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Gli anni buoni, gli anni brutti e domani chissà!
di Valerio Romitelli
Premessa di Giorgio Gattei
Valerio Romitelli ha raccolto una serie di suoi interventi dal 2015 al 2021 (in parte occasionali, ma alcuni anche sistematici come “L’egemonismo, malattia senile del comunismo”) in un volume che ha intitolato L’emancipazione a venire. Dopo la fine della storia (DeriveApprodi, Roma, 2021) convinto com’è che l’emancipazione del/dal lavoro (però su questo scelta lui non si addentra) prima o poi ha da venire essendo iscritta nella “cosa del capitale” (alla faccia della maledizione keynesiana per cui «nel lungo periodo siamo tutti morti», ma «mica tutti assieme» gli aveva replicato la dispettosa discepola Joan Robinson). E a questa raccolta ha premesso una corposa introduzione in 13 punti che, «in barba alla complessità obbligatoriamente evocata in ogni discorso accademico contemporaneo, mireranno alla semplificazione sistematica dei temi affrontati».
In questa introduzione Valerio s’interroga, da «compagno/non compagno» (come si auto-definisce), ma «sempre controcorrente perchè condizione obbligatoria per poter pensare con la propria testa anche in merito a questioni come quelle politiche, le quali notoriamente obbligano alla condivisione con altri il più possibile estesa», su dove sia andata a finire la “sinistra di classe” e la specificazione è d’obbligo per evitare di confonderla con la melassa della “sinistra buonista” che sempre si commuove per la mala sorte degli sfruttati, dei poveri, dei deboli e li soccorre anche, ma non si propone mai il problema pratico, che innanzi tutto è teorico, di “superare” quella loro condizione di debolezza, povertà, sfruttamento.
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Eurafrica. Le origini coloniali dell’Unione Europea
Prefazione
di Étienne Balibar
Pubblichiamo la prefazione di Étienne Balibar al libro di Peo Hansen e Stefan Jonsson, Eurafrica le origini coloniali dell’Unione europea. Il libro, pubblicato in inglese, è stato recentemente tradotto in francese, da La Découverte, accompagnato da questo testo di Balibar. Su questo importante volume, Effimera ha pubblicato anche una recensione di Ludovic Lamant. La traduzione è di Salvatore Palidda.
Peo Hansen and Stefan Jonsson, Eurafrica: The Untold History of European Integration and Colonialism, Bloomsbury Publishing PLC, 2015
Peo Hansen et Stefan Jonsson, Eurafrique. Aux origines coloniales de l’Union européenne, préface d’Étienne Balibar, La Découverte, 2022
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Le circostanze in cui, in extremis, scrivo questa prefazione cui tenevo molto, sia per la stima che ho per gli autori, sia per l’importanza della questione che indagano, mi obbligano a essere breve. Ma non mi inducono a rinunciarvi, anzi.
Chiunque sia interessato all’Africa dovrebbe leggere questo libro e anche chiunque sia interessato all’Europa. E quindi chiunque sia interessato al mondo, di cui non c’è dubbio che l’Africa e l’Europa, insieme e separatamente, sono attori imprescindibili. Ma perché “Eurafrica”, questo strano composto (allo stesso tempo vicino eppure molto diverso, genealogicamente, da certi altri di cui si sente molto parlare in questo momento, come “Eurasia”)? Siamo abituati soprattutto forse sotto forma di aggettivo a “relazioni euro-africane”, “partenariato euro-africano”, apparentemente del tutto innocenti, puramente descrittivi.
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Putin, la NATO e noi
di Militant
Di seguito riportiamo il testo del nostro intervento, presentato durante il convegno nazionale dal titolo “La guerra in Ucraina, la crisi economica e il grande caos mondiale in arrivo. Che fare?”
La ‘questione guerra’ ha scompaginato il campo della sinistra radicale, almeno in Italia. Non è stata una novità, a ben vedere: è accaduto anche con la pandemia, pochi mesi prima. Divisioni, contrasti, imbarazzi e una fatidica incapacità di presentare quantomeno una lettura unitaria dei fenomeni in atto hanno confermato i problemi esistenti: invisibile nel “regime ordinario”, la sinistra che pretende di parlare a nome dei subalterni lo è anche in quello “straordinario”, totalmente incapace di “cogliere l’attimo” e di “accelerare la storia”, nonostante l’evidenza di essere una parte minoritaria della società e dunque l’opportunità di “fare di necessità virtù”.
Non fa parte degli obiettivi di questo intervento ipotizzare il perché di questa incapacità, “parossistica” anche rispetto a quanto capita negli altri Paesi occidentali. Qui vogliamo semplicemente sottolineare come le divisioni interpretative sulla guerra in Ucraina altro non sono che il punto di caduta di una questione spesso rimossa, ma che – quando affiorava – già nel passato era stata foriera di polemiche e contrasti. Mentre i contrasti sul Covid e, soprattutto, sulle misure di contenimento della pandemia dimostravano come il conflitto capitale vs lavoro avesse ormai ceduto il passo – nell’agenda di una sinistra radicale a parole, ma riformista nei fatti – alla centralità del sistema di libertà declinato individualmente, l’andare in ordine sparso sulla guerra è la conseguenza delle diverse valutazioni sul carattere imperialistico o meno della Russia di Putin.
Dicendo questo, vogliamo evitare un errore di fondo, che pure connota molte opinioni “di sinistra”: considerare l’attacco russo del 24 febbraio come un evento estrapolato dal contesto, finendo per assolutizzarlo.
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Resilienza: adattarsi a un mondo tossico
di Silvia Guerini
L’ultimo uomo è l’umano resiliente in perfetta sintonia con i dettami di Davos: dinamismo resiliente era una frase lanciata dal WEF nel 2013. Schwab delinea una società più inclusiva, resiliente e sostenibile. Non è un caso che il piano nazionale per l’economia approvato nel 2021 in Italia dopo la pandemia dichiarata al fine di velocizzare la transizione ecologica e digitale sia stato chiamato Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). La parola resilienza entra così a pieno titolo nel leitmotiv di inclusività e sostenibilità. In perfetta sintonia con la fluidità che deve contraddistinguere ogni cosa e diventare una caratteristica di ogni individuo.
