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Da Machiavelli a Moro. Sulla storia politica italiana dal Rinascimento a oggi elaborata da Gianfranco Borrelli
di Valerio Romitelli
Dopo quasi ottant’anni di antifascismo militante e istituzionale, eccoci alla prese con un governo che non si può dire propriamente fascista solo perché è così opportunista e cialtrone che non ce la fa neanche a imitare le fanfaronate ideologiche del Ventennio. Una tragedia dunque che si potrebbe dire ritorna come farsa, ma non senza le sue proprie conseguenze tragiche. Urgerebbero allora bilanci di tutto quello che non è stato fatto per impedire questo ritorno inimmaginabile solo qualche anno fa. Ma non pare che molti dibattiti pullulino a riguardo. Prevale piuttosto il consolarsi pensando che il vento della destra più estrema sta imperversando anche fuori d’Italia, in Europa e nel mondo intero. Vista però anche l’importanza del nostro paese, sia nell’inventare a suo tempo lo stesso fascismo, sia poi nel riscattarsene grazie alla lotta partigiana, resta da chiedersi perché l’attuale riemergere di un passato che si credeva morto per sempre non susciti adeguate reazioni. Di sicuro almeno si è per sempre invalidata l’insulsa teoria già dominante del Ventennio del Duce come parentesi in una storia supposta tutta diversa del popolo italiano. Sarebbe dunque arrivato il momento giusto per cercare di rileggere questa storia come sì punteggiata da situazioni, personaggi e opere politicamente eccellenti, ma anche reiteratamente esposta al pericolo di catastrofiche esperienze simili a quelle di cui il fascismo è stato esempio proverbiale.
Per farsi buone domande a questo riguardo è ora disponibile uno strumento particolarmente stimolante. Suo grande merito è di permettere uno sguardo d’insieme, tanto vasto, quanto dettagliato su tutta la storia politica italiana moderna, giungendo anche a proiettarsi sulla contemporanea.
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Hamas: la storia che in Occidente non si può raccontare
di Roberto Iannuzzi
L’ascesa con il sostegno di Israele, la vittoria elettorale del 2006, il tentato golpe americano ai suoi danni e la frattura palestinese, la prigione di Gaza, la demonizzazione del movimento
Dopo il sanguinoso attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, una componente chiave della propaganda di guerra condotta dai media e dalla classe politica in Israele, ma anche in alcuni paesi occidentali, è stata il tentativo di dipingere il gruppo islamico palestinese come un equivalente dell’ISIS.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha riproposto più volte questa analogia, affermando che “così come le forze della civiltà si sono unite per sconfiggere l’ISIS, esse devono appoggiare Israele nello sconfiggere Hamas”.
Quella di Netanyahu è una formulazione non nuova – visto che già all’Assemblea generale dell’ONU del 2014 egli aveva affermato che “Hamas è l’ISIS e l’ISIS è Hamas” – ma sembra aver assunto una valenza ulteriore nei giorni scorsi.
Il segretario alla Difesa USA Lloyd Austin ha definito “peggiore dell’ISIS” ciò che Hamas ha compiuto il 7 ottobre, mentre il presidente francese Emmanuel Macron ha addirittura suggerito che la coalizione internazionale creata per combattere l’ISIS venisse estesa alla lotta contro Hamas.
In altre circostanze, come ad esempio in occasione di una recente conferenza stampa assieme al cancelliere tedesco Olaf Scholz, Netanyahu ha invece definito Hamas “i nuovi nazisti”, aggiungendo che la ferocia mostrata dal gruppo “ci ricorda i crimini nazisti durante l’Olocausto”.
Demonizzazione, decontestualizzazione, destoricizzazione
Questa retorica è stata poi ulteriormente estremizzata e generalizzata per accusare non più solo un gruppo armato (che tuttavia è anche un movimento politico), ma un intero popolo.
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L'India nello scacchiere geopolitico attuale
di Paolo Arigotti
La collocazione dell’India nello scacchiere geopolitico internazionale è estremamente interessante per la posizione che il subcontinente occupa rispetto ai diversi attori: oggi ci concentreremo, in particolare, sui rapporti con la Cina.
Al pari della Repubblica Popolare, l’India è uno dei paesi fondatori dei BRICS, dopo essere stata a lungo, nel periodo della guerra fredda, uno dei leader del fronte dei cosiddetti non allineati, fatto che non le impedì di intessere rapporti molto stretti con l’allora Unione Sovietica; inoltre, assieme a Cina, Russia e altri sei stati è membro dell’Organizzazione per la cooperazione di Shangai (SCO).
Allo stesso tempo, l’India ha siglato, anche recentemente, importanti accordi politici e militari con gli Stati Uniti, dopo che nel 2017 le due nazioni – assieme a Giappone e Australia – avevano dato vita al Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quadrilateral Security Dialogue, QUAD), un patto strategico informale per contenere l'espansionismo cinese nell'Indo-Pacifico; Delhi, inoltre, fa parte dell’ulteriore iniziativa multilaterale dell’IPEF, Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity e della I2U2, con USA, Israele ed Emirati.
Il comune denominatore che caratterizza molte di queste iniziative, a cominciare dal QUAD, nessuna delle quali mai elevata al rango di alleanza militare vera e propria, affonda le radici nella comune consapevolezza che nessuna nazione, da sola, sarebbe mai stata in grado di fronteggiare la crescente potenza militare cinese, consentendo agli americani di riunire attorno a sé diversi paesi amici che l’aiutino a presidiare una regione sempre più strategica, oltre a fungere da strumento di deterrenza per quegli stati che si fossero mostrati disponibili ad accogliere le offerte d collaborazione di Pechino, vuoi perché timorosi della sua forza o semplicemente perché attratti dagli investimenti promessi dal Dragone.
