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Lista Tsipras: pensandoci su
Aldo Giannuli
Come si sa, un gruppo di intellettuali (Camilleri, Spinelli, Flores D’Arcais, Gallino, Revelli, Viale) ha proposto di dar vita ad una lista in appoggio alla candidatura di Alexis Tsipras alla Presidenza della Commissione Europea ed ispirata all’esperienza unitaria della sinistra greca espressa dalla lista di Siriza. L’appello propone un impegno per un’Europa diversa che, pur mantenendo la moneta unica, respinga le politiche di austerità ed il fiscal compact perché: “È nostra convinzione che l’Europa debba restare l’orizzonte, perché gli Stati da soli non sono in grado di esercitare sovranità, a meno di chiudere le frontiere, far finta che l’economia-mondo non esista, impoverirsi sempre più.”
Si propone un “piano Marshall dell’Unione, che crei posti di lavoro con comuni piani di investimento e (che) colmi il divario tra l’Europa che ce la fa e l’Europa che non ce la fa”. Inoltre si propone che l’Europa divenga unione politica dandosi una Costituzione scritta dal suo Parlamento in sede costituente. Si chiede cha la Bce abbia poteri simili a quelli della Fed (essenzialmente di emettere liquidità a discrezione e comperare titoli di debito dei paesi membri).
Per questo si auspica di “rimettere in questione due patti-capestro. Primo, il fiscal compact e il patto di complicità che lega il nostro sistema politico cleptocratico alle domande dei mercati”.
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Euro, ordo-liberismo e la modifica delle Costituzioni democratiche
A. Bianchi intervista Luciano Barra Caracciolo*
- Gli Stati sono oggi circa 200 e le Organizzazioni internazionali più del doppio. L'azione di quest'ultime è perlopiù esente da alcuna forma di controllo e responsabilità attraverso i consueti meccanismi democratici nazionali. Nel suo libro, inoltre, spiega molto bene la differenza che non viene colta dall'opinione pubblica tra quelle organizzazioni nate per lo sviluppo della pace e della cooperazione internazionale con quelle che, al contrario, hanno fini prettamente economici e che stanno portando ad una riformulazione del vecchio sistema di Westfalia. Come evolverà il rapporto tra Stati ed organizzazioni internazionali e quali sono i meccanismi di difesa rimasti ad i primi?
In un mondo che sostanzialmente vede la diffusione del modello capitalista (liberoscambista) a livello praticamente planetario, i rapporti di forza della comunità internazionale, che una volta erano legati alle cannoniere, sono oggi sul piano esclusivamente economico e legati sempre più alla capacità di penetrazione dei grandi gruppi finanziari internazionali. Non si tratta più di indagare la prevalenza degli stati in sé, ma il modo in cui gli stati collimino, nelle loro scelte, con la classe dirigente mondiale, la famosa oligarchia mondiale e non più con l’interesse nazionale in senso democratico. E su questo il professore coreano di Cambridge Chang nel suo libro “Bad samarhitans” credo offra il punto di vista più lucido.
Molte organizzazioni internazionali sono di fatto oggi dominate dai gruppi economici che utilizzano gli stati per la loro legittimazione formale.
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Ecco la fine della crescita
Ovvero: tecnocrazia stadio supremo del capitalismo?
Mauro Bonaiuti
Il fatto
Il 14 novembre scorso - davanti alla platea degli esperti del Fondo Monetario Internazionale, riunito per la sua 14 riunione annuale, – Larry Summers, uno dei più scaltri e influenti economisti americani, ex Segretario del Tesoro, ha pronunciato un discorso per molti versi eccezionale in cui, per la prima volta in contesto ufficiale, si è parlato esplicitamente di "stagnazione secolare" o come qualcuno l'ha ribattezzata di “Grande stagnazione": a cinque anni dalla Grande Recessione - dice Summers - nonostante il panico si sia dissolto e i mercati finanziari abbiano ripreso a salire, non c'è alcuna evidenza di una ripresa della crescita in Occidente.
Il discorso di Summers è stato ripreso da varie testate economiche (Financial Times, Forbs, e in Italia da Micromega e la Repubblica) oltre che dal premio Nobel Paul Krugman, che già da qualche tempo andava sostenendo tesi assai simili dal suo blog sul New York Times.
Nonostante il discorso di Summers e la conferma di Krugman abbiano ovviamente provocato molte reazioni, le loro affermazioni non hanno ricevuto sostanziali smentite, soprattutto da parte dei responsabili delle istituzioni economiche americane e occidentali. Insomma, la notizia è ufficiale: l'età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia.
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A proposito di “critica del valore”
Una lettera ad Anselm Jappe
di J.-C.
