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sebastianoisaia

Considerazioni – abbastanza inattuali – su Adorno e su altro

di Sebastiano Isaia

chagall67La sofferenza incessante ha tanto
il diritto di esprimersi quanto il
martirizzato di urlare (T. W. Adorno).

Basterebbe allo spirito un piccolo
sforzo per liberarsi dal velo di
questa parvenza onnipotente e
pur nulla: ma questo sforzo
pare di tutti il più difficile
(M. Horkheimer, T. W. Adorno).

Attualità di Adorno: è questo il titolo che Sandro Dell’Orco ha voluto dare al suo interessante articolo scritto in occasione del «50° anniversario della pubblicazione di Dialettica negativa» (1966). Qui mi propongo di affrontare un solo aspetto, squisitamente storico-politico, dei problemi messi sul tappeto dall’autore, cioè a dire il rapporto tra Adorno (e la «teoria critica» in generale) e il cosiddetto «socialismo reale» (e la sinistra, più o meno “radicale”, in generale). Come il lettore può facilmente constatare, si tratta di temi che si sposano bene con il clima agostano, diciamo… Sul merito propriamente filosofico della Dialettica negativa mi piacerebbe scrivere qualcosa quanto prima. Si vedrà!

«Diciamolo subito», esordisce Dell’Orco, «Adorno è stato sostanzialmente dimenticato dalla cultura mondiale dall’anno della sua morte. Come il marxismo, a cui si ispirava, è stato spazzato via dai luoghi della cultura istituzionale e mediatica». A mio avviso, e provando a guardare la cosa anche dal punto di vista della «teoria critica» di Adorno e Horkheimer, il fatto denunciato da Dell’Orco per un verso mi appare scontato e necessario, e per altro verso mette a nudo una concezione, quella di Dell’Orco, che sembra avere poco a che fare con un pensiero autenticamente critico-radicale (“marxista” o “rivoluzionario” che dir si voglia), il quale vive, e può vivere, solo lontano «dai luoghi della cultura istituzionale e mediatica», ossia dai centri di elaborazione della cultura e dell’ideologia dominanti. Lontano e contro questi «luoghi». Il “marxismo positivo”, per parafrasare l’Hegel critico della «religione positiva» (ossia istituzionalizzata e canonizzata), equivale alla sclerotizzazione burocratica e alla morte del marxismo.

Mi rendo conto che l’intellettuale cresciuto sotto l’influenza dell’ideologia gramsciana debba pensarla diversamente da me. E infatti, il Nostro continua come segue: «Di fatto, a partire dagli anni ottanta e soprattutto dal 1989, il marxismo da teoria egemone nelle istituzioni culturali, politiche e sociali, diviene una teoria di nicchia, come ai suoi primordi; sociologicamente una sorta di riserva indiana in cui pochi e attempati superstiti o reduci, in attesa di scomparire, ripetono alla luna le loro verità». Ma non è sospetto un punto di vista che si presenta al mondo in guisa di prospettiva radicalmente rivoluzionaria e che poi si afferma come una «teoria egemone nelle istituzioni culturali, politiche e sociali» (borghesi)? La cosa appare quantomeno contraddittoria, almeno agli occhi di chi, come il sottoscritto, non ha mai dato alcun credito alla teoria gramsciana dell’egemonia, la quale ha ben servito il processo di distruzione dell’autonomia teorica e politica del movimento operaio, progressivamente neutralizzato e integrato nel “sistema”, per la felicità dei teorici della «democrazia progressiva» o «Terza via» che dir si voglia. Il fatto che una teoria rivoluzionaria (non solo a chiacchiere, com’è il caso di quelle teorie “radicali” che tanto piacciono agli intellettuali “radicali”) sia costretta a vivere in una dimensione «di nicchia», salvo rare eccezioni, è qualcosa che si spiega con la stessa natura di quella teoria, in considerazione del fatto, cioè, che l’ideologia dominante è quella che fa capo alle classi dominanti. È solo con il “marxismo” formato Seconda Internazionale e Terza Internazionale stalinizzata che si afferma nel cosiddetto Movimento operaio internazionale l’idea che la teoria e la parassi (Partito compreso) devono essere rigorosamente “di massa”, sempre e comunque, a prescindere cioè dal grado di maturazione politica delle mitizzate “masse”, dalla loro effettiva capacità antagonista, dal loro livello di autonomia nei confronti di tutte le fazioni capitalistiche (1). Un fondamentale problema, quello appena evocato (una teoria e una prassi rivoluzionarie possono sempre seguire una “linea di massa”?), che lo stalinismo internazionale avrà cura di rubricare come “sindrome settaria”; un’operazione ideologica, questa, tesa a denigrare e a calunniare i «falsi amici del proletariato» (cioè gli antistalinisti), e che ebbe nel partito “comunista” di Togliatti un esempio forse insuperato nel contesto dello stalinismo europeo.