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La teoria del valore di Karl Marx per comprendere il funzionamento del capitalismo oggi
Gianni Del Panta intervista Guglielmo Carchedi e Michael Roberts
La recente uscita di Capitalism in the 21st Century: Through the Prism of Value (Londra: Pluto Press, 2023) rappresenta un’occasione importante per comprendere se e in quale misura la teoria del valore formulata da Karl Marx un secolo e mezzo fa continui a essere un valido strumento teorico per decriptare il funzionamento del capitalismo nella nostra epoca. Dato che il libro è attualmente disponibile solamente nella versione inglese, abbiamo deciso di intervistare i due autori per rendere fruibile anche al pubblico italiano non anglofono i principali contenuti del testo.
Guglielmo Carchedi e Michael Roberts sono due dei più apprezzati economisti marxisti e la loro collaborazione ha affrontato negli anni alcuni dei nodi centrali della teoria marxista, come la caduta tendenziale del saggio di profitto e l’appropriazione di plusvalore da parte degli stati più avanzati tecnologicamente ai danni di quelli che lo sono meno – ovvero, la determinante economica dell’imperialismo moderno, secondo la loro stessa formulazione.
* * * *
Caro Guglielmo, nel libro che hai scritto assieme a Michael Roberts c’è un chiaro tentativo di rivendicare come la teoria del valore di Karl Marx rappresenti il punto di partenza centrale per comprendere le leggi di movimento del capitalismo nel nostro tempo. Per i lettori che non hanno familiarità con questa teoria, quali sono i suoi assunti principali? E perché e come questa teoria si differenzia dalle principali spiegazioni fornite dall’economia mainstream?
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Indipendenza nazionale, socialismo e lotta per il multipolarismo
di Leonardo Sinigaglia
Il passaggio a un mondo multipolare è ormai uno dei temi più dibattuti e presenti all’interno dello scenario politico internazionale.
Quello che fino a qualche anno fa rappresentava un fenomeno “di nicchia”, intuibile (in Occidente) solo da pochi individui e organizzazioni, è ormai diventato un qualcosa di palese, oggettivo e innegabile anche per le grandi masse. Come più volte ribadito dal presidente Xi Jinping, ci si trova innanzi a cambiamenti mai sperimentati da un secolo a questa parte, a un passaggio di fase profondo destinato a definire i decenni a venire. Questo cambiamento è associato a una contraddizione, quella tra le spinte alla multipolarizzazione del mondo e l’imperialismo egemonico statunitense. Tale scontro viene in Occidente definito principalmente in tre modi: il tentativo di costruzione di un’egemonia alternativa, da cui l’ordine liberale dovrebbe difendersi; la lotta tra “opposti imperialismi”, egualmente reazionari e distanti dagli interessi della classe lavoratrice; uno conflitto destabilizzante che solo collateralmente può aprire spazi d’azione politica per il “movimento comunista”. Tutte queste tre visioni sono fondamentalmente errate e strettamente connesse l’un l’altra in quanto espressione, seppur in diverse gradazioni e forme, dell’adesione ideologica e materiale al sistema imperialista e all’incapacità di pensare altrimenti rispetto alle sue prospettive ideologiche.
Il multipolarismo è la negazione dell’egemonia
Il sistema liberal-boghese non è in grado e non è interessato a comprendere come possano esistere mentalità diverse da quella predatoria che lo caratterizza.
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La realtà ostaggio da smontaggi e ricostruzioni artificiali
di Silvia Guerini
Le teorie post-moderne proseguono l’opera di decostruzione della realtà rendendola ostaggio del discorso, ma oggi siamo ben oltre questo processo di decostruzione e risignificazione della realtà: sono l’esistenza stessa della realtà e della verità a essere sotto attacco, assediate da costruzioni sintetiche e artificiali che senza il bisogno di imporsi diventano l’unico orizzonte di senso possibile e immaginabile. Una realtà de-fatticizzata trasformata in un processo rimodellabile a piacimento. Una realtà proteiforme, fluida, instabile, volatile, effimera e istantanea: le caratteristiche del presente cibernetico e transumano. Nulla che dia solidità e appiglio, nulla in grado di reggere questi tempi di disgregazione e cancellazione, nulla su cui soffermarsi, nulla che possa trattenere. Tutto scivola e viene inghiottito nell’universo-Macchina.
Hannah Arendt descrive la verità come la “terra sulla quale stiamo e il cielo che si stende sopra di noi”1, verità che possiede la solidità dell’essere. Una solidità che oggi svanisce. La verità oggettiva si sgretola, si scompone in molteplici forme e le sensazioni soggettive prendono il posto delle realtà oggettive. La verità, da questione ontologica, diventa mero sentire soggettivo infinitamente scomponibile e ricomponibile dai riprogettatori dell’umanità sintetica.
In assenza di tensione per la verità la società si può reggere solo sulla menzogna, come insegna Simone Weil. La verità è fondamento esistenziale dell’umano, la sua disintegrazione corre parallela con la disgregazione della società.
Dall’assedio ai corpi e al vivente nei suoi più intimi processi arriviamo all’assedio della stessa realtà. La grande battaglia oggi è per l’esistenza stessa della realtà. Il punto di non ritorno è più vicino che mai, ma quando ci arriveremo molti non ne saranno consapevoli. Ciò che dai più è stato accettato oggi sarà la condizione necessaria di quello che sarà accettato domani.
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Il seme della violenza. Parte II
Dal 1948 al nuovo secolo
di Domenico Moro
Il periodo che va dalla fine della guerra del 1948, definita dai sionisti prima guerra di indipendenza e dai palestinesi Nakba (disastro), fino all’inizio del XXI secolo è caratterizzato da un quadro di grande complessità e denso di forti contraddizioni a livello sia regionale sia mondiale, che ha reso a tutt’oggi la questione palestinese ancora senza soluzione.
