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Blinken ha ordinato l'attacco, le Big Tech lo hanno eseguito, African Stream è morto
di Alan Macleod - mintpressnews.com
Martedì 1° luglio 2025, African Stream ha pubblicato il suo ultimo video, un messaggio d’addio provocatorio. Con questo, il media panafricano, un tempo fiorente, ha confermato la sua chiusura definitiva. Non perché avesse infranto la legge. Non perché avesse diffuso disinformazione o incitato alla violenza. Ma perché raccontava la storia sbagliata, una storia che sfidava il potere degli Stati Uniti in Africa e che aveva avuto un’eco troppo profonda presso il pubblico nero di tutto il mondo. Quando il Segretario di Stato Antony Blinken l’ha accusata di essere una facciata del Cremlino, le Big Tech non hanno esitato e, nel giro di poche ore, la piattaforma è stata cancellata da quasi tutti i principali social media.
A settembre, il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha lanciato l’allarme e ha annunciato una guerra totale contro l’organizzazione, sostenendo, senza prove, che si trattasse di un gruppo di facciata russo. “RT, l’emittente mediatica russa finanziata dallo Stato, gestisce segretamente la piattaforma online African Stream su una vasta gamma di social media”, ha dichiarato, aggiungendo:
Secondo il sito web dell’emittente, “African Stream è” – e cito – “un’organizzazione panafricana di media digitali basata esclusivamente sui social media, focalizzata nel dare voce a tutti gli africani, sia in patria che all’estero”. In realtà, l’unica voce che dà è quella dei propagandisti del Cremlino.
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La falsa coscienza dell'Occidente e il mito della caverna
di Antonio Castronovi
Quanti commenti ipocriti sul suicidio del ministro dei Trasporti russo! Nessuna riflessione sulle circostanze e sul grave e ignominioso atto d'accusa che pendeva sulla sua testa e sul suo onore: corruzione e omissione della difesa dei cittadini della regione di Kursk quando lui ne era Governatore. Può avere sulla sua coscienza la morte di migliaia di cittadini innocenti che hanno perso la vita con l'invasione Nato-ucraina di un anno fa per la mancata predisposizione delle linee di difesa dei confini a cui doveva sovraintendere. In tempi di guerra si tratta di alto tradimento e di una accusa terribile e infamante. Può non aver retto all'onta del disonore pubblico e dal ² disprezzo di cui sarebbe stato giustamente inondato durante un processo. Macché! Apriti cielo! È stato Putin che elimina così i suoi nemici e oppositori! È un criminale e un despota! La Russia è un paese di schiavi! Mai vivrei in Russia!
Si vede che siamo un paese senza memoria ! Un paese cinico e senza pudori. Senza alcuna consapevolezza della sua storia. Sia a destra che a sinistra si considera Putin un omicida seriale, in un paese, la Russia, dove se ti opponi al potere ti garantisci una brutta fine, al di là di una valutazione specifica e circostanziata dei fatti. Spesso contro ogni evidenza logica e razionale, e senza prove materiali e documentabili. La propaganda occidentale è molto abile nella costruzione del "mostro" come parte della guerra psicologica per delegittimare moralmente i suoi nemici, per togliere loro ogni manto di umanità e giustificare le proprie guerre di sterminio in nome dell'Umanità agli occhi della opinione pubblica occidentale.
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La collina e la pianura. Posizioni egemoniche e pretese imperiali
di Alessandro Visalli
Siamo nei pressi di quegli ispidi passi di montagna nei quali i sentieri si biforcano. Da una parte il largo sentiero battuto dell’Occidente prosegue il suo lungo restringersi. Dall’altra un rivolo si amplia, al contempo facendosi via via più liscio e comodo. Il vecchio sentiero, da qualche tempo si fa per molti più ripido, pietroso, denso di rischi, il nuovo è cresciuto sotto molti profili all’ombra, ma nel tempo si è fatto via via più largo e forte. I due sentieri sembrano divaricarsi.
Ad aprile, in “Considerazioni intermedie su tempi complessi”[1], proponevo di saggiare prudentemente i bordi di quel consolidato e rassicurante schema mentale per il quale siamo solo in una perturbazione, se mai ciclica, del cammino indefettibile e (perché tale) provvidenziale dell’umano universale. Un umano che, alla fine liberato dai vincoli ascrittivi delle tradizioni, e ovunque secolarizzato[2], vedrà in ogni luogo e tempo l’affermazione dei diritti “universali” (con essi della democrazia, forma perfetta della loro espressione). Il cammino indefettibile risulterebbe in questa visione più forte di ogni eccezione temporanea alla finale “occidentalizzazione” del mondo. Chi vede questi tempi confusi sotto questa lente tradizionale non può che vederli come un incomprensibile incidente, un’aberrazione (ed è quel che il buon cittadino cerca di fare, dichiarando sistematicamente come “pazzi” coloro che deviano). Ciò che scuote il buon cittadino è la nascita e il rafforzamento dei Brics[3], la crescita lungo la catena del valore della Cina[4], e, facendo leva sulle modifiche delle basi produttive per effetto dell’introduzione di nuovi ecosistemi tecnologici, dietro di lei di altri[5], i movimenti politici non liberali nei santuari occidentali[6], l’indisponente rifiuto della Russia a riconoscersi sconfitta nella guerra in Ucraina, o dell’Iran a conformarsi all’invito di scegliere meglio i suoi governanti durante lo scontro con Usa e Israele nella “guerra dei 12 giorni”[7].
Stazionando nei bordi di questo rassicurante schema mentale, di questa cosmologia e fede trascendente, sorge il sospetto che le anomalie abbiano un segreto. E che sia semplice: l’egemonia tecnica, economica e politica dell’Occidente non era il segno della designazione divina, come vorrebbero le due principali teocrazie mondiali (i due governi più trascendenti del mondo[8]), quella americana e quella israeliana, ma un fatto meramente e pienamente storico. Come tale provvisorio.