Il paradosso narrato da Dell’Orco avrebbe un qualche senso qualora il mondo si fosse trovato, prima dei “maledetti” anni Ottanta (il decennio della “controrivoluzione neoliberista”), alle soglie della rivoluzione sociale, come peraltro egli sembra credere: «Adorno, marxista, si eclissa, come tutti gli altri autori marxisti (Lukács, Althusser, Gramsci, Lenin, ecc.) che risplendevano, magari offuscandosi a vicenda, all’orizzonte dell’imminente riscatto dell’umanità. Il neoliberismo non fa distinzioni, è totalitario, con un solo colpo di scopa spazza via Marx e tutti i marxismi. Non con la forza delle idee, naturalmente, ma con quella del denaro, con cui si compra governi, media e istituzioni culturali in ogni parte del pianeta». A un passo dall’Evento palingenetico, il totalitarismo neoliberista diede scacco matto a ogni forma di “marxismo”: Adorno perde e va in soffitta, Habermas vince e va al potere – nelle università, nei partiti “operai”, nei sindacati, nelle istituzioni “borghesi” genericamente intese. Che dire? Mi scuso con il lettore, ma io ho guardato un altro film, oppure mi son distratto un attimo, non saprei dire. Per tacere circa la congruità dell’accostamento che Dell’Orco propone tra Adorno e «gli altri autori marxisti (Lukács, Althusser, Gramsci, Lenin, ecc.)». Non nascondo anche una settaria curiosità sui nomi degli «altri autori marxisti» che l’autore incorpora nell’eccetera.

Insomma, io non ho visto alcuna rivoluzione sociale alle porte (soprattutto compulsando libri e riviste: non sono poi così vecchio!), e d’altra parte il riferimento di Dell’Orco al famigerato 1989 forse ci dice qualcosa sulla natura del presunto quanto «imminente riscatto dell’umanità» cui egli accenna. L’allusione è ovviamente alla crisi definitiva del cosiddetto «socialismo reale», almeno nella sua variante russa; modello politico-sociale che non solo non spaventava neanche un po’ l’«Occidente capitalista» (se non sul piano della competizione interimperialistica, ma questo è un altro discorso), ma piuttosto portava tantissima acqua al suo mulino propagandistico: «Proletari, vedete cosa vi aspetta nel tanto strombazzato socialismo? Il capitalismo non sarà forse il migliore dei mondi possibili, ma di certo il socialismo non vi offre una vita migliore». Beninteso, il falso socialismo di matrice stalinista/maoista di reale aveva soltanto la sua natura capitalistica, un fatto incomprensibile per chi assimila senz’altro il “socialismo” al capitalismo di Stato, un’idiozia dottrinaria che lo stesso Marx ebbe modo a suo tempo di criticare – bastonando ad esempio il «socialismo di Stato» di Lassalle. Ma su questo punto ritornerò tra poco.