- 1. La fondazione del nuovo stato di Israele
La guerra del 1948 lasciò due questioni irrisolte. La prima fu il riconoscimento internazionale di Israele, che, sebbene riconosciuto dalla maggior parte dei Paesi (compresa l’Urss), non ebbe il riconoscimento dei Paesi arabi limitrofi. La seconda fu la questione della collocazione dei profughi palestinesi, che si ritrovarono senza terra e senza Stato.
Lo Stato sionista, comunque, beneficiò di alcuni vantaggi rispetto ai Paesi del Terzo mondo che, alla fine del colonialismo, si resero indipendenti. Mentre questi ultimi dovevano adattare le istituzioni ereditate dalla potenza colonialista o costruirle ex novo, Israele poteva contare su istituzioni formatesi nel corso del mezzo secolo precedente. Israele poteva beneficiare, inoltre, dell’aiuto degli ebrei della diaspora, che fornivano sostegno politico ed economico al nuovo Stato. Si trattava di una sorta di assicurazione economica di cui gli altri Paesi di recente costituzione erano privi.
Israele si caratterizzò sin dall’inizio come uno Stato confessionale. Infatti, mentre impediva il rientro dei Palestinesi fuggiti durante la guerra del 1948, sollecitava l’immigrazione degli ebrei provenienti da tutto il mondo. Nel 1950 il parlamento israeliano votò la cosiddetta Legge del ritorno, il cui primo articolo stabiliva: “Tutti gli ebrei hanno diritto a immigrare nel Paese”. Del resto, lo Stato sionista si appropriò del 94% delle proprietà dei palestinesi fuoriusciti, assegnandole a ebrei israeliani.
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Introduzione al “Manifesto contro il lavoro”
di Massimo Maggini*
Gruppo Krisis: Manifesto contro il lavoro e altri scritti, introduzione di Massimo Maggini, prefazione di Anselm Jappe, postfazione di Norbert Trenkle, Mimesis ed. 2023
Presentiamo qui l’edizione rinnovata ed ampliata del Manifesto contro il lavoro del gruppo Krisis. L’originale apparve in Germania nel “lontano” giugno 1999, in forma autoprodotta, e in Italia nel 2003 per i tipi di DeriveApprodi. Successivamente in Germania sono uscite altre tre edizioni, la seconda già nel settembre 1999, la terza nell’ottobre del 2004 e la quarta ed ultima nel gennaio 2019, in occasione del ventennale della prima uscita. In quest’ultimo caso, il Manifesto è stato corredato di una post-fazione scritta da Norbert Trenkle, che includiamo nel presente libro, con il quale in qualche modo proviamo a celebrare, anche in Italia, il ventennale della prima edizione italiana, arricchendola con altri testi.
Da quel primo anno, in cui è stato elaborato e ha preso forma il Manifest, molta acqua è passata sotto i ponti. Si sono succedute – e continuano a succedersi – guerre apocalittiche, movimenti sono nati e morti, emergenze su emergenze si sono avvicendate ed eventi decisivi hanno cadenzato la nostra esistenza. A fare da filo conduttore di tutti questi avvenimenti, solo apparentemente slegati fra loro, un motivo è però rimasto costante: la crisi strutturale del sistema capitalistico, che ha preso forma compiuta in modo inquietante e risoluto – benché già presente in nuce anche prima – almeno dalla fine degli anni ‘70, cioè in coincidenza, non casuale, della fine dei cosiddetti “30 anni gloriosi” e il boom economico che li aveva caratterizzati.
Ma cosa c’entra il “lavoro” con tutto questo? Soprattutto, perché muovergli una “critica” in tempi di crisi, quando molti, anzi, ne lamentano a gran voce la mancanza?
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Dalla parte di Nebogatov. Il tranello della geopolitica e il degrado del dibattito sulla guerra
di Jacopo Lorenzini
Nel 1936 lo scrittore tedesco Frank Thiess dà alle stampe un libro destinato ad una duratura fortuna editoriale. Si intitola Tsushima. Il romanzo di una guerra navale. Nelle pagine della sua opera (un romanzo basato su fonti storiche rigorose, prototipo di un genere che proprio oggi conosce una rigogliosa fioritura) Thiess narra della disastrosa spedizione della Flotta russa del Baltico attorno al Capo di Buona Speranza per andare a combattere la flotta giapponese nelle acque dello Stretto di Corea: una spedizione conclusasi con la disfatta di Tsushima, appunto, e con l’umiliazione dell’Impero zarista nella guerra russo-giapponese del 1905.
Ma Thiess trasforma la storia di quello che è stato senza dubbio un disastro politico e militare, in una narrazione epica. Una narrazione che conosce solo eroi, sia tra i marinai russi che tra quelli giapponesi, tutti egualmente degni di rappresentare «il più puro spirito militare». Tutti tranne uno: il contrammiraglio Nikolaj Ivanovič Nebogatov.
Nebogatov è il comandante del terzo squadrone della flotta russa. Il suo contingente è composto da quattro vecchie corazzate, tre delle quali sono unità adatte a malapena per la difesa costiera. Sono navi tecnicamente superate, che lo stesso comandante in capo Rozhestvenskiy considera d’impaccio per il resto della flotta. Durante la battaglia di Tsushima lo squadrone di Nebogatov viene sostanzialmente ignorato dagli ammiragli giapponesi, che condividono la valutazione del collega russo e che lo lasciano da parte, concentrandosi piuttosto sulla distruzione delle più moderne corazzate avversarie.
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Riflessioni su Guerra, Politica e Pace: un’analisi critica
di Alberto Bradanini
Il linguaggio politico è progettato per far sembrare vera la bugia, rispettabile l’omicidio e dare una parvenza di solidità al puro vento (G. Orwell)
Possiamo anche non occuparci della guerra, ma è la guerra che si occupa di noi. A seconda dei criteri di riferimento, le guerre possono classificarsi in giuste, opportune e legali, o anche in un intreccio di tali aggettivazioni.
