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Sulla difficoltà di leggere
Giorgio Agamben
Il testo che proponiamo qui è tratto dalla raccolta di saggi di Giorgio Agamben Il fuoco e il racconto, che la casa editrice Nottetempo manda in libreria venerdì 16 maggio. Si tratta della trascrizione, finora inedita, dell’intervento presentato alla tavola rotonda Leggere è un rischio durante la Fiera della piccola e media editoria di Roma, nel dicembre 2012.
Vorrei parlarvi non della lettura e dei rischi che essa comporta, ma di un rischio che è ancora piú a monte, cioè della difficoltà o dell’impossibilità di leggere; vorrei provare a parlarvi non della lettura, ma dell’illeggibilità.
Ciascuno di voi avrà fatto esperienza di quei momenti in cui vorremmo leggere, ma non ci riusciamo, in cui ci ostiniamo a sfogliare le pagine di un libro, ma esso ci cade letteralmente dalle mani. Nei trattati sulla vita dei monaci, questo era anzi il rischio per eccellenza cui il monaco soccombeva: l’accidia, il demone meridiano, la tentazione piú terribile che minaccia gli homines religiosi si manifesta innanzitutto nell’impossibilità di leggere.
Ecco la descrizione che ne dà san Nilo: Quando il monaco accidioso prova a leggere, s’interrompe inquieto e, un minuto dopo, scivola nel sonno; si sfrega la faccia con le mani, distende le dita e va avanti a leggere per qualche riga, ribalbettando la fine di ogni parola che legge; e, intanto, si riempie la testa con calcoli oziosi, conta il numero delle pagine che gli rimangono da leggere e i fogli dei quaderni e gli vengono in odio le lettere e le belle miniature che ha davanti agli occhi finché, da ultimo, richiude il libro e lo usa come un cuscino per la sua testa, cadendo in un sonno breve e profondo.
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Le elezioni europee e il treno di Lenin
di Sandro Moiso
“Era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ell’è di presente, e che la fussi più stiava che li Ebrei, più serva ch’e’ Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d’ogni sorte ruina.[...] In modo che, rimasa sanza vita, espetta qual possa esser quello che sani le sue ferite, e ponga fine a’ sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite. Vedesi come la prega Dio, che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà et insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli.” (Niccolò Machiavelli – Il Principe – cap.XXVI)
Machiavelli era, per il suo tempo, un autentico rivoluzionario, anche se Renzi non l’ha ancora capito poiché ogni tanto lo cita a vanvera come quei cattivi studenti che sparano cazzate sperando di salvarsi in corner dall’insufficienza grave, citando luoghi comuni per sentito dire (spesso neanche in classe, ma al bar). Nel disastro il fiorentino doc sapeva, infatti, intravedere la possibilità della ripresa della lotta e della vittoria anche se oggi qualcuno allevato alla scuola del pensiero positivo di Jovanottiana memoria vedrebbe sicuramente in lui uno sfascista.
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Valore d’uso
di Sandro Mezzadra
1. “Il movimento del valore d’uso”. Così, in un articolo pubblicato sul primo numero di “Metropoli” (Prima pagano, meglio è), Franco Piperno definiva i comportamenti sociali che avevano violentemente acquisito visibilità e forza attorno al ’77: “queste nuove forme di vita che pretendono di usare tutta la ricchezza disponibile e intendono lavorare solo quando attività e bisogno coincidono”. Era il 1979, era passato da poco aprile, e Piperno scommetteva sulla continua moltiplicazione ed espansione di una “domanda selvaggia di una vita quotidiana degna di essere vissuta”, a un tempo esito e motore del lungo Sessantotto italiano. Si cercherebbe invano nell’articolo di Piperno una “teoria” del valore d’uso, ma il riferimento alla categoria è di per sé significativo. Anche al di fuori dell’Italia, negli anni Sessanta e Settanta, non erano mancati usi originali del concetto di valore d’uso (se mi si passa il bisticcio). Ne menziono soltanto uno, in qualche modo suggerito dal riferimento alla “vita quotidiana” da parte di Piperno. Henri Lefebvre costruì interamente la sua teoria dell’urbano attorno alla connessione tra uso, valore d’uso e “opera”, distinguendo quest’ultima dal “prodotto”, legato a doppio filo al valore di scambio.
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Caccia all’ultrà! Tifo, violenza e carogne*
di Fabio Milazzo
«Sono stati invece gli stessi buoni, vale a dire i nobili, i potenti, gli uomini di condizione superiore e di elevato sentire ad avere avvertito e determinato se stessi e le loro azioni come buoni, cioè di prim’ordine, e in contrasto a tutto quanto è ignobile e d’ignobile sentire, volgare e plebeo».
Friedrich Nietzsche, La Genealogia della morale.
«Se il pensiero si liberasse dal senso comune e non volesse più pensare se non alla punta estrema della propria singolarità? Se, anziché ammettere benevolmente la propria cittadinanza nella doxa, praticasse malvagiamente la scappatoia del paradosso? Se anziché ricercare il comune sotto la differenza, pensasse differenzialmente la differenza? Il pensiero allora non sarebbe più un carattere relativamente più generale che manipola la generalità del concetto, ma sarebbe – pensiero differente e pensiero della differenza – un puro avvenimento; quanto alla ripetizione, essa non sarebbe più il triste avvicendarsi dell’identico, ma differenza spostata».
