Hamas e la società palestinese
di Leila Seurat
Nota Introduttiva – Sebbene la realtà spesso cozzi in modo patente con i nostri desideri di comunisti e internazionalisti, non saremmo «materialisti» se nascondessimo la testa sotto la sabbia o, peggio, se scambiassimo i secondi per la prima. «Analisi concreta della situazione concreta», significa in primo luogo considerare le condizioni reali, empiricamente constatabili, in cui si svolgono i conflitti sociali, politici e geo-politici, rinunciando ad applicare formule e schemi precostituiti, buoni per tutte le stagioni. Oggi, piaccia o meno, tra i proletari di Gaza, della Cisgiordania, e persino tra gli arabi israeliani, il neo-nazionalismo di Hamas gode di un consenso vastissimo. Alle posizioni antisioniste, venate di razzismo antigiudaico1, o a quelle dell’antimperialismo a senso unico (il cosiddetto campismo), che si schierano «senza se e senza ma» con Hamas, con la resistenza palestinese e con i suoi sponsor internazionali – posizioni inaccettabili per un comunista – fa da contraltare un internazionalismo astratto che, come un disco rotto, continua inascoltato ma imperterrito a lanciare i suoi appelli alla «unità di tutti i proletari», al di là delle divisioni nazionali, etniche, religiose etc., senza avvedersi che – soprattutto nel contesto del conflitto israelo-palestinese (!) – mai come oggi si tratta di una prospettiva completamente fuori portata; così come non riesce a cogliere le precise ragioni materiali che stanno alla base di questo stato di cose, limitandosi tutt'al più a rimuginare amaramente sul fatto che i suddetti proletari, «contro i loro stessi interessi» (sic!) e contravvenendo alle aspettative dei «rivoluzionari», si farebbero stoltamente abbindolare dalle sirene ideologiche delle rispettive borghesie (Cfr., in appendice, L’intramontabile appeal del nazionalismo e le sue ragioni materiali). L'articolo riportato qui sotto, vuole essere un piccolo contributo nella direzione di una lettura non ideologizzata del conflitto in corso in Medio Oriente. [F. B.]
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L'ingiunzione di qualificare Hamas come «organizzazione terroristica» è ormai diventato il prerequisito di qualsivoglia discussione. Proporzionato alla destabilizzazione che ha investito Israele, il risalto che Hamas ha assunto nell'agenda politico-mediatica non permette però di cogliere la natura proteiforme di questo attore politico (al tempo stesso movimento sociale, gruppo armato e forza di governo), né le ragioni della sua irresistibile ascesa. Dal 2013, Hamas è riuscito a produrre una riflessione sull'evoluzione della lotta armata e sul suo ruolo in Palestina. Percepito come l'incarnazione stessa della resistenza che, per i palestinesi, è una componente essenziale della loro identità, questo movimento non può quindi essere considerato come un gruppo settario estraneo alla società palestinese.
Aprendo un periodo di grandi difficoltà diplomatiche ed economiche, il colpo di Stato del maresciallo Al-Sisi, in Egitto, nel luglio del 2013, ha favorito una ridefinizione della strategia del movimento. La priorità, per Hamas, è diventata quella di stabilire buone relazioni con questo paese, che confina con la Striscia di Gaza. Nonostante sia a capo dell'asse anti-Fratellanza Musulmana, insieme all'Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, il Cairo ha da parte sua interesse a cooperare con Hamas per garantire la sicurezza del Sinai. Questi rapporti di relativo buon vicinato hanno portato le autorità egiziane a rimuovere Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Ultima concessione fatta all'Egitto, Hamas non menziona più la propria affiliazione ai Fratelli Musulmani nel suo «Principles and General Policy Document», pubblicato nel 2017.
L'altro sviluppo che caratterizza il periodo successivo al 2013, è la volontà di Hamas di sganciarsi dalle istituzioni ufficiali palestinesi. Appena firmato l'accordo di riconciliazione di Al-Shati con il suo rivale Fatah, nella primavera del 2014, Hamas ha lasciato a quest’ultimo la responsabilità esclusiva di formare il governo [dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndr]. Se le divisioni interne ad Hamas, all'epoca, impedirono l'attuazione dell'accordo, oggi, dopo l'arrivo al vertice dell’organizzazione di Yahya Sinwar, nel 2017, non è più consentito alcun dissenso. Profondamente contrario alla creazione di un mini-stato a Gaza, il nuovo uomo forte dell'enclave ha imposto la firma di un nuovo accordo di riconciliazione. Con questo accordo, firmato al Cairo nell'autunno 2017, Hamas ha ribadito la sua volontà di sganciarsi dalle strutture dell'Autorità Nazionale Palestinese. Il movimento non può più legittimarsi attraverso questa istituzione ampiamente screditata.