Il criterio della giustizia dipende dall’ideologia o etica di chi lo invoca, possiede un forte contenuto di soggettività e ad esso fa ricorso in chiave giustificativa chi usa la forza militare per combattere una presunta ingiustizia (termine questo anch’esso aperto a un labirinto d’interpretazioni). Il criterio dell’opportunità si caratterizza invece per una forte valenza politica: a un certo punto, secondo il ragionare di alcuni, la guerra emergerebbe come sola risoluzione di contenzioni altrimenti irrisolvibili. Il criterio della legalità, infine, sulla carta appare il meno incerto, il solo che possieda i contorni di una qualche riferibilità oggettiva: per il diritto internazionale, infatti, la guerra diventa legittima in due casi: a) quando è autorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (evento invero assai raro); b) in caso di legittima difesa, ai sensi dell’art. 51 della Carta delle N.U., nel qual caso, per restare nel recinto della legittimità, la reazione deve rispettare i principi di moderazione e proporzionalità.
Sui teatri di guerra, alla violenza militare codificata dal diritto s’accompagna spesso un’altra pratica, il cosiddetto terrorismo, una pratica la cui nozione condivisa è tuttora assente tra le norme internazionali.
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Effetti culturali dell’economia neoliberista
di Luca Benedini
I pesanti impatti del neoliberismo e della sua intrinseca mentalità patriarcale sulla vita quotidiana delle persone e sulla loro sfera interiore
(prima parte: un intreccio di precarietà e consumismo, con le facilitazioni fornite dalla pesantissima caduta qualitativa della “politica di sinistra” nel ’900)
Ci vuole tempo per amare
E libere menti per amare,
E chi è che ha tempo nelle mani?
– Jorma Kaukonen
dalla canzone Star track, incisa nell’album Crown of Creation (1968), dei Jefferson Airplane
Qui nella Buona-Vecchia-Dio-Salvi-L’America
La patria della gente coraggiosa e libera
Siamo tutti dei codardi, oppressi senza speranza
Da qualche dualità
Da una molteplicità senza posa
– Joni Mitchell
dalla canzone Don Juan’s reckless daughter, incisa nell’album omonimo (1977)
Si è già accennato – nel precedente intervento Il neoliberismo non è una teoria economica [1] – che il neoliberismo tende a trasformare nei fatti la società in una scoordinata aggregazione di persone mosse soprattutto da interessi materiali di tipo egoistico. Ciò innanzi tutto come effetto del fatto che i neoliberisti vedono il mondo come un’arena gladiatoria in cui le élite economiche possono utilizzare e manipolare pressoché a proprio piacimento le altre classi sociali – fino anche, come spesso accade, a logorarle sino allo sfinimento o a sostanzialmente stritolarle – usandole come ingranaggi, servi, oggetti, giocattoli oppure scarti [2]: un’arena in cui ciascuno è spinto ad arrangiarsi per sopravvivere e cavarsela, a titolo individuale o al massimo famigliare. E la realtà sociale degli ultimi decenni mostra che, di fatto, attualmente le élite in questione non solo valutano di poterlo fare, ma solitamente prendono anche in pratica la strada del farlo con grande applicazione....
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Il sionismo ideologia razzista di un movimento coloniale
di Ilan Pappé
Quella che segue è una conferenza tenuta da Ilan Pappé il 19 ottobre scorso all’università di Berkeley in California (il titolo è nostro). Pappé, attualmente direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeterer nel Regno Unito, è uno storico che ha insegnato all’università di Haifa, dalla quale è stato espulso per le sue denunce del carattere razzista del sionismo e per il suo lavoro di storico che ha documentato in modo inoppugnabile la pulizia etnica della Palestina che i sionisti hanno sempre cercato di occultare attribuendola a cause diverse ma non a una loro deliberata programmazione. Il suo lavoro del 2006 su questo argomento è disponibile anche in italiano (La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore 2008). Sua tra molte altre anche l’opera su Gaza e Cisgiordania, anche questa disponibile in italiano (La più grande prigione del mondo, storia dei territori occupati, Fazi Editore, 2022).
Video originale sotto:
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Il 7 ottobre e la “crisi di nervi” di Israele
di Giacomo Gabellini
Uno degli obiettivi cruciali perseguiti da Hamas attraverso l’operazione al-Aqsa Flood sferrata lo scorso 7 ottobre consisteva con ogni probabilità nel produrre una radicale destabilizzazione psicologica della società israeliana, in modo da disintegrare molte di quelle che i comuni cittadini israeliani consideravano alla stregua di certezze granitiche, a partire dall’infallibilità delle forze armate e dell’intelligence israeliana, nelle sue articolazioni del Mossad, dello Shin Beth e dell’Aman. La visione dei carri armati in fiamme, delle decine di mezzi caduti può considerarsi raggiunto, se è vero – come è vero – che con il suo operato da elefante in una cristalleria la classe dirigente di Tel Aviv sta guastando in sotto il controllo delle brigate al-Qassam, di migliaia di coloni in fuga o catturati e brutalizzati e/o assassinati hanno fatto pericolosamente vacillare il mito della invincibilità israeliana.
Sul quale va peraltro proiettandosi un’ombra, se possibile, ancor più inquietante, che emerge da alcune inchieste realizzate da «Haaretz» sulla base di testimonianze dirette rese da cittadini israeliani coinvolti nella vicenda. Tuval Escapa, un membro della squadra di sicurezza del kibbutz Be’eri che aveva istituito una linea di comunicazione diretta con l’esercito israeliano, ha dichiarato al quotidiano israeliano che, nel momento in cui le brigate al-Qassam sono dilagate nei territori limitrofi alla Striscia di Gaza, «i comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili, tra cui quella di bombardare gli edifici occupati dai terroristi, che avevano tuttavia portato con sé decine di ostaggi». Secondo «Haaretz», l’esercito è stato in grado di ripristinare il controllo su Be’eri solo dopo aver ammesso di aver “bombardato” le abitazioni degli israeliani che erano stati fatti prigionieri. «Il prezzo – riporta il quotidiano – è stato terribile: almeno 112 residenti di Be’eri sono stati uccisi».