Michel Foucault,Theatrum Philosophicum
Il godimento nel senso.
«Ultrà, hooligans, tifosi, fans, supporter: una selva intricata di termini, un coacervo fobico di vecchi e di nuovi significati in cui allignano sovrane le gramigne del Moral Panic e dell’approssimazione linguistica» (Marchi 2004, p. 189). Questo l’incipit di uno dei saggi che Valerio Marchi, il sociologo ultrà della Roma prematuramente scomparso nel 2006, ha dedicato all’universo del conflitto giovanile nelle sue diverse declinazioni. Questi contributi -che spaziavano dagli «skinheads» (Marchi 1997) alla galassia della destra radicale in Europa-, andrebbero riletti, nella loro inattualità, per dribblare le secche costituite dai qualunquismi dei tanti benpensanti che urlano la loro sdegnata opinione su di un mondo che non conoscono.
Un universo misterioso, quello delle controculture, come è emerso in occasione dei tragici avvenimenti che hanno preceduto e fatto da contorno alla finale di Coppa Italia del 3 Maggio 2014 tra la Fiorentina e il Napoli.
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La Renzeconomics alla prova dei fatti
di Alfonso Gianni
In un libriccino assai denso di un paio di anni fa, dedicato a Edoarda Masi e Lucio Magri, scomparsi in quel periodo, (1) Riccardo Bellofiore tornava su uno dei suoi temi preferiti, la definizione di “social-liberismo” con queste parole su cui vale la pena di riflettere: “Il social-liberismo è, per certi aspetti, una impostazione ben più liberista del neoliberismo. Lo è, per esempio, nella sua mitologia della concorrenza come regolatore dei monopoli, per quel che riguarda i mercati dei beni e dei servizi. E si è mostrato ben più affezionato agli equilibri del bilancio pubblico – per ragioni certo discutibili, ma meno banali di quelle che gli sono state spesso attribuite dalla sinistra. Ha, d’altro canto, una sua anima sociale, il social-liberismo. Vorrebbe piegare la globalizzazione e la finanza regolate ad una qualche redistribuzione universalistica. Peccato che quella redistribuzione regolarmente svanisca all’orizzonte quando si arriva al governo, per l’ossessione di ripristinare gli equilibri del bilancio pubblico, che sono stati appunto mandati in rosso dai neoliberisti. Così, quando si va al governo la redistribuzione scompare dall’agenda, rimangono i tagli e le politiche di flessibilizzazione e ci si avvita in un ciclo economico e politico sempre più perverso, sino ad una soglia di non ritorno. Per questo, paradossalmente, l’anima sociale del social-liberismo finisce con l’essere più dannosa della sua anima liberista. Che vuole liberalizzare per riregolamentare”.
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Esercizi di retorica sul debito pubblico
di Maurizio Sgroi
La leggenda della sostenibilità
Sempre perché è bene sapere ciò di cui si parla, quando parliamo di economia nel nostro tempo, è utile continuare a svolgere i nostri esercizi di retorica dedicando qualche ora all’analisi di uno degli strumenti più rilevanti tramite i quali si decidono i nostri destini: l’indice di sostenibilità del debito pubblico.
Come gran parte di questi indicatori, anche l’indice di sostenibilità, che pure contribuisce a stringere il laccio attorno alla nostra economia, è materia riservata agli addetti ai lavori, segnalandosi per la sua particolare astrusità e la fumosità delle sue premesse metodologiche, che spinge pure gli specialisti a considerarlo quantomeno approssimativo.
Ciò malgrado, l’indice, nelle sue varie versioni, fa bella mostra di sé in tutti i rapporti che parlano dello stato di salute della nostra finanza pubblica, a cominciare da quello della Banca d’Italia dedicato alla stabilità finanziaria e a finire dai vari documenti di previsione del governo.
Non a caso. Per chi ha un debito pubblico alto come il nostro, un indice che questioni circa la sua sostenibilità mette di sicuro in affanno i nostri collocamenti di bond statali. Perciò, imperfetto o meno che sia, l’indice diventa un importante punto di riferimento per gli asset manager che decidono cosa comprare, nel meraviglioso mercato finanziario.
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Sulla democrazia machiavelliana di McCormick
Perché il populismo può essere democratico
di Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli
I populismi, o perlomeno alcune forme di populismo, sono una risorsa fondamentale per la democrazia in questa fase della sua travagliata storia. In uno scenario globale in cui le disuguaglianze si estremizzano e si radicano sempre più, lo sviluppo di idee e movimenti anti-oligarchici e anti-plutocratici è fondamentale per la sopravvivenza della democrazia. Forse solo il populismo può salvare la democrazia
Nel saggio Sulla distinzione tra democrazia e populismo,[1]John McCormick argomenta che il populismo sia necessario per rendere più democratichele democrazie contemporanee. Il tanto lamentato deficit democratico degli esistenti sistemi elettorali-rappresentativi ha indubbiamente tanti aspetti e tante cause. Ma, tra questi, ce n’è uno che è particolarmente rilevante per una discussione sul potenziale democratico dei populismi, un fattore che va al cuore della riflessione sul valore della libertà e dell’uguaglianza politica e su come la democrazia possa difendere ed estendere questi valori. Il problema principale è la preoccupante crescita delle disuguaglianze economiche e la deformazione dello spazio politico che ne consegue.