La resilienza in ingegneria si riferisce alla proprietà dei metalli di assorbire un urto seguendo il corso delle deformazioni senza spezzarsi. Così, come per i metalli, all’umano nelle nuove geometrie del mondo tecnomorfo viene chiesto di diventare poroso per assorbire ogni tipo di tossicità e di diventare plastico in grado di deformarsi senza più tenere memoria del suo stato originario. Dalla meccanica dei corpi alla meccanica dello spirito per una sopportazione dell’insopportabile.
In ambito psicologico la resilienza rappresenta la capacità di attraversare e superare dei traumi, per riuscire a far fronte a delle situazioni immodificabili come l’avvento di un tumore o la morte di una persona cara.
Quando alcune parole vengono fatte proprie dal potere chiediamoci cosa andranno poi a significare e cosa andranno a rappresentare nelle trasformazioni e metamorfosi messe in atto dal potere stesso. La resilienza, da qualità che può essere considerata positiva in ambito strettamente psicologico, viene resa modus operandis, ideologia, imperativo dominante.
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“Ricordare il futuro”
di Salvatore Bravo
Ricordare un autore significa renderlo compagno di viaggio nel presente, solo in tal modo il suo pensiero può dispiegarsi verso ciò che verrà. Non si tratta di idolatrica venerazione, nulla è più distante dalla filosofia, ma di confronto dialettico e plastico. Pensare un autore è confliggere, discorrere, prendere le distanze da errori e posture ideologiche non condivisibili. Il nuovo ha il suo “humus” nell’incontro-scontro, si tratta di un urto fecondo dal quale possono emergere nuove prospettive. Nessun autore pensato “resta nell’astratto” della mente, pensare in filosofia è prassi critica, per cui il pensiero si concretizza nell’effettualità della storia ponendo un proficuo circolo dialettico.
L’attività del pensiero è intenzionalità significante, pertanto gli autori nascono a nuova vita nella razionalità che li accoglie. Siamo vicini al decennale della morte di Costanzo Preve, nel 2023 saranno dieci anni dalla sua morte. La morte di un autore non conclude il suo ciclo razionale, in quanto le sue idee possono germinare al sole della critica e della ricerca.
Le sue parole sono state un confronto aspro e profondo con il suo e il nostro tempo, ciò che ha scorto e ha anticipato con lo sguardo della filosofia è tra di noi. Non voglio, pertanto soffermarmi sui testi pubblicati o solo sull’analisi al capitalismo, ma, forse, è il caso di porre in atto un riorientamento gestaltico, cambiare prospettiva, palesare gli aspetti costruttivi presenti nella filosofia di Costanzo Preve attraverso le sue interviste. Queste ultime si connotano per la spontaneità colloquiale non disgiunta dalla chiarezza concettuale.
La filosofia non è solo “domandare profondo” che apre campi semantici di ricerca, ma è anche fatica della risposta.
La fatica del concetto è l’incontro tra domanda e risposta.
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Capitale e natura. Dai “sapiens” al critico dominio del dollaro
di Carla Filosa
Unità di natura e modo di produzione storico
Un nuovo libro intitolato “Noi siamo natura” di Gianfranco Bologna, Edizioni Ambiente, sembra proporre un’ottica di cultura al servizio dell’azione a difesa dell’ambiente, senza avere più molto tempo per attardarsi. Ciò premesso, come possibile indicazione di riferimento di recentissima stesura, per affrontare il problema climatico che oggi mostra aspetti disastrosi già parzialmente visibili, si propone di considerare i cambiamenti climatici naturali separatamente da quelli determinati dalle attività umane. Questo per concentrarsi sui mutamenti, non da un punto di vista tecnico da demandare agli esperti del settore, ma da un punto di vista sia proprio della natura sia sociale e storico.
È bene rammentare che sul riscaldamento climatico (Global Warming), e non solo, si fa qui riferimento alle analisi effettuate sin dagli anni ’50 dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), quale massimo consesso mondiale di esperti sul clima. Al contrario, non si intende prendere nemmeno in considerazione le tesi relative all’“allarmismo climatico”, volte a minimizzare le rilevazioni scientifiche che potrebbero compromettere la regolare continuità delle incidenze umane. Queste sono infatti considerate altamente probabili – la cui possibilità è data al 95-100% - su un riscaldamento dell’atmosfera terrestre e degli oceani, che comporterebbe disastri quali scioglimento di nevi e ghiacci con conseguente innalzamento dei mari, pericolo per gli insediamenti umani sulle coste delle terre emerse, concentrazione di gas serra tra cui soprattutto CO2, ecc.
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Una visione eterodossa della Cina*
di Pompeo Della Posta
Pompeo Della Posta sostiene che parlando della Cina, i media europei si soffermano molto spesso sugli aspetti negativi che la caratterizzano, ignorando o sottostimando, quelli positivi e che ciò rischia di alimentare una crescente contrapposizione con l’UE, oltre a quella, già evidente, fra USA e Cina. Della Posta tenta di riequilibrare la narrativa su quel paese, con l’intento di favorire il mantenimento di un contesto di comprensione e dialogo con l’UE e aiutare così le prospettive di pace in un contesto internazionale sempre più difficile
Il XX Congresso del Partito comunista cinese, che si apre proprio mentre vengono licenziate queste note, vedrà, con ogni probabilità, la riconferma di Xi Jinping come Segretario generale del Comitato centrale per i prossimi 5 anni. La sua eventuale conferma sarà possibile grazie ad una modifica costituzionale del precedente limite di 2 mandati. Sotto la sua guida, iniziata 10 anni fa la percezione che il mondo ha della Cina è profondamente mutata. Nel parlare del “paese di mezzo”, infatti, i media europei si stanno soffermando in maniera crescente sugli innegabili aspetti critici che lo caratterizzano (ad esempio la censura operata sull’informazione), spesso utilizzando esclusivamente un metro di giudizio occidentale, senza porli in prospettiva storica, geografica o culturale e senza considerare la specificità di un paese popolato da 1 miliardo e 400 milioni di persone. Sono generalmente del tutto ignorati o sottostimati quelli positivi (fra le poche eccezioni vi è un articolo della Harvard Business Review che sottolinea “ciò che l’Occidente sbaglia sulla Cina”).
