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Alle radici della guerra
di Giorgio Paolucci
In un mondo in cui non si muove foglia che il dio denaro non voglia la narrazione corrente che descrive la guerra moderna come uno scontro fra diverse fedi religiose o diverse civiltà è in realtà una costruzione tutta ideologica per occultare il fatto che le radici della guerra affondano negli elementi costitutivi del modo di produzione capitalistico
Con il crollo del muro di Berlino e con la fine della guerra fredda non avrebbero dovuto esserci più guerre. L’economista liberale Francis Fukuyama, nel suo saggio La fine della storia e l’ultimo uomo, giunse a sostenere che con la fine il comunismo, potendosi finalmente dispiegare su scala planetaria la “democrazia liberale” (ritenuta oltre che la forma di governo più confacente al capitalismo, anche, fra tutte quelle possibili, la migliore in assoluto) sarebbe venuta meno anche la principale causa scatenante delle guerre.
E pertanto la storia stessa, in quanto teleologicamente intesa come la progressiva successione di stadi tutti tendenti al raggiungimento di questo obbiettivo, si sarebbe conclusa. In questo nuovo mondo, senza storia, ogni singolo individuo avrebbe potuto finalmente compiutamente realizzarsi in base alle proprie aspirazioni e capacità. Con maggiore prudenza il politologo statunitense Samuel P. Hutington, sostenne, invece, che era sì venuta meno la contrapposizione politico- ideologica fra comunismo e capitalismo, ma permanendo le diversità culturali e per certi versi antropologiche che distinguono tutti i popoli del pianeta fra loro, la sola affermazione della democrazia liberale non sarebbe stata sufficiente a evitare l’insorgere di scontri fra queste diverse civiltà. E difficilmente potremmo dargli torto se ci attenessimo alle sole cronache e alle descrizioni che fanno delle guerre, che ormai insanguinano tutti i continenti, i media e, salvo qualche rara eccezione, gli analisti della borghesia.
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La politica della logistica
di Giorgio Grappi
In occasione della sua uscita, pubblichiamo l’introduzione di Giorgio Grappi al volume Logistica (Roma, Ediesse, 2016, pp. 265). È un lavoro documentato e preciso che non si limita però a considerare la logistica solo come una tecnologia applicata all’organizzazione e alla distribuzione. Essa è descritta come la forma politico-organizzativa di un capitale che ha ormai raggiunto una dimensione compiutamente globale. Mentre si espande ovunque e si concentra occasionalmente in certi punti, la rete logistica impone una ridefinizione dell’organizzazione spaziale e politica di intere regioni. La «logistica fa politica» perché connette segmenti produttivi e ordinamenti giuridici, coniuga la forza dei protocolli informatici e le tecnologie tradizionali di governo, riarticola le catene globali del valore e obbliga gli Stati a riconfigurare il loro ruolo politico a livello globale. La logistica è il capitale in movimento assieme alle regole costantemente riformulate delle sue dinamiche materiali. La logistica muove le merci nell’incessante ricerca del profitto ma, proprio per questo, essa è costretta a organizzare luoghi produttivi in grado di catturare una forza lavoro che tende costantemente a sfuggirle. La logistica è il rovescio delle migrazioni globali e della ricerca quotidiana di un salario e di una vita migliori da parte di milioni di uomini e di donne. Dire logistica significa nominare la forma contemporanea e globale del rapporto sociale di capitale e della costituzione materiale che lo sostiene.
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Cieca fortuna del capitale
di Marco Dotti
Che cosa ne è stato della Fortuna? Si è nascosta? Fuggita? «…Les dieux s’en vont», si diceva un tempo ma quando se ne vanno – questo si è preferito tacerlo o non vederlo – dietro di loro lasciano tormenta e deserto. Oppure la fortuna si è disseminata, secolarizzata integrandosi e diventando tutt’uno con un mondo che vede le sue grazie e i suoi rischi sempre più racchiusi dentro la gabbia che – forse per mancanza di parole, forse per disperazione d’uomini o desolazione di teorie – ci si rassegna, comunque sottovoce, a chiamare “capitale”? Da quando la fortuna coincide con l’inevitabile, l’ineluttabile, la staticità e la gabbia? Da quando la salvezza è tornata a riaffiorare nella forma di un debito infinito con la sorte?
Alcune pagine del filosofo Peter Sloterdijk aiutano, quanto meno, a problematizzare. Peter Sloterdijk, che ha esposto la sua teoria della globalizzazione nella ben nota trilogia Sphären (ora edita integralmente da Cortina), ha insistito a lungo sulla moderna deriva di “fortuna”, in particolare in un capitolo del suo Im Weltinnenraum des Kapitals (2005; Il mondo dentro il capitale, Meltemi, Roma 2006), dedicato proprio alla “Fortuna e alla metafisica e chance” e, più recentemente, anche in Das Reich der Fortuna (Fundación Ortega Muñoz, 2013).