Il deficit democratico genera sfiducia verso le istituzioni e le loro procedure. Questa sfiducia è alimentata da quelli che le persone comuni percepiscono come i risultati insoddisfacenti di queste istituzioni e procedure. A sua volta, la sfiducia è un ostacolo a processi di riforma che portino a un controllo popolare più robusto. La sfiducia e il disimpegno lasciano mano libera alle élite economiche e finanziarie, le quali possono così influenzare il processo politico in modo disfunzionale, promuovendoper esempio politiche favorevoli a coloro che Machiavelli chiamava i grandi e sfavorevoli al popolo. È all’interno di questo circolo vizioso che il populismo può agire da leva e scardinare la polarizzazione della ricchezza e del potere che è la vera radice del deficit democratico.[2]
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Studiare in Erasmus per lavorare in un call center
Uno sguardo all'integrazione europea
Pubblichiamo un interessante contributo di uno studente lavoratore italiano in Erasmus a Lisbona. Ci pare che l’esperienza che racconta e le riflessioni che faccia siano decisive per capire, a pochi giorni dalle elezioni europee, qual è il vero volto dell’Unione e dell’integrazione di cui padroni e politici del continente parlano tanto…
Durante la mia esperienza di studente Erasmus a Lisbona ho avuto l'opportunità o, sarebbe meglio dire, la necessità, di lavorare in una delle grandi multinazionali di servizi: la Sitel, azienda che ha seminato di call center diverse città d'Europa e non solo, accaparrandosi commissioni da varie compagnie, marchi e imprese. Nel mio caso specifico si è trattato di fare per tre mesi l'assistenza clienti per il mercato italiano delle carte di credito della Barclays Bank. Cioè, ricevere chiamate dall'Italia, parlando in italiano, per conto della Barclays Bank, ma senza essere in Italia e senza lavorare direttamente per la Barclays Bank.
Fare lo stesso lavoro ma avere un lavoro peggiore.
Come è noto, sono molte le cose che si possono denunciare rispetto a questo modello di gestione dei servizi. Nulla mancava a questa azienda delle varie forme di controllo asfissiante di tempi e spazi di lavoro che si possono mettere in campo, attraverso telecamere, monitoraggio costante delle telefonate, porte che per mezzo dell'apertura con l'impronta digitale sono in grado di identificare in quale stanza si trovi un lavoratore, discrezionalità su tempi di pausa, di uscita e giorni liberi, e tutte quelle cose che oramai nell'immaginario di molti lavoratori identificano il sistema dei call center, nonostante non siano certo pratiche esclusive di questo comparto.
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Una storia che viene da lontano
di Elisabetta Teghil
L’avvio della rivoluzione arancione in Ucraina si può datare 17 febbraio 2002. L’amministrazione Bush entra a piedi tesi nella campagna elettorale con cospicui finanziamenti così come la Fondazione di Gorge Soros che dichiara di aver speso, sempre in Ucraina, cinquanta milioni di dollari tra il 1990 e il 1999.
Ed ancora, la segretaria di Stato Madeleine Albright invita i rappresentanti delle duecentottanta Ong presenti nel paese a contestare il governo. Si mette così in moto un meccanismo già oliato con la così detta “rivoluzione delle rose” in Georgia.
La strategia è dettata da uno dei fondatori della Trilaterale e tra i più autorevoli consiglieri dei presidenti americani, Zbigniew Brzezinski “...l’allargamento dell’orbita euro-atlantica rende fondamentale l’inserimento dei nuovi stati indipendenti ex sovietici e in particolare dell’Ucraina”.
E, nel 2004, per l’esattezza il 10 dicembre, Peter Zeihan arricchisce e completa la strategia statunitense “..la sconfitta della Russia non è completa”.
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Contro Platone
L’Uno e il Complesso
di Pierluigi Fagan
Il pensiero complesso, incontra difficoltà strutturali a farsi strada nel canone occidentale. I motivi di questa difficoltà si devono per gran parte alle forme portanti del sistema di idee che strutturano questo canone. Le gettate iniziali di queste forme si trovano nel pensiero platonico[1].
Il cuore dell’impianto platonico[2], impianto che afferma l’essere pieno solo del mondo intelligibile (Io) e non di quello sensibile (Mondo), risponde a quattro punti ritenuti problematici: i) il problema del molteplice che viene ridotto ad Uno; ii) il problema del divenire e transitorio che viene ridotto al permanente ed eterno; iii) il problema del relativo che viene ridotto all’assoluto a partire dal concetto di verità; iv) il problema generale del disordine che viene ridotto dall’ordine fisso della gerarchia. L’Uno (il Bene), vero, eterno, assoluto, a capo di una gerarchia discendente è l’impianto finale che istruisce l’immagine di mondo dell’ateniese.