A mio giudizio, chi sostiene che il «Socialismo reale» ha avuto almeno il grande merito di far pendere la bilancia dei rapporti di forza tra le classi a favore degli operai occidentali, mostra tutta la sua inconsistenza concettuale e politica, quantomeno come aspirante “rivoluzionario”. Se non si viene fuori dalla confortante – e reazionaria – mitologia del “Trentennio felice” (i tre decenni che seguirono la Seconda carneficina mondiale), la comprensione dell’attuale tragedia storico-sociale (rimanere sequestrati nella disumana dimensione del Dominio mentre la liberazione ci sorride da molto vicino) resta inaccessibile, se non per alcuni suoi aspetti superficiali e periferici, con quel che ne segue necessariamente – e “dialetticamente” – sul terreno dell’iniziativa politica.

Scrive Dell’Orco:

«La generazione del sessantotto, che nel mondo occidentale s’infatuò di Adorno, se ne sbarazzò prestissimo – se non in senso fisico (come pure polemicamente suggeriva Beckett) certamente in senso intellettuale. I sessantottini desideravano agire immediatamente, passare all’azione, e chi li invitava a illuminare la propria prassi col pensiero, venne messo nella lista dei “nemici” e dimenticato. La fine che fece poi quella prassi cieca la si conosce, e Adorno che l’aveva ampiamente prevista e combattuta, invece di essere apprezzato, fu escluso dalla teoria rivoluzionaria della sinistra extraparlamentare ancor più radicalmente di quanto non lo fosse stato dalla cultura ufficiale. Insomma una sorta di cane morto che tutti respingevano. Da un lato come “revisionista” e dall’altro come “cattivo maestro”. Ricordo che già nei primi anni settanta il suo nome era impronunciabile nelle assemblee universitarie e nelle riunioni dei gruppi della sinistra radicale».

Ma tutto questo non ci invita forse a mettere in discussione la natura “rivoluzionaria” della cosiddetta «teoria rivoluzionaria della sinistra extraparlamentare» e dei «gruppi della sinistra radicale» di allora? Inutile girarci intorno: dove dominano ideologie impregnate di stalinismo, di maoismo e di terzomondismo non è possibile la maturazione di un punto di vista autenticamente critico-rivoluzionario. Il disprezzo dei nipotini di Stalin e di Mao nei confronti di Adorno e Horkheimer si spiega dunque benissimo ed è perfettamente coerente con il loro modo di concepire il mondo.

La mia critica ai detrattori di Adorno va oltre, e sposa, per così dire, il motto secondo cui la miglior difesa consiste nell’attacco; essa, infatti, investe direttamente e alla radice la loro stessa natura politico-sociale, la quale, come già detto, non aveva nulla a che fare con il comunismo, né con quello “ideale” che si trova nei libri di Marx ed Engels, né con quello “reale” che sarebbe stato sperimentato in Russia e altrove, come invece sembra credere Dell’Orco.

«Che fare? Qual è la prassi giusta per affrontare e cambiare tale assetto del mondo? La profondità a cui Adorno ha spinto l’analisi del capitalismo gli fa escludere il modello proposto dalle varie dittature del “socialismo reale” e dai partiti comunisti che vi si ispirano. Il problema infatti non è solo abolire il capitalismo, ma lo stesso comportamento istintuale egoistico, il bellum omnium contra omnes, che lo produce e da cui è continuamente riprodotto. L’abolizione meramente economica del capitalismo – come i paesi socialisti hanno dimostrato – non solo non produce automaticamente la fine della condizione di possibilità del dominio, ma è compatibile con la sua degenerazione più brutale e totalitaria».

E qui ritorniamo alla vera natura sociale del cosiddetto «socialismo reale», la cui esistenza non dimostra affatto ciò che sostiene Dell’Orco, peraltro sulla scia di Adorno e della Scuola di Francoforte.

Scriveva G. D. H. Cole nel remoto anno di grazia 1961, in pieno boom economico postbellico:

«La differenza fondamentale fra la civiltà occidentale moderna e tutte le altre civiltà che sono esistite in passato non è tanto che essa è dinamica mentre le altre erano statiche, perché la storia umana non è mai stata statica anche quando il ritmo delle trasformazioni tecnologiche era prossima a zero, quanto il fatto che le società industriali moderne hanno fatto del progresso, dell’ansia di cambiare, la loro seconda natura. […] L’uomo moderno è stato preso in un vortice immenso di sviluppo economico che finirà per inghiottirlo se egli non riuscirà a padroneggiare le forze che minacciano la società di distruzione» (2).