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A proposito di qualche testo: Anselm Jappe, Jaime Semprun, Robert Kurz, Jean-Marc Mandosio
di François Bochet
Per Bordiga, nel socialismo il valore non esiste piú, cosí come la moneta, il salariato, l’impresa, il mercato: laddo-’è il valore, come in URSS, non può esserci socialismo. Anselm Jappe — già autore di un Guy Debord, apparso nel 2001 — ha scritto un libro ambizioso ed interessante, Les aventures de la marchandise. Pour une nouvelle critique de la valeur (Le avventure della merce. Per una nuova critica del valore), Denoêl, 2003; egli fa una distinzione fra un Marx essoterico partigiano dei Lumi e di una società industriale diretta dal proletariato — un Marx che si interessava ai problemi contingenti, politici, alla lotta di classe e al movimento del proletariato, quello del Manifesto e della Critica del Programma di Gotha — ed un Marx esoterico, quello del Contributo alla Critica dell’Economia politica, dei Grundrisse, dell’Urtext, del VI capitolo inedito del Capitale e dei quattro libri dello stesso Capitale, un Marx che si pone il problema del capitale, della sua definizione, della sua origine, del suo divenire e del suo superamento nel comunismo e nella comunità. Scrive Jappe che il pensiero di Marx è servito a modernizzare il capitale — il che è innegabile — e che i marxisti tradizionali si sono posti solo il problema della redistribuzione del denaro, della merce e del valore, senza metterli in discussione in quanto tali. Per Jappe il movimento rivoluzionario avrebbe perciò accettato valore, salario, merci, denaro, lavoro, feticismo, ecc. — il che è nello stesso tempo falso ed esatto — e lui, Jappe, si propone di «ricostruire la critica marxiana del valore in modo abbastanza (?) preciso».
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Qual è il tuo mito?
P. Bartolini intervista Romano Màdera
Cinque anni fa prendeva vita su Megachip una serie di interviste, a cura di Paolo Bartolini, dedicata a filosofi, psicoanalisti, sociologi, antropologi e ad altre figure della cultura italiana capaci di esprimere un pensiero originale sulla transizione epocale che la società globalizzata sta attraversando. Senza disperazione, ma con la consapevolezza di una convivenza umana ed ecologica da rifondare interamente, sono così iniziati dei dialoghi sinceri con persone di grande spessore umano e culturale, che condividono con noi una premessa etica e metodologica: non è possibile pensare a una trasformazione della società senza una concomitante e profondissima conversione della vita personale. "Trasformare se stessi per trasformare il mondo", dunque, senza per questo dimenticare che noi stessi siamo fatti di mondo e di relazioni. Fu proprio Romano Màdera ad aprire il ciclo di queste interviste e per questo lo ringraziamo di essere tornato là dove tutto ha avuto inizio (la Redazione)
Chi conosce la tua storia, personale e pubblica, ha la sensazione che tu abbia vissuto molte vite: quella del militante (ai tempi del Gruppo Gramsci da te fondato insieme a Giovanni Arrighi), del fine studioso di Karl Marx, del professore universitario, dell'analista junghiano, del creatore - insieme ad altri - dei primi gruppi di pratiche filosofiche in Italia, della guida esperta per colleghi e amici che grazie a te si sono riconosciuti in quella che hai chiamato "analisi biografica a orientamento filosofico". La mia impressione, a fronte di un cammino così "molteplice", è che sia proprio sul piano dell'etica e della prassi trasformativa che tutte queste vite convergono, lasciando intravedere una trama sotterranea coerente. Con che sguardo osservi, oggi, la crisi profonda della politica, in Europa e in Italia?
Sono d'accordo, forse anche perché non ce l'ho mai fatta a "studiare dall'esterno". Mi prende una sorta di "senso di colpa". Ma questo ci porterebbe troppo lontano. Diciamo che - lasciando perdere le possibili ragioni biografiche - non mi rassegno a credere che per l'umanità l'orizzonte della speranza si possa ritenere chiuso. Non vedo perché. Mi sembra miope e anche ridicolo. Perché mai la storia dovrebbe fermarsi?
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Per una buona pratica della filosofia
Riflessioni a partire da un cattivo esempio
di Andrea Cavazzini e Maria Turchetto
La Storia del marxismo in tre tomi curata da Stefano Petrucciani per l’editore Carocci e pubblicata nel 2015 è un encomiabile tentativo di fare informazione e buona divulgazione[1]. Tanto più lodevole quanto più non si potrebbe esagerare l’importanza di fornire alle generazioni più giovani delle conoscenze precise e verificabili sul marxismo, questa componente decisiva della storia degli ultimi due secoli che è ormai un oggetto della conoscenza storica.
Ci sono però altre ragioni che fanno di questa pubblicazione un utile stimolo per la riflessione. Innanzitutto, occorre precisare che si tratta di una storia principalmente filosofica, in quanto consacrata allo studio e all’analisi delle forme teoriche del marxismo[2]. Tuttavia, una specificità di Marx e del marxismo consiste nel mettere in questione le partizioni disciplinari troppo nette e abituali e di articolare filosofia, economia politica, storiografia, sociologia... Perciò, i concetti e le teorie che compongono queste forme del marxismo appartengono a pratiche teoriche e a regimi discorsivi differenti, e si inscrivono in congiunture storiche e politiche specifiche. Storia filosofica dunque, ma che corrisponde ad una pratica della filosofia per cui è centrale il rapporto con una molteplicità di saperi e con la storia globale.