Platone si trovava in un momento storico particolare, un momento di transizione che infine condusse alla fine del concetto di polis. Tra la morte di Platone e la sconfitta di Cheronea (-338) che sancirà la fine dell’autonomia (e della centralità) ateniese e con essa della vigenza del concetto di polis nella Grecia tutta, passa solo un decennio. Platone non era individuo privo di ambizioni, anche politiche, e l’intera sua filosofia, come pensiero e come pratica, può esser inteso come un ultimo, disperato, tentativo di resistere al collasso del sistema. L’Idea prende il posto di Mondo. Questa idealizzazione prende una forma tanto più estrema ed astratta, quanto più la situazione contingente rimanda una immagine della realtà sconfortante e lontana dai propri giudizi di valore[3].
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Gli insuccessi nella liberalizzazione del lavoro a termine
Riccardo Realfonzo e Guido Tortorella Esposito
L’effetto sociale più grave della crisi economica scoppiata alla fine del 2007 è l’impennata della disoccupazione. In Italia i senza lavoro sono più che raddoppiati rispetto al 2007 e oggi superano i 3,2 milioni. Anche nel 2014 la disoccupazione continuerà ad aumentare: secondo le previsioni del governo il tasso di disoccupazione a fine anno giungerà al 12,8%, contro il 6,1% del 2007. Non si tratta di uno scenario solo italiano, dal momento che nell’Eurozona si muovono oggi 19 milioni di disoccupati, ben 7 milioni in più rispetto al 2007, e alcuni paesi - come la Grecia e la Spagna - hanno visto addirittura triplicare la disoccupazione.
In questo contesto, gli interventi espansivi di politica fiscale vengono ostacolati dai vincoli sul deficit e sul debito pubblico previsti nei trattati europei. Insomma, in Europa continua a prevalere l’austerità, benché il suo insuccesso sia ormai sempre più spesso riconosciuto anche dai principali istituti di ricerca internazionali (ad esempio il FMI). L’attenzione si sposta allora sulle politiche del lavoro e in particolare sulla possibilità, sostenuta dalla letteratura economica più conservatrice, la stessa che difende l’austerity, che una sempre maggiore flessibilità del mercato del lavoro possa favorire la crescita occupazionale. In Italia, dopo la riforma Fornero, si prova con il decreto Poletti ad agire ancora sui contratti a termine, nella convinzione che una ulteriore liberalizzazione di questo tipo contrattuale possa fornire un contributo alla riduzione della disoccupazione. Per questa ragione, si interviene prevedendo, tra l’altro, l’eliminazione dell’obbligo di indicazione della causale economico-organizzativa, l’aumento del numero delle proroghe possibili, la trasformazione di obblighi ad assumere in sanzioni amministrative.
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Uscire dall'euro
Par Jacques Sapir
Le elezioni europee saranno l’occasione di fare il punto della situazione sull’ impressione dei popoli riguardo alla costruzione dell’Unione Europea. Sappiamo che l’opinione in merito è andata fortemente degradandosi dal 2009, come mostrano parecchi sondaggi. Il problema è particolarmente acuto in Francia, dove, per la prima volta, il numero di opinioni sfavorevoli all’Unione Europea è maggioritario.
Bisogna innanzi tutto ricordare che l’Unione Europea non è l’Europa, checché se ne dica. L’Europa è una realtà geografica, una realtà politica – anche e compreso nei conflitti – e, ben inteso, è una realtà culturale. Tale realtà esisteva ben prima che nascessero i primi progetti di unione o di federazione.
L ‘Unione Europea non è l’Europa
L’Europa è esistita, culturalmente e in un certo modo politicamente, ben prima della Comunità Economica Europea [quello che si chiamava « Mercato Comune » e che era il predecessore dell’UE] e, ben inteso, prima dell’UE. L’Unione Europea ha istituzionalizzato dei meccanismi di cooperazione, ma ha anche irrigidito le relazioni tra i Paesi europei che ne facevano parte e ha ampiamente destabilizzato quelli che si trovavano alla sua periferia. L’UE e la CEE prima di essa non sono state « forze di pace » a misura del continente europeo. Pretendere che sia così vuol dire dimenticare il ruolo fondamentale della dissuasione nucleare garantita dagli Stati Uniti [la coppia URSS- Stati Uniti poi la Gran Bretagna e la Francia]. La dissuasione nucleare, rendendo impossibile un grande guerra in Europa, e ciò particolarmente quando la dissuasione francese è diventata effettiva [metà degli anni ‘60], ha ricoperto un ruolo ben più decisivo della CEE e dell’UE nel mantenimento della pace.
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Sulla polizia postmoderna e la violenza
Salvatore Palidda
Ogni volta che si verificano tanti tornano a interrogarsi sul perché dei comportamenti violenti da parte delle polizie nel corso della cosiddetta gestione dell’ordine pubblico o durante azioni repressive (oltre a quanto successo a Roma il 12 aprile scorso, ricordiamo i “pestaggi” dei pastori sardi, dei terremotati dell’Aquila e altri ancora, oltre al G8 di Genova, ma non meno gravi sono i casi di Aldovandi, di Uva, Bianzino e altri ancora riguardanti anche agenti delle polizie municipali -si pensi al caso Bonsu ecc.). Nelle reazioni a questi fatti appare spesso stupore, ingenuità o vi si ripropone l’auspicio di un mondo pacificato così come lo pensavano possibile i discepoli di Norbert Elias, fra i quali Egon Bittner, considerato il padre della sociologia della polizia.