Il concetto di società industriale moderna non coglie l’essenza della cosa: è il dominio sociale capitalistico, infatti, che ha fatto dello sviluppo economico un imperativo categorico e degli individui degli esseri sottoposti alla cieca brama di profitti.

«L’uomo moderno» non ha mai padroneggiato le forze sociali che pure lui realizza sempre di nuovo, soprattutto attraverso il lavoro, ma le ha piuttosto subite alla stregua di potenze estranee e ostili. L’individuo è già negato come uomo, e la società industriale moderna, ossia capitalistica, rappresenta questa negazione. Come altri intellettuali del suo tempo vittime del velo tecnologico che copre la natura di classe della merce, della tecno-scienza e del lavoro salariato, Cole usava il concetto di società industriale moderna per dar conto anche del processo sociale in atto nei Paesi cosiddetti socialisti, i quali, pur avendo «un sistema economico radicalmente diverso dal capitalismo», erano tuttavia segnati da contraddizioni sociali e da problemi esistenziali assai simili a quelli che si potevano osservare in Occidente, nei Paesi a capitalismo per così dire conclamato. Di qui, l’individuazione della causa di quelle contraddizioni e di quei problemi nel processo tecnico industriale, concepito in sé come “sviluppista”, alienante, reificante e via discorrendo. In realtà, e come già sostenuto, il «socialismo reale» (in Russia, in Cina, ovunque), lungi dall’essere «un sistema economico radicalmente diverso dal capitalismo» non era che un capitalismo di Stato (peraltro tutt’altro che “puro”!) a forte vocazione imperialistica, soprattutto sul versante “Sovietico”. Insisto su questo punto perché l’infondata interpretazione del «socialismo reale» è tutt’altro che estranea all’attuale impotenza sociale e politica delle classi dominate del pianeta, la cui speranza in un mondo a misura d’uomo è stata annichilita anche dalle diverse esperienze di “socialismo reale”.

Nel mio studio dedicato alla Rivoluzione d’Ottobre (Lo scoglio e il mare) provo a chiarire le cause e la fenomenologia della controrivoluzione che annientò totalmente le ancora fragili, limitate e contraddittorie conquiste rivoluzionarie rese possibili dal «Grande Azzardo» architettato dal partito di Lenin.

L’ansia di cambiamento di cui parlava Cole è dunque in primo luogo l’ansia del capitale di intascare profitti, ed è precisamente questa brama che costringe la società capitalistica a continui e sempre più frequenti cambiamenti, non solo in economia, ma in ogni aspetto della prassi sociale, coinvolgendo in profondità la stessa sostanza psicosomatica degli individui. La dimensione del capitalismo oggi è il mondo e, insieme, il corpo stesso degli individui, una risorsa economica capitalisticamente davvero generosa, un mercato perfetto scandagliato e coltivato con ossessiva e maniacale cura dagli specialisti del marketing. La biopolitica pensata da Foucault si è col tempo radicalizzata proprio secondo le previsioni di A. Rüstow: «L’economia del corpo sociale organizzato secondo le regole dell’economia di mercato». La distinzione “ontologica” tra «corpo sociale» e corpo umano tende a evaporare sotto la pressione del “sociale”; ogni sogno notturno è una potenziale domanda rivolta al mercato, il quale è sempre pronto a soddisfare le richieste del cliente. «L’assurdità del capitalismo totalitario, la cui tecnica di soddisfazione dei bisogni rende quella soddisfazione impossibile, tende alla distruzione dell’umanità. […] Tutti questi sacrifici superflui sono necessari» (3).