Inoltre, tra i “generi” del discorso filosofico, quest’opera occupa una posizione specifica. Essa si rivolge infatti ad un pubblico che si suppone già maturo ed informato, ma non “specialista”.
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Tutti al capezzale del Montepaschi
di Sergio Farris
Che le banche italiane non godano di buona salute è ormai noto da tempo. Esse sono state principalmente danneggiate dalla controproduente gestione della crisi economica che, specialmente a partire dal 2010, le autorità italiane ed europee hanno adottato. Sono, semplificando, malate di euro.
Dopo le “risoluzioni” di Banca Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara e CariChieti (con la copertura delle perdite ottenuta anche facendo ricorso al sacrificio di azionisti e possessori di obbligazioni subordinate), è stata la volta delle due banche venete Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca, con l’ingresso nei rispettivi capitali societari da parte del fondo Atlante.
Se queste “risoluzioni” (o salvataggi) hanno riguardato istituti che si possono considerare minori, un allarme più rilevante si è tuttavia avuto quando è apparso chiaro che il Monte dei Paschi di Siena, uno dei maggiori gruppi bancari del paese, necessita ancora una volta (come confermato dai risultati dello “stress test” eseguito dall’Autorità Bancaria Europea) di un aumento di capitale. I titoli del Montepaschi hanno perso in borsa, nell’ultimo anno, l’87%. A gennaio un’azione valeva circa 1,21 euro, oggi vale circa 0,25 euro.
Per cui il 29 luglio, con il parere favorevole delle BCE, è stato approvato il “piano di salvataggio” del Monte dei Paschi.
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L’attualità politica e culturale di “Roma Moderna” di Italo Insolera
Roberto Donini
La polemica recentissima (6 agosto 2016) tra Roberto Giachetti e Paolo Berdini pare riprendere l’essenza delle problematiche affrontate in “Roma moderna”. Rinvio integralmente, senza entrare nel merito, al link che pubblica attacco e risposta. Mi pare un ottima premessa di cronaca politica per introdurre un capolavoro storico.
Libro evolutivo
Quasi 40 anni fa un caro amico, che poi avrebbe studiato architettura, mi suggerì la lettura di Roma moderna di Italo Insolera. Allora la lettura distratta e ideologica di qualche pagina si limitò alle parti riguardanti gli sventramenti fascisti e la nascita delle borgate; in compenso quelle sparse nozioni caddero in un contesto militante di lotta per il verde e nella stagione di grandi speranze per la città, aperta a metà degli anni 70 con i sindaci Argan e Petroselli. Fu, quindi, un pallido sorgere di coscienza urbanistica.
Ora riprendo in mano quel libro, nel frattempo aggiornato dei 40 anni trascorsi. L’edizione che lessi allora fu quella del 1976, la prima era stata del 1962, quella di oggi è l’edizione del 2011 “ampliata con la collaborazione di Paolo Berdini”, proprio alla vigilia della morte di Insolera del 2012.
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La Grecia è stata il prologo
George Souvlis intervista Elias Ioakimoglou
Ormai la storia della capitolazione di Syriza alle istituzioni creditrici europea è ben nota.
Syriza è salita al potere nel gennaio del 2015 con il mandato di opporsi all’imposizione dell’austerità. Syriza, invece, si è piegata alla pressione della troika, accettando misure accentuate di austerità e facendo svanire le speranze dei suoi sostenitori.
In questa intervista con George Souvlis l’economista Elias Ioakimoglou descrive la conseguente crisi che continua a devastare la Grecia un intero anno dopo. Secondo i suoi dati la depressione greca è oggi più profonda e più grave della Grande Depressione statunitense degli anni ’30.
* * *
Il governo di Syriza/Greci Indipendenti (ANEL) si è dimostrato totalmente incapace di invertire l’austerità; al contrario, le politiche neoliberiste sono proseguite e persino intensificate. Il primo ministro Alexis Tsipras aveva ragione quando ha affermato che non c’era alternativa a una continua austerità in Grecia?
Non spettava a Tsipras decidere se c’era o non c’era un’alternativa.
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Contro la Costituzione, quella di ieri, di oggi e di domani
di Sebastiano Isaia
Tutti questi argomenti, che ci si vuol
proporre come questioni della massima
importanza per la classe lavoratrice, in
realtà presentano un interesse di portata
essenziale solo per i borghesi (F. Engels).
Leggo da qualche parte:
«La posta in gioco è decisiva. Non ci troviamo di fronte ad un passaggio qualsiasi della politica italiana, ma di fronte al tornante storico che definirà il nostro modello di sviluppo di qui ai prossimi decenni [nientedimeno!]. È una partita, quella del referendum, in cui la sinistra di classe gioca oggettivamente un ruolo subalterno e minoritario. Si tratta di mobilitare decine di milioni di voti, un campo dunque fuori dalla portata degli attuali movimenti di classe. Nonostante ciò, il contributo che da questi potrà venire favorirà quel processo che potrebbe aprirsi con l’eventuale vittoria dei NO. Non giocarsi nemmeno la partita, al contrario, regalerà quei NO alla rappresentanza politica della destra reazionaria o populista. La più classica delle eterogenesi dei fini».