Negli anni Settanta questi arrivò a teorizzare che probabilmente saremmo approdati a una organizzazione politica della società che non avrà più bisogno di disporre di un’istituzione dotata del monopolio legittimo del ricorso all’uso della violenza. A ben guardare, non si tratta solo di ingenuità o di pie illusioni derivanti da una visione teleologica e lineare che non ha mai avuto riscontro nella storia dell’umanità. Mi sembra invece che si tratti di ignoranza dovuta non solo alla scarsa conoscenza della realtà effettiva dello stato e delle polizie, ma forse soprattutto al perpetuo credo in una visione astratta se non dogmatica dello stato e delle istituzioni.
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Cosa si dicono i padroni quando parlano dell’economia italiana?
Clash City Workers
Comprendere i cambiamenti della forma del sistema capitalistico non è un esercizio puramente intellettuale, ma il punto di partenza per impostare un intervento politico. La questione infatti è comprendere dove e in che condizioni vive e lavora la classe e, allo stesso tempo, come organizzare un’entità frammentata e impalpabile in una forza politica capace di innalzare i propri interessi. Da questo punto di vista è essenziale capire in che direzione sta marciando l’Italia (dentro l’Unione Europea), a quale modello di sviluppo il governo Renzi sta presiedendo, che progetti le classi dominanti hanno per il proletariato?
Una indicazione di metodo che ci siamo dati è di non scordarci mai di fare i conti con l’elaborazione e le indicazioni della borghesia. Per i padroni è necessario studiare con attenzione cosa accade agli investimenti che effettuano in ogni parte del mondo, dovendo anticipare le tendenze e crearsi le condizioni per sempre maggiori profitti. Di conseguenza, leggere i loro programmi e le loro aspettative permette di cogliere alcune direzioni verso cui è opportuno rivolgersi, per non restare impreparati.
A questo proposito, Il Sole 24 Ore del 9 maggio contiene in rapida sequenza tre articoli davvero chiari. Il tema è «Le vie della ripresa» e l’oggetto sono le relazioni tra governo, Europa e imprese. Il titolo è lapidario: «L’Italia sia leader industriale». La frase è un virgolettato del premier Renzi, che a Genova durante la sottoscrizione dell’accordo strategico tra Ansaldo Energia e Shanghai Electric ha annunciato le linee della politica industriale italiana.
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Imperialismo e geopolitica: la lotta di classe nelle elezioni brasiliane
Marcos Aurélio da Silva
Gran parte del dibattito pubblico che si tenne all’interno alla sinistra alle presidenziali brasiliane del 2010 fu dominato dalla preoccupazione che la campagna elettorale fosse poco politicizzata, segnata dalla completa assenza di argomenti relativi a ciò che Gramsci (2002a) chiamava la "grande politica". E che questo difetto avrebbe colpito soprattutto il partito a capo della coalizione di governo. Vittorioso dal 2002, il Partito dei Lavoratori (PT), dalle lotte gloriose nel campo della sinistra fin da quando fu fondato, si presentava ora ─ ma già dalle sue prime mosse al governo, come sostiene un suo importante interprete (Coutinho, 2010) ─ con un discorso eminentemente tecnico, finalizzato solo alla gestione del capitalismo.
È probabile che la stessa tesi sarà nuovamente sostenuta per qualificare le elezioni presidenziali che si terranno quest'anno, in cui, ancora una volta, una coalizione guidata dal Partito dei Lavoratori (PT), nonostante i vantaggi di cui dispone, si prepara ad affrontare una prova difficile. Basta vedere le lamentele di molti intellettuali di sinistra quando si analizzano le proteste dello scorso anno. Questi accusano l’accordo con “la borghesia nella cupola” dello Stato, che promovendo una "inversione della coscienza di classe" ed "una inflessione conservatrice nel senso comune," riduce il "desiderio” della strada al “reale e possibile" (Iasi 2013: 46).
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La vera posta in gioco nella crisi ucraina*
di Manlio Dinucci
La vera posta in gioco, nell’escalation della crisi ucraina da novembre ad oggi, non è l’adesione dell’Ucraina alla Ue, ma l’annessione dell’Ucraina alla Nato.
L’Ucraina è una pedina fondamentale nel piano Usa di espansione a est, cominciato con l’inglobamento nella Nato di paesi dell’ex patto di Varsavia, dell’ex URSS e dell’ex Jugoslavia e corredato più di recente dall’installazione di basi e forze militari a ridosso della Russia.
Armi di distrazione di massa
La guerra per il controllo dell’Ucraina è iniziata con una possente psyop, operazione di guerra psicologica, in cui vengono usate le sperimentate armi di distrazione di massa. Le immagini con cui la televisione bombarda le nostre menti ci mostrano militari russi che occupano la Crimea. Nessun dubbio, quindi, su chi sia l’aggressore.
Ci vengono però nascoste altre immagini, come quella del segretario del partito comunista ucraino di Leopoli, Rotislav Vasilko, torturato da neonazisti che brandivano una croce di legno. Gli stessi che assaltano le sinagoghe al grido di “Heil Hitler”, risuscitando il pogrom del 1941.