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Il nuovo disordine mondiale / 23: Israele perduta tra le sue guerre
di Sandro Moiso
Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)
Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)
Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e filo-occidentale più in generale, non ha potuto fare a meno di notare che in quei 76 secondi di messaggio, filmato e trasmesso da Hamas il 30 ottobre dall’inferno di Gaza, le parole e l’urlo di Danielle Aloni, la donna presa in ostaggio insieme alla figlia di sei anni durante l’incursione del 7 ottobre, segnano una definitiva rottura di fiducia tra gli ebrei di Israele e l’attuale capo del governo Benyamin Netanyahu, la sua conduzione di una guerra scellerata e la pericolosità di una politica di occupazione coloniale sempre più genocidaria e arrogante. Ma non solo.
L’urlo di Danielle, insieme ai sondaggi che rivelano come un israeliano su due sia contrario all’operazione di terra a Gaza1, rivela una frattura più profonda. Quella che formalmente ha iniziato a manifestarsi da tempo con le dimostrazioni di piazza contro il governo Netanyahu, ma che da tempo una parte della comunità ebraica denunciava e continua a denunciare, dentro e fuori le mura del ghetto dorato di Israele.
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Menzogne e verità sulla cancellazione del Reddito di Cittadinanza
di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera
Il dibattito sull’abolizione del Reddito di Cittadinanza è stato viziato da alcuni elementi che hanno reso difficile comprendere fino in fondo il significato politico della Controriforma
Lo scontro fra chi difendeva il RdC e quanti invece volevano eliminarlo si è svolto soprattutto attorno alla tragedia di quei 130.000 mila nuclei familiari (14,8% sul totale) per i quali il Reddito sarebbe stato cancellato già a fine luglio di quest’anno. Tuttavia, l’effetto di questo processo di Controriforma va ben oltre le sofferenze economiche e di vita alle quali le famiglie in questione dovranno fare fronte… A nostro parere, l’aspetto principale consiste nel tentativo di ridurre il costo del lavoro dei cosiddetti working poor, di quei lavori che già oggi vengono pagati pochissimo, con orari spesso estenuanti, in un contesto di forte deregolamentazione normativa, di ricatto e di assai irrisori e sporadici controlli sulle imprese. In tal senso non possiamo non evidenziare il carattere parziale, e per certi versi fuorviante, del dibattito inscenato in Parlamento nel corso dell’estate. Ci si è concentrati su un solo aspetto (il 14,8% di revoche), guardandosi bene dal discutere dei caratteri complessivi della riforma, sì da evitare che questi acquisissero una proiezione mediatica.
Il silenzio ha poi riguardato anche un altro aspetto, quello della riduzione degli anni di residenza necessari per percepire il Reddito (o, meglio, il sussidio che andrà a sostituirlo) da 10 a 5. Un provvedimento che avvantaggia gli italiani all’estero, certo, ma che in primo luogo viene incontro a lavoratori e lavoratrici immigrati. Tale riduzione non è di certo stata una battaglia “all’ultimo sangue” ingaggiata dal PD in Parlamento, derivando invece dalla promulgazione di una procedura d’infrazione contro l’Italia da parte della Commissione Europea1, 2 soprattutto in quanto il limite di 10 anni comprometterebbe la libera circolazione della forza-lavoro all’interno dell’area comunitaria, disincentivando i cambi di residenza transnazionali dei lavoratori a causa della paura di perdere il sussidio.
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Iran: quale rivoluzione?
A un anno dalla morte di Masha Amini
di Alessandro Mantovani
Un anno è passato dalla scintilla che ha innescato la più recente e imponente ondata di manifestazioni contro il regime iraniano. L’impressionante movimento, che ha visto migliaia di proteste coinvolgenti più di 160 città, come si sa, è stato iniziato dalle donne e questo è un fatto di enorme importanza non solo per l’Iran e i paesi islamici, ma si può ben dire alla scala internazionale. Non in quanto sia il primo movimento che veda le donne protagoniste (altri ve ne sono stati), ma in quanto un movimento femminile per i propri diritti ha fatto da battistrada, da detonatore a una mobilitazione che si è estesa a più ampi strati popolari e anche proletari, dapprima in solidarietà con le donne, poi e sempre più con rivendicazioni generali che si riassumono nella richiesta della fine del regime degli ayatollah.
Decine di migliaia di persone, in maggioranza giovani (soprattutto ragazze, spesso appoggiate dai loro coetanei o familiari maschi), si sono riversate nelle piazze con gesti altamente simbolici e mai riscontrati in precedenza, bruciando lo hjiab e tagliando i capelli in pubblico.
Altro fatto di estrema rilevanza è che subito dopo le donne, a ribollire siano state le minoranze etniche, i curdi, i turchi, gli arabi, i baluci, e che ciò, forse per la prima volta, abbia creato nella società persiana (dove il nazionalismo ha sempre potuto far leva sul timore di una disgregazione dello stato per linee etniche) un afflato di solidarietà e simpatia verso tali minoranze, ossia un riconoscimento della loro situazione di oppressione. Non per nulla il movimento è esploso dapprima nel Kurdistan iraniano: Masha Amini, la giovane la cui morte tra le grinfie della “polizia morale” ha acceso la miccia della rivolta, era curda, doppiamente esclusa quindi dai diritti civili, e l’accanimento dei suoi aguzzini contro di lei non è stato certo estraneo a questa identità).
