Print Friendly, PDF & Email

contropiano2

“Il neoliberismo è un progetto politico”

B. S. Risager intervista David Harvey

Un’intervista al grande geografo David Harvey sul mensile Jacobin : https://www.jacobinmag.com/2016/07/david-harvey-neoliberalism-capitalism-labor-crisis-resistance/ -  Traduzione a cura di Panofsky (https://www.facebook.com/Panofsky-260479200991238/?fref=ts)

Capitalism Isnt Working 500x300

 Proponiamo un’interessante intervista al geografo e sociologo statunitense David Harvey, a undici anni dal suo libro “Breve storia del Neoliberismo”. In questo testo, divenuto velocemente uno dei più citati sull’argomento, Harvey analizza lo sviluppo e la storia di uno dei concetti più usati dalla sinistra (e non solo) per descrivere la configurazione attuale del moderno capitalismo. L’intervista ribadisce e arricchisce alcuni dei punti fondamentali del testo. Due le considerazioni più interessanti. La prima: la crescente importanza delle lotte che escono dal contesto della fabbrica e che si spostano nell’ambito urbano. Una sfida che un moderno sindacato conflittuale e di classe deve cogliere, e in questo senso la nascita della confederalità sociale USB va nella direzione giusta. La seconda: occorre ricordarsi che il neoliberismo non è altro che una configurazione del modo di produzione attuale, e che limitare l’opposizione ad esso e non al capitalismo per se è fuorviante. Una lezione che gran parte della moderna sinistra dovrebbe ricordarsi.

* * *

Undici anni fa, David Harvey pubblicava “Breve storia del Neoliberismo” (in Italia edito da Il Saggiatore, ndt), ad oggi uno dei libri più citati sull’argomento.

Gli anni passati da allora hanno visto nuove crisi economiche e finanziarie, ma anche nuove ondate di resistenza, che di per se spesso mettono nel mirino proprio il “neoliberismo” nella loro critica della società contemporanea.

Cornell West parla del movimento “Black Lives Matter” (il movimento originatosi nella comunità afro-americana contro le continue violenze della polizia contro le persone di colore, ndt) come di “un’accusa verso il potere neoliberale”; Hugo Chavez chiamava il neoliberismo un “percorso verso l’inferno”; e i leader sindacali stanno usando in maniera crescente il termine per descrivere il tipo di struttura più ampia in cui avvengono le lotte per il lavoro. Anche la stampa mainstream ha iniziato ad usare il termine, se non altro per argomentare che il neoliberismo non esiste.

Ma di che cosa parliamo esattamente quando parliamo di neoliberismo? È un bersaglio utile per dei militanti socialisti? E come è cambiato dalla sua genesi avvenuta nel tardo ventesimo secolo?

Bjarke Skærlund Risager, un dottorando presso il Dipartimento di Storia delle Idee dell’Università di Aarhus, si è seduto al tavolo con David Harvey per discutere la natura politica del neoliberismo, come esso ha trasformato le modalità di resistenza, e perché la sinistra deve ancora essere seria riguardo all’obbiettivo di terminare il capitalismo.

* * *

Risager: “neoliberismo” è un termine ampiamente utilizzato oggi. Tuttavia, è spesso poco chiaro a cosa le persone si riferiscano quando lo utilizzano. Nei suoi utilizzi più sistematici il termine può riferirsi ad una teoria, ad un insieme di idee, ad una strategia politica o ad un periodo storico. Può cominciare spiegandoci il suo concetto di neoliberismo?

Harvey: ho sempre trattato il neoliberismo come un progetto politico portato avanti dalla classe capitalistica, poiché essa si sentiva minacciata sia politicamente che economicamente fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 del ‘900. [I capitalisti] volevano disperatamente lanciare un progetto politico che abbattesse il potere della classe lavoratrice.

Per molti versi questo progetto era controrivoluzionario. Avrebbe stroncato sul nascere quelli che, al tempo, erano movimenti rivoluzionari in gran parte del terzo mondo – Mozambico, Angola, Cina, ecc – ma anche un’ondata crescente di influenza comunista in paesi come l’Italia e la Francia e, ad un grado di importanza minore, la minaccia di un revival comunista in Spagna.

Perfino negli Stati Uniti i sindacati avevano creato un Congresso Democratico che era piuttosto radicale nei suoi intenti. Nei primi anni ’70 essi, insieme ad altri movimenti sociali, forzarono una sfilza di riforme e di iniziative riformiste che erano essenzialmente anti-impresa: l’Agenzia di Protezione per l’Ambiente (EPA), l’agenzia per la Sicurezza Occupazionale e l’Amministrazione Sanitaria, la protezione dei consumatori, e una serie di cose che rafforzassero la classe lavoratrice perfino di più di quanto fosse stata rafforzata prima.