Quando la mosca cocchiera parla di «eterogenesi dei fini» non si può che sghignazzare e lasciarla al suo gioco virtuale preferito: “fare la storia” – o quantomeno provarci.
Qui di seguito svolgerò alcuni ragionamenti, per dirla con il filosofo di Nusco, con l’obiettivo di convincere anche un solo lettore (meglio se non già convinto “di suo”) circa la natura ultrareazionaria della contesa referendaria sulla riforma – o «controriforma» – della Costituzione.
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Lo stato spende prima, poi incassa. Logica, fatti, finzioni*
di Sergio Cesaratto
Introduzione
La logica keynesiana (o kaleckiana) conduce gli economisti post-keynesiani a presumere che una variazione delle entrate dello Stato provenienti dalla tassazione o dalla vendita di buoni del Tesoro siano il risultato di una variazione della spesa pubblica, e non il contrario – date le altre componenti autonome che costituiscono la domanda aggregata (AD) e dati i parametri che regolano il moltipli catore del reddito (oppure, in un’analisi di lungo periodo, del super-moltiplicatore)1. La logica di questa proposizione è la medesima applicata dagli economisti post-keynesiani alla teoria degli investimenti: la creazione di moneta endogena finanzia l'investimento (finanziamento iniziale), mentre il risparmio compare solo alla conclusione del processo del (super)moltiplicatore del reddito e costituisce un fondo per il cosiddetto finanziamento finale (o “funding”) (Cesaratto 2016). Mentre la sequenza keynesiana moneta endogena→investimento→risparmio è generalmente accettata, almeno nei suoi termini generali, la proposizione che "lo Stato spende prima" invece non lo è. Come è noto, negli ultimi due decenni gli esponenti della Teoria della Moneta Moderna (MMT) sono stati in prima linea nel sostenere la logica keynesiana (o kaleckiana) di questa proposizione, riempiendo un vuoto teorico del pensiero post-keynesiano stesso. Considerando l’importanza della proposizione, si tratta di una lacuna davvero sorprendente. La preposizione è stata forse data per scontata, ma non dovrebbe esserlo.
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Grandi disastri, pace e corruzione. Spinelli e Hayek €nunciano la via
di Quarantotto
1. Com'è ormai tradizione del blog, riteniamo molto utile fissare alcune informazioni che dovrebbero essere incorporate nella comprensione consapevole del momento storico, e del ciclo economico che stiamo vivendo, per come emergono dai commenti e in raccordo a precedenti post.
Questa volta, come in molte alter occasioni, diamo il dovuto risalto a vari interventi di Arturo (che sempre ringraziamo...).
Il primo riguarda la reale visione di Spinelli sulla costruzione €uropea, ritraibile da un discorso (del 1985) che, nell'attualità, - e quando le dinamiche che erano auspicate esplicitamente (e implicitamente ma necessariamente) nel "Manifesto" si sono consolidate in modo coerente -, costituisce una sorta di interpretazione autentica dell'ideologia e della prassi politica concepita a Ventotene.
Un tale carattere ne consiglia la lettura integrale e con attenzione, specie per quei lettori che dispongono del quadro critico che emerge dal complesso del blog.
Arturo seleziona e commenta per noi dei passaggi altamente "eloquenti":
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La Scacchiera Spezzata
Brzezinski rinuncia all’Impero Americano
di Mike Whitney
Counterpunch commenta un recente articolo di Zbigniew Brzezinski, noto politologo e geostratega americano, consigliere sotto diverse amministrazioni, famoso per aver teorizzato nel 1997 la strategia (successivamente adottata) per consolidare la supremazia “imperiale” degli USA nella prima metà del XXI secolo – strategia di cui la Clinton è una delle principali promotrici. In questo articolo, Brzezinski fa un’inversione a U: gli USA non sono più una superpotenza, sostiene, si sta formando una vasta coalizione anti-americana e perseguire il progetto originale nelle mutate condizioni potrebbe portare caos e guerra in tutto il globo. Meglio collaborare con Russia e Cina e cercare di preservare la leadership americana. Una svolta letteralmente storica nell’indirizzo geostrategico di una parte dell’establishment americano, che prospetticamente lascia Hillary Clinton sola ad inseguire un progetto imperiale sconfessato dal suo stesso ideatore
L’architetto principale del piano di Washington per governare il mondo ha abbandonato il progetto e ha richiesto la creazione di legami con la Russia e la Cina. Anche se l’articolo di Zbigniew Brzezinski su The American Interest dal titolo “Towards a Global Realignment” [“Verso un riallineamento globale”, ndT] è stato ampiamente ignorato dai media, esso dimostra che membri potenti dell’establishment decisionale non credono più che Washington prevarrà nel suo tentativo di estendere l’egemonia degli Stati Uniti in tutto il Medio Oriente e in Asia. Brzezinski, che è stato il principale fautore di questa idea e che ha redatto il progetto per l’espansione imperiale nel suo libro del 1997 “La Grande Scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici“, ha fatto dietro-front e ha richiesto una incredibile revisione strategica. Ecco un estratto dal l’articolo del AI:
“Mentre finisce la loro epoca di dominio globale, gli Stati Uniti devono prendere l’iniziativa per riallineare l’architettura del potere globale.