Yahya Sinwar ha imposto anche una differente concezione della lotta armata: utilizzare lo strumento militare in modo più «strategico» e rompere con i tempi imposti da Israele durante le operazioni militari contro Gaza (2009, 2012 e 2014), che facevano sistematicamente apparire Hamas come l'aggressore quando in realtà non era esso a scatenare gli scontri. Hamas modifica il suo approccio e decide, d’ora in avanti, di assumere l’iniziativa di aprire le ostilità. A differenza dei suoi predecessori, Sinwar – liberato nel 2011 in seguito a uno scambio col soldato israeliano Gilad Shalit – è un soldato, ed è il fondatore dell'organizzazione Al-Majd, precursore delle Brigate Ezzedine Al-Qassam, l'ala armata del movimento.
La prima tappa di questo rinnovamento sono state le «Marce del Ritorno» del 2018-19 [manifestazioni organizzate a Gaza, al confine con Israele, ndr], che hanno costretto Israele a fare alcune concessioni ad Hamas. Oscillando tra l'appeasement e il confronto violento, questa strategia ha permesso al movimento di ottenere un aumento degli aiuti dal Qatar, che con un accordo raggiunto il 1° aprile 2019, sono passati da 15 a 40 milioni di dollari [da 14 a quasi 38 milioni di euro, ndr], senza per questo interrompere le mobilitazioni popolari ai confini. È stato in questo stesso periodo che Hamas ha avviato i suoi tentativi di riunire tutti i gruppi palestinesi sotto una bandiera comune, che si trattasse dell'Alto Comitato Nazionale per la Marcia del Ritorno e la Fine del Blocco o della Joint Operations Chamber [Sala Operativa Congiunta, ndr].
Resta il fatto che, nell'opinione pubblica palestinese, queste marce sono state inizialmente percepite come una manovra volta a favorire il solo Hamas, o al limite ad alleggerire il blocco. È stata l'operazione «Spada di Gerusalemme», nel 2021, a permettere al movimento di presentarsi come il difensore della Moschea Al-Aqsa, a Gerusalemme, e di far confluire le varie località palestinesi in una lotta comune. È stata anche la prima volta che Hamas ha aperto le ostilità, eludendo l'Iron Dome [il sistema di difesa antiaerea di Israele, ndr] e dimostrando la sua capacità di mettere in rotta l'intelligence israeliana.
Da allora, nel suo discorso, Hamas ha evitato qualsiasi identificazione «di parte», e persino religiosa, per parlare a nome di tutti i palestinesi. A differenza delle prima e della seconda Intifada (1987 e 2000), allorché la resistenza ebbe in larga parte una connotazione islamica, quella attuale è tout court palestinese. Sul sito delle Brigate Al-Qassam, la bandiera palestinese ha sostituito quella di Hamas. È stata soprattutto Gerusalemme a permettere questa fusione tra Islam e nazione, quando il portavoce delle Brigate, Abu Ubayda, ha annunciato a maggio che «Gaza, Gerusalemme, la Cisgiordania e i palestinesi del 1948 sono un unico corpo, un'unica patria, che condividono un unico destino e un'unica resistenza».
Gradualmente, sistematicamente, Hamas è riuscito a prendere il polso ad un ambiente palestinese pronto a sollevarsi. Come ad aprile, quando, lanciando alcuni razzi dal Libano nell'ambito della sua strategia di unificazione dei fronti, Hamas ha ricevuto l'aiuto dei palestinesi di Cisgiordania e di Israele.
L'operazione «Diluvio Al-Aqsa» del 7 ottobre ha confermato questi sviluppi. Senza impegnare completamente Hezbollah, l'attivazione di un fronte settentrionale ha limitato il campo d'azione dell'esercito israeliano nella Striscia di Gaza e ha indebolito l'opzione di un'incursione di terra. Sebbene le fonti non permettano ancora di precisare come sia stata presa la decisione di attaccare il 7 ottobre – tale decisione sembrerebbe aver coinvolto solo un piccolo nucleo di Hamas a Gaza – le altre fazioni armate della Joint Operations Chamber si sono tutte unite alle Brigate Al-Qassam poco dopo il lancio dell'operazione, seguite da molti individui non affiliati.
A Gaza, come in Cisgiordania, i palestinesi sono unanimi nel sostenere Hamas e, nonostante il numero di palestinesi uccisi, salutano quella che considerano come una vittoria storica contro Israele. Non sembrano preoccuparsi, se non molto marginalmente, della condanna di Hamas da parte dell’Occidente per l'uccisione di civili israeliani. Per loro il 7 ottobre è una risposta coordinata agli attacchi che subiscono quotidianamente e che hanno subito lungo tutta la storia dell'occupazione. Solo il presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, ha condannato l'assalto a obiettivi non militari.