Tutto questo sta condizionando il sentimento comune nei confronti di quel paese, ma soprattutto rischia di alimentare la contrapposizione frontale con l’Unione europea (UE) , che andrebbe ad aggiungersi a quella, già evidente, fra Stati Uniti (USA) e Cina, con conseguenze per le prospettive future di pace nel mondo.
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Partenariato Orientale: la scommessa geopolitica dell'Ue che sta inabissando l'Europa
di Laura Ruggeri
Nel febbraio 2007, alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, Vladimir Putin pronunciò un discorso molto incisivo che segnalava la ritrovata fiducia in se stessa della Russia e annunciava il desiderio e la disponibilità di Mosca a svolgere un ruolo di primo piano nelle relazioni internazionali. In quella sede il presidente russo criticò come pericolosi e futili i tentativi degli Stati Uniti di creare un ordine mondiale unipolare in un momento in cui stavano emergendo molti nuovi poli. Sottolineò anche con forza che l'espansione della NATO e il dispiegamento di sistemi missilistici nell'Europa orientale costituivano una minaccia per la sicurezza della Russia. Gli Stati Uniti ritennero il suo discorso un atto di sfida: le relazioni USA-Russia diventarono più fredde, più tese e Washington iniziò ad elaborare nuovi piani per contenere le legittime aspirazioni della Russia. L'attuazione di questi piani richiedeva una più stretta collaborazione tra la NATO e l'Unione Europea: spinta dagli USA, l'UE decise di intensificare il suo coinvolgimento nello spazio post-sovietico.
Ovviamente, l'UE aveva sempre avuto un interesse per i paesi situati fuori dai propri confini. Ad esempio, la strategia di sicurezza europea (ESS) del 2003 aveva già raccomandato un "impegno preventivo" attraverso la promozione di "un anello di paesi ben governati a est dell'Unione europea"(1), ma mancava un quadro istituzionale per coordinare gli sforzi. Il cambio di passo fu sollecitato dagli Stati Uniti dopo il discorso di Monaco.
Nel maggio 2008, al Consiglio Affari Generali e Relazioni Esterne dell'UE a Bruxelles, Polonia e Svezia presentarono la proposta di un partenariato speciale con Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldova e Ucraina. Durante il vertice di Praga del maggio 2009, il concetto venne ufficialmente tradotto nel Partenariato Orientale (EaP).
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Guerra, crisi capitalista ed esigenza dell’unità delle forze comuniste, antimperialiste e anticapitaliste
Adriana Bernardeschi intervista Alberto Fazolo
Intervista ad Alberto Fazolo, giornalista, saggista, economista, militante politico antifascista e comunista. Esperto di questioni internazionali, ha vissuto due anni nel Donbass ed è autore, tra l'altro, del libro "In Donbass non si passa. La Resistenza antifascista alle porte dell'Europa", un reportage dai fronti di battaglia del Donbass, in vendita su diversi portali e-commerce
Ci troviamo all’apice della crisi del modello di sviluppo capitalista, una crisi strutturale a quel sistema economico che come già successo in passato trova la sua remissione (sempre temporanea) attraverso politiche di guerra (palliativo della sovrapproduzione) e attraverso la messa in scena della faccia “cattiva” del capitalismo, quella delle destra eversiva in grado di minare il sistema democratico per raggiungere i suoi scopi di massacro sociale. Di fronte a questo scenario, le recenti elezioni politiche hanno dato conferma della complessiva debolezza delle forze che si propongono di superare questo sistema in senso progressista, e del prendere vigore invece di quelle reazionarie e postfasciste, che raccolgono il malcontento popolare sempre più disorientato perché troppe volte tradito da chi avrebbe dovuto rappresentarlo.
* * * *
Quali sono stati, a tuo parere, gli errori più cruciali della sinistra di classe che hanno condotto a questo risultato di estrema debolezza?
R: Secondo me sono stati fatti degli errori sia di metodo che di merito, e alcuni errori sono un po’ a metà strada fra merito e metodo. Analizzare gli errori è un passo necessario per potersi migliorare risolvendoli e non ripetendoli in futuro. Secondo me il primo gravissimo errore di metodo è stato quello di accettare le regole del gioco imposte dall’avversario, e l’avversario in questo caso è lo Stato nelle sue massime espressioni, quindi Mattarella e Draghi, che hanno imposto delle elezioni in un momento in cui non ce n’era assolutamente bisogno perché Draghi aveva comunque un’ampissima maggioranza parlamentare che gli consentiva di guidare un governo senza nessuna apprensione.
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Sulla nullità dell’uomo moderno
di CdC
Nella sua opera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, pubblicata nel 1984, Milan Kundera sostiene che i tempi moderni sono quel periodo in cui l’importanza ed il peso della vita umana hanno perso di significato, diventando più leggeri. Witold Gombrowicz, scrittore polacco venticinque anni più vecchio di Kundera, ha un’idea allo stesso tempo comica e geniale per definire questa situazione. Secondo Gombrowicz, il peso del nostro Io dipende dalla quantità di popolazione presente sul pianeta: il peso dell’esistenza umana si è diviso e diluito in una tale quantità di parti, di porzioni differenti, da far sì che il peso ed il valore dell’esistenza stessa si sia ridotto, si sia alleggerito fino al punto da diventare insostenibile. Quindi il peso dell’Io diventa sempre più leggero man mano che la popolazione del pianeta aumenta, come se l’energia che dà peso all’Io fosse di quantità limitata e, poiché viene distribuita in un numero elevato di persone, finisce per essere di modesta quantità in ognuno. Volendo esprimere questo concetto con linguaggio matematico, si potrebbe dire che il numero è inversamente proporzionale alla sostanza.