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La stangata
Tutti contro tutti, tutti contro la Siria e il più pulito ha la rogna
di Fulvio Grimaldi
Prevenzione anti-terremoto no, Tav sì
Scrivo da un’Italia che, dopo aver esaurito le sue lacrime e i calcinacci da spostare, farebbe bene a urlare in faccia ai nostri mafioreggenti, tanto da travolgerli, le loro colpe per ogni singola tragedia che ci colpisce, dal terrorismo, alla mancata prevenzione, alle Grandi Opere, alle grandi guerre. Tragedie sulle quali poi reclamano e sciaguratamente ottengono – vecchio trucco di tutti i farabutti - la “grande unità nazionale”. Un miliardo in 10 anni per la ricostruzione dell’Aquila, 44 milioni per il 2016, briciole scandalose per non sforare a Bruxelles. Invece arriviamo ai 50 miliardi per le Grandi Opere, tutte devastanti, tutte inutili, tutte mafiose: Tav Torino Lione, Tav Terzo Valico, altri TAV, trivelle dappertutto in terre e mare, Olimpiadi, Orte-Mestre, Ponte sullo Stretto, per citarne solo alcune, Grandi Opere di uno Stato killer. Con 10 miliardi all’anno si metterebbe in sicurezza un paese in cui per il 70% si è costruito senza criteri antisismici. Basterebbe rimettere l’IMU a chi può.
Si ristabilirebbero l’organico e i bisogni finanziari dei Vigili del Fuoco, si potenzierebbe un Corpo Forestale ora sequestrato dai carabinieri. Intanto Nicoletta Dosio, tanto per citarne una, quasi 70 anni, da un quarto di secolo combattente nonviolenta anti-Tav e punto di riferimento di una resistenza nazionale che va oltre la Valsusa, protagonista con Alberto Perino del mio docufilm “Fronte Italia-Partigiani del 2000”, rischia il carcere perché non accetta il diktat di una magistratura alla Torquemada che le impone i domiciliari e l’obbligo di firma.
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La crisi è diventata un modo di governo
Intervista a Christian Laval e Pierre Dardot
Ci troviamo con le spalle al muro. Non ci resta che una cosa: sognare, inventare, ritrovare il gusto dell’agire comune
Siamo in stato di emergenza. Non nel senso in cui lo intendono François Hollande o Charles Michel. No, per Christian Laval e Pierre Dardot, autori di Ce cauchemar qui n’en finit pas, Comment le néolibéralisme défait la démocratie (La Découverte, 2016), “viviamo un’accelerazione decisiva dei processi economici e sicuritari che trasformano in profondità le nostre società e i rapporti politici tra governanti e governati”. “Siamo prossimi ad un’uscita definitiva dalla democrazia a vantaggio di una governance espertocratica sottratta a ogni controllo”, affermano il sociologo e il filosofo. Nemmeno le crisi non sono state in grado di segnare una rottura capace di obbligare a una svolta. Al contrario “la crisi stessa è diventata un vero e proprio modo di governo delle società”.
Ma non tutte le speranze sono finite.
Secondo gli autori di Commun (La Découverte, 2014), il risveglio dell’attività politica democratica “dal basso” tra i cittadini è il segno che lo scontro politico con il sistema neoliberale è già cominciato. [1]
* * *
Voi scrivete che viviamo un’accelerazione dell’uscita dalla democrazia. Chi spinge oggi sull’acceleratore?
In primo luogo le forze politiche di destra dappertutto in Europa e nel mondo. In questo momento lo si vede in Francia e in Brasile.
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Dalla tragedia terzomondista al pateracchio rossobruno
Le molte facce della "teoria" leniniana dell'imperialismo
Dino Erba
I novant'anni di Fidel Castro hanno dato adito a esaltazioni alquanto fantasiose riguardo alla rivoluzione cubana. Quasi si volessero lanciare rossi lampi in un cielo assai cupo. Certo, Fidel si presenta con un volto assai più simpatico di altri cascami del socialismo reale (il coreano Kim Jong-un!). Ma la forma non cambia la sostanza. A Cuba come in Corea, la sostanza è il nazional-comunismo. Tuttavia la rivoluzione cubana presenta aspetti del tutto particolari che non devono essere assolutamente banalizzati, altrimenti non se ne capirebbe il prestigio, tutt’ora vivo.
Una riflessione su Cuba ci consente di sgombrare il campo da imbarazzanti eredità che viziano la possibilità di immaginare una prospettiva diversa da quella che ci propina l’ideologia dominante, di sinistra e di destra1.