Viceversa, il bombardamento incessante della Striscia di Gaza, inclusi diversi ospedali, ha intaccato in modo durevole l'immagine di Israele e dei suoi alleati occidentali e arabi. Il trasferimento forzato delle popolazioni solleva interrogativi sugli obiettivi e sulle reali intenzioni delle autorità israeliane. L'idea che Israele abbia consapevolmente incoraggiato l'ascesa di Hamas dovrebbe essere rivalutata, anche se non è del tutto errata: questo sostegno non è tanto il risultato di una fine strategia attuata dall'establishment israeliano, quanto il risultato dell'accelerazione della colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme, e degli attacchi ai palestinesi e ai luoghi sacri [dell’Islam, ndr]. L'ascesa di Hamas è quindi anche l'immagine speculare di un progetto politico israeliano alla deriva.
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L’intramontabile appeal del nazionalismo e le sue ragioni materiali
Aufheben
[Tratto dal capitolo conclusivo di Aufheben, Behind The 21st Century Intifada, 2003]
Il nazionalismo riflette l’identità superficiale di interessi che esiste, stanti i rapporti sociali capitalistici, tra una borghesia nazionale data e il «suo» proletariato. Identità di interessi, poiché la valorizzazione e la realizzazione del capitale forniscono sia ai capitalisti che ai proletari una fonte di reddito, grazie alla quale, in quanto soggetti indipendenti sul mercato […], possono acquistare le merci necessarie a soddisfare i propri bisogni (per quanto in forma alienata). Superficiale, poiché questo processo non si presenta spontaneamente come tale, ma è il processo dello sfruttamento e dunque dell’antagonismo di classe. Nella misura in cui la borghesia si organizza su base nazionale, e nella misura in cui ha ancora un senso parlare di economie nazionali, il proletariato si trova a far parte di una classe universale inevitabilmente attraversata dalle divisioni nazionali. Fintanto che rimaniamo immersi nella sconfitta, cioè fintanto che la forma-valore sussiste, il nazionalismo si nutrirà di queste divisioni. Il capitale è un tutto, ma questo «tutto» è internamente differenziato, e la sua unità si costruisce attraverso la concorrenza a livello internazionale. Siccome la concorrenza sul mercato mondiale si basa sulla vendita di prodotti a un prezzo più basso rispetto al prezzo dei prodotti degli altri capitali, identificarsi con l’«interesse nazionale» e accettare i sacrifici richiesti dalla «propria» borghesia nazionale, può sì provocare – per la classe operaia – un aumento dello sfruttamento, la rassegnazione a un’esistenza da morti viventi, e persino la riduzione a carne da cannone; ma questo aumenta anche la competitività del capitale nazionale sul mercato mondiale, rendendo la sua realizzazione più probabile, e contribuendo così ad assicurare un reddito alle due classi.
Nel caso del proletariato ebraico d’Israele, la posizione privilegiata che esso occupa rispetto al proletariato palestinese, trae storicamente origine dalla sua combattività. Questa collocazione del proletariato ebraico esige il dominio del capitale israeliano sui Territori occupati. La subordinazione della borghesia palestinese ha esasperato gli antagonismi di classe nei Territori. Questa è la ragione per cui essa deve indirizzare la collera dei proletari contro Israele. Poiché le due classi palestinesi condividono l’esperienza della repressione da parte delle autorità israeliane, sembra che oggi l’alleanza nazionale tra proletari e piccola borghesia sia più forte dei legami di solidarietà di classe tra proletari palestinesi ed ebrei. D’altra parte, gli attacchi dei nazionalisti palestinesi colpiscono sempre più spesso non solo tutti gli aspetti della dominazione israeliana – in primis le colonie – ma anche i civili. Il pericolo che minaccia la loro incolumità, spinge i proletari ebrei a sostenere gli imperativi di sicurezza dello Stato d’Israele.
Tanto tra i proletari palestinesi quanto tra quelli israeliani, si possono individuare delle resistenze all’incorporazione nelle rispettive macchine statali e nella loro logica di guerra. Ma nel complesso, è impossibile esperire – nei limiti del conflitto israelo-palestinese considerato isolatamente – la trasformazione di queste tendenze in un movimento sociale, capace di uscire dall’impasse dello scontro tra due nazionalismi che si rafforzano a vicenda. Una simile trasformazione presupporrebbe la generalizzazione delle lotte proletarie in Medio Oriente e, in maniera vitale, in Occidente.