Introduzione redazionale
Già da qualche tempo, anche in Italia, assistiamo ad un non trascurabile interesse per la cosiddetta “critica del valore” (in tedesco: Wertkritik), la quale costituisce ormai un corpus di tesi più o meno definito e identificabile. Questa corrente – sviluppatasi in Germania a partire dagli anni 1990, ma che ha trovato eco in Brasile, Portogallo, Francia etc. – propone un'interpretazione del testo marxiano che mette particolarmente in rilievo le nozioni di capitale come corso oggettivo (“soggetto automatico” reso autonomo rispetto agli individui singoli) e di lavoro astratto. Egualmente, essa tende a contrapporre – almeno in una parte dei suoi teorici di riferimento – un Marx definito “essoterico”, cioè buono per metalmeccanici babbei e per socialismi d'altri tempi, ad un Marx “esoterico” che si troverebbe soprattutto nei Grundrisse. Tra i principali testi di questa corrente, si possono leggere in traduzione italiana il Manifesto contro il lavoro del Gruppo Krisis (DeriveApprodi, Roma 2003), La fine della politica e l'apoteosi del denaro di Robert Kurz (Manifestolibri, Roma 1997) ed il recente pamphlet Contro il denaro di Anselm Jappe (Mimesis, Milano 2013)1.
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Elogio della "crescita delle forze produttive" o critica della "produzione per la produzione"?
Il doppio Marx di fronte alla crisi ecologica
di Anselm Jappe
Per fortuna, sono passati i tempi in cui, in un dibattito, si poteva aver la meglio su un avversario solo citanto un passo appropriato di Marx (o inventandoselo, come faceva Althusser, per sua propria ammissione). Per fortuna, sono passati anche i tempi in cui ci si doveva vergognare di citare un autore che la caduta del Muro di Berlino avrebbe smentito per sempre, secondo la vulgata neoliberista. Al giorno d'oggi, è difficile non utilizzare gli strumenti di Marx al fine di comprendere quello che ci succede e, allo stesso tempo, non siamo affatto obbligati a prendere alla lettera ogni sua frase.
Dire questo, non vuole essere un invito al saccheggio delle sue idee, ad un uso eclettico per cui ciascuno attribuisce a Marx quello che più gli piace. Né si tratta di caricare di "verità lapalissiana" ciò che c'è di buono e di meno buono in Marx, dal momento che la sua opera, come tutte le opere, è contraddittoria e che anche lui è stato figlio del suo proprio tempo, condividendone i limiti, soprattutto per quel che riguarda l'ammirazione eccessiva per il progresso. E' più proficuo distinguere fra un Marx "essoterico" ed un Marx "esoterico": in una parte della sua opera - la parte quantitativamente maggiore - Marx è un figlio dissidente dell'Illuminismo, della società del progresso e del lavoro, di cui sostiene un'organizzazione più giusta, da realizzare attraverso la lotta di classe.
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Augusto Graziani, un economista "inattuale"
di Riccardo Bellofiore
La scomparsa di Augusto Graziani non lascia eredi, ma un compito: quello di reagire a questa era di decadenza nel pensiero economico italiano
Con Augusto Graziani scompare una delle ultime voci di una stagione irripetibile del pensiero economico italiano: un intellettuale impegnato e a tutto tondo, che male si farebbe a ridurre a una qualche dimensione ‘profetica’. Graziani, con Napoleoni, Sylos Labini, Caffè, Garegnani, e pochi altri fa parte di una generazione che, mentre si apriva ai contributi del pensiero economico anglosassone, lo faceva in modo critico e aperto, senza alcuna subalternità, proponendo una riflessione originale. Una ‘tradizione’ di cui andare orgogliosi, dove la simbiosi tra la storia dell’economia politica e dell’economica, da un lato, e lo sviluppo di schemi teorici alternativi, dall’altro, andavano di pari passo con una visione dell’economia come parte di una scienza sociale critica. Il dibattito teorico veniva integrato e prolungato nell’intervento diretto sulle questioni di politica economica, senza che vi fosse iato alcuno e mai scivolando nell’astrattezza. Non si temevano i contrasti, anche aspri, ma la polemica si manteneva sempre ai massimi livelli, senza mai degenerare (come sovente oggi) a rissa da cortile. Non lascia eredi, piuttosto un compito: quello di reagire a questa era di decadenza nel pensiero economico italiano, sfuggendo alla tenaglia tra l’importazione di una teoria economica apologetica e il corto circuito cui si condannano i filoni marginalizzati.
Graziani nasce a Napoli nel 1933, e si laurea nel 1955 con Di Nardi. Svolge successivamente studi alla Lse di Londra con Lionel Robbins e ad Harvard, dove incontra Leontief e Rosenstein-Rodan.
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Il trattato transatlantico
Un uragano minaccia gli europei
di Lori Wallach*
Avviati nel 2008, i negoziati sull’accordo di libero scambio tra Canada e Unione europea sono terminati il 18 ottobre. Un buon segnale per il governo statunitense, che spera di concludere con il Vecchio continente una partnership di questo tipo. Negoziato in segreto, tale progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli stati che non si piegano alle leggi del liberismo
Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri. Esso compariva già a chiare lettere nel progetto di accordo multilaterale sugli investimenti (Mai) negoziato segretamente tra il 1995 e il 1997 dai ventinove stati membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) (1).