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Vita, terra e libertà per la Palestina
Alba Vastano intervista Bassam Saleh, giornalista palestinese
“Il conflitto c’è sempre stato, non solo dal 7 ottobre, tra il popolo palestinese e la potenza occupante. Una potenza sostenuta e appoggiata dall’Occidente capeggiato dagli Usa, per tenere tutta la regione del Medio Oriente in stato di instabilità e avere l’egemonia sulle risorse naturali, per la posizione geopolitica, quindi al servizio del capitalismo malvagio, ai produttori e fabbricanti di armi. Sono gli interessi dell’imperialismo americano e occidentale che perseguitano il popolo palestinese, vogliono togliere il diritto di resistere per esistere e vivere libero come tutti i popoli” ( Bassam Saleh)
A Gaza è in atto un genocidio, il massacro di un popolo in sofferenza da decine di anni, privato dei basilari diritti umani. Un popolo che per Netanyahu, primo ministro di Israele, e per i suoi seguaci non deve avere un territorio, né identità giuridica, né indipendenza, né alcuna forma autonoma di sostentamento. Nulla che gli consenta una vita dignitosa e il diritto di essere riconosciuti come popolo di uno Stato indipendente. il massacro in atto oggi con l’escalation dell’invasione a terra della Striscia di Gaza sta mietendo continuamente vittime fra i civili. I media ci presentano ogni minuto la visione di piccole vittime straziate sotto i bombardamenti.
Le piccole vittime palestinesi si sommano alle decine di giovanissime vittime israeliane causate da Hamas. ‘L’Unicef denuncia che oltre 2300 bambini sarebbero stati uccisi in due settimane di bombardamenti a Gaza. Più di 5300 sarebbero stati invece feriti’.. Adele Khodr, direttore generale Unicef per il Medio oriente e il Nord Africa denuncia“L’uccisione e la mutilazione di minori, gli attacchi su ospedali e scuole e la negazione dell’accesso umanitario costituiscono gravi violazioni dei diritti dei bambini. L’umanità deve prevalere”.
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Un “nuovo 11 settembre”: il paradigma della guerra permanente come deterrenza finanziaria
di Fabio Vighi
Non sorprende che i media occidentali abbiano etichettato gli attacchi di Hamas del 7 ottobre come un “nuovo 11 settembre”. Naturalmente, si riferiscono al racconto ufficiale dell’11 settembre, indelebilmente impresso nella sua terrificante iconografia (che però tende a escludere la risposta scatenata dagli Stati Uniti in Medio Oriente nei due decenni successivi, una prolungata operazione genocida nota come “guerra globale al terrore”). Ciò che l’etichetta “nuovo 11 settembre” dovrebbe evocare, in realtà, è l’opposto di quanto i mass media lasciano intendere: e cioè che dall’11 settembre 2001 a oggi, le emergenze globali si susseguono senza soluzione di continuità affinché il proverbiale barattolo (il fallimento del sistema economico globale) possa essere calciato un po’ più in là.
Se cerchiamo un indizio rispetto a cosa potrebbe aver scatenato la più recente iterazione della crisi israelo-palestinese, potremmo iniziare dalle parole di Joe Biden dell’11 ottobre: ‘Quando il Congresso ritornerà, chiederemo loro di intraprendere azioni urgenti per finanziare le esigenze di sicurezza dei nostri partner strategici.’ Com’era prevedibile, aumentano le commesse per il warfare (inteso come deficit spending per la guerra), che aveva già spiccato il volo con i primi finanziamenti ucraini, funzionando così anche da moltiplicatore del PIL americano. Perché il mercato del debito è il primum movens, l’asse attorno a cui girano le cose di questo mondo, e dev’essere tenuto costantemente lubrificato. Il 19 ottobre, in un discorso dallo Studio Ovale trasmesso in prima serata, Biden ha messo i panni dell’imbonitore televisivo per dichiarare: ‘Hamas e Putin rappresentano minacce diverse, ma hanno questo in comune: entrambi vogliono completamente annientare una democrazia vicina… E continuano a farlo.
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DIARIO DELLA CRISI | Il conflitto è una potenza economica (reddito e norme giuridiche dentro la crisi)
di Gianni Giovannelli
In questa nuova puntata del Diario della Crisi, progetto lanciato congiuntamente da Effimera, Machina ed El Salto, Giovanni Giovannelli analizza, alla luce del caso italiano, le diverse configurazioni che la povertà assume nell’attuale contesto di crisi e le modalità della sua gestione da parte degli attuali governi dell’Unione Europea, con l’obiettivo di disciplinare la forza lavoro e segmentarne le traiettorie socio-economiche. In questo contesto, la questione del salario minimo assume una grande rilevanza nella misura in cui consente di opporre un criterio di uguaglianza all’enorme diversità di figure contrattuali assunte dal rapporto di lavoro, molte delle quali tenuemente regolamentate.
* * * *
Occorre sapere che il conflitto
è presente in ogni cosa
la Giustizia è Contesa
tutto nasce secondo
Contesa e Necessità
(Eraclito, Frammento 22B80 DK)
Il 25 ottobre 2023 ISTAT ha reso disponibili i dati relativi al 2022, come raccolti ed elaborati dall’Istituto. Si veda il report Le statistiche dell’ISTAT sulla povertà/Anno 2022: Ne esce un quadro complessivo che appare coerente sia con il sentiment popolare percepito da ogni osservatore non prezzolato (o pur se retribuito almeno onesto) sia con le decisioni dell’apparato governativo; un quadro che conferma il durissimo violento attacco ai lavoratori subordinati e al precariato della vecchia Europa.
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Apologia della storia militante. Sergio Bologna, la rivista “Primo Maggio” e la storiografia militante
di Francesco Festa
Sergio Fontegher Bologna, Tre lezioni sulla storia. Milano, Casa della Cultura, 9, 16, 23 febbraio 2022, Presentazione di Vittorio Morfino, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 174, € 12.00
Il concetto di storia di Walter Benjamin dai tratti folgoranti, densissimi, non finiti eppur integri, è enucleato in una sua potente intuizione: lo studio della storia è l’osservazione del “futuro del passato”, un “ricordare il futuro”, dove l’attualità di ciò che è stato, proprio perché non ancora giunta a compimento e non ancora onorata dalla storia, ci attende, viva più che mai, al presente.