Ciò che Kundera vuole porre sotto i nostri occhi è, probabilmente, la condizione in cui si trova l’uomo nei tempi moderni. L’uomo moderno è entrato in una fase della storia dove le forze individuali sono totalmente sottomesse alla gabbia di acciaio dell’amministrazione planetaria, sottomesse anch’esse dalle forze della storia, forze probabilmente scatenate dall’uomo stesso che, nell’intento di migliorare la propria vita, si “concede” alla tecnica, quella stessa tecnica di cui, però, ha perso il controllo e di cui adesso è inevitabilmente schiavo. L’uomo, per via del suo smanioso desiderio di onnipotenza, è causa del suo delirio e si ritrova anche ad essere effetto di quella causa.
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La caduta. Lineamenti e prospettive del prossimo futuro
di Piero Pagliani
Introduzione: i lineamenti della crisi in breve
La formidabile espansione economica occidentale del dopoguerra, guidata dagli Stati Uniti, ultimi eredi dell'egemonia occidentale sulla maggior parte del mondo, che era culminata con l'Impero Britannico, è entrata in crisi verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Si tratta di una crisi sistemica. Una crisi è sistemica quando non coinvolge un gruppo limitato di comparti economici né un gruppo limitato di Paesi ma investe tutta una economia-mondo e la sua organizzazione intorno al potere economico, finanziario, politico e militare di un centro egemone. Da quanto detto si capisce che ogni crisi sistemica ha un carattere “ibrido”, per l'appunto politico, militare, economico e finanziario. Ne ha ovviamente anche uno sociale, perché le economie-mondo reggono sistemi sociali e sono rette da rapporti sociali. E ne ha uno ideologico che riguarda il complesso delle idee dominanti.
Oggi l'economia-mondo in crisi ha un'estensione planetaria e il centro egemone in crisi sono gli Stati Uniti d'America. Ma la natura più spettacolare della crisi sistemica corrente è data dal fatto che con essa potrebbe chiudersi la lunghissima sequenza di economie-mondo che a partire da Venezia sono state centrate sull'Occidente e, al suo interno, la sequenza dei cicli sistemici dominati dal mondo anglosassone. Da qui il carattere fortemente ideologizzato dello scontro che va oltre le ovvie manovre di propaganda e disinformazione. Oltre ad avere arruolato militarmente gli eredi più puri del nazismo hitleriano, l'Occidente collettivo ha infatti dovuto riesumare anche l'armamentario lessicale del fascismo. Gli alti funzionari della UE ormai parlano della Russia in termini di “Paese non civilizzato” e dei Russi come “solo apparentemente europei”, così come al momento del lancio dell'Operazione Barbarossa si parlava di “barbarie dei territori orientali” e di popolazione “semiasiatica”. In definitiva, una professione di fede razzista da parte di chi per il resto della giornata parla di “inclusione” e “democrazia”.
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Rigassificatore, a Piombino si gioca il futuro energetico dell’Italia
di Verdiana Siddi e Massimo Cascone
C’era una volta una terra baciata da tramonti struggenti e accarezzata dalla schiuma che diede luce alla dea Venere, e sette son le perle che dal suo collo andarono in dono al mare davanti a Piombino.
In cerca del brivido degli affari se ne andava in giro un certo Roberto Cingolani, da docente a direttore scientifico per importanti istituti, poi per grandi multinazionali, fino a diventare direttore non esecutivo nel consiglio di amministrazione della Ferrari, ma fu da ministro che egli si occupò di enormi rigassificatori di gas liquido statunitense, il più osceno di tutti lo volle in dono al mare davanti a Piombino.
***
Sono passati solo pochi mesi da quel fatidico 7 aprile, quando Mr. Draghi pronunciò in conferenza stampa l’altrettanto fatidica frase:
Ci chiediamo se il prezzo del gas possa essere scambiato con la pace. Di fronte a queste due cose, cosa preferiamo: la pace oppure star tranquilli con l’aria condizionata accesa tutta l’estate?
Da allora molte cose sono cambiate – per non dire peggiorate: la guerra non è stata affatto fermata dalle famose sanzioni che “avrebbero dovuto mettere in ginocchio l’economia russa” (semi-cit.), ma anzi continua a essere alimentata dall’invio di armi; l’inflazione, o meglio la speculazione, ha portato i costi delle materie prime alle stelle; i più recenti avvenimenti (1) hanno messo in serio pericolo la nostra fonte sicura di metano, quella russa, il cui impianto è ancora funzionante ma con un flusso drasticamente ridotto a causa delle sanzioni e, Austria a parte, adesso non si tratta più di accendere l’aria condizionata d’estate ma piuttosto di non morire di freddo d’inverno.
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La guerra come automatismo di de-globalizzazione
di Franco Berardi Bifo
Il nazionalismo come forma generale della de-globalizzazione
In un libro del 1946 Die Schuldfrage, Karl Jaspers, uno degli ispiratori del movimento esistenzialista, disse che dovremmo distinguere tra il nazismo come evento storico e il nazismo come corrente profonda della cultura europea, che può riemergere.
Le dinamiche sociali e culturali che hanno dato origine al nazismo nel secolo passato hanno qualcosa di simile alle dinamiche sociali contemporanee, ma il contesto storico, psichico, e soprattutto tecnico è molto differente.
Jaspers scrive in quel testo che la caratteristica per eccellenza del nazismo è il tecno-totalitarismo e sostiene che una piena manifestazione della natura del nazismo potrebbe riapparire in futuro.
Ci si può chiedere se quel futuro sia adesso, e la mia risposta è che le condizioni di una riproposizione su scala enormemente allargata del nazismo stanno emergendo dalla proliferazione di movimenti identitari, neo-reazionari, e nazionalisti che prendono forme diverse e anche tra loro conflittuali come nel caso del conflitto tra Russia e Ucraina, in cui due modelli ugualmente nazionalisti si scontrano militarmente.