Divulgato in extremis, in particolare da Le Monde diplomatique, il documento sollevò un’ondata di proteste senza precedenti, costringendo i suoi promotori ad accantonarlo. Quindici anni più tardi, essa fa il suo ritorno sotto nuove sembianze. L’accordo di partenariato transatlantico (Ttip) negoziato a partire dal luglio 2013 tra Stati uniti e Unione europea è una versione modificata del Mai. Esso prevede che le legislazioni in vigore sulle due coste dell’Atlantico si pieghino alle regole del libero scambio stabilite da e per le grandi aziende europee e statunitensi, sotto pena di sanzioni commerciali per il paese trasgressore, o di una riparazione di diversi milioni di euro a favore dei querelanti.
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Umiliati e offesi
I dolori del popolo antiberlusconiano
Sebastiano Isaia
1. Pregiudicato!
I manettari del Fascio Quotidiano e i “comunisti” del Manifesto hanno voluto dare voce al «grave disagio», allo smarrimento e alla vera e propria indignazione che in queste tragiche ore attraversano il Popolo di Sinistra. «Si può fare una riunione del consiglio scolastico con il professore pedofilo per discutere di programmi educativi dell’anno 2013/2014?», chiedeva retoricamente ieri Marco Politi dal quotidiano che rappresenta forse l’ultima trincea dell’antiberlusconismo duro e puro. La risposta non poteva essere che questa: «Non si può. Non c’è da spiegare molto. Non si può. In Italia sta accadendo di peggio. Tra poche ore saremo informati che un aspirante premier, leader del maggiore partito politico italiano, ha incontrato un pregiudicato per discutere di affari di stato: una legge elettorale, l’abolizione del Senato elettivo. Stiamo parlando di elementi cardine del sistema costituzionale». La parola chiave, qui, è pregiudicato. Notare anche l’accostamento, che la dice lunga sulla natura violenta e rancorosa dei manettari, tra il «professore pedofilo» e il «puttaniere» di Arcore – e nessuno si azzardi a paragonarlo al socialista Hollande!
Ora, e al di là delle tante considerazioni politiche – e psicoanalitiche – che si possono fare sulle opposte tifoserie di Miserabilandia, ditemi se uno che, come il sottoscritto, è da sempre un avversario irriducibile della legalità borghese (scusate l’arcaismo), e quindi del «sistema costituzionale» (scusate il sovversivismo delle classi subalterne), può “vivere” con disagio e insofferenza il “famigerato” incontro tra Renzi e Berlusconi. Renzi e Berlusconi hanno raggiunto un accordo? E chi se ne frega! Non lo hanno raggiunto? Idem!
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Gli asfaltori (della Costituzione)
Leonardo Mazzei
L'Italia ha scoperto, di recente, di avere una Corte Costituzionale. Una rivelazione non da poco, dato che la Consulta è sempre apparsa come un organismo in "sonno". Ora, però, c'è il rischio che la scoperta passi presto nel dimenticatoio.
Accade infatti che colui che doveva "asfaltare" Berlusconi abbia deciso invece di elevarlo al rango di legislatore, proprio per procedere di comune accordo ad incatramare la sentenza della Corte Costituzionale.
La proposta di modifica della legge elettorale Pd-Forza Italia non è ancora nota nei dettagli, ma quel che è trapelato basta ed avanza. Certo, siccome quella in corso è un'autentica guerra per bande, non sono impossibili cambiamenti anche sostanziali, se non addirittura rovesciamenti di fronte ad oggi impensabili. La convulsa stagione politica aperta dal terremoto elettorale del febbraio 2013 ci ha già regalato la grottesca vicenda che ha riportato Napolitano al Quirinale, le confuse gesta del governicchio Letta, la spaccatura del Pdl, la rinascita di Forza Italia, l'arrivo di Renzi alla guida del Pd.
Dunque, ne vedremo di certo ancora delle belle. Ma intanto concentriamoci su quello che (stando alla stampa) sarebbe l'accordo siglato ieri nella sede del Pd. A proposito, alcuni militanti di quel partito hanno considerato l'ospitalità data al noto truffatore una specie di profanazione del "Nazareno".
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“Ciao democrazia!”
Renzi e Berlusconi: una “profonda sintonia”
di Luca Michelini
1. La politica ha leggi proprie, anche se pensare di isolarle dal contesto socio-economico sarebbe errore gravissimo. Tra le leggi della politica vi è quella che impone di svolgere una lettura per quanto possibile realistica della situazione di fatto, delle forze in campo. Si valutano gli eserciti schierati, indipendentemente dal fatto che si parteggi per l’uno o per l’altro di essi.