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Il coraggio di cambiare paradigma per una nuova stagione politica
Utopie Letali di Carlo Formenti
Militant
Con la caduta dei socialismi reali nell’89 e la conseguente scomparsa o ridimensionamento dei partiti comunisti legati a quell’esperienza, la sinistra – soprattutto italiana – è stata egemonizzata di fatto da un insieme di teorie e suggestioni definite, per necessità di sintesi, post-operaismo. Un insieme politico in realtà abbastanza eterogeneo, ma che ha saputo ricostruire una narrazione conflittuale di fronte alla sconfitta storica del movimento operaio e delle sue avanguardie politiche degli anni ottanta. Per meglio dire, il post-operaismo è figlio diretto di quella sconfitta, e allo stesso tempo la sua rimozione. Nonostante le differenze, anche grandi, insite nei diversi filoni post-operaisti e fra le diverse città, alcuni punti fermi tuttavia sono riscontrabili. Soprattutto, comune alle varie tendenze è la rottura con il Novecento quale secolo del primato del politico e della “parzialità organizzata” in vista di una fuoriuscita dal controllo capitalistico della produzione, in favore di un discorso tendenzialmente interclassista in cui viene esaltata la diretta politicità dei soggetti sociali, che assumono centralità politica non in base al proprio ruolo nella produzione ma piuttosto in base alla propria coscienza di sé e alla loro percezione antagonistica.
Su questa visione delle cose si innesta il discorso foucaultiano del potere pervasivo del capitale non più nella produzione, ma nella vita.
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Marx e la WertKritik
Elmar Flatschart, Alan Milchman, and Jamie Merchant
Sabato 6 aprile 2013, la Platypus Affiliated Society, nel corso della sua quinta Convenzione Internazionale annuale, presso la Scuola d'Arte di Chicago, ha ospitato un evento dal titolo "Marx e la WertKritik", cui hanno partecipato Elmar Flatschart, della rivista "Exit!", Alan Milchman, di "Internationalist Perspective", e Jamie Merchant, di "Permanent Crisis", moderati da Gregor Baszak, di Platypus. Quella che segue, è una trascrizione della discussione
Elmar Flatschart: La critica del valore, o, seguendo il teorema sviluppato da Roswitha Scholz, una critica della scissione-valore (Wertabspaltungskritik), cerca di capire e di criticare il meccanismo fondamentale che governa la società moderna. Questa critica non si interessa tanto al Marx politico della lotta di classe e del movimento operaio, ma più all'aspetto filosofico del suo lavoro che si focalizza sul carattere astratto e feticizzato del moderno dominio. Quest'approccio cerca di mantenere, la teoria critica della società, rigorosamente separata dai contraddittori tentativi pratici di superare il capitalismo. Il marxismo non andrebbe inteso come un portatore di identità, di una corretta posizione, che la storia ha dimostrato essere erronea, ma dovrebbe essere ridotto ad un nucleo teorico che ci può aiutare a comprendere la società, per mezzo di una critica negativa, anche se questa non ci fornisce necessariamente una via d'uscita. L'appello all'abolizione del lavoro non ha ripercussioni immediate per la politica marxista. Non c'è un nuovo programma o un piano generale che può essere sviluppato a partire dall'abolizione del valore. Piuttosto, può essere visto come una condizione per emanciparsi dal valore e dal sistema astratto di oppressione che rappresenta. Come poi l'emancipazione sarà raggiunta, questa è una storia più complessa. Sappiamo cos'è che non funziona: molto di quello che la vecchia sinistra ha proposto come politica marxista. Un bel po' del quale dovrebbe essere abbandonato perché, essenzialmente, il dominio astratto non può essere abolito per mezzo dell'imposizione di qualche altro genere di diretto, personale dominio.
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Finanza globale e Europa
Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli intervistano Christian Marazzi
Pubblichiamo la seconda parte (qui la prima) dell’intervista a Christian Marazzi, a cura di Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli. I temi trattati riguardano essenzialmente la situazione economica e politica dell’Europa. In vista del convegno sulla Moneta del Comune del prossimo 21-22 giugno, organizzato da Effimera a Milano.
* * * * *
Stefano Lucarelli: a Davos, Axel Weber, ex governatore della Bundesbank e attualmente presidente di UBS (Unione delle Banche Svizzere, una delle 10 multinazionali della finanza più potenti, ndr.), ha rilasciato una dichiarazione un po’ fuori dal coro che è tuttavia significativa: “L’Europa è sotto scacco. Sono ancora molto preoccupato. La situazione dei mercati è migliorata, ma non l’economia reale della maggior parte dei paesi. I mercati stanno ora sottovalutando i rischi, specialmente in periferia. Mi aspetto che alcune banche non riescano a passare i test nonostante la pressione politica. Non appena ciò diventerà evidente, ci sarà una reazione finanziaria nei mercati”. Questa affermazione va di pari passo con quella frase che è scappata alla Merkel a dicembre, ripresa solo da Le Monde e da Jacques Sapir: “Presto o tardi, senza la coesione necessaria, la moneta esploderà”: Sapir commenta sul suo blog: “Tutto ciò che la Germania propone ai suoi partner sono dei ‘contratti’ che li portano a sostenere la totalità dei costi d’aggiustamento necessari per la sopravvivenza dell’euro, mentre essa sola trarrà profitti dalla moneta unica. Ma tali contratti non faranno altro che spingere l’Europa del sud e la Francia verso una recessione storica”.
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Sulla distinzione fra democrazia e populismo
di John McCormick
Anche se le democrazie dirette, dove il popolo veramente si auto-governa, sono largamente preferibili a quasi tutte le forme di populismo, John McCormick, uno dei maggiori conoscitori di Machiavelli nel mondo americano, sostiene, in un intervento ancora inedito in inglese, che alcune forme di populismo sono assolutamente necessarie per rendere gli attuali sistemi elettorali-rappresentativi più genuinamente democratici
Introduzione
di Lorenzo del Savio e Matteo Mameli
Si può veramente dire che i populismi abbiano un potenziale democratico? Nell’articolo “Il populismo è democratico: Machiavelli e gli appetiti delle élite” abbiamo sostenuto che la risposta a questa domanda è sì.[1] Lo abbiamo fatto presentando gli argomenti anti-oligarchici che Machiavelli espone nei Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio e rielaborando la lettura di Machiavelli di John McCormick nel suo importante volume Machiavellian Democracy. Per gentile concessione dell’autore, qui offriamo la nostra traduzione di un breve articolo di McCormick sul rapporto tra i populismi e le democrazie rappresentative contemporanee. McCormick torna a parlare di Machiavelli e delle sue ricette anti-oligarchiche e spiega come i populismi (o perlomeno alcuni populismi) possano essere un’importante risorsa per la democrazia.
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Durkheim disse una volta che il socialismo era il grido di dolore della società moderna. Il populismo è il grido di dolore delle moderne democrazie rappresentative. Il populismo è inevitabile nei regimi politici che aderiscono formalmente ai principi democratici ma di fatto escludono il popolo dal governo.
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Elogio della democrazia economica
di Enrico Grazzini
Senza democrazia nell'economia non esiste vera democrazia. E senza la partecipazione dei cittadini e dei lavoratori l’Europa non uscirà dalla sua grave crisi economica e politica. Pubblichiamo un estratto dal “Manifesto per la Democrazia Economica” di Enrico Grazzini, in questi giorni in libreria per Castelvecchi Editore
Questo saggio è focalizzato sulla democrazia economica. La nostra tesi è che senza democrazia nell'economia non esiste una vera democrazia; e che l'economia è più efficiente, innovativa e sostenibile se include elementi di democrazia.
Democrazia economica può però avere molti e diversi significati. Del resto tutte le parole possono avere connotazioni differenti e sono per natura ambigue. Per prima cosa occorre quindi tentare di specificarne il senso e contestualizzarle. Per noi democrazia economica significa che, come accade da sessanta anni in Germania con la Mitbestimmung (codecisione), i lavoratori possono eleggere i loro rappresentanti nel board delle maggiori imprese private e pubbliche e influire sulle scelte strategiche e sulla gestione aziendale. Democrazia economica significa anche che i beni comuni dovrebbero essere gestiti autonomamente dalle comunità interessate, a tutti i livelli, locale, nazionale, globale; e che i cittadini dovrebbero potere controllare e cogestire con i loro rappresentanti i servizi pubblici di cui sono utenti e di cui, come contribuenti, sono anche «proprietari». Il bilancio partecipato dovrebbe diventare la norma per indirizzare le politiche di spesa a favore dei cittadini e per fare funzionare bene le istituzioni pubbliche.
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L’Ontologia sociale e l’etica comunitaria
Il lascito filosofico di Costanzo Preve
Roberto Donini
La morte di Costanzo Preve il 23 novembre 2013 è un vuoto enorme; leggendo il suo “Una nuova storia alternativa della filosofia”, pubblicato a ridosso del lutto, ci siconforta nella sua eredità spirituale rilegata in un libro di 32° di foglio e di 500 pagine. Il doloroso vuoto si acquieta nel pieno della sua umanità nelle nostre mani. Preve ci accompagna ne “il cammino ontologico-sociale della filosofia” presso i suoi fidati autori e lì ci mostra la genesi dei suoi concetti di riferimento. Noi, discenti spersi dal peso del tomo, ci troviamo invece di fronte ad un profilo di Storia “alternativa”e ad uno stile espositivo completamente rivoluzionato: amichevole. La sua Storia della Filosofia non è quella inevitabile “dossografia di opinioni” (p.58) dei manuali conseguente ad una concezione “della storia destoricizzata e desocializzata della filosofia” (p.58); partendo invece dal rovesciamento dell’approccio “formale accademico”, dal “riorientamento gestaltico”, il libro ci porta alla ricerca costante del filo conduttore del pensare filosofico nel suo fondamento ontologico-sociale. Coinvolti dalla lettura percorriamo il “cammino” e con un po’ di attenzione scorgiamo un doppio movimento: il filosofare che incontra le sue radici e la storia di Costanzo che si risolve in questo processo e mostra le sue radici.