Cuba: libertà e socialismo
La rivoluzione cubana (con l’Algeria e il Vietnam) fu l’esempio più alto delle lotte di liberazione nazionale (la decolonizzazione) che scoppiarono alla fine degli anni Cinquanta. In quel periodo, la «guerra fredda» andava attenuandosi mentre l’Unione Sovietica, col «disgelo» (destalinizzazione), guadagnava simpatie a livello internazionale. Contemporaneamente, per gli Stati Uniti veniva meno la spinta propulsiva democratica che aveva accompagnato (e nobilitato) il suo preminente ruolo nella Seconda guerra mondiale.
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Ecco chi finanzia Hillary Clinton
di Redazione
Senza ombra di dubbio Donald Trump, dal punto di vista dei personaggi della comunicazione politica, rappresenta un’originale interpretazione americana di una, diremo nel nostro linguaggio, sintesi tra Bossi e Berlusconi. Ovvero un incrocio, immancabilmente di destra, tra “quello che non le manda a dire”, per attirare l’elettorato frustrato e travolto dalle ristrutturazioni dell’economia, e l’imprenditore che spende la propria fama per alimentare la mitologia dei grandi creatori di ricchezza.
L’originalità, dal punto di vista italiano sta nell’incarnarli entrambi (Berlusconi invece faceva la parte del moderato) radicalizzando gli archetipi contenuti nelle figure che interpreta. Trump interpreta il ruolo dell’uomo libero da vincoli che dice “le cose come stanno” e, allo stesso tempo, quello di colui che ha accumulato ricchezze favolose con un tocco che può contagiare anche l’istituzione della presidenza americana. Per il resto, possiamo dire, dopo un ventennio di Bossi-Berlusconi, che quanto visto in Usa appare straordinariamente familiare: un establishment ripetitivo (il partito democratico) o bollito (il partito repubblicano), qualcuno che si propone come nuovo che avanza facendosi forza sulle frustrazioni di una parte importante dell’elettorato. Magari irridendo e delegittimando linguaggi, simboli, idee della politica che lo hanno preceduto.
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Napoli. Lavori in corso
di Iain Chambers
La difficoltà che si nota quando ci si ritrova a parlare dei problemi di Napoli dovrebbe, a mio avviso, spingere ad una riflessione radicale. Dopotutto abbiamo sentito lo stesso ritornello da decenni, se non secoli, da napoletani e forestieri. Forse le questioni sono troppo scivolose e complesse da afferrare, o forse il linguaggio impiegato non è all’altezza della situazione, ma arriviamo sempre agli stessi verdetti: la città è sporca e disorganizzata, la gente è maleducata e incivile, il declino della città appare incontrollabile, Napoli è sempre in bilico tra la perdita delle sue glorie antiche o non è ancora abbastanza moderna. Si sa che nessun linguaggio, abbandonati gli idealismi positivistici e linguistici, può essere in grado di rendere la città completamente decifrabile, trasparente, nei nostri ragionamenti. In questa chiave provocatoria, la città resta sempre una sfida. Magari, però, spostando il lessico e la sintassi che siamo abituati a impiegare, diventa possibile ascoltare e far parlare la città in un registro diverso. E allora potremmo forse riuscire a liberare il discorso sulle cosiddette malattie di Napoli dalla luce pallida di vecchie diagnosi, e riciclare le carte ingiallite che trascrivono sempre la stessa canzone. Se, come sembra, la città è in declino ormai da secoli, e vive quotidianamente sull’orlo dell’abisso, forse dobbiamo cercare di trasformare l’energia di questa caducità in un altro spazio critico e culturale. Le rovine, come insegnava il più grande maestro della caducità europea Walter Benjamin, sono sempre fonti di energia rinnovabile, luoghi di storie che nelle loro resistenze disseminano delle interrogazioni che possono aprire altre porte verso altri orizzonti.
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Provocare la guerra nucleare tramite i media
di John Pilger
L’assoluzione di un uomo accusato del peggiore dei crimini, il genocidio, non ha fatto notizia. Né la BBC né la CNN se ne sono occupate. Il Guardian si è permesso un breve articolo. Un’ammissione ufficiale così rara è finita sepolta o soppressa, comprensibilmente. Spiegherebbe troppo riguardo a come i reggitori del mondo lo governano.
La Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) de L’Aia ha sollevato in silenzio l’ex presidente serbo, Slobodan Milosevic, dalle accuse di crimini di guerra commesse durante la guerra bosniaca del 1992-95, compreso il massacro di Srebrenica.
Lungi dall’aver cospirato con il condannato leader serbo-bosniaco Radovan Karazdic, in realtà Milosevic “condannò la pulizia etnica”, si oppose a Karazdic e cercò di fermare la guerra che ha smembrato la Jugoslavia. Sepolta verso la fine di una sentenza di 2.590 pagine lo scorso febbraio, questa verità demolisce ulteriormente la propaganda che giustificò l’offensiva illegale della NATO in Serbia nel 1999. Milosevic è morto d’infarto nel 2006, solo nella sua cella de L’Aia, nel corso di quello che è stato un processo fasullo da parte di un “tribunale internazionale” inventato dagli Stati Uniti. Negatogli un intervento al cuore che avrebbe potuto salvargli la vita, le sue condizioni sono peggiorate e sono state controllate e mantenute segrete da dirigenti statunitensi, come da allora ha rivelato WikiLeaks.