2. Ebbene, per quanto il governo Letta si possa e si debba criticare (personalmente sono stato per “la soluzione Rodotà”, con tutte le conseguenze possibili sul piano del Governo), come si può e si deve criticare il governo Napolitano, ché siamo ormai in una Repubblica presidenziale, non si può negare che sul piano strettamente politico Napolitano-Letta abbiano ottenuto un risultato importante: hanno cioè spaccato il PDL, mandando Forza Italia all’opposizione e non hanno interferito con le decisioni della magistratura sul caso Berlusconi, che è dovuto uscire dal Parlamento. Di fatto sta nascendo, pur tra mille contraddizioni, una destra non dico liberale, ma comunque emancipata dal “partito-padrone”.
Naturalmente, in molti, Renzi compreso (lo ha detto in direzione PD) considerano l’avvenuta scissione del PDL come una mera farsa, finendo per considerare l’attuale dialettica parlamentare un vero e proprio teatro, dietro il quale si nasconde un unico interesse, facente capo al lungo dialogo avvenuto tra PD e PDL.
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Elezioni Europee. Che aria tira a sinistra?
Salvatore Romeo
Mentre l’attenzione delle forze politiche nostrane appare tutta concentrata su questioni interne (dalla legge elettorale alle presunte riforme del mercato del lavoro), la data delle elezioni europee (fissata per il 25 maggio) si avvicina. La limitatezza del dibattito su quell’appuntamento è sconcertante se si pensa a quanto incidano gli equilibri interni all’Unione Europea e le decisioni assunte dalle sue autorità sulla vita quotidiana di tutti gli Italiani. L’indifferenza dei partiti “maggiori” si associa alla superficialità che la discussione ha assunto nello spazio politico collocato alla sinistra del PD renziano. Qui il dibattito verte principalmente sul leader da sostenere come candidato alla Presidenza della Commissione – il socialdemocratico tedesco Martin Schulz (espressione delle forze della “sinistra riformista” raccolte nel Partito Socialista Europeo) o il greco Alexis Tsipras (sostenuto dal Partito della Sinistra Europea, il contenitore della “sinistra radicale”) – e sulla forma che un’eventuale lista unitaria dovrà assumere – “lista di cittadinanza” o coalizione di forze politiche e sociali. Ancora una volta si preferisce eludere questioni di merito, forse per non dover ammettere che i problemi sono molto più complessi di come appaiano – e richiederebbero dunque un lavoro ben più articolato di quello che si è disposti a fare.
La fondamentale questione che aleggia nel dibattito sull’Europa – come uno spettro che ci si guarda bene dal nominare – è riassumibile nella domanda “l’Unione Europea è riformabile?”.
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Il disegno schizoide della rottamazione*
di AOMAME
Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi”. John Maynard Keynes
“Se quel che è successo dal 2011 doveva impedire l’arrivo di Renzi, ebbene Renzi è arrivato. Bisogna vedere se non si eècapito nulla allora e se oggi ci si è dovuti arrendere”. Cesare Geronzi
Ci siamo. A due anni dai bombardamenti a colpi di spread che hanno fatto cadere Silvio Berlusconi e portato Mario Monti a Palazzo Chigi e a otto mesi dalla nascita di un secondo esecutivo non determinato dalle elezioni, ecco che con il 2014 entra nel vivo la lotta tra poteri del capitalismo italiano per superare la perdurante crisi, ricomporsi e salvarsi. Da una parte il premier Enrico Letta e il suo governo con Angelino Alfano: esecutivo con solide radici nell’esperienza dei predecessori tecnici, nato per la stabilità e vocato a quello scopo, come ripete fino all’ossessione il padre politico, Giorgio Napolitano. Dall’altra parte, Matteo Renzi, neo-segretario del Pd che arriva alla guida del partito nonché dell’opposizione politica (di fatto è così) al governo delle larghe intese carico di tutti gli agganci finanziari che è riuscito a raggranellare finora e delle promesse di chi arriverà alla sua corte: ce ne sono ogni giorno di più. E proprio per via della ‘novità Renzi’, in Italia, più che in altri paesi dell’Ue, è visibile – anche a occhio nudo – quella ‘guerra dei Roses’ attraverso la quale il sistema neoliberale tenta di riassestarsi, eliminando gli attori vecchi cui viene imputata la crisi e rimpiazzandoli con i nuovi. È la rottamazione tradotta in economia, ma i suoi meccanismi sono ben diversi da quella che in politica ha spedito al confino Massimo D’Alema. Perché in economia molto spesso si tratta di conquistare gli agganci finanziari altrui, piuttosto che rottamarli.
Da una parte Letta-Napolitano e la stabilità, sorretta anche dalle ricette della Bce di Mario Draghi che tanto fanno arrabbiare la Germania di Angela Merkel.