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La guerra ineluttabile
di Enrico Tomaselli
Possiamo certamente affermare che la lunga fase di transizione che stiamo vivendo, che cerca di traghettare il mondo dall’epoca dell’illusione unipolare statunitense a una nuova epoca, basata sul multilateralismo, è caratterizzata più che mai dalla presenza pregnante della guerra.
Non che questa sia mai stata assente dall’orizzonte globale, e segnatamente da quello occidentale, ma – com’è storicamente sempre stato – l’approssimarsi di grandi cambiamenti geopolitici è sempre preceduto dall’accentuarsi delle tensioni conflittuali. E quello che stiamo attraversando è, con tutta evidenza, particolarmente significativo, epocale: stiamo infatti parlando del tramonto dell’occidente (per usare l’espressione di Emmanuel Todd), cioè della fine di una egemonia militare, economica e quindi politica, protrattasi per secoli. La guerra, sia essa cinetica o ibrida, è dunque il terreno su cui si consuma la transizione, in cui si definiscono i nuovi rapporti di forza. È l’inevitabile passaggio per arrivare alla definizione di un nuovo ordine mondiale. La Pace di Westfalia, il Congresso di Vienna, il Vertice di Yalta, sono stati il punto d’arrivo di un processo, che in quelle sedi ha ridefinito il quadro geopolitico, ma che è stato delineato sui campi di battaglia. Pensare che si possa eludere oggi questo passaggio è una grande ingenuità. Il massimo per cui si può operare è la riduzione del danno.
La prima cosa di cui dobbiamo avere consapevolezza, è la necessità di spersonalizzare il conflitto. Rimuovere l’idea che questo dipenda – per un verso o per un altro – da questo o quel leader politico, e che quindi l’affermarsi di tizio o la rimozione di caio abbiano una qualche significativa incidenza sul processo in atto. A essere in azione sono forze profonde, radicate nella storia e nella geografia, e dobbiamo pensarle come uno scontro tra faglie tettoniche, piuttosto che come un duello tra leader politico-militari. La cui leadership può modificare lo sviluppo tattico dello scontro, ma non può arrestarlo né modificarne la natura strategica.
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Riarmo: finzione o minaccia reale?
di Leonardo Mazzei
Il riarmo non si discute! Questo è il succo di quanto dichiarato da Paolo Gentiloni a Bruno Vespa. Più precisamente: il riarmo non si deve discutere. Né si possono contrappore armi e sanità, come se – proprio lui, che ha pure fatto per cinque anni il commissario europeo – non conoscesse forma e sostanza dei vincoli euristi. E affinché la discussione venga subito stoppata ecco il suo appello bipartisan:
«Dovremmo fare uno sforzo, tutte le forze politiche, per spiegare che bisogna fare questo (il riarmo, ndr), invece di trasformarlo in una battaglia politica».
Dunque, nella concezione di questo ex nobile, in gioventù extraparlamentare di ferrea fede stalinista, la politica dovrebbe parlar d’altro. Bene finché si occupa di gay pride, di terzo mandato per i presidenti di Regione, delle solite beghe sulla giustizia; male, malissimo se vuole occuparsi di politica internazionale, guerra e riarmo. Non sia mai! Quelle son cose serie che si decidono a Washington e Bruxelles.
Del resto, sempre in un’intervista col solito Vespa, nel gennaio scorso Gentiloni definiva la politica estera di Giorgia Meloni come (testuale) “una meraviglia”, dato che da settant’anni l’Italia è atlantista ed europeista, e questo governo non fa certo eccezione.
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La manovra turco-britannica per accerchiare la Russia nel Caucaso
di Fabrizio Poggi
Con l'accordo che pare essere stato raggiunto tra Armenia, Turchia e Azerbajdžan, sul cosiddetto corridoio di Zangezur, è possibile già parlare di un quasi accerchiamento, o quantomeno “isolamento” meridionale della Russia da parte di attori regionali sempre più legati alla NATO.
Il minimo che Mosca può attendersi, ipotizza Aleksej Bobrovskij, è la comparsa sul mar Caspio di una base NATO, che può intensificare il proprio lavorio anche verso il Kazakhstan. Non solo: si infittisce anche l'attività euroatlantica per il corridoio “TRACECA” (TRAnsport Corridor Europe-Caucasus-Asia), che significa lo sbocco europeo in Asia centrale. Il quadro generale che ne potrebbe uscire sarebbe uno scossone antirusso nel Caucaso, un indebolimento dell'Iran e una probabile instabilità in Asia centrale. A perdere da tale situazione sarebbero Russia, UE, Iran, i vari paesi dell'area e la Cina, mentre ne beneficerebbero USA e Gran Bretagna.
Del resto, si è già detto del crescente attrito nei rapporti Mosca-Baku, in parallelo con le macchinazioni UE in Armenia, quale disegno turco-britannico volto all'apertura di un secondo fronte, questa volta meridionale, dopo quello sudoccidentale ucraino, contro la Russia, per scalzarla dalla regione, nonostante i rapporti storicamente amichevoli tra Russia e Azerbajdžan.
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Ottuse genuflessioni
di Alessandro Volpi*
Ottusità. La guerra commerciale degli Stati Uniti verso l'Europa è in corso, con dazi al 10%, come tariffa generale, al 25% sull'automotive e al 50% su acciaio e alluminio. Per dare un solo dato, esemplificativo, di questo quadro, è sufficiente ricordare che le esportazioni di acciaio italiane negli Stati Uniti sono passate da 900 mila tonnellate a meno di 250 mila.
Ora, Trump, in attesa della scadenza della moratoria il cui termine finale è fissato al 9 luglio, minaccia di aggravare la situazione e fa sapere che stanno per partire lettere in cui sono contenuti aumenti unilaterali dei dazi fino al 70%. In particolare, per i prodotti agricoli europei, i dazi minacciati sono previsti a oltre il 17%: è evidente che si tratta di una misura molto pesante per l'Italia che esporta in Usa prodotti agricoli per quasi 8 miliardi di euro l'anno. In estrema sintesi le guerre commerciali, e in particolare, quelle contro l'Europa sono destinate a infuocarsi, con danni rilevanti sulle nostre filiere produttive. C'è una ragione di questo inasprimento: gli Stati Uniti hanno bisogno di soldi.