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La critica marxista della scienza capitalistica: una storia in tre movimenti?
di Gary Werskey
per Bob Young
Introduzione
Il mio obiettivo, con questo scritto, è comprendere, come partecipante e come osservatore, la storia e le prospettive della critica marxista della scienza capitalistica.
Tale prospettiva – e le politiche da essa sostenute – hanno vissuto una breve fioritura, in particolare in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, negli anni Trenta e Quaranta, per poi essere riprese e trasformate solo negli anni Sessanta e Settanta. In entrambi i casi, i critici socialisti hanno attinto dalla propria esperienza personale, professionale e politica – influenzati dal marxismo della loro epoca – dando vita a nuovi e stimolanti resoconti circa la storia, la filosofia e le politiche della scienza. Tuttavia, nessuna corrente marxista ha condizionato, in modo significativo, la tendenza dominante nello sviluppo degli studi su scienza e tecnologia (STS) nella second meta del XX secolo. Ancora più importante per queste attività, i movimenti politici sui quali poggiavano sono interamente, e rispettivamente, crollati negli anni Cinquanta e ottanta.
Ciò nonostante, come un fantasma infernale nella macchina degli STS, l’influenza di tali critici marxisti ha aleggiato nell’ombra, nelle memorie e nelle liste di lettura. Al culmine della Guerra fredda, Marx rappresentava una sorta di spirito non annunciato, che ossessionava i resoconti dell’epoca sulla rivoluzione scientifica del XVII secolo. Né certi sopravvissuti marxisteggianti – in particolare J.D. Bernal e Joseph Needham – avevano chiuso bottega del tutto.
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Come la scuola rafforza le diseguaglianze
di Marco Magni
Il rimosso della diseguaglianza
I libri dedicati alla scuola ne ignorano quasi sempre il carattere sociale. I tratti dominanti del discorso sono costituiti, da un lato dall’idealizzazione del merito, dell’efficienza, della razionale allocazione della spesa, della libertà di scelta tra pubblico e privato o, per converso, dalla istanza della difesa della natura “pubblica” e democratica della scuola, dalla valorizzazione della passione per l’insegnamento e della sua (platonica) dimensione erotica. La diseguaglianza sociale rimane normalmente, perlomeno nella letteratura più diffusa e di successo, una glossa o una nota a margine. Una rimozione che riguarda trasversalmente destra e sinistra, anche se cifre molto vistose ci dicono che stiamo vivendo, nel campo dell’istruzione, un’epoca di crescita delle differenze sociali: i neoiscritti all’università provenienti dai tecnici e i professionali sono diminuiti, negli ultimi 10 anni, dal 40% al 26.4%.
Quando viene messa al centro del discorso, si fa della diseguaglianza nel campo dell’educazione un uso strumentale: molte pubblicazioni caratterizzate da un’impostazione economica ed economicistica considerano le evidenze della differenza di risultati scolastici degli studenti appartenenti alle diverse classi sociali come la prova della natura inefficiente e parassitaria dell’educazione pubblica, e la dimostrazione della necessità di riforme “meritocratiche” – come la “Buona scuola”, oramai in fase di implementazione avanzata – che modifichino in senso privatistico e manageriale i caratteri del sistema educativo.
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USA-Italia-Etiopia, Yemen, Eritrea
I criminali, le vittime, il target e rispettivi corifei
di Fulvio Grimaldi
E a Ventotene tre frodatori, eredi di tre frodatori, con i loro corifei
Medaglia d’argento della maratona, medaglia d’oro dell’eroismo
Il drammatico, coraggioso, nobilissimo gesto della medaglia d’argento etiopica della maratona di Rio ha squarciato non solo l’ipocrita e cinica immagine dello sport affratellante e pacificante, in effetti mercato mafioso e strumento di guerra fredda (vedi la montatura del doping russo). Ha squarciato il velo dietro al quale l’Occidente e l’Italia in prima persona nascondono, a vantaggio di rapine e profitti, l’orrenda dittatura e i sistematici genocidi compiuti dal regime di Addis Abeba nei confronti dei vari popoli del Corno d’Africa. Tra i quali i somali e, sottoposti ad aggressioni latenti o attive da oltre sessant’anni, gli eritrei.
L’eroico Feyisa Lilesa, con i polsi levati alti e stretti nel gesto delle manette all’arrivo della maratona, nello sbatterli sul muso dei mercanti e boccaloni olimpici e sulla coscienza del mondo e, a seguire, con le interviste e denunce, ha determinato anche il suo destino: schiacciato nella scelta tra ritorno in patria per raggiungere in carcere i suoi famigliari Oromo o, più probabile, essere ucciso, e l’esilio perenne, quanto meno fino alla caduta del terrorismo di Stato che gestisce l’Etiopia ininterrottamente dai tempi di Haile Selassiè, l’amerikano, Mengistu, il sovietico-cubano, Meles Zenawi e, ora, Haile Mariam Desalegn, di nuovo amerikani.