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Cui prodest?
di Sandro Moiso
“Confusion will be my epitaph” (Epitaph, King Crimson 1968)
Se i macroscopici errori contenuti nel recentissimo sceneggiato televisivo, trasmesso su Rai 1, dedicato al commissario Calabresi fossero soltanto da attribuire alla grossolanità della sceneggiatura e all’insipienza della regia non ci sarebbe di che stupirsi. Né, tanto meno, ci sarebbe argomento del contendere: da più di vent’anni ormai il cinema e gli sceneggiati televisivi italiani, a parte pochi e rarissimi casi, fanno cagare.
L’impressione che però si ha di fronte alle attuali produzioni televisive e cinematografiche (dalla serie “Gli anni spezzati”, che ruba il titolo ad un bellissimo film-antimilitarista ed anti-imperialista di Peter Weir, all’ancor recente “Il romanzo di una strage”) è che tale superficialità sia voluta. Una confusione di simboli, affermazioni e ricostruzioni raffazzonate che non dipende soltanto dalla mano degli autori, in alcuni casi, anche se non sempre, di destra. Ma che dipende, invece, da una ben precisa volontà di sovvertire l’ordine e il significato storico, politico e sociale degli avvenimenti rappresentati.
“Lotta di classe è brutto” potrebbe essere il titolo sotto cui raccogliere tali capolavori che, in tutte le loro varianti, tendono a rimuovere e negare la centralità della lotta di classe non solo nella storia d’Italia, ma nella storia della specie umana. Che torna ad essere determinata soltanto dai sentimenti, dalle passioni e dai drammi, tutti rigidamente ed esclusivamente “individuali”.
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Tutto quel che (non) ci ha insegnato la crisi
di Vincenzo Comito
Il ritorno delle cartolarizzazioni e l'ammorbidimento del Liikanen Report sulla separazione per le banche tra attività commerciali e speculative
La crisi scoppiata ufficialmente nel 2007-2008 ci ha insegnato molte cose.
Tra l’altro, essa ci ha svelato chiaramente la reale struttura del potere esistente nelle società occidentali, che è apparso molto concentrato in una ristretta oligarchia politico-industrial-finanziaria; ci ha mostrato anche, altrettanto chiaramente, le crescenti differenziazioni di reddito e di ricchezza che tale struttura genera nei vari paesi. Essa ci ha anche indicato i meccanismi finanziari attraverso i quali cresce e si riproduce in maniera allargata nel tempo.
Si poteva pensare, e molti lo hanno fatto, che la stessa crisi avrebbe spinto le classi dirigenti dei paesi ricchi ad apportare dei mutamenti rilevanti nei meccanismi di funzionamento della macchina finanziaria, che non apparivano chiaramente più adeguati ad una marcia ordinata delle cose; ma tali mutamenti, che pure non sono mancati, sono indubbiamente risultati, almeno sino ad oggi, pochi, tardivi e modesti. Sino a questo momento viene così smentita la indubbia capacità del sistema capitalistico, sempre manifestatasi in passato, di rispondere alle crisi e alle difficoltà con rinnovata energia e mettendo comunque in campo tutte le innovazioni necessarie ad innescare nuovi cicli di accumulazione.
E è forse anche per tale stato delle cose che, negli ultimi tempi, si è sviluppato un dibattito tra gli economisti occidentali, avviato da Larry Summers e sul quale abbiamo a suo tempo fornito qualche informazione su questo stesso sito, sul cosa fare davanti alla stagnazione di lungo periodo che sembra caratterizzare ormai le economie occidentali, al di là di qualche oscillazione congiunturale più o meno favorevole che si manifesta qua e là.
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Il mistero della sinistra scomparsa*
Guido Ortona
1. Il mistero. Nessuna componente del PD sta mettendo al centro del suo programma politico delle proposte per uscire dalla crisi. La cosa è tanto più strana, almeno a prima vista, perché nella cultura economica della sinistra queste proposte invece non solo esistono, ma sono ovvie; e non solo sono ovvie, ma sono ancorate molto solidamente alla teoria e alla storia economica. Questa clamorosa assenza deve essere spiegata. Non è sufficiente invocare la stupidità, la corruzione e l'ignoranza dei politici del PD, che sono peraltro sotto gli occhi di tutti. Perchè come vedremo essere ignoranti e stupidi può essere non tanto un caso quanto una scelta, come lo è ovviamente essere corrotti. Cominciamo però dalle ovvietà storiche ed economiche. Eccole:
1. Non credo si sia mai dato il caso di una economia capitalista non minuscola che si sia sviluppata puntando solo sull'efficienza dei mercati. È sempre (o forse quasi sempre) stato necessario un massiccio intervento dello stato. Questo vale, a fortiori sul piano teorico e con tutta evidenza su quello storico, per l'uscita da situazioni di gravi crisi[1].
2. L'intervento dello stato a fini espansivi richiede l'uso della politica monetaria (espandere l'offerta di moneta e/o operare sui tassi di cambio) oppure della politica fiscale (espandere il debito pubblico e/o trasferire redditi mediante politiche redistributive); oppure, naturalmente, di entrambe.