Nell’ambito della Scuola di Francoforte, soprattutto Marcuse elaborò il concetto di «società industriale avanzata»; seguendo questa cattiva strada egli giun­se appunto ad assimilare il capitalismo occidentale con «le forme at­tuali di comunismo», dove l’errore evidentemente non stava in quella assimilazione, ma piuttosto nell’ac­creditamento “comunista” dei regimi “diversamente capitalisti” radicati in Russia, in Cina e altrove. Il concetto adorniano di «capitalismo totalitario», declinato in un’accezione squisitamente sociale, e non banalmente politologica (intesa cioè a cogliere solo la struttura sociale dei regimi totalitari: fascismo, nazismo, stalinismo), saturava completamente anche la realtà sociale dei Paesi cosiddetti socialisti. In ogni caso, oggi si può ben parlare di dominio totale e totalitario dei rapporti sociali capitalistici, anche in polemica con gli apologeti – attivi a “destra” come a “sinistra” – della «Civiltà occidentale», i cui “valori universali” per costoro sarebbero sottoposti agli attacchi di Paesi (come la Russia, la Cina e, in parte, la Turchia di Erdogan) e di entità politicamente “non convenzionali” (vedi il Califfato Nero) estranei al retaggio dello «Stato di diritto» e dei «diritti umani». Senza peraltro concedere nulla agli apologeti, altrettanto reazionari, dello Stato forte e sovranista, i quali hanno proprio nella Cina e nella Russia (e in generale nell’Asse antiamericano, come ai “bei tempi” della Guerra Fredda) il loro punto di riferimento geopolitico. Ma non divaghiamo!

Il rifiuto della prassi – o quantomeno la sua sospensione, in attesa di tempi più propizi – proclamato una volta da Adorno, va a mio avviso  considerato alla luce della tragedia sociale che lo vide protagonista, e che noi abbiamo ereditato. Solo così, penso, possiamo comprenderne il reale significato, coglierne l’autentica portata filosofica e politica, verificarne la vitalità/attualità. Per un verso la guerra mondiale, i campi di sterminio, il desiderio degli individui di lasciarsi rapidamente alle spalle le macerie materiali e “spirituali” della guerra, per ritornare quanto prima a «vivere normalmente», senza interrogarsi sulle profonde radici sociali che avevano generato quella catastrofe, e che promettevano di crearne altre, magari in un nuovo formato, in futuro. Per altro verso il cosiddetto “comunismo”, che non prometteva nulla di buono circa la liberazione dal Dominio: tutt’altro! Per quella che possiamo forse assimilare a una legittima difesa, Adorno e Horkheimer teorizzarono la sospensione della prassi nell’ambito della «teoria critica». Un errore concettuale, certo; ma quale «prassi» alternativa a quella democratico-riformista i due avevano allora dinanzi? È presto detto: quella ultrareazionaria dello stalinismo internazionale con le sue molteplici e spesso fantasiose variazioni nazionali. Prendendo congedo dalla «prassi» essi intesero dunque mettere al riparo la «teoria critica» dall’omologazione stalinista, e personalmente considero questa intenzione, questa sensibilità ideale e politica qualcosa di assai meritevole in sé e per sé, cosa che naturalmente non muta il giudizio che personalmente do alla loro interpretazione del «fenomeno-stalinismo», da Adorno e Horkheimer associato in qualche modo allo stesso pensiero marxiano.

Scriveva Adorno:

«Per questa prassi – illiberale e antiumana – ha preso partito il materialismo arrivato al potere politico non meno del mondo che esso un tempo voleva mutare. Esso incatena ancora la coscienza invece di comprenderla e di mutarla a sua volta. Apparati terroristici dello stato si barricano, divenendo istituzioni stabili, dietro il potere frustro di una dittatura (ormai perdurante da cinquant’anni) del proletariato da tempo amministrato. […] Ciò che, nell’attesa della rivoluzione imminente, voleva liquidare la filosofia, era già allora rimasto dietro ad essa, impaziente con la sua pretesa. […] Il materialismo diventa ricaduta nella barbarie, che voleva impedire; lavorare contro questa tendenza è uno dei compiti meno indifferenti di una teoria critica» (4).

