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Karl Marx, il filosofo più "mondano"
Zoltan Zigedy
Karl Marx salta fuori nei posti più improbabili. Due decadi e mezza dopo che molti tra i noti intellettuali europei e statunitensi avevano gioiosamente annunciato che d'ora in avanti le idee di Marx sarebbero state irrilevanti, il Wall Street Journal ci offre un dibattito sorprendentemente misurato sul suo pensiero sotto il titolo "Il filosofo più mondano" (The Most Worldly Philosopher, 10.12.2016). L'autore, Jonathan Steinberg, rampollo emerito di Cambridge e professore all'Università di Pennsylvania, conclude così: "Marx ha lasciato un'eredità di idee potenti che non possono essere abbandonate come una obsoleta fantasia di un clima intellettuale scomparso" e ciò ha stimolato "… la crescita dei partiti Marxisti e di milioni di persone che hanno accettato quell'ideologia per tutto il corso del XX secolo. Quella era la filosofia certamente più in voga."
Mi piacerebbe credere che gli editori del WSJ, che hanno stampato il seguente occhiello sull'articolo a tutta pagina, stessero godendosi un buffo intermezzo nell'odierna patetica stagione elettorale: "Agli oppressi è concesso una volta ogni pochi anni di decidere quali particolari rappresentanti della classe dominante possano rappresentarli e reprimerli" La felice citazione, attribuita a Marx da Lenin (più probabilmente una parafrasi di Engels) non ha mai cittadinanza nei discorsi degli amici dei due mali meno peggiori i quali sbraitano ogni quattro anni che sono le elezioni a cambiare tutto.
Il professor Steinberg sfrutta l'opportunità di una recensione di un libro attuale su Karl Marx di Gareth Stedman Jones per condividere alcuni dei suoi punti di vista su Marx. E, a giudicare da alcune delle sue attribuzioni al libro di Jones, ciò è buona cosa. Stedman Jones, come molti dei suoi contemporanei d'accademia, un tempo si riteneva una sorta di marxista, ma solo finché Marx rimase di moda.
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Trump, la globalizzazione del vaffa
Dalla Brexit alla Amerexit?
di Fulvio Grimaldi
In nessun paese i politici formano una sezione della nazione così separata e così potente come nell'America del Nord. Quivi ognuno dei due grandi partiti che si scambiano a vicenda il potere viene a sua volta governato da gente per cui la politica è un affare, che specula sui seggi tanto delle assemblee legislative dell'Unione quanto dei singoli Stati. /.../ Ci sono due grandi bande di speculatori politici che entrano in possesso del potere, alternativamente, e lo sfruttano con i mezzi più corrotti e ai più corrotti fini; e la nazione è impotente contro questi due grandi cartelli che si presumono al suo servizio, ma in realtà la dominano e la saccheggiano". (Friedrich Engels)
Premetto che la vignetta del grande Apicella su Trump-Lenin che spazza via la marmaglia capitalista è un’ottima intuizione grafica, ma anche un’ aspettativa appesa a fili di ottimismo che per ora non si sa se siano cordame da barca, o tela di ragno. E tutti coloro che danno per sicure e assicurate sia le prospettive nefaste, che quelle fauste, a seconda dei punti di vista, avranno probabilmente modo di aggiustare il tiro e, in qualche caso, svuotare il caminetto e gettarsi la cenere sul capo. I saggi latini dicevano “nemo propheta in patria”. Dovremmo aggiornarci alla civiltà del Bar Sport: “omnes prophetae in patria”.
Mi è stato dato di sfuggire ai primi scomposti ululati dell’italiota stampa delle larghe intese, con i soliti acuti strazianti del “manifesto”, ma ho ampiamente recuperato nei giorni successivi. Ero in volo quando la vittoria impossibile di Donald Trump, il candidato anatemizzato dall’universo mondo (che poi è solo quello nord-occidentale e nemmeno un settimo dell’umanità ) manco fosse Dart Fener, da ipotesi onirica si materializza in fatto, solido quanto le Montagne Rocciose che hanno contribuito a produrlo. La bomba Trump, hybris distopica per lo stato di cose esistente, mi è esplosa dagli schermi di un albergo a Berlino dove mi trovavo per l’invito a un talkshow televisivo. Prima della autoproclamata “comunità Internazionale” (in sostanza la NATO) a riprendersi, una Angela Merkel improvvisamente ritrovatasi senza tutor e, dunque, malferma, assicura al neo-eletto collaborazione, ma gli pone anche una non lieve condizione-auspicio: “purchè ci uniscano i nostri valori”.
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Sinistra è conservazione?
di Riccardo Achilli
E’ noto che la sinistra, spiazzata nei suoi riferimenti ideologici dalla crisi, pressoché contemporanea, del comunismo e della socialdemocrazia classica, abbia maturato un rapporto tormentato e sostanzialmente insoluto rispetto alla modernità del pensiero unico che si è imposta negli ultimi trent’anni. Anche semanticamente, termini come “riformismo” e “progressismo”, che sembravano essere nel DNA stesso della sinistra, sono divenuti il grimaldello con il quale l’avversario storico ha smantellato il capitalismo welfaristico dei Trenta Gloriosi.