Anche Timothy Snyder il quale, in Black Earth: The Holocaust as History and Warning, osserva che la l’impotenza e il terrore provocato da situazioni di emergenza di massa, come le catastrofi ecologiche o le prolungate crisi economiche sono le condizioni più inclini alla formazione di regimi totalitari.
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La terapia d’urto sull’economia mondiale
di Michael Roberts
“Chiaramente, le banche centrali non conoscono le cause dell’aumento dell’inflazione. Come ha affermato il presidente della Fed Jay Powell: “Capiamo meglio ora quanto poco sappiamo dell’inflazione”. Ma è anche un approccio ideologico dei banchieri centrali. Tutti i discorsi da parte loro sono la paura di una spirale salari-prezzi. Quindi la loro argomentazione sostiene che, poiché i lavoratori cercano di compensare l’aumento dei prezzi negoziando salari più elevati, ciò alimenterà ulteriori aumenti dei prezzi e di conseguenza le aspettative di inflazione.”
La terapia d’urto era il termine usato per descrivere il drastico passaggio da un’economia pianificata di proprietà pubblica nell’Unione Sovietica nel 1990 a un modo di produzione capitalista in piena regola. È stato un disastro per il tenore di vita per un decennio. La dottrina dello shock era il termine usato da Naomi Klein per descrivere la distruzione dei servizi pubblici e dello stato sociale da parte dei governi a partire dagli anni ’80. Ora le principali banche centrali stanno applicando la propria “terapia d’urto” all’economia mondiale, intente a far salire i tassi di interesse per controllare l’inflazione, nonostante la crescente evidenza che ciò porterà a una recessione globale il prossimo anno.
Questo è quello che dicono. Il membro del consiglio della Federal Reserve Chris Waller chiarisce che “non sto considerando di rallentare o fermare gli aumenti dei tassi a causa di problemi di stabilità finanziaria”. Quindi, anche se l’aumento dei tassi di interesse cominciasse a fare buchi nelle istituzioni finanziarie e nelle loro attività speculative, non importa. Allo stesso modo, il capo della Bundesbank Nagel è risoluto, nonostante l’Eurozona e la Germania in particolare stiano già scivolando in recessione: “I tassi di interesse devono continuare a salire – e in modo significativo”. Nagel non vuole solo tassi di interesse più alti; vuole che la BCE riduca il suo bilancio, cioè non solo smetta di acquistare titoli di stato per mantenere bassi i rendimenti obbligazionari, ma in realtà venda obbligazioni, portando a rendimenti in aumento.
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«Un po’ di ansietta, ragazzi?»
Per una lettura politica della condizione giovanile
di Antonio Alia
Stare in pace con sé, oggi, vuol dire entrare in guerra con il mondo».
Mario Tronti, Dello spirito libero.
Un bel mondo di merda, non c’è dubbio. Che la guerra sta portando sull’orlo della crisi di nervi. O viceversa.
Guerra. Crisi. Nervi. Dei primi due abbiamo già parlato. Il mondo di domani e il destino della globalizzazione; i figli della crisi e la scuola di oggi. Era giunta l’ora di parlare di nervi. Ansia, angoscia, sofferenza mentale. Un vissuto sempre più diffuso, quasi pandemico. Che sembra attanagliare soprattutto i giovani. O che essi – grazie alla loro età, unita a una maggiore consapevolezza e a una meno pressante assuefazione – riescono a far emergere in modo più radicale. Perché loro necessità, bisogno. Chi ci ha raggiunti, nonostante la stanchezza, le pressioni e l’ansia di un quotidiano senza tregua già a sedici anni, lo ha fatto non a caso, evidentemente.
Abbiamo voluto provare a costruire un punto di vista di parte. Il metodo che sempre ci muove: mettere in prospettiva, produrre discorso politico, stimolare formule organizzative. Ma prima di tutto, inchiestare. Individuare le domande, saper ascoltare. Tentare di trovare le risposte nel processo. Ci interessava una lettura politica dell’ansia, legata alle trasformazioni produttive, all’individualizzazione del disagio, alle nuove logiche del comando. Andare dallo psicologo va benissimo, ma non può essere una soluzione per problemi politici. Denunciare la catastrofe siamo capaci tutti, il difficile è capire con chi dobbiamo prendercela. Invece di diventare specialisti del malessere, rendere un’arma il punto di vista – lo sguardo parziale di chi, come militante politico, può rovesciare il proprio destino.
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Big clash
di Enrico Tomaselli
Anche se siamo ormai assuefatti ad un ritmo informativo incalzante, che ci porta ad una percezione accelerata degli avvenimenti, e che al tempo stesso induce un parallelo bisogno di velocità – per cui abbiamo fretta di consumare le notizie, così da poter passare ad altre – la guerra non è una faccenda rapida. Anche se il nostro immaginario ci fa pensare che lo sia, nella gran parte dei casi è invece una questione di lunga durata. Quando poi parliamo di conflitti geopolitici, possiamo star certi che la guerra guerreggiata è sempre preceduta da un lungo periodo di accumulo ed è seguita da un non meno breve periodo di assestamento.
Wolfowitz e Brzeziński
La caduta del muro di Berlino, la dissoluzione del Patto di Varsavia e poi il collasso dell’URSS sicuramente indussero gli Stati Uniti a credere che si stesse aprendo un secolo di assoluto dominio globale per il capitalismo liberista incarnato negli states. L’apertura della successiva stagione della globalizzazione nasce da questa certezza di presupposta supremazia. Ma, al tempo stesso, nelle segrete stanze del deep state non si abbassava la guardia: già nel 1992, l’allora sottosegretario alla Difesa di George W. Bush, Paul Wolfowitz ebbe cura di pubblicare la Defence Policy Guidance (1), che divenne poi la base su cui si costruiranno le strategie imperiali di lungo periodo. Nella sua analisi sullo stato delle cose, Wolfowitz mette subito in chiaro che “la nostra politica deve ora concentrarsi nuovamente sull’impedire l’emergere di qualsiasi potenziale futuro concorrente globale”. Non appena archiviato il loro unico competitor, l’Unione Sovietica, già si preoccupavano di impedire l’emergerne di nuovi. E, nello stesso documento, Wolfowitz non mancava di sottolineare che “la Russia rimarrà la potenza militare più forte in Eurasia”.