Perciò in quella situazione c’era, in effetti, una minaccia globale al potere della classe capitalista e pertanto la domanda era: “che fare?”. La classe dominante non era omnisciente ma essa riconosceva che c’erano un numero di fronti nel quali essa doveva lottare: il fronte ideologico, il fronte politico e soprattutto dovevano lottare per ridurre il potere della classe lavoratrice con qualunque mezzo possibile. Da questo emerse un progetto politico che io chiamerei neoliberismo.

 

Può parlarci un po’ del fronte politico e di quello ideologico e degli attacchi alla classe lavoratrice?

Il fronte ideologico si concretizzò nel seguire il consiglio di una persona di nome Lewis Powell. Questi scrisse un documento che diceva che si era esagerato, che il capitale aveva bisogno di un progetto collettivo. Questo documento aiutò a mobilitare la Camera di Commercio e la Tavola Rotonda dell’Impresa [due organizzazioni di industriali e imprenditori americani, ndt].

Anche le idee furono importanti per quanto riguarda il fronte ideologico. Il giudizio al tempo era che le università fossero impossibili da organizzare perché il movimento studentesco era troppo forte e le facoltà troppo di orientamento “liberal”, pertanto il capitale mise su una serie di think-thank come il Manhattan Institute, la Heritage Foundation e la Ohlin Foundation. Questi think-thank sostenevano le idee di Von Hayek e Milton Friedman e la cosiddetta “economia dell’offerta” [da contrapporsi all’economia della domanda, propugnata dai keynesiani, ndt].

L’idea era che queste organizzazioni facessero ricerca seria, ed alcuni di essi la fecero – ad esempio il National Bureau of Economic Research era un’istituzione con fondi privati che realizzò della ricerca di qualità. Queste ricerche sarebbero poi state pubblicate in maniera indipendente ed avrebbero influenzato la stampa e pian piano avrebbe circondato ed infiltrato le università.

Questo processo prese molto tempo. Penso che oggi abbiamo raggiunto un punto in cui qualcosa come la Heritage Foundation non serve più. Le università sono state sostanzialmente conquistate dai progetti neoliberali che le assediavano.

Rispetto alla classe lavoratrice, la sfida era mettere i lavoratori e le lavoratrici in USA in competizione con i lavoratori e le lavoratrici in tutto il mondo. Nel corso degli anni ‘60, ad esempio, i tedeschi stavano importando manodopera turca, la Francia forza lavoro magrebina, la Gran Bretagna lavoratori dalle ex colonie. Ma questo aveva creato molta insoddisfazione e disordine.

Invece i capitalisti americani scelsero un’altra strada – portare capitale dove c’era forza lavoro a bassi salari. Ma perché la globalizzazione funzionasse c’era bisogno di ridurre le tariffe doganali e rendere più potente il capitale finanziario, perché esso è la forma di capitale più mobile. Pertanto il capitale finanziario e cose come le valute lasciate libere di fluttuare divennero fondamentali per indebolire il lavoro.

Al tempo stesso, i progetti ideologici di privatizzare e deregolamentare crearono disoccupazione. Pertanto abbiamo la disoccupazione negli USA e la perdita di posti di lavoro con lo spostamento delle attività produttive all’estero, e poi una terza componente: il cambiamento tecnologico, la deindustrializzazione tramite l’automazione e la robotizzazione. Questa è stata la strategia per battere la classe lavoratrice.

Si trattava di un assalto ideologico ma anche di un assalto economico. Per me questo è stato il neoliberismo: un progetto politico, e penso che la borghesia o la classe capitalista lo abbiano messo in atto pezzo per pezzo.

Non penso abbiano cominciato leggendo Hayek o qualsiasi altra cosa, penso che essi abbiano intuitivamente detto, “dobbiamo schiacciare la classe lavoratrice, come lo facciamo?”. E trovarono una teoria che legittimava tutto questo.

 

Dalla pubblicazione di “Breve storia del neoliberismo” nel 2005 è stato versato molto inchiostro sull’argomento. Sembra che ci siano due campi principali: studiosi che sono più interessati alla storia intellettuale del neoliberismo, e persone che invece si preoccupano del neoliberismo “attualmente esistente”. Lei dove si posiziona?