Questo spinge molti a riflettere sul nesso fra la ricostruzione/riaffermazione dei valori e del radicamento sociale della sinistra in termini di difesa, o possibilmente ricostituzione, del sistema di tutele e di diritti che, seppur in forte destrutturazione già a partire dalla metà degli anni Ottanta nei Paesi anglosassoni(e nel nostro Paese in realtà sin dai primi anni Ottanta, con il regresso e l’indebolimento del movimento sindacale conseguente allo shock petrolifero del 1980) è sprofondato definitivamente con il riordino neoliberista susseguente alla crisi del 2008.
Il ragionamento più definito in tal senso l’ho ascoltato, recentissimamente, in un convegno cui ho partecipato. Il succo è questo: il processo di ristrutturazione neoliberista degli ultimi trent’anni ha devastato i riferimenti sociali tradizionali cui la sinistra si rivolgeva. La classe operaia ha perso il suo ruolo propulsivo, irretita da nuove organizzazioni del lavoro che da un lato la precarizzano, riducendo il legame di classe con i mezzi di produzione, e dall’altro ne spezzano l’unitarietà, ed infine le conferiscono valori tipici della borghesia (i criteri del kai zen e del toyotismo, come anche la variabilizzazione del salario legata alla compartecipazione agli utili aziendali, spesso presente nelle grandi imprese di fatto, producono collaborazione di classe ed introiezione di valori come la competizione, l’efficienza, la partecipazione attiva al miglioramento continuo).
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Brecht. Arte e politica
di Mauro Ponzi
Mettere in scena in modo “dilettevole” – senza prediche e moralismi – per provocare una reazione nel pubblico
Brecht ha ereditato uno dei principi fondanti dell’illuminismo tedesco: l’arte deve educare il fruitore, deve migliorare l’umanità (nel suo caso deve far affiorare nella coscienza dello spettatore la consapevolezza della situazione politico-sociale in cui vive)…
Assistiamo anche in Italia a un rinnovato interesse per l’opera di Brecht. I giovani leggono i suoi libri, gruppi teatrali professionisti e dilettanti mettono in scena le sue opere. Forse la crisi economica mondiale ha riportato in primo piano la politica e l’attenzione al sociale. Ma il personaggio Brecht è molto complesso e articolato. In realtà la sua fama non è mai venuta meno. Basta andare sul sito del Brecht-Archiv di Berlino o seguire il programma del Berliner Ensemble per accorgersi la risonanza mondiale della sua opera e il seguito di pubblico: a Berlino è molto difficile trovare un biglietto per le messe in scena dei suoi drammi, c’è sempre il tutto esaurito. Certo, la prospettiva con cui ci si accosta a questo autore oggi è un po’ diversa da quella del secolo scorso. Il Brecht stimolante, interessante, ancora quasi tutto da scoprire, non è quello del teatro epico, bensì il giovane Brecht, carico di vitalismo e interessato a forme di sperimentalismo provocatorie, legato alle avanguardie di Monaco e di Berlino, il Brecht poeta che ha saputo coniugare il rapporto con la tradizione alle malinconie soggettive senza mai perdere di vista la questione sociale e soprattutto senza mai dimenticare l’obiettivo primario della sua produzione artistica, ossia quello di far riflettere lo spettatore o il lettore sulla situazione politico-sociale, sulla situazione della comunicazione artistica e non, sulla possibilità di cambiare l’esistente.
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Donald Trump chiude la fase unipolare
di Federico Pieraccini
Siamo davanti ad una svolta senza precedenti. Un cambiamento globale che potenzialmente potrebbe definitivamente travolgere l’ormai vecchio ordine mondiale unipolare creato dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e perfezionato grazie all’11 Settembre 2001. La vittoria di Donald Trump è la più emblematica rappresentazione di un rifiuto totale della popolazione americana per il cosiddetto establishment e per i loro interessi
Le elezioni americane si sono concluse con un verdetto inatteso e insperato che ha finito per travolgere tutte le previsioni. Trump ha vinto le elezioni negli Stati Uniti, patria e capitale di tutto il sistema occidentale, ridefinendo le logiche con cui normalmente viene eletto il presidente degli Stati Uniti. Soprattutto per questo motivo, si tratta di una vittoria straordinariamente importante. Non sono bastati tutti gli apparati del potere americano messi in campo come media, politici, esperti, intellettuali per arginare il voto di protesta.
La vittoria di Trump è anche la fine di due dinastie come i Bush e i Clinton e l’epilogo più inatteso del mandato di Obama, il più grande traditore del mandato dei cittadini nella storia degli Stati Uniti. Eletto per risolvere problemi come l’iniquità, divisioni razziali, povertà ed ingiustizia sociale ha fallito su tutta la linea, diventando uno dei maggiori promotori del voto di dissenso che si è focalizzato su Trump. Barack Obama, inconsciamente ed inconsapevolmente, è stato uno dei più grandi sponsor di Donald Trump: ironia della sorte. Gli elettori di Obama del 2008 e del 2012 non si sono fatti trarre in inganno dalle promesse della Clinton, e, dopo aver votato per Sanders come ultima speranza, hanno preferito rimanere a casa o addirittura votare Trump come massimo segno di disprezzo verso lo status quo, rappresentato dai democratici, dal partito repubblicano e dall’establishment di Washington. E’ stata soprattutto la vittoria della classe dei lavoratori, stufi della loro condizione economica, in continuo peggioramento da più di tre decenni.