Ora, nella misura in cui, per un verso il «materialismo storico» di Marx non aveva nulla a che spartire con il «materialismo dialettico» (il famigerato diamat) diventato l’ideologia di Stato dell’Unione Sovietica; e che per altro verso il cosiddetto «socialismo reale» era, e mi scuso se ripeto ossessivamente lo stesso concetto, un capitalismo (più o meno “di Stato”), quella posizione di Adorno ha un po’ il significato di gettare «il bagno col bambino dentro», per usare le sue stesse parole (vedi Minima moralia). Più esattamente: il bambino di Treviri non c’entrava niente con il bagno sporco della barbarie stalinista. Ecco perché il mio inveterato antistalinismo non mi ha mai indotto a prendere le distanze dagli aspetti ritenuti più scabrosi e insostenibili della teoria politica marxiana, come quelli, ad esempio, riguardanti la «rivoluzione sociale» e la «dittatura rivoluzionaria del proletariato», i quali certamente vanno riconsiderati alla luce del capitalismo mondiale del XXI secolo, ma senza farsi spiazzare da una cattiva (infondata) interpretazione del «socialismo reale». Non bisogna leggere Marx alla luce dell’interpretazione dominante (“mainstream”) del «socialismo reale»: è il modesto suggerimento che ho sempre dato a chi intende maturare, come chi scrive, un punto di vista critico-radicale su tutto ciò che si muove tra Terra e Cielo.

Allora (come oggi, del resto) non si trattava di sospendere la prassi, ma di elaborarne una coerente con la teoria che si poneva in assoluta contrapposizione con un mondo sempre più alienato e alienante, atomizzato e massificato, terrorizzante e terroristico (e qui siamo già in piena cronaca!), sussunto completamente sotto le imperiose leggi del calcolo economico. Una prassi all’altezza dei suoi presupposti teorici, certo, ma anche necessariamente adeguata al reale stato della “lotta di classe”. Più facile a dirsi che a farsi, non c’è dubbio. Tanto più per un intellettuale accusato dal “Movimento” di non voler sostenere la “causa del proletariato”: e meno male, dico io, considerato che in quella “causa” militavano i figli di Stalin (e poi i suoi nipotini, sotto forma di maoisti)! D’altre parte, io concepisco la prassi come una forma trasformata della teoria (e viceversa), come la continuazione della politica con altri mezzi – e viceversa. Dico questo per illuminare meglio la posizione di Adorno e Horkheimer a proposito della «prassi».

Una volta Lenin disse che i marxisti avrebbero fatto bene a costruire «una sorta di associazione di amici materialisti della dialettica hegeliana», intendendo con ciò significare che solo i marxisti potevano scoprire il lato fecondo di quella dialettica, e avvantaggiarsene sul piano politico. Riformulo la perorazione leniniana a beneficio del pensiero critico di Adorno e Horkheimer, il quale, con tutti i limiti che sono lungi dal misconoscere (ma chi non ha limiti scagli la prima frottola!), ritengo possa essere fecondo nello sforzo teorico e pratico cui accenno in questo articolo. Ad esempio, la loro critica del «tardo capitalismo», a partire dalla cosiddetta «industria culturale» e dalla dimensione sempre più totalitaria del “sociale”, offre molti spunti di riflessione utili a comprendere meglio la Società-Mondo del XXI secolo.

«La fine del dominio ha bisogno di un atto consapevole e volontario (spontaneo, autonomo) di uomini che sappiano tenere testa al proprio naturale impulso egoistico, prima che a quello degli altri. Solo uomini siffatti, che abbiano saldato i conti col proprio egoismo, e che abbiano esperito nella loro vita rapporti umani così gioiosamente amorevoli, delicati, gratuiti e solidali, da esserne legati più che a qualunque altra soddisfazione, – solo uomini siffatti potrebbero essere i soggetti credibili di una trasformazione radicale oltre il capitalismo e il dominio. Ma dove sono uomini così? E come pretendere che tutti gli uomini siano così? Perché tutti gli uomini debbono esserlo affinché il bellum omnium non ricominci. Queste domande ci avvicinano moltissimo ai famosi concetti di “dialettica bloccata” o di “rifiuto della prassi” di Adorno».