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“Il neoliberismo è un progetto politico”
B. S. Risager intervista David Harvey
Un’intervista al grande geografo David Harvey sul mensile Jacobin : https://www.jacobinmag.com/2016/07/david-harvey-neoliberalism-capitalism-labor-crisis-resistance/ - Traduzione a cura di Panofsky (https://www.facebook.com/Panofsky-260479200991238/?fref=ts)
Proponiamo un’interessante intervista al geografo e sociologo statunitense David Harvey, a undici anni dal suo libro “Breve storia del Neoliberismo”. In questo testo, divenuto velocemente uno dei più citati sull’argomento, Harvey analizza lo sviluppo e la storia di uno dei concetti più usati dalla sinistra (e non solo) per descrivere la configurazione attuale del moderno capitalismo. L’intervista ribadisce e arricchisce alcuni dei punti fondamentali del testo. Due le considerazioni più interessanti. La prima: la crescente importanza delle lotte che escono dal contesto della fabbrica e che si spostano nell’ambito urbano. Una sfida che un moderno sindacato conflittuale e di classe deve cogliere, e in questo senso la nascita della confederalità sociale USB va nella direzione giusta. La seconda: occorre ricordarsi che il neoliberismo non è altro che una configurazione del modo di produzione attuale, e che limitare l’opposizione ad esso e non al capitalismo per se è fuorviante. Una lezione che gran parte della moderna sinistra dovrebbe ricordarsi.
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Undici anni fa, David Harvey pubblicava “Breve storia del Neoliberismo” (in Italia edito da Il Saggiatore, ndt), ad oggi uno dei libri più citati sull’argomento.
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Ventotene's vaudeville, la penosa agonia dell'€uropa spiaggiata
di Quarantotto
1. La costruzione €uropea, - contrariamente a quanto ritengono gli z€loti che vivono di luoghi comuni, facitori e vittime della propaganda neo-ordo-liberista -, è stata guidata dalla volontà USA di governare l'intero Occidente (qui p.2 e qui, per la traduzione della fonte ufficiale), assicurandosi, per la sua parte più importante (cioè il "vecchio" continente), due certezze considerate imprescindibili:
a) ancorare il continente "madre" (o "padre") all'economia di mercato, in contrapposizione a ogni cedimento "socialista" al bolscevismo sovietico, e trascinarlo in tutte le successive evoluzioni economico-ideologiche del "mercatismo", preparatorie e posteriori alla "caduta del muro" (in particolare il Washington Consensus);
b) agevolare il conseguente perseguimento delle strategie geo-politiche ritenute opportune dagli USA stessi - o meglio dal suo establishment sentitosi trionfatore della guerra fredda e emblema della "fine della Storia"-, in quanto naturali leaders di questo blocco omogeneo di paesi trasformati in sinergici ausiliari "liberal-liberisti": l'agevolazione consentita dall'€uropa è quella di avere un interlocutore unico allorquando occorra garantire un coordinamento politico, ossequioso della linea stabilita al centro dell'Impero, verso le aree diverse da questo blocco (come insegna la vicenda dell'Ucraina e, in misura più incerta, quella dei Balcani, della Libia e del Medioriente...).
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Impresa, desiderio, ricchezza
L'anima al lavoro. Alienazione, estraneità, autonomia
Franco Berardi Bifo
Nella sua accezione rinascimentale e umanistica, con la parola impresa si intende l’attività che si organizza per dare al mondo la sua forma umana. L’impresa dell’artista rinascimentale è il segno e la condizione dell’indipendenza della sfera umana dal fato e dalla volontà divina. Nel pensiero di Machiavelli l’intrapresa è tutt’uno con la politica, che si emancipa dalla fortuna e pone in essere la repubblica, spazio nel quale le volontà umane costruiscono e confrontano la loro astuzia, la loro capacità di creazione.
Nella sua accezione capitalistica la parola impresa acquista nuove coloriture, pur non perdendo il senso di azione libera e costruttiva. E le nuove coloriture stanno tutte nella opposizione tra impresa e lavoro. L’impresa è invenzione e azione libera. Il lavoro è ripetizione e azione esecutiva. L’impresa è investimento di capitale che produce nuovo capitale, grazie alla valorizzazione che il lavoro rende possibile. Il lavoro è prestazione salariata, che valorizza il capitale ma svalorizza il lavoratore. Cosa resta oggi dell’opposizione tra lavoratori e impresa, e come si sta modificando la nozione di impresa, la sua percezione nell’immaginario sociale?
Impresa e lavoro sono sempre meno opposte nella percezione sociale, e nella coscienza stessa dei lavoratori cognitivi, cioè nella coscienza di quell’area che esprime il più alto livello di produttività e la più alta capacità di valorizzazione e che incarna la tendenza generale del processo lavorativo sociale.
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