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Superstizioni di seconda e terza mano. Complottismi e affini
di Sebastiano Isaia
A Pierluigi Battista l’ultima genialata complottista che ha avuto come protagonista una senatrice pentastellata non è proprio andata giù:
«”La grande truffa dell’allunaggio”, l’11 settembre voluto dalla Cia, fino alla riduzione della magnitudo dei terremoti per contenere i rimborsi. È lunga la serie delle bufale. La senatrice Enza Blundo non ce l’ha proprio fatta, è stato più forte di lei, il crampo complottista è dilagato in lei senza argini. […] La sindrome cospirazionista non perdona, ti prende all’improvviso, d’istinto. Come quella che ha catturato un altro deputato grillino, e svariate migliaia di seguaci di un sito negazionista molto in voga, a proposito della “grande truffa dell’allunaggio”, che invece i complottisti ritengono essere stato una messinscena in uno studio anziché sulla vera Luna. Come quella di un altro deputato grillino, Carlo Sibilia, convinto che da una centrale oscura, da una Spectre malvagia, sia partito l’ordine di inquinare il Pianeta con le scie chimiche. O il complottismo dei microchip che la Cia avrebbe nottetempo introdotto nei corpi di milioni di cittadini ignari. […] Attraverso la senatrice Blundo, sinora quasi sconosciuta nelle cronache della politica, ha parlato dunque uno spirito del tempo molto diffuso e molto variegato, così persuasivo che quasi ci sarebbe da credere a un complotto che spiega tanta popolarità. Ma in questi giorni non fa ridere, mentre sull’Appennino le case crollano e la gente piange. […] Il complottismo, del resto, ha la forza che ha perché fornisce risposte semplici e coerenti a qualcosa che ancora appare misterioso e indecifrabile».
In buona sostanza, e sintetizzando concetti che spesso amo impastare nei miei modesti scritti, il complottismo è la perfetta metafora di una totalità sociale che si dà alle spalle degli individui e contro la stessa possibilità di una loro esistenza autenticamente umana.
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Europa. Competizione globale e lavoratori poveri
di Lucia Pradella*
"Generazione Erasmus o Working Poor Generation? Ce lo chiedevamo a fine giugno qui, in seguito al risultato della Brexit e del dato del voto giovanile (ben diverso da quanto emergeva dai mega titoloni di certa stampa). Ce lo chiediamo di nuovo oggi dopo la vittoria di Trump, continuando a cercare di capire la nostra pancia per conoscere le risposte di cui abbiamo realmente bisogno." [Noi Restiamo]
La disoccupazione ha raggiunto livelli senza precedenti in Europa occidentale. I salari sono in discesa e si intensificano gli attacchi all’organizzazione dei lavoratori. Nel 2013 quasi un quarto della popolazione europea, circa 92 milioni di persone, era a rischio povertà o di esclusione sociale. Si tratta di quasi 8,5 milioni di persone in più rispetto al periodo precedente la crisi.
La povertà, la deprivazione materiale e il super-sfruttamento tradizionalmente associati al Sud del mondo stanno ritornando anche nei paesi ricchi d’Europa.
La crisi sta minando il “modello sociale europeo”, e con esso l’assunto che l’impiego protegge dalla povertà. Il numero di lavoratori poveri – lavoratori occupati in famiglie con un reddito annuo al di sotto della soglia di povertà – è oggi in aumento, e l’austerità peggiorerà di molto la situazione in futuro.
Alcuni critici sostengono che l’austerità è assurda e contro-producente, ma i leader europei non sono d’accordo. Durante l’ultima tornata di negoziati con la Grecia l’estate scorsa, Angela Merkel ha dichiarato: “Il punto non sono alcuni miliardi di euro – la questione di fondo è come l’Europa può restare competitiva nel mondo.” C’è del vero in tutto questo. Quello che la Merkel non dice è che i lavoratori in Europa, nel Sud dell’Europa in particolare, competono sempre di più con i lavoratori del Sud del mondo.
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Il carattere politico dello spazio urbano
L. Martin intervista Elisabetta Teghil
Elisabetta Teghil, femminista, da sempre si occupa dell’intreccio delle oppressioni di genere/razza/classe con particolare attenzione a come si rappresentano in questa società. E' architetto, non architetta perché «se la lingua […] e convenzione e istituzione, ma anche biologia ed evoluzione, ma anche ontologia ed identità, davvero e sufficiente osservare le raccomandazioni che prescrivono aggiustamenti grammaticali che rendano giustizia all’ignorato genere femminile? Oppure e questa una soluzione tipo “pari opportunità”, quella sorta di “leggi speciali” per donne, dove il doverle concepire significa che si continua ad agire a valle e non a monte. Cose che effettivamente cambiano assai poco, modificano l’apparenza ma non la sostanza» (Dumbes - feminis furlanis libertaris, La lingua come istituzione, in Coordinamenta femminista e lesbica, a cura di, Il personale è politico, il sociale è privato. Contro la violenza maschile sulle donne, Roma, 2012, p. 32).
Autrice di Ora e qui. Lettere di una femminista, Bordeaux, 2011; Il sociale è il privato, Bordeaux, 2012 e Coscienza illusoria di sé, Bordeaux, 2013. Scrive abitualmente sul blog coordinamenta.noblogs.org , ed ha una rubrica fissa, La Parentesi di Elisabetta, nell’ambito della trasmissione I nomi delle cose su Radio Onda Rossa.