Sergio Fontegher Bologna, l’autore di questo libro di cristallina chiarezza e di agile lettura mai a scapito della densità, a un certo punto della sua ricostruzione di un lungo percorso – apertosi con le rivolte genovesi del 30 giugno 1960 contro il congresso del MSI – si interroga sul cambio di paradigma nella ricerca storica a cavallo dei due secoli: l’oggetto della ricerca non è più la “realtà storica” e, simmetricamente, si impone un registro ermeneutico e linguistico che fa leva sull’accezione di memoria in luogo del concetto di storia: entrambi sintomi dell’impossibilità di incidere sulla realtà, cioè, sul presente quale matrice del “pensiero storico”.
Quando noi parliamo di crisi o di eclissi della storia militante – scrive Fontegher Bologna – non ci riferiamo soltanto alla fine dell’etica della partecipazione ai movimenti sociali contemporanei, né soltanto alla ‘crisi della politica’ e al progressivo ritirarsi nel privato, né alla ricerca di nuove strade diverse dalla labour history, ci riferiamo a un modo di ragionare e di discutere tra storici che esclude, cancella, il presente, nella storia militante il presente era la fonte delle domande che lo storico si pone all’inizio della ricerca. Il combinato disposto della diffusione del termine “memoria” e della concezione della storiografia come narrative come forma di creazione letteraria, portano alla cancellazione del presente come fonte del pensiero storico. (p. 142)
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MEGA 2, ovvero: il nuovo volto di Karl Marx
Luca Bistolfi intervista Roberto Fineschi
Ho sentito il dovere di occuparmi della nuova e definitiva edizione dell’opera omnia di Marx ed Engels, la mega 2, ancora in corso, per i lettori di Pangea intervistando Roberto Fineschi, uno dei suoi massimi curatori e contemporaneamente autore di diversi e vasti studi sul “nuovo Marx”, che riesce dal mastodontico lavoro (oltre duecento volumi). Cionondimeno mi sento in dovere di precisare di non essere sempre d’accordo con Fineschi e di cogliere Marx e le sue implicazioni teoriche e politiche in maniera spesso diversa, quantunque ritenga che un marxista degno di questo nome abbia l’obbligo di prestare orecchio alle posizioni benevole e oneste ma critiche verso il pensatore e rivoluzionario tedesco, al fine di non incorrere in quelle autoillusioni e in quelle superficialità, quando non falsificazioni, che ahimè troppo spesso hanno costellato la storia del marxismo
Nella chiusa alla Postfazione al bellissimo Karl Marx e la letteratura mondiale di Siegbert S. Prawer (Bordeaux 2021, già Garzanti 1978 come La biblioteca di Marx), Donatello Santarone riferisce le giuste impazienze o raccomandazioni di Immanuel Wallerstein, Franco Fortini e Friedrich Engels sintetizzabili nell’esclamazione del primo: «Leggete Karl Marx!». Erano stanchi di sentir chiacchierare sedicenti marxisti senza una pagina del Moro. Fortini (Avanti!, 7 dicembre 1947) spiega: «Ognuno legge… Marx dovunque, eccetto che in Marx». Banalità persino, ma quanto disattese!
Però col rivoluzionario di Treviri pare che la faccenda sia un po’ complicata, o almeno ciò è quanto emerge dai numerosi e densi lavori di Roberto Fineschi, uno dei più autorevoli membri del comitato internazionale per l’edizione definitiva dell’edizione, naturalmente critica, degli scritti di Marx e di Engels, la così detta mega 2.
Fineschi, già curatore di un’accuratissima versione filologica del primo libro del Capitale (due poderosi volumi, il secondo solo di varianti), ha sfornato già parecchi titoli per ripigliare il discorso ormai dai più abbandonato sul marxismo, forte della sua assidua frequentazione con i manoscritti. Ne dò parziale ma essenziale conto alla fine dell’intervento.
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Reportage dalla Cina - BRI ad alta qualità
Come funziona la "nuova piattaforma delle relazioni internazionali"
di Alessandro Bianchi
Da Pechino, Zhengzhou e Fujan (15-25 ottobre 2023)
“Per condurre una vita significativa, bisogna costruire la felicità con gli altri”. Questo proverbio cinese mi ha costantemente accompagnato nei 10 giorni in cui ho potuto assaporare in prima persona il sostrato storico, culturale e politico della Belt and Road Initiative (o nuova via della Seta), il pilastro più importante della politica internazionale della Cina contemporanea.
Davvero difficile trovare le giuste parole per spiegare la “comunità dal destino condiviso per l'umanità”, alla base del progetto di Pechino, in un paese, come il nostro, che ha smesso di concepire un futuro solidale di uguaglianza e diritti sociali per la nostra di collettività, figuriamoci in una visione globale.
Nel 2013, il neoeletto presidente cinese Xi Jinping annunciava al mondo la nascita della “One Belt One Road”, un immenso progetto infrastrutturale che avrebbe legato, come una nuova via della seta appunto, decine di paesi sulla base di un approccio di cooperazione e "win win". 10 anni dopo “i progetti sono divenuti realtà” e Xi ha decretato, in occasione del Terzo Belt and Road Forum, l'inizio di una più ambiziosa fase: la “Bri ad alta qualità”.
“Siamo dalla parte corretta della storia”, ha chiosato Xi nel suo discorso di inaugurazione nella Sala del Popolo il 17 ottobre a Pechino che molti funzionari del PCC ci hanno definito di “portata storica”. 8 nuovi punti programmatici che scandiranno le prossime tappe di quella che il presidente cinese ha definito la “nuova piattaforma delle relazioni internazionali”, un’iniziativa che ha già tolto dalla povertà milioni di persone nei 150 paesi aderenti.