La lezione di Costanzo Preve
In questa lunga lezione di storia della filosofia Preve riflette e condensa, l’impegno pedagogico di una vita, nella scuola e in una vastissima pubblicistica, sempre con la stessa cifra letteraria e oratoria e sempre con la stessa vis polemica antiaccademica. Il testo è innervato di accenni polemici alla “separatezza” degli accademici dalla vita ed in particolare nell’ultimo capitolo (p.471-473) tratteggia, usando la partizione di Kant, la storia della istituzione del Schulbegriff (filosofia di scuola, di facoltà) distinta dalla Welthegriff (la filosofia di tutti, “il prendersela con filosofia”).
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La fabbrica della crisi e il declino del lavoro
di Claudio Gnesutta
Quando è iniziata l'egemonia della finanza sulla produzione? Riflessioni a partire dal libro di Angelo Salento e Giovanni Masino, La fabbrica della crisi
La questione della “densità” finanziaria del sistema economico è un aspetto ampiamente dibattuto per la sua rilevanza nel determinare l’attuale funzionamento delle nostre società. A questo riguardo, è importante il contributo di Angelo Salento e Giovanni Masino, (La fabbrica della crisi. Finanziarizzazione delle imprese e declino del lavoro, Roma: Carocci editore, 2013) che, con un’analisi svolta su diversi piani (sistemazione della letteratura, informazioni quantitative, interviste di operatori), non si limitano a sottolineare la crescente dimensione finanziaria dei bilanci societari, ma approfondiscono le modificazioni qualitative che la finanziarizzazione dell’economia ha indotto in una gestione aziendale che ha assunto come priorità la crescita del valore per gli azionisti.
In particolare, la loro tesi può essere sintetizzata, pur con tutti i rischi dell’estrema concisione, dalla considerazione che, nel superamento del fordismo, l’impresa ha trovato nell’esternalizzazione (decentramento e delocalizzazione) della produzione lo strumento per ridurre i costi e per realizzare le disponibilità liquide necessarie all’investimento e che questa sua articolazioni in divisioni autonome (anche se raggruppate in holding) si presenta come un “fascio di investimenti” (industriali, commerciali, finanziari) da gestire ciascuno singolarmente valorizzandoli con logica “finanziaria” sulla base di un benchmarking definito dagli analisti finanziari.
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Il lato B del "patto del Nazareno"
di Leonardo Mazzei
9 maggio. Il governo Renzi-Berlusconi oggi e domani
Secondo alcuni l'asse Renzi-Berlusconi ha semplicemente un'origine massonica. Una tesi sulla quale scommetterebbero ad occhi chiusi diversi amici fiorentini. Avrebbe dunque ragione Piero Pelù, che ha definito il capo del governo come un «boy scout della P2». Un boy scout tutelato dal Sommo Sacerdote dell'«accordo del Nazareno», quel gran signore di Denis Verdini.
Ora, noi non siamo complottisti. Siamo però attenti ai fatti politici, ed essi bastano ed avanzano per dimostrare due cose. La prima è che le grandi decisioni politiche vengono ormai prese non solo fuori dalle istituzioni, ma anche al di fuori dei partiti. La seconda è che il governo attuale si regge non tanto sulla maggioranza ufficiale, quanto piuttosto su quella informale Pd-Forza Italia, o più esattamente ancora su un patto privato tra i leader di questi due partiti.
Ovviamente non stiamo svelando alcun segreto. Stiamo solo proponendo alcune riflessioni politiche. Tutti sanno che se Renzi è ancora al suo posto lo si deve solo al voto dei forzaitalioti in Commissione Affari costituzionali del Senato. Un voto che ha fatto passare il testo base del governo, dopo che la stessa commissione lo aveva di fatto bocciato approvando un ordine del giorno a favore del Senato elettivo.
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Impero (Hardt/Negri): il mondo in crisi visto come la Disneyland della Moltitudine*
di Robert Kurz
Il problema per cui la critica sociale si vede confinata nelle categorie dell'ontologia capitalista, peggiora ulteriormente quando le idee del marxismo tradizionale vengono rivestite con gli orpelli della post-modernità. Dieci anni dopo il libro di Rufin, "L'impero e i nuovi barbari", Michael Hardt e Antonio Negri pubblicano "Impero", il loro opus magnum, il quale pretende descrivere il "nuovo ordine del mondo" ed il suo superamento futuro nel quadro di una vasta teoria della storia della modernità (e, più in generale, del suo sviluppo). Benché gli autori procedano largamente sulle tracce di Rufin, fino a prenderne in prestito il riferimento a Polibio, Rufin non viene mai citato, e neppure menzionato nella bibliografia. Eppure si dovrebbe trattare, nella prospettiva di una riformulazione di una teoria sociale emancipatrice, non di prendere in prestito - alla chetichella - degli elementi da Rufin, ma di operare la critica immanente delle sue argomentazioni, per poter fare un passo avanti decisivo. Hardt e Negri non riescono a farlo, se non altro perché non possono, più di quanto possa Rufin, concettualizzare in modo soddisfacente i fondamenti della società capitalista e le sue conseguenze. Per loro, la forma di riproduzione sociale totalitaria del mercato (il problema dello "sviluppo economico", per Rufin) va da sé, fino al punto di non essere neppure menzionato come concetto da mettere in discussione.
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