C’è una tendenza nelle scienze sociali, alla quale tendo a resistere, a cercare una una teoria unica per spiegare qualcosa. Perciò troviamo una frazione di persone che dice che, insomma, il neoliberismo è un’ideologia e pertanto essi scrivono una storia dell’ideologia riguardo ad esso.

Una versione di questo è l’argomentazione di Foucault sulla governamentalità, che vede tendenze neoliberali già presenti nel diciottesimo secolo. Ma se si tratta il neoliberismo soltanto come un’idea o come un insieme di pratiche limitate di governamentalità, si troveranno decine di precursori.

Quello che qui manca è il modo in cui la classe capitalista ha orchestrato i suoi sforzi fra gli anni ’70 e i primi anni ’80. Penso sia giusto dire che a quel tempo – almeno nel mondo anglosassone – la classe capitalista divenne abbastanza unita.

Erano d’accordo su molte cose, come sulla necessità di una forza politica che li rappresentasse veramente. Così si spiegano la conquista [da parte dei capitalisti] la partito Repubblicano, e il tentativo di indebolire, in un certo senso, il partito Democratico.

A partire dagli anni ‘70 la Corte Suprema prese una serie di decisioni che permisero alla classe capitalista di comprare le elezioni molto più facilmente di quanto potessero in passato.

Ad esempio si vedano le riforme del finanziamento delle campagne elettorali, che trattavano i contributi alle campagne come una forma di libera espressione. C’è una lunga tradizione negli Stati Uniti di capitalisti che comprano le elezioni, ma ora era stato legalizzato invece che essere fatto sotto banco come corruzione.

In generale io penso che questo periodo sia stato definito da un ampio movimento verso vari fronti, ideologici e politici. E l’unico modo in cui puoi spiegare questo ampio movimento è riconoscendo il relativamente alto grado di solidarietà nella classe capitalista. Il capitale riorganizzò il suo potere in un disperato tentativo di recuperare la propria ricchezza ed influenza, che erano stati seriamente erosi dalla fine degli anni ’60 fino agli anni ’70.

 

Ci sono state numerose crisi a partire dal 2007. Come la storia e il concetto di neoliberismo ci aiutano a comprenderle?

Ci sono state molte poche crisi tra il 1945 e il 1973; ci sono stati alcuni momenti problematici ma nessuna grande crisi. La svolta verso le politiche neoliberali avvenne nel mezzo di una crisi negli anni ’70 e l’intero sistema ha subito una serie di crisi da allora. E ovviamente le crisi producono le condizioni per le crisi future.

Fra il 1982 e il 1985 ci sono state crisi di debito in Messico, Brasile, Ecuador e sostanzialmente tutti i paesi in via di sviluppo includendo la Polonia. Fra il 1987 e il 1988 ci fu una crossa crisi nelle istituzioni creditizie statunitensi. Ci fu una grande crisi in Svezia nel 1990, e tutte le banche dovettero essere nazionalizzate.

Poi ovviamente c’è stata la crisi in Indonesia e nel Sud-Est Asiatico nel 1997/98, poi la crisi si è spostata in Russia, poi in Brasile per poi colpire l’Argentina nel 2001-2002.

E c’erano problemi negli USA nel 2001, che li risolsero spostando denaro dal mercato azionario a quello immobiliare. Nel 2007-2008 il mercato immobiliare statunitense esplose, e così arrivò la crisi anche qui.

Si può guardare la mappa del mondo e vedere tendenze alla crisi muoversi intorno ad esso. Ragionare sul neoliberismo è utile per comprendere queste tendenze.

Una delle grandi manovre di neoliberalizzazione fu espellere tutti i keynesiani dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale nel 1982 – una pulizia totale di tutti i consiglieri economici che avessero una visione keynesiana.

Furono rimpiazzati da economisti neoclassici teorici dell’offerta [ossia che enfatizzassero il ruolo dell’offerta rispetto alla domanda aggregata keynesiana, ndt], e la prima cosa che questi fecero su decidere che da quel momento l’FMI avrebbe dovuto seguire una politica di aggiustamento strutturale ovunque ci fosse una crisi.

Nel 1982 c’era una crisi debitoria in Messico. L’FMI disse: “vi salveremo”. In realtà quello che stavano facendo era salvare le banche d’investimento di New York e implementare politiche di austerità.

La popolazione del Messico soffrì qualcosa come la perdita del 25 per cento del suo standard di vita nei quattro anni che seguirono il 1982, come risultato delle politiche di aggiustamento strutturale dell’FMI.