I prossimi anni, secondo il presidente XI, devono prevedere il passaggio ad una BRI di “alta qualità”, con due direttive di riferimento: la connessione tecnologica e la cooperazione “people to people” nel rispetto delle diverse civilizzazioni dei popoli aderenti.
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Mille nomi per Lady Society
di Patrizio Paolinelli
Le immagini della società orientano il modo in cui individui e gruppi interpretano il mondo in cui vivono. Ma come orientarsi quando tali immagini si moltiplicano senza sosta? Mille nomi per Lady Society costituisce un iniziale tentativo di risposta. Allo scopo fa un primo punto della situazione, problematizza la proliferazione di immagini della società e sollecita l’apertura di nuovi spazi di comunicazione tra la sociologia e il suo oggetto di studio.
Lavoro di nominazione
Il nome è un’immagine. Società arretrata. Ecco un nome attribuito a una popolazione umana osservata dalle scienze sociali. Il nome presenta il vantaggio di “fotografare” tale popolazione colta in un determinato spazio-tempo. Tra le discipline che hanno la legittimità di coniare nomi per identificare una società la sociologia si è conquistata da tempo il posto d’onore. Ieri come oggi i sociologi analizzano le società e individuano dei tipi. Ai tipi di società impongono un nome con cui rimandano a un’immagine sintetica in modo da qualificarli e stabilire delle differenze: società agricola, società industriale; società tradizionale, società moderna; società di massa, società individualizzata e così via.
Il nome è un evento. E l’evento è il libro con cui si attribuisce un nuovo nome alla società. Il libro può avere diversi destini determinati dalle porte girevoli con cui il testo entra ed esce dai circuiti di lettori specializzati e da quelli dei lettori non specializzati. Due casi: un libro può registrare più vendite fuori che dentro la comunità scientifica e suscitare un’attenzione elevata nelle pagine culturali del mondo dell’informazione; oppure può registrare poche vendite tra il pubblico dei non addetti ai lavori, ma godere di un’alta attenzione del mondo universitario e di un’attenzione relativa del mondo dell’informazione. Si tratta di due tipi di successo che possono essere analizzati da diversi punti di vista: commerciale, culturale, politico.
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Palestina mon amour
di Giorgio Ferrari
Ogni cosa a suo tempo. Così si diceva una volta, ma poi di tempo ne è passato troppo e le cose non sono state messe a posto.
Ora s’è fatto tardi, quasi per tutto.
Passato è il tempo delle ribellioni e poco ne resta per fare fronte al peggio che avanza.
Eppure lo sapevamo, noi che gentili non fummo, ma non abbastanza da scuotere l’indifferenza del mondo per i crimini commessi contro l’umanità più indifesa.
Ci sono molti modi di uccidere.
Si può uccidere una persona con le armi, privarla di cibo e acqua, impedirle di curarsi, confinarla in una prigione a cielo aperto, espropriarla della terra su cui è nata, spingerla al suicidio, negarle lo status di essere umano.
Nessuno di questi modi è proibito a Gaza e solo alcuni lo sono per il diritto internazionale.1
Per questo, a Gaza, si muore di più che in ogni altro luogo.
In questa striscia di terra c’è tutta l’indifferenza del mondo occidentale, l’immagine nascosta della sua ingannevole predicazione universalistica.
Gaza è una bugia, il significante osceno di un linguaggio che ammicca all’esistenza di un mondo capovolto: l’apartheid ammicca ai diritti; i diritti ammiccano alle libertà; le libertà ammiccano alle privazioni che ammiccano ai bisogni, alla terra, e a tutto ciò che è vanto e gloria del mondo occidentale, ingessato com’è dentro una colossale menzogna.
Gaza è inumana e perciò sfugge a qualsiasi rappresentazione, anche la più ardita che si possa concepire.
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Hamas e la società palestinese
di Leila Seurat
Nota Introduttiva – Sebbene la realtà spesso cozzi in modo patente con i nostri desideri di comunisti e internazionalisti, non saremmo «materialisti» se nascondessimo la testa sotto la sabbia o, peggio, se scambiassimo i secondi per la prima. «Analisi concreta della situazione concreta», significa in primo luogo considerare le condizioni reali, empiricamente constatabili, in cui si svolgono i conflitti sociali, politici e geo-politici, rinunciando ad applicare formule e schemi precostituiti, buoni per tutte le stagioni. Oggi, piaccia o meno, tra i proletari di Gaza, della Cisgiordania, e persino tra gli arabi israeliani, il neo-nazionalismo di Hamas gode di un consenso vastissimo. Alle posizioni antisioniste, venate di razzismo antigiudaico1, o a quelle dell’antimperialismo a senso unico (il cosiddetto campismo), che si schierano «senza se e senza ma» con Hamas, con la resistenza palestinese e con i suoi sponsor internazionali – posizioni inaccettabili per un comunista – fa da contraltare un internazionalismo astratto che, come un disco rotto, continua inascoltato ma imperterrito a lanciare i suoi appelli alla «unità di tutti i proletari», al di là delle divisioni nazionali, etniche, religiose etc., senza avvedersi che – soprattutto nel contesto del conflitto israelo-palestinese (!) – mai come oggi si tratta di una prospettiva completamente fuori portata; così come non riesce a cogliere le precise ragioni materiali che stanno alla base di questo stato di cose, limitandosi tutt'al più a rimuginare amaramente sul fatto che i suddetti proletari, «contro i loro stessi interessi» (sic!) e contravvenendo alle aspettative dei «rivoluzionari», si farebbero stoltamente abbindolare dalle sirene ideologiche delle rispettive borghesie (Cfr., in appendice, L’intramontabile appeal del nazionalismo e le sue ragioni materiali). L'articolo riportato qui sotto, vuole essere un piccolo contributo nella direzione di una lettura non ideologizzata del conflitto in corso in Medio Oriente. [F. B.]
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A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
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