis.
Sembra quasi superfluo evidenziare che la carente analiticità di questa lettura eleva il populismo a giudizio di secondo grado cui scadono nell’analisi del voto, ma già prima nei modi e nei toni della campagna referendaria, quegli stessi sostenitori che hanno eretto il Pd a partito antipopulista per eccellenza; il quale non cede alla tentazione di dividere ancora una volta l’elettorato nel popolo che interpreta correttamente i propri valori (cambiamento, bellezza, sogno, futuro) dal popolo che al contrario ne sarebbe incapace.
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Ma gli operai votano?
di Roberto Salerno (*)
La vittoria del “NO” al referendum ha avuto una lettura prevalente: è il successo di Grillo e Salvini e segna il definitivo trionfo del populismo in Italia. Così come in Gran Bretagna il Leave e negli USA Trump hanno certificato un immaginario trionfo del populismo, agevolato dal voto operaio, in Italia una maggioranza, identificata qui come il “ceto medio impoverito” di concerto con una classe operaia incanaglita e incapace di comprendere lo spirito, precario, del tempo, avrebbe trascinato il Paese in una spirale che avrà come sbocco un governo Grillo (magari con Salvini, anche se non si capisce come). Uno sbocco comunque reazionario e questo, dicono, sarà il prodotto (e la responsabilità) di chi ancora illude larghi tratti della popolazione che le garanzie novecentesche, la stabilità del “secolo del lavoro” sia ancora possibile. Qualcosa del genere si era visto appunto dopo l’elezione di Trump e il voto sulla Brexit.
Subito dopo l’imprevista – più o meno – vittoria di Trump alle elezioni statunitensi si è immediatamente alzata la canea diretta verso il solito tradimento della classe operaia, che avrebbe votato l'impresentabile tycoon. Se la maggior parte di queste sbavanti accuse erano – e sono – semplici tentativi di deresponsabilizzazione di quella che incredibilmente viene a volte definita “sinistra” di governo, alcune di esse hanno fatto presa anche su insospettabili e disinteressati commentatori.
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Il senso della fine
di Gianluca Didino
In tempi di postumano e “declino dell'Occidente”, tornare a Frank Kermode è un modo per comprendere la complessità delle narrazioni contemporanee
Sono dovuto arrivare a trentuno anni prima di leggere Frank Kermode e questo dovrebbe bastare a decretare il fallimento dell’università italiana, ma siccome per fortuna l’università è una e il mondo è molteplice, e la prima è limitata mentre il secondo non lo è, e la prima è un modello davvero astratto e parziale del secondo, per tutte queste ragioni la curiosità intellettuale mi ha portato laddove non hanno potuto i piani di studio del Ministero e le mode culturali in voga tra gli accademici: cioè a leggere Il senso della fine, il seminale lavoro di Frank Kermode pubblicato per la prima volta nel 1967 e che, come proverò a dimostrare nel corso di questo articolo, dice qualcosa di fondamentale sulle narrazioni contemporanee.
Kermode basic
Quella descritta sopra è una delle tante maniere possibili per raccontare la mia scoperta di Kermode. È una maniera narrativa: prevede un inizio (la mia ignoranza di ventenne che si attiene ai testi suggeriti nella Guida Dello Studente) e una fine (la lettura dei saggi di Kermode e la conclusione che essi siano in qualche modo importanti nella definizione della fiction contemporanea). È una versione che conferisce senso alla mia scoperta, delinea una progressione, inserisce la lettura del libro e la scrittura di questo articolo e persino voi che lo state leggendo in un orizzonte temporale dotato di significato.
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Lo spauracchio del "rossobrunismo"
di Moreno Pasquinelli
Il quotidiano LA STAMPA, tra i diversi organi di regime, è quello che picchia più duro contro il Movimento 5 Stelle — le spocchiose élite torinesi non hanno ancora digerito l'espugnazione della loro roccaforte.
Un siluro è sparato anche nell'edizione del 6 dicembre, sia cartacea che elettronica. Il titolo è roboante: "Così Grillo spinge i 5 Stelle a destra". Citando presunte gole profonde si insinua che Beppe Grillo starebbe pensando ad un governo M5S-Lega-Forza Italia (embé?). In verità tutto dipana una deduzione: Grillo avrebbe scoperto che i nuovi poveri prodotti dalla crisi votano per le destre, vedi Brexit e Trump; dunque giusto allearsi con le destre. Al netto della fuffa scandalistica, siamo alle prese con la solita litania anti-populista. Tuttavia LA STAMPA è andata giù più pesante.
Prendendo spunto dal comizio conclusivo della campagna referendaria svolto da Beppe Grillo a Torino la sera del 2 dicembre, su LA STAMPA del 4 dicembre [Beppe Grillo e la mistica della sconfitta], tal Massimiliano Panarari, snocciola erudite quanto capziose considerazioni teoriche per poi sferrare il fendente: grillismo come rossobrunismo.
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Genere e famiglia in Marx: una rassegna
di Heather Brown
Molte studiose femministe hanno avuto, nel migliore dei casi, un rapporto ambiguo con Marx e il marxismo. Una delle questioni oggetto di maggiore contesa riguarda il rapporto Marx/Engels.
Gli studi di György Lukács, Terrel Carver e altri, hanno mostrato significative differenze tra Marx ed Engels circa la dialettica, così come su molte altre problematiche (1). Basandomi su tali lavori, ho esplorato le loro differenze riguardo alle questioni di genere nonché della famiglia. Ciò è di particolare rilevanza in rapporto ai dibattiti attuali, considerato che un certo numero di studiose femministe hanno criticato Marx ed Engels per quello che considerano il determinismo economico di questi ultimi. Tuttavia, Lukács e Carver indicano proprio nel grado di determinismo economico una notevole differenza tra i due. Entrambi considerano Engels più monistico e scientista di Marx. Raya Dunayevskaya è tra le poche a separare Marx ed Engels riguardo al genere, indicando nel contempo la natura maggiormente monistica e deterministica della posizione di Engels, in contrasto con una comprensione dialetticamente più sfumata delle relazioni di genere da parte di Marx (2).
In anni recenti, vi è stata scarsa discussione intorno agli scritti di Marx su genere e famiglia, ma negli anni Settanta e Ottanta, essi erano oggetto di numerosi dibattiti. In alcuni casi, elementi della più complessiva teoria marxiana andavano a fondersi con la teoria femminista, psicoanalitica o di altra forma, nel lavoro di studiose femministe come Nancy Hartsock e Heidi Hartmann (3). Queste hanno visto la teoria di Marx come primariamente chiusa rispetto alle questioni di genere, insistendo sulla necessità di integrazioni teoriche al fine di comprendere meglio le relazioni di genere.
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Oligarchie transnazionali e collaborazionismo delle sinistre
di Il Pedante
Falce e cartello, matrimonio imperfetto
Si è già visto su questo blog come le politiche reclamate dai grandi detentori di capitali a detrimento della restante umanità spesso coincidano stranamente con quelle auspicate da coloro che dovrebbero esserne i nemici più consapevoli e attrezzati: cioè le sinistre "vere", quelle che si identificano nell'impostazione originaria e più che mai attuale della lotta tra chi lavora e chi specula.
Ripassiamone qualche esempio:
le tasse patrimoniali (ne abbiamo parlato qui) invocate insieme dalle sinistre tsipro-rifondarole e dagli strozzini del FMI;
il reddito di cittadinanza e altre forme di elemosina o trickle-down (v. qui), che mettono d'accordo non solo i miliardari à la Grillo, gli zerbini finanziari à la Renzi a botte di 80 denari e, nell'ultima versione pervenuta, gli affamatori della BCE con l'helicopter money, ma anche i Vendola, i Ferrero e tutta la sinistra compagnia di chi baratterebbe il lavoro per una briciola di capitale;
l'apertura senza limiti all'immigrazione, poco importa se da stipare nei lager o negli agrumeti a 3 euro l'ora, cavallo di battaglia dei pauperisti di sinistra e, insieme, del re degli speculatori George Soros che investe milioni per promuovere lo sversamento del Terzo Mondo in Europa e USA;
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Risposta alla risposta del Prof. Umberto Galimberti
Marco Riformetti
Umberto Galimberti ha risposto, dalle pagine della Repubblica delle Donne, ad una domanda sul suo appoggio all'appello per il sì al referendum costituzionale. In appendice, ci sono la domanda e la risposta di Galimberti. Il "botta e risposta" precede l'esito referendario che ha sancito la sconfitta del sì ma l'argomentazione di Galimberti merita di essere segnalata per la sua inconsistenza
Professor Galimberti,
la ringrazio per aver risposto alla mia piccola “provocazione” 1 . Mi dispiace tuttavia dover ammettere che le sue parole hanno suscitato in me una certa delusione. Le sue argomentazioni mi sembrano infatti un semplice riassunto della retorica renzista che tante volte abbiamo ascoltato nei salotti televisivi in questi mesi di interminabile campagna elettorale.
Mi pare che il primo difetto di tali argomentazioni consista nel fatto di dare per scontate cose che scontate non sono affatto. Sebbene le sue siano solo verità per Umberto Galimberti, il modo in cui le pone le fa apparire come verità per tutti. Ad un certo punto parla addirittura di fatti che, come si pensa generalmente, dovrebbero essere incontestabili. Ma lei sa meglio di me che fatti e valori sono sempre strettamente correlati e dunque ciò che a lei appare come un fatto positivo (l’approvazione da parte di questo Governo di una serie di misure) a molti italiani può apparire, e in effetti appare, come un fatto negativo. Ed è lecito supporre che ciò possa dipendere dalla differente prospettiva che c’è tra la friggitrice di un McDonald’s e lo scranno baronale.
Comincerei con il dire che è stato proprio il fatto che Renzi abbia caricato sul referendum il peso del proprio destino politico a far venir voglia a molti di cogliere l’ottima occasione per rimandarlo a Rignano sull’Arno.
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L’ultima speranza dell’élite italiana è andata (e con lui l’euro)
di Federico Dezzani
Dopo la netta ed inequivocabile sconfitta referendaria, un 60-40 reso ancora più doloroso dall’affluenza record, Matteo Renzi ha annunciato l’intenzione di dimettersi. Molti commentari ragionano sulle cause circostanziali del voto referendario: la disfatta del premier era in realtà una “necessità storica” e si inquadra nel più ampio disfacimento della Seconda Repubblica che ha traghettato l’Italia nella moneta unica. La relativa calma con cui è stata accolta la vittoria del “no” ed il boom di Piazza Affari del 6 dicembre indicano che lo scenario di un governo che termini la legislatura, scongiurando così le elezioni anticipate, è sempre più concreto: i problemi che erano sul tavolo il 3 dicembre, sono però ancora lì. Il momento della verità si avvicina.
L’epilogo di Renzi era scontato. Quello dell’euro, pure.
Antipatico; saccente; arrogante; spocchioso; vacuo. Le ragioni della sconfitta di Renzi devono essere cercate nel suo carattere? Troppo legato alla sua cerchia di amicizie toscane; troppo intimo delle banche, dei salotti buoni, della Confindustria. È la gestione elitaria dell’esecutivo, la causa della disfatta di Renzi? Troppo distante dalla realtà del Paese; troppo legato alla favola “dell’Italia che riparte”; troppo ossessionato dai “segni più” all’economia.
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