Ebbene, visti dalla prospettiva storica e politica che ho cercato di tratteggiare, i problemi posti da Dell’Orco assumono un aspetto diverso da quello che emerge dalla sua impostazione. Non so dire come si porrà un domani «il problema di una trasformazione radicale oltre il capitalismo e il dominio», e nei miei modesti lavori mi limito a descrivere e a denunciare, contro i sacerdoti del “male minore”, il carattere necessariamente disumano – e sempre più disumano: «il peggio è adesso e non smette di peggiorare!» – del vigente regime sociale mondiale, e a prospettare la possibilità dell’auspicata emancipazione universale, avendo peraltro cura di chiarire che tale possibilità oggi è sul punto di esalare l’ultimo respiro. Insomma, l’”ottimismo della rivoluzione” – o della volontà – lo lascio volentieri a chi ha bisogno di rassicuranti certezze, mentre oggi si tratterebbe piuttosto di dare voce alla tragedia, di testimoniare la pessima condizione umana, di denunciare il carattere nichilista dei nostri tempi. Scriveva Max Horkheimer negli anni Trenta: «L’ottimismo dei proclami politici proviene oggi dalla disperazione» (5); condivido. Allora l’intellettuale tedesco considerò «prevedibile» anche «una fine innaturale» della tragedia, ossia un «salto nella libertà»; oggi una simile fine mi appare assai meno prevedibile, per non dire altro.

Quel che però so con certezza (e sono pochissime le certezze che posso esibire, purtroppo!) è che il cosiddetto «socialismo reale» non solo non depone contro «una trasformazione radicale oltre il capitalismo e il dominio», ma anzi ci parla della sua necessità, proprio perché questa miserabile esperienza si colloca tutta dentro il processo sociale capitalistico, essa è, come mi piace dire, un capitolo particolarmente ignobile del Libro nero del Capitalismo mondiale.


Note
(1) Naturalmente il vero problema consiste nell’esistenza stessa di una massa, ossia nelle condizioni sociali che rendono possibile la trasformazione (meglio: la creazione, già in tenera età) degli individui in atomi sociali facilmente massificabili. L’identificazione con l’uomo forte da parte dei singoli «presuppone l’atomizzazione, alienazione e impotenza dei singoli […] L’identificazione, sia con il collettivo, sia con la figura strapotente del capo, offre all’individuo un surrogato psicologico per quel che gli manca nella realtà» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Massa, in Lezioni di sociologia, p. 96, Einaudi, 2001). Come mi capita spesso di dire, nella misura in cui non padroneggiamo con le mani e con la testa le fonti essenziali della nostra esistenza (a partire dalla creazione e distribuzione dei prodotti che ci tengono in vita), siamo degni della metafora nietzschiana del gregge. «La folla è un gregge docile incapace di vivere senza un padrone. È talmente desiderosa di obbedire che si sottomette istintivamente a colui che le si pone a capo. […] Il gregge esiste anche se manca un pastore» (S. Freud, Psicologia collettiva e analisi dell’Io, p. 111, Newton, 1991). Trovo quest’ultimo passo di una profondità davvero notevole, tale da far venire i brividi a chi lo colga in tutta la sua potente estensione concettuale. Posto il gregge, cioè a dire i rapporti sociali che lo rendono possibile sempre di nuovo, il Pastore è sempre dietro l’angolo, pronto a decifrare ogni variazione nella tonalità dei belati. «Pastore sarai tu il mio Signore!». «La regressione delle masse, oggi, è l’incapacità di udire con le proprie orecchie qualcosa che non sia stato ancora udito, di toccare con le proprie mani qualcosa che non sia stato ancora toccato» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 44, Einaudi, 1996). Inutile ricordare, per l’ennesima volta, il maligno ruolo che lo stalinismo internazionale ha avuto nel processo di «regressione delle masse». Però intanto l’ho fatto!
(2) G. D. H. Cole, Storia economica del mondo moderno, pp. 176-177, Garzanti, 1961.
(3) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo.
(4) T. W. Adorno, Dialettica negativa, p. 254, Einaudi 1970.
(5) M. Horkheimer, Gli ebre e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, p. 59, Savelli, 1978.

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