Il costo del collocamento del debito federale è diventato insostenibile e l'appena approvato Big Beautiful Bill prevede una ulteriore riduzione delle tasse agli americani, soprattutto, di quelli che hanno patrimoni finanziari, che deve essere coperta - secondo il dettato della stessa legge - con maggiori entrate dai dazi. Dunque, per gli Stati Uniti porre dazi pesanti e costringere i paesi che esportano in terra americana a pagarli è diventata una condizione di sopravvivenza.
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L’imperialismo nell’era Trump. Usa, Cina e le catene del caos globale
di Raffaele Sciortino
Che cos’è l’imperialismo oggi, nell’era di Trump?
Non è una domanda scontata, né una mera speculazione teorica; al contrario, siamo convinti che sia un nodo fondamentale, tanto per chi vuole comprendere il mondo, quanto per chi mira a trasformarlo – partendo, ancora una volta, da dove si è, da dove si è collocati. Un nodo che occorre sciogliere, se vogliamo porci all’altezza delle nuove questioni pratiche e politiche poste dal movimento reale e da questa fase storicamente determinata di guerra sempre più generalizzata. È la porta stretta da cui si è costretti a passare. Ma se vogliamo scioglierlo, crediamo che non possano bastare semplificazioni dottrinarie, facendoci bastare i “sacri testi” nella loro eterna immutabilità. Non ci possono bastare, ma non dobbiamo neanche cadere nell’errore opposto del “nuovismo”, convincendosi che è tutto cambiato, è tutto diverso rispetto a quando l’imperialismo è stato concettualizzato. Per noi, l’ortodossia e il nuovismo sono le due facce della stessa medaglia, le due facce dell’ideologia.
Riportiamo così, dopo l’intervento di Mimmo Porcaro su «L’Italia al fronte», la trascrizione del secondo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra», con Raffaele Sciortino, compagno e ricercatore indipendente che non ha bisogno di presentazioni, già stato ospite a Modena. Da tempo lavora sui temi che stiamo discutendo: I dieci anni che sconvolsero il mondo (2019) e Stati Uniti e Cina allo scontro globale (2022) sono libri estremamente importanti perché hanno la peculiarità di riuscire a coniugare ambiti di analisi che di solito si trovano separati, ossia un ambito “alto” come la geopolitica, le politiche internazionali e la configurazione della globalizzazione, e la dinamica di classe, un livello “basso” solo in senso figurato.
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Bibi chiederà a Trump di bombardare l’Iran? Scott Ritter dice di sì
di Mike Whitney - unz.com
Se l’Iran riprenderà l’arricchimento rifiutando le ispezioni dell’AIEA, Trump colpirà gli impianti sotterranei iraniani con un’arma nucleare B61-11 a basso potenziale.
Di solito si può dire quale parte ha vinto una guerra semplicemente osservando “cosa succede” dopo la fine delle ostilità. Dopo l’annuncio del cessate il fuoco tra Iran e Israele, milioni di iraniani si sono riversati per le strade di Teheran, intonando canzoni patriottiche e sventolando bandiere in una manifestazione spontanea di giubilo. Al contrario, non ci sono stati festeggiamenti o celebrazioni a Tel Aviv o a Gerusalemme, dove l’atmosfera era notevolmente più cupa e tetra. Ciò indica che la maggior parte delle persone crede che l’Iran abbia vinto la guerra.
Non stiamo ignorando il fatto che per Iran e Israele la soglia di successo nel conflitto era molto diversa. In qualità di aggressore, Israele doveva raggiungere i propri obiettivi strategici per poter dichiarare la vittoria, mentre l’Iran doveva solo resistere all’attacco, cosa che ha fatto con grande facilità. A prescindere dall’equità di questo parametro, il risultato è evidente: per 12 giorni, l’Iran ha tenuto testa a Israele, rispondendo colpo su colpo alla sua aggressione, fino a costringerlo a cercare un cessate il fuoco. In breve, l’Iran ha vinto.
Nel suo approccio all’Iran, Israele ha commesso diversi errori di valutazione, compromettendo le sue possibilità di successo. I suoi due errori più grandi sono stati l’eccessiva fiducia riposta nei propri sistemi di difesa aerea multilivello (Arrow 2, Arrow 3, David’s Sling, Iron Dome e THAAD), che si sono rivelati inadeguati a proteggere gli asset strategici del Paese. I pianificatori militari israeliani hanno inoltre sottovalutato in modo grossolano l’impressionante capacità missilistica di precisione di Teheran, che supera l’obsoleto arsenale israeliano e si colloca tra i migliori al mondo. La scorsa settimana, abbiamo fornito un elenco dettagliato delle principali strutture militari, di intelligence, industriali ed energetiche che sono state distrutte dai missili balistici a guida di precisione iraniani e che il sistema di difesa aerea israeliano non è riuscito a intercettare.
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Il nuovo ordine del mondo al tempo delle IA generative
di Roberto Paura
“L’Analytical Engine non ha alcuna pretesa di originare qualcosa. Esso può fare qualsiasi cosa che noi sappiamo ordinargli di compiere. Esso può seguire l’analisi; ma non ha alcune potere di anticipare una qualsivoglia relazione o verità analitica. La funzione della macchina è di assisterci nel rendere disponibile ciò con cui abbiamo già familiarità”
(in Pasquinelli, 2025).
Non stiamo leggendo un commento sulle capacità di ChatGPT e dei suoi emuli, ma la “nota G” delle Notes di Ada Lovelace risalenti al 1843. Lovelace, pioniera di quella che più avanti sarebbe diventata l’informatica, fu assistente di Charles Babbage nella progettazione di una macchina che non fu mai realizzata, l’Analytical Engine appunto, un “motore analitico”, ma fin da allora volle chiarire i limiti del sogno prometeico (e forse, verrebbe da dire, maschile) di una macchina universale che, nelle intenzioni di Babbage, doveva possedere illimitate capacità di calcolo. Secondo Matteo Pasquinelli, tra i più acuti critici in circolazione delle mitologie dell’intelligenza artificiale, docente di Filosofia della scienza all’Università Ca’ Foscari e autore di Nell’occhio dell’algoritmo (vincitore, nell’edizione originale in inglese, del Deutscher Memorial Prize 2024 come miglior libro di teoria critica), la “nota G” di Lovelace rappresenta “la prima liquidazione dell’IA”. Si racconta che Babbage ebbe l’idea di quello che poi avremmo imparato a chiamare computer rimuginando sui numerosi errori delle tavole logaritmiche di inizio Ottocento, necessarie per i calcoli delle rotte marittime su cui si basava l’espansionismo imperiale britannico. “Vorrei che questi calcoli fossero stati eseguiti con il vapore”, avrebbe esclamato. Ma Babbage non cercava una semplice calcolatrice. Il suo motore analitico, garantì, sarebbe stato in grado di “fare tutto, tranne comporre danze popolari” (cit. in Davis, 2003). Ma ora che le IA generative sono in grado di comporre anche danze popolari originali – impresa, peraltro, che riesce loro anche meglio di un calcolo logaritmico – dovremmo allora ammettere che il motore analitico di Babbage sia diventato realtà?
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Premio Strega, Bajani e il giochino del patriarcato che si è rotto....
di Paolo Desogus
Leggo che Andrea Bajani, ieri, a caldo, appena ricevuto il premio Strega, ha dichiarato che "anche i maschi devono contestare il patriarcato". Benissimo! Il suo romanzo parla di quello. Sino a poco tempo fa, chi si fosse soffermato sula banalità dell'affermazione sarebbe stato tacciato di complicità con il patriarcato, un po' come qualche scellerato ancora accusa di antisemitismo chi critica Israele.
Temo che però qualcosa sia andato storto. Purtroppo per Bajani il giochino si è rotto.
Dichiarare guerra al patriarcato, senza peraltro darne una definizione (cosa tutt'altro che scontata e semplice se preso sul serio come questione reale e non in modo opportunistico) non significa niente, nulla. La lotta al patriarcato e molte altre questioni prossime a questo tema sposate da quel ceto medio riflessivo "benestante e soddisfatto", da tempo asserragliato nei centri storici delle grandi città, hanno solo un significato esteriore. Indicano solo secondariamente un problema sociale concreto, su cui occorrerebbe soffermarsi senza opportunismi. E non definiscono una prassi politica. Per dirla con Barthes, non esprimono un significato denotativo, ma solo connotativo: non servono infatti a definire il problema, ma solo il loro contorno. Sono infatti le parole d'ordine che questo gruppo sociale impiega per costituirsi come clan; per rendersi riconoscibile sul piano sociale, culturale; per stabilire i criteri della propria appartenenza.
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La Cina offre un’alternativa al “tecnofeudalesimo” occidentale
di Simon S.H. Chan*
All’inizio del secolo, l’innovazione globale seguiva un copione occidentale. La Silicon Valley dominava il mondo nell’innovazione. L’Europa esportava standard e governance. L’Asia, invece, era relegata a ruolo di produttore, assemblatore e consumatore.
Ma l’ordine globale dell’innovazione sta cambiando. Secondo l’ultimo Edelman Trust Barometer, la trasformazione riguarda non solo le capacità tecniche, ma anche il sentimento pubblico. In Cina, il 72% delle persone si fida dell’intelligenza artificiale (IA), rispetto al 32% negli Stati Uniti e al 28% nel Regno Unito. Modelli simili si riscontrano in India, Indonesia, Malaysia e Thailandia, dove i mercati asiatici in via di sviluppo superano costantemente le controparti occidentali e sviluppate nella fiducia pubblica verso l’innovazione.
Questo è cruciale perché, senza fiducia, anche le tecnologie più avanzate si bloccano. Dove la fiducia è alta, l’adozione accelera, l’allineamento istituzionale si rafforza e la collaborazione pubblico-privato si approfondisce. Ciò funge da potente catalizzatore, soprattutto per un Paese come la Cina, la cui strategia di innovazione è strettamente intrecciata con gli obiettivi di sviluppo nazionale e la missione di autosufficienza. Queste dinamiche si svolgono sullo sfondo di una più ampia divergenza filosofica su come governare l’innovazione.
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Il Maccartismo (insito) nella storia degli USA
di Alessandra Ciattini - Futura Società
Perché è sbagliato pensare al maccartismo come a un fenomeno durato qualche decennio. Si tratta di una corrente politico-culturale insita nel paese
La solita vulgata storica ci fa credere che il Maccartismo, la grande campagna sviluppatasi negli Usa dalla fine degli anni 40 agli anni 50 del Novecento sia stato solo un episodio isolato e anche giustificato, mentre è un tratto costitutivo sempre presente nel clima culturale e intellettuale di quel paese e che oggi, secondo la grande storica Ellen Schrecker, di origine ebrea e membro dell’Associazione dei docenti universitari statunitensi, si sta manifestando in maniera ancora più virulenta.
Intervistata da «Democracy now», la Schrecker descrive l’attacco sferrato da Trump alla vita accademica e scientifica, sottolineando un’importante differenza: durante l’era associata al senatore Joseph McCarthy, nel 1954 censurato dallo stesso senato e probabilmente morto alcolizzato, venivano presi di mira e colpiti in vari modi docenti individuali soprattutto per le loro attività extra-curriculari, in particolare quelli che avevano avuto rapporti con il Partito comunista; oggi si interviene, si condanna e si reprime tutto ciò che avviene nelle università, generando un clima di paura e imponendo una forte censura assai peggiore di quello che si sperimentò durante il maccartismo. Addirittura, la storica statunitense, che ha studiato anche la storia delle università del suo paese, sostiene che mai si era assistito a un attacco così violento all’alta educazione minimizzato dalla stampa allineata al potere.
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Con Primo Levi tra le macerie del genocidio. Il mondo dopo Gaza di Pankaj Mishradi
di Michele Sisto
Come Auschwitz, come Hiroshima, anche Gaza entra nella storia come simbolo dell’ennesimo collasso morale della nostra civiltà. Uno spartiacque. Come tale lo hanno riconosciuto, tra gli altri, filosofi come Roberta De Monticelli e Franco Berardi ‘Bifo’, in libri usciti in questi mesi. A spingere anche Pankaj Mishra a scrivere Il mondo dopo Gaza è in primo luogo un impulso etico, e il bisogno di elaborare un lutto, anzi, una molteplicità di lutti. Quello, innanzitutto, per la distruzione di centinaia di migliaia di vite in Palestina e per la cancellazione di un’intera cultura, dalle moschee alle università, dai cimiteri al paesaggio naturale. Ma anche il lutto per il ‘suicidio di Israele’ – la formula è della storica Anna Foa – precipitato dall’utopia coloniale di Theodor Herzl nella barbarie genocida di Netanyahu e complici. Il lutto, inoltre, per la demolizione del diritto internazionale, perseguita non solo da Israele, che pure gli deve la sua esistenza, ma da quelle stesse potenze che lo hanno usato per imporre al mondo il loro ordine. Il lutto, ancora, per le libertà d’informazione e d’opinione, logorate da quella sorta di neomaccartismo ‘anti-antisemita’ che da Berlino a New York colpisce con intimidazioni, censure, manganellate, arresti e persecuzioni studenti, manifestanti, intellettuali, università, ong, artisti, istituzioni internazionali. «A farmi scrivere», confessa Mishra, è quella che Karl Jaspers ha definito «colpa metafisica», la sofferenza di coloro che assistono impotenti alla barbarie, «una condizione umana diffusa dopo la distruzione in diretta di Gaza», e con essa «il dovere che i vivi hanno nei confronti dei morti innocenti».
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Il debito pubblico italiano continua ad aumentare ed è sempre più in mano a fondi stranieri
di Giorgia Audiello
Nonostante i propositi e gli annunci del governo Meloni circa la volontà di aumentare la quota del debito pubblico nelle mani degli investitori italiani, in particolare famiglie e imprese, dagli ultimi dati della Banca d’Italia emerge un quadro contrario alle aspettative e agli annunci fatti dall’esecutivo di centro-destra. Dall’ultimo rapporto di Palazzo Koch dal titolo “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”, infatti, risulta che la percentuale di debito nelle mani dei fondi stranieri è salita a marzo dal 31,9 al 32,4% del totale, mentre quella detenuta dagli altri residenti (principalmente famiglie e imprese non finanziarie) è lievemente diminuita al 14,3 per cento (dal 14,4 per cento). Anche la quota di debito in mano alla stessa Banca d’Italia ha continuato a diminuire, scendendo ad aprile al 20,2%, dal 20,5% del mese precedente. I dati smentiscono la dichiarazione di Giorgia Meloni risalente al 28 aprile 2024, secondo cui «Il debito sta tornando nelle mani degli italiani grazie al successo dei Btp Valore». Allo stesso tempo si registra anche un aumento del debito delle pubbliche amministrazioni, in aumento di 30,1 miliardi rispetto al mese precedente, raggiungendo la cifra di 3.063,5 miliardi.
Tuttavia, al contrario di quanto propugnato a reti unificate dalla narrazione dominante neoliberista, il problema del debito non è un problema in termini assoluti, ma è da mettere in relazione a due elementi fondamentali: il suo valore in rapporto al PIL (prodotto interno lordo) e la composizione del debito per detentori.
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L’arma MOSAIC dell’AIEA: spionaggio predittivo e guerra all’Iran
di Redazione - Kit Klarenberg*
Kit Klarenberg è un giornalista britannico che ha prodotto varie inchieste di spessore sull’Ucraina e sul complesso quadro mediorientale. Per questo, è finito nel mirino della repressione della corona di Londra, secondo la quale non è possibile criticare gli indirizzi di politica estera del Regno Unito, degli Stati Uniti e dei loro alleati in guerra.
Per questo, nel giugno 2023, fu addirittura detenuto e interrogato per ore dall’antiterrorismo britannica all’aeroporto di Luton, a Londra. In quell’occasione, i poliziotti gli sequestrano i dispositivi elettronici, le carte bancarie e le schede digitali di memoria. Questo è il modo in cui la libera informazione viene trattata in Occidente… lo abbiamo visto bene anche con Julian Assange.
Oggi pubblichiamo un suo articolo, apparso il 2 luglio sul giornale online The Cradle. Pochi mesi fa, ne avevamo pubblicato un altro sulle interferenze statunitensi in Iran, che avevano tra l’altro l’effetto finale di scoraggiare qualsiasi genuina crescita di un’opposizione reale al governo degli Ayatollah.
Ora Klarenberg è tornato sull’Iran, e sul suo rapporto con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. A suo avviso, gli strumenti usati da quest’ultima istituzione, forniti da Palantir (l’azienda stelle-e-strisce che si occupa di analisi di Big Data e di piattaforme di gestione per l’IA, ma sempre più interessata al settore bellico) e ‘nutriti’ di dati creati ad arte da Israele, hanno aiutato le attività di spionaggio sioniste e hanno poi costruito delle propagandistiche motivazioni pubbliche alla guerra illegale aperta da Tel Aviv contro Teheran.
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Quantofrenia, la patologia dell’anima misurata
di Ilaria Padovan
L’epoca della datificazione della realtà e della crisi della narrazione
Nel 1956 il sociologo russo-americano Pitirim Sorokin coniava il termine quantofrenia per denunciare un fenomeno che, a suo dire, rischiava di svuotare le scienze sociali di ogni profondità: l’ossessione per la misurazione numerica della realtà. In un momento storico segnato dalla volontà di rendere scientificamente affidabili le scienze umane, la quantità sembrava l’unica strada per la legittimazione. Eppure, Sorokin vedeva in questa tendenza un pericolo: ridurre la complessità dell’esperienza umana a semplici dati significava sacrificare la qualità alla contabilità, la comprensione profonda alla superficie della cifra.
Quella che Sorokin descriveva come una deriva potenziale è oggi diventata sistema. Viviamo immersi in un ambiente culturale che ha fatto della datificazione la sua ideologia dominante. Ogni gesto, emozione, desiderio e pensiero può (e deve) essere tracciato, misurato, confrontato. L’essere umano contemporaneo si muove in un ecosistema fatto di tracker, dashboard, KPI (Key Performance Indicator), insight, analytics, convinto che ogni aspetto della sua esistenza sia più vero quanto più numericamente rappresentabile.
Questo non vale solo per le aziende o le istituzioni, ma per la vita quotidiana. Il nostro sonno, il battito cardiaco, la produttività, le emozioni: tutto viene tradotto in dati. Il filosofo sudcoreano-tedesco Byung-Chul Han in La società della trasparenza (2014) ha scritto che “oggi tutto dev’essere trasparente, tutto deve essere visibile, misurabile”.
Ma la trasparenza, apparentemente virtù democratica, si rivela così una forma subdola di controllo: l’efficienza che diventa valore morale. Sempre secondo Byung-Chul Han, “la società della trasparenza è una società della sorveglianza che si maschera da libertà”. Se in teoria sapere tutto di sé dovrebbe renderci più liberi e consapevoli, in pratica ci consegna a un’autosorveglianza continua. La quantità crescente di dati a nostra disposizione non ci rende affatto più lucidi: ci sovraccarica. L’accesso all’informazione è individuale, ma l’elaborazione è lasciata al singolo, senza strumenti, senza tempo, senza tregua. Non è tanto una questione di opacità, ma di asfissia cognitiva.
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Violenza online contro militanti e giornalisti pro Palestina
di Flavio Novara
Sembra che a Modena l’aria stia cambiando e la violenza contro militanti e giornalisti Pro Palestina, anche di questa testata, stia diventando il nuovo sport dei sionisti. Non è da oggi che su questo periodico scriviamo di questioni riguardanti il Medio Oriente e in particolare verso la Palestina e Libano (1). Quanto però, questo nostro interesse in difesa del popolo palestinese e del suo genocidio in corso, comincia a concentrarsi sui legami locali, da tanto tempo nascosti e tollerati dalla classe politica dirigente provinciale e regionale, ecco che i sionisti riemergono dalla loro tranquillità economica e politica e attaccano senza rispetto e raziocinio.
Alcuni giorni fa, infatti sui canali sionisti social, Telegram e Facebook, “Free4Future” e “Israele Senza Filtri”, è apparsa una invettiva violenta, falsa e diffamatoria che mette nel bersaglio con nome e cognome e foto, 2 giornalisti, di cui uno di Alkemianews, 2 attivisti e addirittura il Presidente De Pascale, della Regione Emilia-Romagna.
Il post dal titolo “Intifada contro la tua sicurezza informatica” fa riferimento alla vicenda della Tekapp, azienda italo israeliana di Formigine (MO), che si occupa di cybersecurity, di cui abbiamo ampiamente scritto (2). Un’azienda che è bene ricordare, nel suo sito vanta legami con la divisione 8200 dell’esercito israeliano, sottolineando che la sua unità a Tel Aviv si avvale di hacker provenienti dall’esercito israeliano.
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Dopo il cessate il fuoco, l'Iran si prepara a una lunga guerra con Israele
di Mohammed Eslami e Ibrahim al-Marashi, middleeasteye.net
In linea con il suo approccio di lunga data basato sulla pazienza strategica, l’Iran non fa passi indietro, ma si sta riarmando e riorganizzando per un confronto prolungato
Un precario cessate il fuoco tra Israele e Iran, mediato dagli Stati Uniti, ha posto fine a uno scambio di attacchi durato 12 giorni, con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu che ha dichiarato vittoria. È stata una delle guerre più brevi del XXI secolo.
Eppure anche l’Iran ha rivendicato vittoria, proprio come fece alla fine della guerra Iran-Iraq, dal 1980 al 1988, la più lunga guerra convenzionale del XX secolo, quando anche l’allora Presidente iracheno Saddam Hussein dichiarò vittoria.
In entrambi i casi, l’obiettivo dell’attacco è stato l’Iran, che ha inquadrato i conflitti come “guerre imposte” (jang-e tahmili), sostenendo che erano state avviate con il “via libera” degli Stati Uniti.
Anche in entrambi i casi, l’Iran ha abbinato la sua dichiarazione di vittoria a un atteggiamento di pazienza strategica (sabr-e rahbordi), una dottrina di moderazione volta a modificare l’equilibrio nel tempo.
Dopo la guerra Iran-Iraq, ha aspettato, lasciando che il tempo e le circostanze giocassero a suo favore. Alla fine sono stati gli Stati Uniti, non l’Iran, a smantellare le armi di distruzione di massa di Saddam durante la Guerra del Golfo del 1991 e poi a rovesciarlo completamente nel 2003.
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Intelligenza artificiale, crisi delle competenze, simulazione del saper fare
di Il Chimico Scettico
Il vero punto di rottura dell'intelligenza artificiale non risiede nella sua capacità di simulare l'intelligenza, quanto piuttosto nel permettere agli utenti di simulare competenze che non possiedono realmente. Questo fenomeno può ridefinire profondamente concetti come autorevolezza, originalità e merito che, in teoria, dovrebbero essere fondanti per una società. Sottolineo "in teoria" perché una società governata in larga parte da simulacri come Baudrillard li ha definiti è già pronta per sostituire intelligenza e competenza con i rispettivi segni.
Il dibattito sull'IA si dovrebbe schiodare dalla dimensione filosofica del passato, incentrata sulla domanda se una macchina possa pensare, per includere l'impatto sociale di queste tecnologie.
C'è una questione già presente: cosa accade quando chiunque può produrre risultati che sembrano provenire da un esperto senza esserlo davvero? L'apparente "democratizzazione" della conoscenza o delle competenze in realtà alimenta un equivoco colossale.
Andiamo indietro nel tempo per dare un'occhiata a una rivoluzione che rimosse barriere all'accesso di una tecnologia. Il boom dei personal computer aveva portato con sé prima quello dei sistemi operativi e poi quello delle interfacce grafiche (MacOS prima, Windows poi). E la maggior parte del software più importante, dal sistema operativo agli applicativi più rilevanti, inclusi quelli per la programmazione, era a pagamento. Poi arrivò Linux, gratuito: qualcuno commentò in chiave marxista, dicendo che i mezzi di produzione erano stati distribuiti alla popolazione.
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Obbedienza
di Alberto Giovanni Biuso
Dal 1943 al 1945 il governo tedesco – il Cancelliere e i suoi più stretti collaboratori – vissero tra il bunker di Berlino e quello costruito in una zona di campagna della Prussia orientale. L’ossessione per la sicurezza era tale che il cibo destinato a Hitler veniva prima assaggiato da delle «donne tedesche giovani e di buona salute», reclutate nei villaggi vicini al bunker. Il film di Soldini Le assaggiatrici è tratto da un romanzo di Rosella Pastorino ispirato a tale vicenda. Le sette donne coinvolte, donne sole perché i mariti erano al fronte o già morti, formano a poco a poco un universo nel quale le diverse idee politiche – una soltanto di esse è convintamente nazionalsocialista –, le vite vissute, le sensibilità e gli obiettivi descrivono le diverse reazioni che è possibile avere di fronte all’ingiunzione, all’ordine, alla richiesta di un’obbedienza perinde ac cadaver. Tutto questo viene raccontato da Silvio Soldini con chiarezza e con ottimi ritmi narrativi.
Ben al di là del caso specifico, e certo eccezionale, il film è interessante proprio come paradigma dell’obbedienza. Seguendo con attenzione trama, paure, reazioni, fatti, si comprende quanto fondamentale e pervasivo sia tale paradigma per le vite umane individuali e collettive. E quanto pericoloso esso sia, persino distruttivo. Rivolgendosi alla SS della quale è diventata l’amante, la protagonista Rosa Sauer afferma: «Tu non sei un uomo, tu sai solo obbedire, sempre e comunque». Anche quando l’ordine è di morte, soprattutto quando l’ordine è di morte e riguardi donne e bambini indifesi.
È quanto sta accadendo a Gaza, dove i soldati dell’IDF, l’esercito di Israele, procedono senza incertezze a dare la morte a centinaia di migliaia di bambini e di donne.
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Oltrepassare la pigrizia… e il lavoro
di Anselm Jappe*
Proponiamo questa breve riflessione di Anselm Jappe, ancora una volta sulla questione del lavoro, tema centrale per la Critica del Valore (Wertkritik) – corrente di pensiero a cui anche lo stesso Jappe appartiene.
Può sembrare una perdita di tempo, oggi, a fronte di catastrofi ecologiche e umanitarie, massacri e guerre, disoccupazione endemica e diffusa miseria crescente, occuparsi una volta di più della tematica del lavoro, soprattutto nell’ottica in cui lo fa la critica del valore, cioè quella – detto con una battuta e in modo insufficiente – del «rifiuto» del lavoro. Un rifiuto certo motivato, non un semplice vezzo da abitanti benestanti del primo mondo, se è vero che, come sostiene questa corrente di pensiero riprendendo soprattutto quello che loro definiscono il «Marx esoterico»,1 una tale questione è decisiva per le sorti del capitalismo, nella misura in cui si tratta di un sistema sociale fondato sul lavoro e sull’estrazione di valore che esso permette. Proprio la crisi di questo meccanismo, dovuta alla esplosiva capacità produttiva propria della terza rivoluzione industriale, quella a traino informatico e microelettronico, è la causa prima, secondo questa lettura, degli immani disastri ecologici e sociali a cui stiamo assistendo ormai da decenni. La conseguente carenza di una valorizzazione adeguata per gli ingenti capitali in circolazione toglie al regime del capitale qualsiasi freno inibitorio (al di là delle messinscene green o quant’altro), e lo conduce a cercare la redditività senza più rendere conto a niente e a nessuno, tantomeno a se stesso, entro un vortice distruttivo e autodistruttivo.
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Assistiamo attoniti all’agonia del diritto internazionale
di Alessandro Scassellati
I paesi potenti si comportano come se il diritto internazionale non contasse, o addirittura non esistesse. Un numero crescente di studiosi e giuristi sta perdendo fiducia nel sistema attuale del diritto internazionale. Altri sostengono che la colpa non sia della legge, ma degli Stati che dovrebbero rispettarla. Proprio quando il mondo ha disperatamente bisogno di anziani saggi, il suo destino è nelle mani di vecchi e spietati patriarchi. Il diritto internazionale che presiede all’ordine globale sta venendo smantellato da una generazione di governanti che non vivrà abbastanza per vedere i detriti che si lascia alle spalle
Mentre il mondo è alle prese con un’ondata di conflitti armati, crisi umanitarie e palesi violazioni dei principi fondamentali del diritto internazionale (tra cui attacchi all’indipendenza delle corti internazionali, preoccupazioni sul genocidio e sulle guerre in Medio Oriente), i commentatori si interrogano sempre più sulla rilevanza del diritto internazionale. Ha mai avuto importanza? È mai stato espressione di solidarietà globale e di un’umanità comune? E se sì, perché oggi sta fallendo in modo così catastrofico? Allo stesso tempo – e ironicamente in mezzo a questa turbolenza globale – il diritto internazionale, incluso il diritto dei diritti umani, rimane il quadro normativo più dominante per legittimare e delegittimare i comportamenti sulla scena globale, a dimostrazione della sua persistente influenza anche quando la sua applicazione appare precaria. Con l’espressione “agonia del diritto internazionale” cerchiamo di mettere in luce un dibattito cruciale sull’efficacia e la legittimità del diritto internazionale nell’affrontare le sfide globali. Essa evidenzia il divario tra gli ideali del diritto internazionale e la sua applicazione pratica, in particolare in ambiti come la prevenzione dei conflitti militari, i diritti umani, la tutela ambientale e la giustizia economica.
A fine aprile, alcuni terroristi hanno ucciso 26 civili nella città indiana di Pahalgam, situata nella regione montuosa di confine del Kashmir. L’India ha rapidamente incolpato il Pakistan dell’attacco, ha lanciato attacchi missilistici verso di esso e ha annunciato la sospensione del trattato sulle acque dell’Indo, minacciando di fatto di interrompere i tre quarti dell’approvvigionamento idrico del Pakistan. L’India sta ipotizzando di chiudere il rubinetto a 250 milioni di persone. Ciò violerebbe non solo il trattato, ma anche le leggi internazionali sull’uso equo delle risorse idriche.
I governanti pakistani hanno la spaventosa consapevolezza che non ci sia molto da fare perché assistiamo a un’improvvisa erosione delle istituzioni multilaterali, delle norme istituzionali internazionali.
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Attraversando il continente nero. Letture di Carlo Formenti
di Alessandro Visalli
Tra il novembre 2024 e il marzo 2025, sul blog di Carlo Formenti, Per un Socialismo del Secolo XXI sono stati pubblicati una serie notevole di letture di testi relativi ad autori africani. Questi consentono di aprire una finestra su un enorme e storico dibattito legato alle trasformazioni del ciclo di lotte anticoloniali e al loro esito nell’età unipolare. Lotte che oggi potrebbero trovare l’occasione di una nuova stagione nell’era multipolare che si sta aprendo. Ciò a patto di comprendere gli errori, le compromissioni e le dimenticanze che si sono date.
Apre la serie, composta da sette post, l’analisi di tre autori caratterizzati dal loro impegno marxista: Said Boumama[1], Kevin Ochieng Okoth[2], Amilcare Cabral[3]. Segue la lettura della posizione di Walter Rodney[4], quindi la lettura di alcuni “classici”, ovvero intellettuali militanti della generazione precedente, come Du Bois, Padmore, Williams, James, Césaire[5], quindi la posizione di Cedric Robinson[6]. Infine, il marxismo nero e femminista di Angela Davis[7].
Due correnti: la prassi e la critica del discorso
L’insieme di queste letture illumina una tensione tra due modi di affrontare, dal punto di vista degli attori ‘periferici’, l’apertura critica determinatosi prima nella mobilitazione contro il colonialismo e razzismo occidentale (du Bois, Williams, Césaire, Fanon) e nel contesto delle lotte di liberazione nazionali, influenzate dal ‘socialismo arabo’ e dal marxismo (Okoth, Cabral, Rodney), da una parte, e l’ampia e maggioritaria corrente formatasi in seguito, soprattutto negli anni Novanta, intorno alla reazione alle delusioni e fallimenti della decolonizzazione (Said, Spivak, Bhabha, Hall, Mignolo, Quijano, Mbembe ed altri). Si tratta di una divaricazione su più piani: tra studi (decoloniali) che trovano la loro collocazione essenzialmente entro una svolta epistemologica (circa il modo di definire la verità) e politico-culturale che prende forza in quegli anni nel contesto dell’accademia americana e diventa particolarmente forte nei dipartimenti di letteratura, il post-modernismo; e, dall’altra, in contesti più impegnati nelle lotte contro il neocolonialismo e la sua base ‘razzialistica’ (in base alla distinzione di Cedric Robinson che vedremo tra breve).
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Il lato oscuro dei diritti umani: contro l’uso capitalistico della questione omosessuale
di Eros Barone
1. Società ed omosessualità
La tesi che sta al centro di questo articolo è che il comportamento omosessuale è tanto più diffuso quanto più la società è contrassegnata dall’antagonismo tra i suoi membri, cioè quanto più essa è competitiva. La riprova è costituita, a mio avviso, dalla civiltà della Grecia antica, in cui, come è noto, il comportamento omosessuale si manifestava nella forma della pederastia e rispecchiava fedelmente la struttura di una società ove i maschi liberi vivevano immersi in una dimensione di agonismo permanente (lo studioso Giorgio Colli, ad esempio, fa risalire a questo dato socio-antropologico la stessa nascita della dialettica), 1 così come fortemente agonistici erano i rapporti tra le stesse città dell’Ellade. Non a caso l’istituzione delle Olimpiadi fu anche e soprattutto la valvola di sfogo per tenere sotto controllo questa energia potenzialmente distruttiva, i cui correlati mitologici sono rappresentati da figure come quelle di Eracle e di Achille. Non sorprendono pertanto né la diffusione del comportamento omosessuale in Grecia né la sua progressiva diffusione e legittimazione nella civiltà romana grazie alla progressiva ellenizzazione di quest’ultima, tappa finale del passaggio da una società di tipo patriarcale-solidaristico a una società imperiale-cosmopolita con forti connotazioni individualistiche e competitive.
Per quanto concerne l’esistenza di un nesso inscindibile fra comportamento omosessuale e competitività nelle diverse epoche e nelle diverse società, mi limito solo ad alcuni esempi relativi al settore militare, in cui il modello competitivo trova la sua principale e radicale applicazione, anche se il discorso potrebbe essere più ampio. La falange macedone e il battaglione sacro tebano, formati da oltre un centinaio di coppie omosessuali, possono bastare per l’epoca classica, a meno che non si voglia ricordare l’esclusione dei legionari omosessuali passivi dall’esercito romano, motivata da chiare esigenze di efficienza militare sia nella difesa che nell’attacco.
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