Da allora il Messico ha subito quattro aggiustamenti strutturali. Molti altri paesi ne hanno avuto più di uno. Questa divenne una pratica standard.

Che cosa stanno facendo alla Grecia adesso? È quasi una copia di quello che fecero al Messico nel 1982, solo in maniera più esperta. Questo è anche quanto accadde negli USA nel 2007-2008. Salvarono le banche e fecero pagare le persone tramite una politica di austerità.

 

C’è qualcosa delle recenti crisi e della loro gestione da parte delle classi dominanti che le abbiano fatto ripensare la sua teoria del neoliberismo?

Bhe, non penso che la solidarietà fra la classe capitalistica oggi sia quella di una volta. Geopoliticamente, gli USA non si trovano in una posizione di dare una linea globale, come lo erano negli anni ’70.

Penso che stiamo vedendo una regionalizzazione di strutture di potere globali all’interno del sistema statale – egemonie regionali come la Germania in Europa, il Brasile in America Latina e la Cina in Asia Orientale.

Ovviamente gli USA hanno ancora una posizione globale, ma i tempi sono cambiati. Obama può andare al G20 e dire “dovremmo fare questo”, e Angela Merkel può dire “non lo faremo”. Questo non sarebbe accaduto negli anni ’70.

Perciò la situazione geopolitica è divenuta più regionalizzata, c’è più autonomia. Penso che in parte sia il risultato della fine della guerra fredda. Paesi come la Germania non si affidano più agli USA per la propria protezione.

Inoltre, quella che è stata chiamata “la nuova classe capitalista” di Bill Gates, Amazon e la Silicon Valley ha una politica differente rispetto a quella tradizionale del petrolio e dell’energia.

Come risultato essi tendono a seguire la propria strada, perciò c’è un sacco di rivalità settoriale fra, diciamo, [il capitalismo del]l’energia e quello della finanza, e fra quello dell’energia e la Silicon Valley, e così via. Queste sono divisioni serie che sono evidenti su qualcosa come il cambiamento climatico, ad esempio.

L’altra cosa che io penso sia cruciale è che la controrivoluzione neoliberale negli anni ’70 non passò senza una forte opposizione. Ci fu una massiccia resistenza da parte della classe lavoratrice, dai partiti comunisti in Europa, e così via.

Ma io direi che dalla fine degli anni ’80 la battaglia era persa. Così, dato che la resistenza è scomparsa, la classe lavoratrice non ha il potere che aveva una volta, la solidarietà fra la classe dominante non è più necessaria affinché funzioni.

[La classe capitalista] non deve necessariamente unirsi e fare qualcosa contro le lotte dal basso, poichè non c’è più nessuna minaccia. La classe dominante sta andando estremamente bene, perciò non ha davvero bisogno di cambiare alcunché.

Tuttavia, mentre la classe capitalista sta facendo molto bene, il capitalismo sta andando piuttosto male. I tassi di profitto hanno recuperato ma i tassi di reinvestimento sono incredibilmente bassi, perciò molto denaro non sta tornando dentro la produzione e sta invece affluendo verso l’appropriazione di terreni e l’acquisizione di asset.

 

Parliamo della resistenza [al neoliberismo]. Nel suo lavoro lei sottolinea il paradosso apparente che l’assalto neoliberista è stato accompagnato da un declino nella lotta di classe – almeno nel Nord del mondo – a favore di “nuovi movimenti sociali” a favore della libertà individuale. Può spiegarci come lei pensa che il neoliberismo abbia fatto nascere certe forme di resistenza?

Questa è una frase su cui riflettere. Cosa succede se ogni modo di produzione dominante, con la sua particolare configurazione politica, crea un modo di opposizione come una sua immagine a specchio.

Durante l’era dell’organizzazione fordista del processo produttivo, l’immagine a specchio erano grandi organizzazioni sindacali centralizzate e partiti politici democraticamente centralisti.

La riorganizzazione del processo di produzione e la svolta verso l’accumulazione flessibile durante il periodo neoliberale ha prodotto una sinistra che è, in molti modi, il suo specchio: che fa rete, decentralizzata, non gerarchizzata. Penso che sia molto interessante.

E per certi versi l’immagine a specchio rafforza ciò che invece sta provando a distruggere. Alla fine penso che il movimento sindacale effettivamente sostenne il fordismo.

Io penso che molta della sinistra oggi, essendo molto autonoma ed anarchica, stia rafforzando il gioco finale del neoliberismo. A un sacco di persone nella sinistra non piace sentirselo dire.