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Come finirà la guerra in Ucraina?
di Visconte Grisi
Quando si cerca di riflettere sull’evoluzione che potrà avere la guerra in Ucraina una domanda sorge spontanea: la guerra e le distruzioni in Ucraina possono costituire i prodromi di una terza guerra mondiale? Certamente, anche se da diversi anni ormai si sente parlare di “terza guerra mondiale a pezzi”, di “guerra per procura” ecc., questa volta il ricorso a una terza guerra mondiale per risolvere la crisi è reso molto problematico dall’entità delle distruzioni che un tale evento comporterebbe.
Inoltre attualmente nessuna delle potenze in gioco sembra in grado di produrre questo immane sforzo: non gli Stati Uniti che rimangono comunque i più forti sul piano militare ma deboli sul piano industriale dopo decenni di delocalizzazioni, la cui egemonia mondiale si fonda ormai solo sul capitale finanziario; non l’Unione Europea, debole sul piano militare e in preda alle solite divisioni, con una industria tecnologicamente avanzata che ha bisogno dei mercati mondiali di gamma medio/alta; non la Russia che accoppia alla potenza militare ereditata dall’URSS una economia basata quasi esclusivamente sull’esportazione delle materie prime; non la Cina ancora indietro sul piano militare e tesa ad espandersi sul piano commerciale lungo le varie “vie della seta” e con problemi di sviluppo interno ancora non risolti.
L’andamento della guerra, dopo il primo azzardo di Putin in Ucraina, sembra confermare questa ipotesi con gli Stati Uniti aggressivi a parole ma cauti nei fatti, la Cina che attende sorniona l’evolversi degli avvenimenti e l’Unione Europea con smanie interventiste che servono per giustificare una politica di riarmo.
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Introduzione a "Karl Marx's Ecosocialism"
di Kohei Saito
Kohei Saito: Karl Marx’s Ecosocialism. Capital, Nature, and the Unfinished Critique of Political Economy, Monthly Review Press, 2017
Per molto tempo, l'espressione “ecologia di Marx” è stata considerata un ossimoro. Non solo i critici di Marx, ma anche molti autoproclamatisi marxisti ritenevano che Marx presupponesse come legge naturale della storia uno sviluppo economico e tecnologico illimitato e propagandasse l’assoluto dominio della natura, aspetti che contrastano entrambi con qualsiasi seria considerazione teorica e pratica di questioni ecologiche come la scarsità delle risorse naturali e il sovraccarico ai danni delle ecosfere. A partire dagli anni '70, quando le gravi minacce ambientali alla civiltà umana sono diventate gradualmente, ma indiscutibilmente, più evidenti nelle società occidentali, Marx è stato ripetutamente criticato in recenti studi sull’ambiente come anche da parte dell'emergente movimento ambientalista per la sua ingenua accettazione della comune concezione ottocentesca che sosteneva il completo dominio umano sulla natura. Secondo i critici, tale convinzione inevitabilmente lo ha portato a trascurare il carattere distruttivo immanente all'industria moderna e alla tecnologia che caratterizza la produzione e il consumo di massa. In questo senso, John Passmore si è spinto fino ad affermare che «niente potrebbe essere più dannoso dal punto di vista ecologico della dottrina hegeliano-marxiana». [1]
Negli anni successivi, la critica contro il “prometeismo” o iperindustrialismo di Marx, in base al quale lo sviluppo tecnologico illimitato del capitalismo avrebbe permesso all'uomo di manipolare arbitrariamente la natura esterna, è diventato uno stereotipo popolare. [2] Di conseguenza, non era raro sentire riproporre lo stesso tipo di critica, secondo cui la teoria di Marx, specialmente nei suoi aspetti ecologici, era fatalmente errata dalla prospettiva odierna.
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Neoliberismo e anarcocapitalismo
di Antonio Minaldi
Il valore e i prezzi, una disputa tra classici e neo classici. Dall'homo oeconomicus all'homo naturalis. Le aporie del sistema e le soluzioni immaginate (ed immaginarie)
Il tema della libertà è l’orgoglio e la croce dell’Occidente. Ideale motore propulsivo di rivoluzioni e grandi conquiste popolari lungo una storia ormai ultrasecolare, ma anche madre di tutti gli inganni imperiali e imperialisti del capitalismo ultraliberista che in nome suo, e di sua sorella la democrazia, non si fa problema di portare rapina, guerra e distruzione in giro per il mondo. Questo ingannevole e improprio sposalizio tra libertà e capitalismo trova oggi una sua, poco nota ma fortemente significativa manifestazione nelle ideologie libertarian statunitensi e specificatamente nell’anarco capitalismo. Un movimento composito e complesso, che al di là di differenze e diatribe interne, si costituisce, nella generalità delle sue manifestazioni, intorno alla centralità che assume, per i suoi teorici, l’idea della assoluta libertà che gli individui godono (o dovrebbero godere) nel mercato, e che, come sappiamo, viene presupposta come portatrice di benessere e progresso, grazie alle capacità auto regolative dello stesso mercato, secondo la famosa ipotesi della “mano invisibile” di Smith.
Ebbene secondo libertariani e anarco capitalisti, questo miracoloso percorso capace di produrre il bene comune partendo dall’individualismo egoistico, non deve essere relegato al solo scambio mercantile, ma deve essere posto alla base di qualunque tipo di relazione umana e sociale. La conseguenza sarà l’estinguersi dello Stato e di qualunque forma di potere pubblico, in una società che si autoregola attraverso la proprietà privata di ogni tipo di bene immaginabile, e dunque sul libero gioco competitivo di cittadini portatori di interessi proprietari, personali e particolari.