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Questo numero di «Zapruder» esplora il complesso rapporto tra capitale e città, quale e secondo te il ruolo che il capitale gioca all’interno delle aree urbane e dei conflitti che in esse si sviluppano?
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L’immaginario neoliberale
André Tosel
1. Le due vie dell’immaginario neoliberale e la loro tensione
La questione dell’immaginario neoliberale si è fatta urgente: se non mancano le analisi critiche del neoliberalismo definito come teoria economica propria della fase attuale del capitalismo mondializzato, resta inesplorata la misurazione dell’efficacia di questa teoria sulle attitudini, le rappresentazioni, le pratiche delle masse dominate e sfruttate che avrebbero «interesse» al cambiamento della loro situazione e che nonostante ciò mantengono gli schemi di pensiero e i modelli di condotta prodotti da questo capitalismo e teorizzati dal neoliberalismo. La ragione è qui paralizzata da una «ragione» opposta che sa rendersi sensibile e farsi desiderare o accettare a dispetto di tutto. Il pensiero neoliberale ha investito l’immaginario e paralizzato in tal modo il pensiero critico togliendogli i mezzi di una sensibilizzazione immaginativa. È difficile far vivere l’idea che un altro mondo in questo mondo sia possibile e ancor più difficile è produrre immagini matrici di questo mondo possibile e sperato. La potenza dell’utopia sembra prosciugata e resa impossibile. In cosa consiste questa efficacia? Quali forme prende questo immaginario? Quali prospettive concrete sono aperte a una critica che ha come criterio l’aumento della potenza di pensare e d’agire di ciascuno considerato allo stesso tempo nella sua singolarità e nei rapporti che lo legano a dei «comuni»?
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“Il liberismo xenofobo di Trump non aiuterà i lavoratori americani”
Giacomo Russo Spena intervista Emiliano Brancaccio
Per l’economista la sconfitta della Clinton segna la crisi di quel modello di consenso che metteva le macchine elettorali democratiche e socialiste al servizio degli interessi della grande finanza. Ma la Trumpnomics determinerà un imponente trasferimento di reddito a favore dei ceti più abbienti. E se Trump continuerà a pretendere dalla FED un rialzo dei tassi d’interesse, ci saranno pesanti ripercussioni per l’Eurozona e anche per la Russia dell’amico Putin.
Come interpretare la storica vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane? Per l’economista Emiliano Brancaccio siamo di fronte alla prima, vera incarnazione di quella nuova onda egemonica che egli ha più volte definito “liberismo xenofobo”, e sulla quale da tempo lancia l’allarme. Con Brancaccio discutiamo dell’esito delle elezioni statunitensi, della carta Sanders che i democratici non hanno voluto giocare, delle ricette economiche di Trump e dei loro possibili effetti sui rapporti tra gli Stati Uniti e il resto del mondo.
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Professor Brancaccio, Hillary Clinton esce duramente sconfitta dalle presidenziali americane. Il risultato viene interpretato come una disfatta per il partito democratico statunitense, ma anche le forze democratiche e socialiste europee sembrano accusare il colpo. Possiamo parlare della fine di quel “liberismo di sinistra” che era stato inaugurato da Bill Clinton nel 1992 e al quale molti in Europa hanno cercato di ispirarsi?
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Platform Capitalism, oltre la dicotomia uomo-macchina
di Andrea Fumagalli
In the day we sweat it out on the streets of a runaway American dream
At night we ride through the mansions of glory in suicide machines
Sprung from cages out on highway nine,
Chrome wheeled, fuel injected, and steppin’ out over the line
H-Oh, Baby this town rips the bones from your back
It’s a death trap, it’s a suicide rap
We gotta get out while we’re young
‘Cause tramps like us, baby we were born to run”
Bruce Springsteeen, Born to run
Sharing Economy, Gig Economy, Big Data Economy, Collaborative Economy, Crowdfunding Economy. Quando ci troviamo di fronte a diverse terminologie per indicare un fenomeno socio-economico, di solito significa che tale fenomeno o è molto complesso o non è ancora classificabile nelle categorie concettuali tradizionali. La complessità sta nel fatto che tali termini si riferiscono ad un insieme di pratiche differenziate che tagliano trasversalmente vari settori produttivi, caratterizzati da modalità organizzative e tecnologiche altrettanto differenti.
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Manifesto politico
Collettivo Noi Restiamo
1. Da dove partiamo
Nel mondo in cui viviamo gli eventi e le informazioni viaggiano a una velocità sorprendente e non è sempre facile orientarsi. Guerre, caduta delle quotazioni di borsa, rialzo dello spread, cambi di governo, crisi diplomatiche, riforme del mondo del lavoro, disastri naturali, immigrazione, rallentamento della produzione industriale, aumento della disoccupazione: notizie che ci giungono e spesso ci appaiono come sconnesse fra di loro, in quel caotico vortice che sembra essere il presente. Eppure crediamo che sia possibile “venirne a capo”, innanzitutto individuando alcune domande che vadano nella direzione di trovare l’interconnessione fra tutti questi fenomeni: quale è l’origine la situazione attuale? Come si è generata la crisi? Quali sono i soggetti in campo nella gestione della crisi, e per conto di chi? Che effetti provocano le loro scelte nello scenario globale e nel nostro paese? Si tratta certamente di domande che richiedono risposte articolate che non si possono risolvere in poche pagine, ma dalle quali possiamo estrapolare qualche punto fermo per orientarci se vogliamo agire in direzione di un cambiamento e di alternativa da generazione cresciuta dentro questo nuovo contesto.
1.1 Crisi
Dopo la dissoluzione dell’URSS nell’89-’91, sembrava aprirsi uno scenario privo di conflitti e di rilancio dell’economia capitalista.
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La vittoria di Donald Trump
Tra rottura e ripetizione della Storia
di Piotr
La candidatura Clinton era il frutto marcio di un'America stravolta che la crisi sistemica ha reso torva, torbida, ipocrita, feroce e cinica
1. Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti d'America
Non esulto. Non gioisco. Sono solo moderatamente meno preoccupato. Per il momento.
La candidatura Clinton era il frutto marcio di un'America stravolta che la crisi sistemica ha reso torva, torbida, ipocrita, feroce e cinica ben più di quanto già fosse quando nel secolo scorso gettò due bombe atomiche sui civili giapponesi e uccise in Vietnam circa 2 milioni di persone.
Le élite che più di duecento anni fa ci hanno donato l'Illuminismo, hanno fatto la Rivoluzione Francese e scritto i Diritti dell'Uomo e del Cittadino, da tempo vogliono sbarazzarsi dei vincoli che i loro stessi vecchi valori impongono alle loro idee e alle loro azioni. Dopo la presa del potere della borghesia quei vincoli furono trasformati in ipocriti simulacri e disattesi con regolarità, ma c'era un ritegno, a volte solo formale, che comunque non permetteva di gettarli esplicitamente a mare. La borghesia come classe che doveva occupare ed egemonizzare lo spazio sociale aveva bisogno di un decente apparato ideologico. Oggi, nell'attuale crisi sistemica questi vincoli per quanto formali essi possano essere sono lo stesso sentiti come un'insopportabile camicia di forza che non permette tutte le sconsiderate azioni che le élite pensano di dover fare per mantenere la loro supremazia.
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Il ritorno delle SS
di Alberto Bagnai
No, aspettate, non vorrei ci fosse un equivoco! Non sto parlando di quei buontemponi dalle divise impeccabili che arrivavano cavalcando rombanti moto con sidecar per commettere con la proverbiale efficienza germanica le efferatezze figlie (oggi ci dicono) del nazionalismobrutto. Le Schutz-staffeln non ci sono più, e, se ci fossero, sarebbero per noi meno distruttive delle nuove SS: le Sinistre Subalterne.
Salto l'ovvia premessa, che, oltre a non essere originale, credo sia familiare e condivisa dai lettori di questo blog e di Orizzonte48: il maggioritario, come mi pare avessero chiarito ex ante tanti politologi (ma io non sono un politologo, quindi non vi saprei dare un riferimento), è un modo per costringere gli elettori a scegliere fra due destre. Qui ci occupiamo della destra che fa finta di essere una sinistra, e che quindi, come ho chiarito fin dal mio primo intervento nel dibattito, e come è del resto piuttosto scontato, è quella che viene regolarmente incaricata di fare il lavoro sporco per il capitale. Ma attenzione: se il problema fosse che il maggioritario serve al capitale per canalizzare il dissenso verso una falsa alternativa, prevenendo la formazione di spazi politici alternativi, forse la soluzione sarebbe relativamente facile. Alla fine, la gente vota anche un po' col portafogli!
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Spazio urbano e lotta di classe
di Leonardo Lippolis
La lotta per liberare lo spazio urbano sarà la nuova lotta di classe
Luogo storico dell’emancipazione dai vincoli oppressivi della tradizione e della comunità chiusa dell’epoca premoderna, la città, con il capitalismo, è divenuta strumento dei suoi processi di alienazione ma anche luogo della possibilità e della chance rivoluzionaria.
È difficile dire cos’è la città oggi; nonostante alcuni tratti comuni, sono tante le differenze tra quello che accade nel vecchio Occidente e nel resto del mondo, quello in espansione in Asia, Sudamerica, Cina e Africa. Il dato certo è che lo stucchevole dibattito di alcuni ambienti militanti sul contrasto città-campagna è surclassato dalla realtà, per cui l’urbanizzazione, ovvero l’espansione di giganteschi agglomerati abitativi dai confini sempre meno definiti, è una tendenza in atto in tutto il globo.
La Cina è lo specchio dei tempi; nelle sue megalopoli di decine di milioni di abitanti si sperimentano le forme più estreme del cambiamento. Da qualche mese, per esempio, a Pechino è in costruzione un muro che reclude in sterminate periferie circa due milioni di contadini da poco immigrati nella capitale, attratti dal boom economico e dalla possibilità del lavoro di fabbrica. Posti di guardia, telecamere e pattuglie militari controllano gli accessi e i confini tra la città e questi ghetti che rimangono chiusi dalle 23 alle 6 del mattino. Di giorno i reclusi della città-prigione possono entrare e uscire solo con un pass che certifica la loro identità, l’appartenenza etnica, l’occupazione e un numero di telefono.
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White Mirror
di Pietro Bianchi
«Trump è stato capace di dare una forma nazionalistica, razzista e interclassista agli immaginari e ai discorsi di un gruppo sociale proprio perché nessuno è stato capace di dargli una forma conflittuale». Un primo commento a caldo sul voto USA
“Questo è il prezzo da pagare per non aver affrontato i costi reali della deindustrializzazione e della globalizzazione che è avvenuta negli Stati Uniti negli ultimi 35-40 anni e per non aver capito quanto questa abbia avuto un impatto sulla vita delle persone e abbia scavato delle ferite profonde: al punto che la gente vuole qualcuno che gli dica di avere una soluzione. È questo quello che fa Trump: dare risposte semplici a problemi molto complessi. Risposte sbagliate a problemi molto complessi. E questo può essere molto seducente”.
Sono le parole non di un analista politico ma di Bruce Springsteen che in un’intervista di qualche settimana fa a Rolling Stone (nella quale poi bollava Trump come un “deficiente” e un “white nationalist”) dava inconsapevolmente la migliore interpretazione ante-litteram di quello che poi sarebbe successo ieri sera con le elezioni presidenziali americane.
Ma la stessa cosa l’aveva scritta anche Sandro Portelli qualche giorno fa su il manifesto (“I lavoratori americani dimenticati dai democratici”, 6 novembre) parlando di come ormai da molto tempo il Partito Democratico americano abbia abbandonato i luoghi dal lavoro e della classe e di come l’America liberal, e il suo messaggio sempre più urbanizzato e sempre più declinato su simboli e consumi “culturali”, consideri la figura del lavoratore bianco, maschio, rurale come “altro da sé” consegnandolo di fatto al discorso reazionario della destra repubblicana.
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Al di là della governance
La politica come riconoscimento
Roberto Finelli
In ricordo di Luciano Mechelli, giovane filosofo e intellettuale proletario del quartiere di Panìco, a Piazza Navona
1. Oltre il blocco heideggeriano
Antropologia e politica appaiono indistricabimente connesse. La loro connessione è la medesima che dire: individuazione e socializzazione fanno tutt’uno. Nel senso che ormai non si può più tornare indietro dalla coscienza definitivamente acquisita della loro congiunta valorizzazione, come due faccie della medesima questione. La politica quale esercizio del potere, quale tecnica della governamentalità, in questa sede non credo possa interessarci. Non può interessarci cioè, in quanto sterile di futuro, la concezione che già Trasimaco esponeva della politica, nel I° libro della Repubblica platonica, come l’utile del più forte, o nel significato contemporaneo di governance, quale tecnica istituzionale di mediazione tra interessi tutti legittimamente presupposti: ossia della regolazione tra poli della cittadinanza tutti legittimati come soggetti presuntivamente autonomi e differenziati da una comune divisione sociale del lavoro.
Politica può significare, a mio avviso, solo politeia, quale partecipazione di tutti i cittadini alla produzione del bene comune e, nell’orizzonte di questo bene comune, destinazione e realizzazione del non-comune, quale affermazione della differenza d’esistenza d’ognuno, quale riconoscimento cioè del più proprio, e irriducibile a quello di altri, progetto di vita.
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Lenin lettore di Hegel
di Stathis Kouvélakis
Come spiegare il fatto che al cospetto del disastro della Prima guerra mondiale Lenin si sia ritirato per dedicarsi allo studio della Logica di Hegel? Si tratta di un interrogativo che non ha cessato di turbare il marxismo del primo dopoguerra. Secondo Stathis Kouvelakis, svelare l’enigma dei Quaderni filosofici di Lenin, manoscritti frammentari ed eterogenei, equivale a pensare questo testo come una rettifica del pensiero del movimento operaio europeo. Vero e proprio presupposto alla sua riflessione strategica, la quale condurrà all’Ottobre 1917, il lavoro di Lenin segna un rigetto del positivismo, del meccanicismo e del materialismo volgare della Seconda internazionale. Tale ritorno a Hegel implica una rinnovata istanza rispetto alla dimensione pratica della conoscenza, alla dialettica di salti e inversioni, o ancora, all’attività in quanto processo sociale. Di fronte al crollo della socialdemocrazia, alla necessità di una ripresa, una deviazione nel campo della teoria si rende talvolta indispensabile al fine di poter ricominciare.
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Il disastro
Irruzione del massacro di massa nel cuore dei paesi imperialisti dopo un secolo di relativa «pace» interna, il momento della prima guerra mondiale è anche quello del crollo del suo oppositore storico, il movimento operaio europeo, essenzialmente organizzato nella Seconda internazionale.
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Trump, la rabbia antisistema e l'eutanasia delle sinistre
di Carlo Formenti
La vittoria di Trump marca una clamorosa sconfitta della lobby transnazionale delle élite neoliberiste. Fino a poche ore prima dell’esito elettorale siamo stati bombardati dal coro pressoché unanime di governi, partiti, economisti, manager, star dello show business, campioni sportivi, sondaggisti, giornali, televisioni, piattaforme internet che celebravano la vittoria di Hillary Clinton presentandola come l’unico esito possibile dettato dalla “ragione” politica, culturale e civile.
A parte gli auspici dei governi russo e cinese – preoccupati per le minacce di alzare il livello del conflitto geopolitico globale da parte della Clinton – hanno fatto eccezione quasi solo le forze populiste di destra e le pochissime voci che si sono timidamente alzate a sinistra per ricordare che Hillary Clinton incarna i più feroci e aggressivi interessi del capitale finanziario transnazionale, nonché delle industrie hi tech che dominano il sistema militare industriale e governano un pervasivo sistema di spionaggio globale.