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Che cos'è il Front National di Marine Le Pen
(dedicato a quelli che la dicotomia destra-sinistra non c’è più)
di Moreno Pasquinelli
17 gennaio. I recenti successi elettorali del Front national di Marine Le Pen stanno seminando il panico nel fronte unico degli euristi, di destra e di sinistra. Questi sono terrorizzati all’idea che le prossime elezioni europee consegnino ad esso una clamorosa vittoria. Un simile esito sarebbe il segnale che l’asse carolingio o franco-tedesco, già in crisi, avrebbe imboccato la via del tramonto, con buona pace dell'euro.
Primo: sbarazzarsi dei tabù
Nella sinistra d’Oltralpe prevale, prevale, davanti alla valanga lepenista (ma questo vale anche per quella italiana), uno spavento irrazionale, basato a sua volta su di un doppio tabù: quello della sovranità nazionale e quello del fascismo.
In psicanalisi un tabù è un pensiero inammissibile, o un atto proibito; mentre per gli etnologi equivale ad un divieto sacrale di avere contatto con qualcosa o qualcuno.
Per la sinistra, mentre la sovranità nazionale è un pensiero proibito, col fascismo qualsiasi contatto è considerato peccato, quindi proibito anch'esso.
Andiamo dicendo da anni che se non ci liberà di questi tabù, nulla si capisce dei profondi processi sociali e ideologici in atto, e chi nulla comprende ha il destino segnato.
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Il Sud ferma il treno del Nord
Massimo Cacciari e altri luoghi comuni
Carmelo Petraglia*
L’interpretazione maggioritaria della questione meridionale fa leva, da anni, su tanti consolidati luoghi comuni. Più di recente, gli stereotipi sul Mezzogiorno hanno conquistato la scena del dibattito sul declino italiano. Acquisito lo status di verità indiscutibili, interpretazioni parziali quanto strumentali della natura dualistica del Paese, forniscono presupposti erronei perfino alle analisi di raffinati osservatori della società italiana, che diventano narratori – più o meno consapevoli – di un racconto lontano dai numeri e dalla realtà.
L’ultima vittima (inconsapevole?) del luogo comune è Massimo Cacciari. Lo dimostra l’intervista dal titolo Cacciari «L’evasione resta solo al Sud, ecco come si frena il treno del Nord» pubblicata giorni fa dal Corriere del Mezzogiorno[1].
Il Nord è la locomotiva del Paese frenata dalla zavorra Sud. L’evasione fiscale è una prerogativa meridionale. Il peso eccessivo che il Nord deve sostenere per i conti generali del Paese è un dato oggettivo. Cacciari muove da queste tre «constatazioni di fatto» per proporre una lettura a dir poco semplificata del dualismo italiano, indicando, perentorio, la strada della ripresa: «O si ricomincia dalla locomotiva o non c’è ripresa. Mica possono essere i vagoni a portare avanti il Paese». Peccato che i tre fatti siano solo luoghi comuni smentiti dai dati.
Primo luogo comune. Il Nord è una locomotiva frenata da vagoni troppo affollati da meridionali evasori e spreconi.
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Il cielo in disordine è caduto sulla terra
di Commonware
0. C’è differenza tra l’ideologia e un ordine del discorso. Proviamo a rendere questa astrazione storicamente determinata, cioè politicamente utilizzabile. La divisione tra “fannulloni e start-up” affacciatasi sui media dopo il #19o ha evidentemente delle componenti ideologiche, ma queste poggiano su una base materiale costituita dai processi di segmentazione dentro la composizione di classe.
In questo senso l’ordine del discorso organizza i lessici e le retoriche del potere rispetto a una situazione concreta, è un dispositivo che fa apparire come neutrali quelli che sono interessi di parte, irreversibile ciò che invece dipende dai rapporti di forza e dunque è trasformabile. Allora, non si tratta semplicemente di disvelare la verità, ma di produrla.
1. Un dato di fatto, tanto per cominciare: come è stato sottolineato nel nostro dibattito, in Italia la consistenza effettiva delle start-up è trascurabile, potremmo dire che si tratta di un fenomeno marginale. Ma in questo caso più che il significato conta il significante, ovvero quella riproposizione di un lessico meritocratico che nella sua forma originaria (quella che è stata un problema reale dentro l’Onda, per intenderci) non è più riproponibile.
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Oltre l'euro
La sinistra La crisi L'alternativa
Di seguito alcuni degli interventi del convegno di Chianciano dell'11-12 gennaio 2014
OLTRE L'EURO. La sinistra. La crisi. L'alternativa. 11-12 Gennaio 2014. Chianciano Terme
https://www.youtube.com/watch?v=2nFL9IAxdXg
Moreno Pasquinelli: Prolusione
https://www.youtube.com/watch?v=w1N_N7zNM7k
Warren Mosler, Il fondatore nonchè capo economista della Modern Monetary theory, è presente al convegno-conferenza di Chianciano, organizzato dai movimenti MPL e Bottega Partigiana, con una lunga e precisa prolusione, dalla moneta alla disoccupazione, dal mercato "tarocco" alla vera ricetta di uscita-crisi. Davvero interessante! il sito di Mosler: http://moslereconomics.com/about/
https://www.youtube.com/watch?v=NM-9vUGavG4
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"Vi spiego come uscire dall'euro da sinistra"
A. D'Amato intervista Emiliano Brancaccio
Emiliano Brancaccio, 42 anni, ricercatore e docente di economia politica presso l’Università del Sannio, a Benevento, è un volto noto grazie alle sue partecipazioni televisive, ma soprattutto è uno dei pochi economisti ad avere anticipato la crisi dell’euro. Nel 2007, quando la parola “spread” non era ancora entrata nel linguaggio comune, presentò un articolo che sarebbe stato pubblicato l’anno successivo dalla rivista Studi economici, con il titolo «Deficit commerciale, crisi di bilancio e politica deflazionista». In esso annunciava la vendita in massa di titoli di stato italiani e l’aumento dei tassi di interesse: cioè gli avvenimenti che si sono effettivamente verificati nel 2011, portando tra l’altro alle dimissioni di Berlusconi e all’avvento del governo tecnico di Monti.
Professor Brancaccio, lei ha previsto con quattro anni di anticipo la crisi dell’eurozona e l’ondata di vendite di titoli dei paesi periferici, tra cui l’Italia.
Non sono il solo. Perplessità sulla tenuta dell’Unione monetaria europea erano già state espresse da alcuni studiosi, più autorevoli di me. Tra gli economisti italiani, il compianto Augusto Graziani si mostrò scettico sulla sostenibilità dell’euro anche prima che la moneta unica entrasse in vigore.
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Stati di ordinaria emergenza
di Giorgio Agamben
Democrazia dimezzate. In nome della sicurezza il neoliberismo più radicale convive con l’interventismo statale nella vita sociale. Un’anticipazione dall’ultimo numero di «Le Monde Diplomatique» in edicola con «il manifesto» da domani. Nella terra di nessuno al confine tra pubblico e privato avviene la demolizione della vita politica. Videosorveglianza e tracciabilità del Dna individuale sono le nuove tecnologie del controllo
La formula «per ragioni di sicurezza» («for security reasons», «pour raisons de sécurité») funziona come un argomento autorevole che, tagliando corto in ogni discussione, permette di imporre prospettive e misure che non si accetterebbero senza di essa. Bisogna opporgli l’analisi di un concetto dall’apparenza anodino, ma che sembra aver soppiantato ogni altra nozione politica: la sicurezza.
Si potrebbe pensare che lo scopo delle politiche di sicurezza sia prevenire i pericoli, i disordini, persino le catastrofi. Una certa genealogia fa infatti risalire l’origine del concetto al proverbio romano Salus pubblica suprema lex («La salvezza del popolo è la legge suprema»), iscrivendolo così nel paradigma dello stato di emergenza. Pensiamo al senatus consultum ultimum e alla dittatura a Roma; al principio del diritto canonico secondo cui Necessitas non habet legem («La necessità non ha affatto legge»); ai comitati di salute pubblica durante la Rivoluzione francese; alla costituzione del 22 frimaio dell’anno VIII° (1799), che evoca i «disordini che minaccerebbero la sicurtà dello stato»; o ancora all’articolo 48 della costituzione di Weimar (1919), fondamento giuridico del regime nazional-socialista, che ugualmente menzionava la «sicurezza pubblica».
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Dove si va se si rompe l'eurozona?
L'esempio dell'Alba latinoamericana
D. Angelilli intervista Luciano Vasapollo
In questa sostanziosa e incalzante intervista discutiamo con il Professor Luciano Vasapollo[1] dell'"Alianza Bolivariana Para los Pueblos de Nuestra America": un processo d'integrazione regionale tra paesi che stanno attuando diverse vie al socialismo in America Latina. Quando, nel 2004, i governi di Cuba e Venezuela danno vita all'ALBA identificano i problemi dell'area con i modelli di sviluppo imposti dall'imperialismo, con l'attività economica delle grandi imprese multinazionali e transnazionali ed in particolare con le riforme strutturali neoliberiste imposte negli anni del Consenso di Washington. Come vedremo nell'intervista, l'Alternativa Bolivariana non rompe solamente con i precedenti modelli d'integrazione regionale di matrice keynesiana o neoliberista, bensì propone un modello altro di relazioni economiche internazionali anticapitaliste, in cui la solidarietà rimpiazza la competizione e in cui il fine ultimo è promuovere la socializzazione dei modelli produttivi. A oggi fanno parte del processo, oltre a Cuba e Venezuela, Bolivia, Nicaragua, Ecuador, San Vincent y Las Granadinas, Antigua y Barbados e Dominica.
Iniziamo da quelle che sono le radici storiche e politiche dell'ALBA. Nel 1989 il tonfo per il crollo del muro di Berlino rimbombò anche sull'America Latina. Si passò da un mondo bipolare ad uno in cui gli USA restavano come unica potenza mondiale e l'economia di mercato l'unico modello da seguire.
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Banche centrali e banche private
Chi comanda veramente?
di Thomas Fazi
Su questo blog abbiamo parlato spesso di politica monetaria. In particolare, abbiamo visto come in seguito alla Grande Depressione degli anni trenta ci sia stato un fondamentale cambio di paradigma in fatto di politica monetaria e fiscale, incentrato sull’uso di politiche monetarie espansive (finalizzate a un’aggressiva espansione della base monetaria) e politiche fiscali anti-cicliche (massicci investimenti pubblici, ecc.) per combattere crisi e recessioni. Questo fu il frutto in buona parte di una vittoriosa battaglia ideologica da parte di Keynes e altri contro i cosiddetti monetaristi della “scuola austriaca” (che invece accusavano proprio le banche centrali di aver causato la Grande Depressione per mezzo di un’eccessiva espansione del credito, e teorizzavano un approccio laissez faire alla crisi), ma ciò che rese questo nuovo approccio tecnicamente possibile fu il passaggio epocale, all’inizio degli anni Trenta, dal gold standard (in cui la quantità di moneta in circolazione era necessariamente vincolata dall’ammontare totale di oro) a un regime monetario sempre più fiat (ovvero non coperto da riserve di materiali preziosi), in cui la moneta era libera di espandersi in misura virtualmente infinita. Questo conferì alle banche centrali un potere di intervento nei sistemi monetari che non avevano mai avuto prima. Ovviamente, questo poneva dei rischi: l’implicita garanzia di salvataggio offerta dalle banche centrali agli istituti finanziari in caso di crisi avrebbe potuto generare comportamenti ancora più irresponsabili di quelli che avevano causato la crisi del ’29 (un problema noto in economia come “moral hazard”).
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L’apocalisse neoliberista
di Raffaele Alberto Ventura
La crisi economica assomiglia a una macchia di Rorschach. Ognuno la interpreta come vuole, ognuno ne attribuisce l’origine a una causa differente:
– Una farfalla.
– Un uomo e una donna che fanno l’amore?
– La testa spaccata di un cerbiatto…
– Il neoliberismo!
Ecco, prendiamo il neoliberismo. Come ha scritto Francesco Costa sul giornale di Confindustria, affermare che in Italia siano state messe in pratica delle politiche neoliberiste è inesatto perché in questo caso si sarebbe “ridotto il peso dello Stato nella sua economia, abbattendo le tasse e la spesa, privatizzando le grandi aziende pubbliche, riducendo drasticamente la burocrazia, abolendo la contrattazione collettiva e gli ordini professionali, lasciando mano libera ai privati”: tutte cose che semplicemente non sono mai avvenute. E tuttavia del neoliberismo, per come viene descritto da chi ricorre al termine, si è verificato in tutto l’occidente l’effetto principale, ovvero il trionfo del capitale sul lavoro: in pratica, una progressiva diminuzione della remunerazione media negli ultimi venticinque anni, dopo trent’anni d’incremento.
Sembra dunque avere senso parlare di discontinuità, e dare un nome – “neoliberismo” – a questa discontinuità.
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Jacques Attali e il miglior governo del mondo
di Sebastiano Isaia
Alla ricerca del «miglior governo del mondo [che] dovrà farsi carico del pianeta e dell’umanità», Jacques Attali, probabilmente il guru della scienza sociale europea che, con Jacques Délors, più influenzò il dibattito politico dei progressisti del Vecchio Continente negli anni Novanta, nonché l’autore di frasi celebri come quella che segue: «Ma cosa crede, la plebaglia europea: che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità?», ma anche, dulcis in fundo, teorico del «poliamore», risposta tecno-scientifica alla deriva del Continente Amore nell’epoca della baumaniana vita liquida (forti delle nuove conoscenze sul cervello, gli scienziati già brevettato le «tecnologie di induzione dei sentimenti»); nel suo girovagare attraverso la storia millenaria dell’uomo, dicevo, Attali inciampa su una pietra molto dura, e per certi versi inaspettata. Questa: «La maggior parte di noi è incapace di utopia». Finalmente un personaggio che non ne vuol più sapere della grigia Realpolitik! Direte che sto scherzando. E infatti scherzo.
La confessione vale anche a tranquillizzare Massimo D’Alema, grande estimatore dell’economista francese già ai tempi dell’ingresso del Bel Paese nella moneta unica: Attali non è diventato pazzo. Egli è rimasto il «tecnocrate visionario» che elabora arditi progetti di riforma sociale assai apprezzati a “destra” come a “sinistra”.
Quanto in basso sia caduta anche la parola utopia, è sufficiente leggere la risposta che Attali dà all’impegnativa domanda che costituisce il titolo di un suo libro pubblicato nel 2013 (Fazi Ed.): Domani, chi governerà il mondo?
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