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Ucraina: la guerra di Putin, la guerra di Biden
di Ernesto Screpanti*
La guerra d’Ucraina può essere spiegata a tre livelli di profondità. È una guerra d’aggressione all’Ucraina da parte della Russia, una guerra inter-imperiale per interposta nazione tra NATO e Russia, una guerra degli USA contro la Germaneu, l’Europa a trazione tedesca. Tutte e tre le spiegazioni sono valide. Qui mi concentro sulla terza. Preliminarmente però devo fornire due chiarimenti teorici.
Il primo riguarda la definizione di “sistema imperiale”. Un mondo dominato dagli imperi non è un caotico complesso di contrasti inter-imperiali. Normalmente funziona come un sistema abbastanza ordinato di relazioni internazionali, cosa che è resa possibile dal fatto che è regolato da una struttura di potere al vertice della quale c’è una potenza egemone.
Questa potenza assolve quattro funzioni fondamentali di governance globale, ponendosi come motore dell’accumulazione, banchiere, sceriffo e avanguardia culturale (Screpanti, 2014). Funziona come motore dell’accumulazione in quanto ha un grosso apparato industriale, un grosso Pil e un’elevata propensione alle importazioni, cosicché la sua crescita produttiva traina la crescita degli altri paesi. Se mantiene un consistente deficit commerciale e/o un consistente deficit del conto finanziario esporta moneta.
In tal modo fornisce al resto del mondo uno strumento di riserva e di pagamento internazionale, e questa è la funzione di banchiere globale. Inoltre, l’impero egemone può essere uno sceriffo globale in quanto possiede le più potenti forze armate del mondo, così da poter disciplinare i paesi canaglia, cioè quelli che non rispettano le regole del gioco.
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Un Nobel oltrecanone
di Jessy Simonini
Nella scrittura sovversiva di Annie Ernaux soggetto politico è prima di tutto il corpo nella sua vita materiale, nella densità e intensità dei suoi momenti d'essere
Oltre un anno fa, nello scrivere un lungo testo in occasione dell’uscita in Italia de La donna gelata, mi interrogavo su come la scrittura di Annie Ernaux ci imponesse di ripensare in profondità il rapporto fra politica e letteratura, generando uno spazio altro in cui il libro diventa «strumento di lotta» (Gli anni) e, allo stesso tempo, «ultima risorsa» di fronte al tradimento, in particolare quello del «transfuga di classe» che deve fare i conti con il proprio irreparabile mutamento (ne Il posto, citando una frase di Genet: «Azzardo una spiegazione: scrivere è l’ultima risorsa quando abbiamo tradito»). E giungevo a una strana conclusione, riprendendo un’idea di Anna Maria Ortese, quella della letteratura come reato, «reato di nitida e feroce opposizione al potere e ai suoi rappresentanti, alla società nella sua attuale configurazione, alla dominazione maschile e del capitale, al classismo costitutivo del pacifico mondo occidentale». Mi sembrava che quel «reato» simbolico racchiudesse il cuore di un progetto in cui vita e scrittura diventano la stessa cosa, fino a non essere più distinguibili.
Il 6 ottobre, Annie Ernaux ha vinto il Premio Nobel per la letteratura. Sui giornali e sulle riviste si sono susseguite moltissime riflessioni (talora acute, talora molto meno) che hanno messo in luce il rapporto di Ernaux col femminismo (anche in seguito all’uscita del film tratto da L’evento) e i grandi temi che attraversano la sua scrittura: la memoria (nella sua dimensione concreta, materiale), i legami familiari da intendersi in una prospettiva transclasse, la sessualità, la maternità, il rapporto fra letteratura e analisi sociologica. Si sono citati i libri considerati come suoi «capolavori», fra cui Il posto e Gli anni.
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La natura come categoria sociale e la società come categoria naturale
Note su Marx e Darwin
di Francesco Bugli
Questo testo tiene al centro il problema del rapporto tra Charles Darwin e Karl Marx in relazione alla tecnologia e al rapporto tra l’elaborazione delle categorie di natura, storia e società. Prenderemo in considerazione la valutazione Marxiana della tecnologia e il ponte da lui tracciato con il darwinismo, analizzando alcune lettere del carteggio con Friedrich Engels. Considereremo le differenze tra Darwin e Marx nella valutazione della continuità e discontinuità tra natura e società, per meglio comprendere la dialettica tra queste due sfere, di fronte alle sfide che il presente ci pone con la crisi ecologica. Elemento centrale sarà la valutazione, nei due pensatori, della tecnologia sociale e “naturale”.
1. Marx e Darwin: tecnologia naturale e organi sociali
Per Marx il mezzo di lavoro è ciò che il lavoratore inserisce tra sé e l’oggetto di lavoro, nel suo processo lavorativo. Questo mezzo di lavoro, che è un elemento naturale mediato dal lavoro umano, diviene «organo della sua attività, un organo che egli aggiunge ai propri organi fisiologici allungando, a dispetto della Bibbia, la sua statura naturale»[1]. Dai primi strumenti tecnologici, cioè i primi mezzi di lavoro, l’uomo scopre i differenti valori d’uso delle cose nel corso della storia. L’elaborazione sempre più complessa del dato naturale porta a sempre nuove scoperte e al perfezionamento di questo organo artificiale che per Marx è lo strumento tecnologico[2]. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx aveva già parlato della natura come «corpo inorganico dell’uomo cioè la natura in quanto non è essa stessa corpo umano […]; la natura è il suo corpo, con cui deve stare in un rapporto costante per non morire»[3].