Personalmente sono più volte intervenuto su queste pagine a rimproverare Bernie Sanders per la fallimentare scelta di sponsorizzare come “il minore dei mali” la donna che gli aveva letteralmente “scippato” – con l’appoggio della macchina di partito, dei media e delle élite di sistema – la candidatura democratica all’elezione presidenziale, impedendo a classi medie impoverite, lavoratori bianchi e migranti, studenti , donne, giovani, ambientalisti, ecc. di unirsi attorno a un programma e a un leader politico comuni.
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La trasformazione del capitale transnazionale post crisi 2008
di Francesco Schettino
9 novembre 2016: una data che difficilmente sarà dimenticata negli anni che verranno. Media europei e giornali di tutto il mondo oggi osservano con un malcelato sgomento l’elezione di Donald Trump alla presidenza dello stato capitalista considerato come il più potente al mondo, gli Usa. L’alternativa di Hillary Clinton evidentemente, nonostante la palese collocazione all’estrema destra del neopresidente – appoggio del Kkk, libri con i discorsi di Hitler sul comodino, come ebbe a dire l’ex moglie – non è stata sufficiente. Considerata genericamente – e su questo ci riproporremo più avanti di proporre un approfondimento – come la candidata dell’establishment, nonostante l’endorsment ricevuto da tutti i settori della cultura a stelle-e-strisce (e non solo) la sua sconfitta è sonora e netta, nonostante persino le previsioni, sempre più inattendibili, la davano per vincente addirittura al 90%.
Fiumi di inchiostro e di parole sicuramente anticiperanno l’uscita di questa breve nota che, in forma preliminare, tenterà di fornire un abbozzo di analisi di quali possano essere le ragioni e le prospettive più immediata da una prospettiva di classe. Per questo, e per tanti altri motivi, è opportuno non farsi ammaliare a vacue analisi sociologiche avulse da un contesto più ampio ma altresì tener conto condizioni materiali sia dell’enorme massa che ha eletto Trump e sia dello stato di salute del capitale a base dollaro e di quello internazionale più in generale. Limitare il fenomeno Trump a una scelta democratica in opposizione ad Hillary è evidentemente un modo borghese e limitato di tentare di indagare su una questione che è di portata nettamente più ampia.
Già dalla fine dell’anno 2008, ossia dalle settimane che seguirono il crollo di Lehman Bros., e dunque dai momenti appena successivi alla violenta emersione dell’ultima crisi, in palese controtendenza con l’ottimismo di tanti settori della sinistra di classe, evidenziammo che la concomitanza della crisi più violenta del modo di produzione del capitale e l’assenza di una classe subordinata “per sé”, ossia cosciente del suo ruolo storico, avrebbe potuto generare tendenze del tutto opposte a quelle auspicate.
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La rivoluzione di Donald Trump
by Fulvio Scaglione
La clamorosa ma non imprevedibile vittoria elettorale di Donald Trump lascia attoniti i faziosi ma offre infiniti spunti di riflessione ai laici veri, a quelli che non hanno paura della realtà né di farsi interrogare da essa. Uno di questi spunti è questo. Barack Obama lascia la Casa Bianca dopo otto anni molto discutibili ma che non hanno particolarmente scosso il suo prestigio personale. Tutti i sondaggi del 2016, l’anno del suo passo d’addio, gli hanno regalato risultati non malvagi. Il 57% di approvazione (con il 17% di indecisi) secondo Gallupp, il 52% (e 6%) secondo Rasmussen Reports, il 52% (e 5%) secondo Fox News e così via. La candidata del Partito democratico, Hillary Clinton, aveva lavorato con lui al Dipartimento di Stato e si presentava in linea di continuità con la sua politica. Non parliamo, poi, dell’appoggio offerto alla causa democratica dall’alta finanza, dal complesso militar-industriale, dal mondo dello spettacolo, da quasi tutti i media.
Eppure Trump ha vinto nettamente, e il Partito Repubblicano, che pure dall’ascesa di Trump era stato sconvolto e umiliato, ha ottenuto la maggioranza al Senato (51 seggi contro 47) e alla Camera dei Rappresentanti (236 seggi contro 191). Dopo otto anni di un potere democratico peraltro poi dimezzato (il Congresso Usa era già a maggioranza repubblicana) si passa a un Presidente che ha rivoltato il partito come un calzino al cui fianco ci sarà un Congresso repubblicano.
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Donald Trump alla Casa Bianca: e ora?
di Moreno Pasquinelli
L'onda lunga che ha portato alla Brexit ha sospinto, con la potenza di uno tsunami, Donald Trump alla Casa Bianca. Un buon auspicio in vista del 4 dicembre.
E' la sanzione, per certi versi spettacolare, che siamo ad un giro di boa della situazione mondiale.
Proprio dal centro dell'impero arriva il de profundis del ciclo della globalizzazione neoliberista. Arriva, questo de profundis, proprio dal luogo da dove esso, con Reagan, iniziò e s'irradiò per tutto il mondo, spazzando via l'Unione Sovietica, concimando la restaurazione del capitalismo in Cina, schiacciando i movimenti politici e sindacali dei lavoratori salariati.
E' già la fine della globalizzazione? E' già la sepoltura del neoliberismo? No, non lo è ancora, contrariamente a certe sentenze frettolose e superficiali che, a sinistra, già leggiamo questa mattina.
Le potentissime forze oligarchiche che hanno tenuto in pugno le sorti del mondo per quattro decenni sono ancora tutte ai loro posti di comando: controllano le borse e le banche sistemiche, sono alla testa dei conglomerai finanziari e dei consigli di amministrazione delle più potenti multinazionali, tirano i fili delle università e dei think tank, spadroneggiano nel mondo della cultura e dell'informazione, hanno infiltrato gli Stati ed i loro apparati coercitivi.
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L’incoerenza economica delle ricette di Donald Trump
Francesco Daveri
L’impegno a proteggere i perdenti della globalizzazione con la disdetta del Nafta e aliquote fiscali più basse ha portato Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Ma, al contrario di quanto promesso dal tycoon, l’aumento del deficit pubblico farà salire il disavanzo commerciale Usa
Il malessere americano che ha fatto vincere Trump
Donald Trump eredita un paese che cresce stabilmente intorno al 2 per cento annuo e con un tasso di disoccupazione sceso di poco al di sotto del 5 per cento della forza lavoro. È un paese molto diverso da quello che aveva trovato il suo predecessore, Barack Obama, alla fine del 2008. Allora, fallita Lehman Brothers, il Dow Jones era sceso sotto i 9000 punti (dai 13mila di fine 2007) e l’economia era in recessione da quattro trimestri, il che portò la disoccupazione sopra al 9 per cento nei primi mesi del 2009. I numeri che Obama lascia in eredità a Trump sono in tutto simili alle medie secolari che hanno contrassegnato da decenni il buon funzionamento dell’economia americana che, nonostante tutto, è rimasta il motore trainante dello sviluppo mondiale.
Eppure, se Trump ha vinto, è perché in America c’è malessere. Se non ci fosse, un candidato come Bernie Sanders sarebbe stato etichettato come un socialista rétro e non sarebbe certo arrivato a contendere la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti a Hillary Clinton nelle primarie del partito democratico. Se in America non ci fosse malessere, il partito repubblicano non avrebbe indicato come candidato alla Casa Bianca un estremista no-global (anche pieno di scheletri nell’armadio) lontano dalla tradizione liberista del Grand Old Party come Donald Trump.
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Elezioni USA: Trump è il nuovo presidente
di Guido Salerno Aletta
Vi propongo, di seguito, un bell'articolo di Guido Salerno Aletta, che su Milano Finanza analizza il risultato delle elezioni Usa. Al termine, trovate una bella analisi di Amundi sui possibili riflessi dell'esito elettorale. L'analisi è datata 26 ottobre e considera i diversi scenari alla luce delle successive elezioni Usa
E’ il voto di protesta della classe media americana, il driver dei risultati elettorali americani, che indicano un consenso nei confronti di Donald Trump molto più ampio di quanto era stato previsto dai sondaggi.
Si conferma invece un dato di fondo, tanto ben presente alla stessa Federal Reserve quanto trascurato da coloro che guardano solo all’andamento degli indici di Borsa: la polarizzazione del lavoro, un dato su cui la Governatrice Janet Yellen ha insistito più volte, è una tendenza assai più preoccupante dell’obiettivo tecnico, già raggiunto da tempo, di ridurre la disoccupazione americana al 5%.
Se all’inizio del suo primo mandato, nel gennaio del 2009, Barack Obama aveva dichiarato che la crisi di Wall Street rappresentava una grande occasione di cambiamento, si deve concludere che questo obiettivo non è stato raggiunto. L’America, all’improvviso, si scoprì povera. Anche oggi lo è.
Sin dalla metà degli anni novanta, la classe media americana aveva azzerato il tasso di risparmio, mentre la crescita dei consumi e del benessere veniva trainata esclusivamente dalle spese finanziate con le carte di credito e dai mutui, spesso sub-prime. Fu il progressivo rialzo dei tassi, deciso per frenare la bolla immobiliare, a mandare in fallimento milioni di famiglie.
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Trump presidente, lo schiaffo del popolo alle élites
di Marco D'Eramo
Piano B cercasi disperatamente. Così potrebbe riassumersi la reazione della stampa mondiale all’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati uniti. L’ansiosa domanda “E adesso?” traspare in tutti commenti, dall’inevitabile, prevedibile “allarme per l’inarrestabile avanzata del populismo mondiale”, ai liberals come Krugman che si strappano i capelli per non aver capito nulla del paese in cui vivono, allo “scenario dell’orrore” di cui parla la Süddeutsche Zeitung, allo sgomento dei mercati finanziari, all’amara, e sempre più attuale constatazione che è più facile eleggere un candidato nero piuttosto che una presidente donna.
L’ansia è mascherata da considerazioni più o meno dotte sulla rivincita dei bianchi maschi senza titolo di studio (ma non dovevano essere un gruppo in fatale declino demografico?), sull’astensione dei neri e degli ispanici che sono venuti a mancare a Hillary Clinton, sulla disaffezione dei giovani progressisti che avevano militato per Bernie Sanders, sull’atteggiamento dei media, che sotto l’ipocrisia della par condicio, o del cerchiobottismo, hanno picchiato molto più su Clinton che su Trump, sulle donne che hanno sì preferito Clinton ma non abbastanza da compensare le perdite nell’altro genere. E così via.
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