Ma ovviamente sorge una questione: c’è un modo di organizzarsi che non sia un’immagine a specchio [del modo di produzione dominante]? Possiamo rompere lo specchio e trovare qualcos’altro, che non sia giocare nelle mani del neoliberismo?

La resistenza al neoliberismo può occorrere in un numero di modi differenti. Nel mio lavoro io sottolineo che il punto in cui il valore si realizza è anche un punto di tensione. Il valore si produce nel processo di lavoro, e questo è un aspetto molto importante della lotta di classe. Ma il valore è realizzato nel mercato tramite la vendita, e c’è molto di politico in questo.

Molta resistenza all’accumulazione capitalista accade non solo nel processo di produzione ma anche tramite il consumo e la realizzazione di valore. Prendete ad esempio una fabbrica di auto: le grandi fabbriche solevano impiegare circa 25.000 persone; oggi ne impiegano 5.000 perché la tecnologia ha ridotto la necessità di lavoratori. Perciò più e più lavoratori e lavoratrici stanno venendo rimossi dalla sfera delle produzione e sempre di più vengono spinti nella vita urbana.

Il punto principale di scontento nella dinamica capitalista si sta spostando sempre di più dalle lotte sulla realizzazione del valore – verso la politica della vita quotidiana in città.

I lavoratori e le lavoratrici ovviamente contano e ci sono molte questioni che li riguardano che sono cruciali. Se ci troviamo a Shenzhen in Cina le lotte sul processo lavorativo sono dominanti. E negli USA dovremmo aver supportato lo sciopero a Verizon, ad esempio.

Ma in molte parti del mondo le lotte sulla qualità della vita quotidiana sono dominanti. Guardate alle grandi lotte negli ultimi dieci-quindici anni: Gezi Park a Istanbul non è stata una lotta dei lavoratori, è stato lo scontento verso la politica della vita quotidiana e la mancanza di democrazia e di processi decisionali; nelle rivolte nelle città brasiliane nel 2013 c’era ancora una volta il discontento verso la politica della vita quotidiana: trasporti, possibilità e la spesa di così tanto denaro in grandi stadi mentre non si sta spendendo nulla sul costruire scuole, ospedali e case a prezzi accessibili. Le rivolte che abbiamo visto a Londra, Parigi e Stoccolma non riguardano il processo lavorativo, ma la politica della vita quotidiana.

Questa politica è piuttosto differente dalla politica che esiste nel processo di produzione. Nel processo di produzione è capitale contro lavoro. Le lotte sulla qualità della vita urbana sono meno chiare in termine della loro configurazione di classe.

Una chiara politica di classe, che solitamente si deriva da una comprensione del processo di produzione, diviene teoricamente confuse quando diviene più realistico. È una questione di classe ma non nel senso classico.

 

Lei pensa che parliamo troppo del neoliberismo e troppo poco del capitalismo? Quando è appropriato usare l’uno o l’altro termine, e quali sono i rischi che si corrono nel mischiarli?

Molti liberal dicono che il neoliberismo è andato troppo in là in termini di diseguaglianza di reddito, che si è esagerato con le privatizzazioni, che ci sono un sacco di beni comuni di cui dovremmo preoccuparci, come l’ambiente.

Ci sono anche molti modi di parlare del capitalismo, come la sharing economy, che si è rivelata altamente capitalizzata e altamente sfruttatrice.

C’è la nozione di capitalismo etico, che si è rivelato essere semplicemente un modo di essere ragionevolmente onesti invece che rubare. Perciò c’è la possibilità nella testa di alcune persone di un qualche tipo di riforma dell’ordine neoliberale in qualche altra forma di capitalismo.

Io penso che sia possibile fare un capitalismo migliore di quello che esiste adesso. Ma non di molto. I problemi fondamentali [del capitalismo] sono ad oggi così profondi che non c’è modo di andare da nessuna parte senza un forte movimento anticapitalista. Perciò vorrei porre la questione in termini anticapitalisti piuttosto che in termini anti–neoliberisti.

E penso che il pericolo sia, quando ascolto le persone parlare riguardo all’anti-neoliberismo, che non ci sia la percezione che è il capitalismo in se stesso, in qualsiasi forma, il problema.

La maggior parte degli oppositori al neoliberismo fallisce nell’affrontare i macro-problemi della crescita composta senza fine – i problemi ecologici, politici ed economici. Perciò preferirei parlare di anticapitalismo che di anti-neoliberismo.

Add comment

Submit