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Da Hegel a Nietzsche: la complessa relazione di Domenico Losurdo con il liberalismo
di Igor Shoikhedbrod (Dalhousie University, Canada)
1. I criteri di riferimento per lo studio del rapporto di Losurdo con il liberalismo
Prima di iniziare la mia indagine del rapporto di Losurdo con il liberalismo è il caso di fissare i criteri di base che la guideranno. Ogni tentativo di esaminare questa complessa relazione deve infatti confrontarsi fin da subito con una sfida: dove vanno tracciati i confini interpretativi? Questa sfida è resa più difficile dal fatto che Losurdo è stato uno storico delle idee assai prolifico, che nell’esteso ambito di riferimento dei suoi studi si è occupato di un ampio numero di autori e temi del pensiero politico, dall’illuminismo ai nostri giorni. In questo breve saggio mi concenterò su tre (o meglio, quattro) figure fondamentali della storia della filosofia che sono state oggetto delle sue ricerche: G.W.F. Hegel, Karl Marx (e, ove si dia il caso, Friedrich Engels), e Friedrich Nietzsche. Tutti pensatori che hanno contribuito sotto molti rilevanti aspetti a formare l’eredità della filosofia classica tedesca.
Non sono certo il primo a ripercorrere il movimento che da Hegel conduce a Nietzsche; Karl Löwith ha scritto su questo argomento un libro che è ancora un punto di riferimento1. Tuttavia, credo di essere il primo ad analizzare il movimento che da Hegel porta fino a Nietzsche in relazione all’opera di Losurdo e al suo rapporto con il liberalismo. Sicuramente, inoltre, il fatto che io includa Nietzsche tra i filosofi che hanno contribuito alla tradizione della filosofia classica tedesca susciterà la perplessità di alcuni lettori. Dopotutto, il pensiero di Nietzsche, con la sua guerra contro i grandi costruttori di sistemi filosofici, è spesso considerato come l’archetipo della decostruzione. Ciononostante, non è il caso di misurare il contributo di un autore a una particolare tradizione di pensiero sulla base di quanto quello stesso autore ritenga di essersi occupato di essa. Se così fosse, né Hegel, né Marx (né Engels) potrebbero essere descritti come rappresentanti, e al contempo eredi, di questa medesima tradizione.
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De-dollarizzazione e petroyuan: il post Bretton Woods ha avuto inizio?
di Fabrizio Verde
Il mondo si appresta ad entrare nella fase eurasiatica. L’egemonia unipolare statunitense è ormai prossima a diventare uno sbiadito ricordo, erosa dal progressivo crollo del regno del dollaro. Un nuovo mondo multipolare è in costruzione. La situazione mondiale è radicalmente differente rispetto al post 1945 o 1990: secondo una proiezione della Standard Chartered Bank di Londra, i paesi eurasiatici, paesi latinoamericani e africani come il Brasile e l’Egitto, situati alle ali dell’Eurasia, saranno ai vertici dell’economia mondiale.
Il cosiddetto mondo occidentale è entrato in una fase di declino irreversibile. Per questo in Ucraina ha provocato una guerra per procura contro la Russia utilizzando la manovalanza neonazista fornita dal regime di Kiev coadiuvata dalla NATO. Però la vera battaglia è un’altra: gli Stati Uniti proveranno in ogni modo ad arrestare il processo di de-dollarizazione dell’economia mondiale che rappresenterebbe la fine definitiva del dominio di Washington.
La tendenza alla de-dollarizzazione
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti promossero l'istituzione del sistema di Bretton Woods, il cui fulcro era il dollaro come mezzo di valutazione, scambio e conservazione del valore. Nei decenni tra gli anni '70 e la crisi finanziaria del 2008, il sistema di Bretton Woods ha subito cambiamenti, il legame fisso tra il dollaro USA e l'oro è stato annullato e i tassi di cambio delle valute nazionali sono entrati nel sistema nominalmente libero, tuttavia il Il dollaro USA, come fondamento del sistema monetario internazionale, non ha vacillato.
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La società piatta
di Vincenzo Scalia
L'ultimo stadio dell'ideologia della sicurezza è la delazione di massa: gli individui competono tra di loro in un conflitto orizzontale per guadagnarsi lo status di vittime e chiedere protezione
Negli ultimi trent’anni, la questione della sicurezza, ha colonizzato l’agenda pubblica italiana, fino a culminare nella vittoria, nelle due ultime tornate elettorali, di forze politiche e schieramenti che fanno di legge e ordine la loro bandiera. In realtà, dietro il securitarismo, allignano questioni molto più complesse delle manette facili, che portano a interrogarsi sui fondamenti e sulla solidità degli assetti sociali e politici attuali. L’ultimo lavoro di Tamar Pitch, Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitiva (Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2022), costituisce un valido strumento attorno al quale articolare una riflessione demistificatoria delle tematiche della sicurezza.
Sin dalla metà degli anni Ottanta, assistiamo allo slittamento di significato del termine sicurezza che, dall’indicare una condizione sociale, passa a essere focalizzato sull’incolumità individuale, compiendo la traslazione che Alessandro Baratta definiva «dalla sicurezza dei diritti al diritto alla sicurezza» (Alessandro Baratta in Anastasia, S., Palma, M., La bilancia e la misura, Franco Angeli, Milano, 2001): l’Italia assimila con un decennio di ritardo questo cambiamento, che in Gran Bretagna, sin dai primi anni del governo di Margaret Thatcher, ha avviato progetti di prevenzione situazionale, ovvero mirati a rendere asettico l’ambiente esterno attraverso illuminazione pubblica e arredi urbani contro le «classi pericolose». In Francia, il governo socialista, ha promosso progetti ad ampio raggio di ristrutturazione urbana delle banlieues, senza tenere conto della questione sociale. Oltreoceano, il processo di securitarizzazione, è stato molto più marcato: da un lato, attorno alla privatizzazione della sicurezza, si è gradualmente sviluppato un mercato di polizie private e gated cities, ovvero le città fortezza dove i condomini votano addirittura se consentire alla madre di uno dei residenti di entrare nel complesso residenziale .
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E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin
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A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
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A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
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Luca Busca: La scienza negata
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Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung
Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare
Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
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Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica
Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto