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L’imminente crollo dell'impero americano
di Chris Hedges - declassifieduk.org
Il mondo come lo conosciamo è gestito da una classe esclusiva di gangsters americani che hanno a loro disposizione armi e denaro virtualmente illimitati
La percezione pubblica dell’Impero Americano, almeno per coloro che negli Stati Uniti non hanno mai visto l’impero dominare e sfruttare i “miserabili della terra”, è radicalmente diversa dalla realtà.
Queste illusioni artificiali, di cui Joseph Conrad aveva scritto in modo così preveggente, presuppongono che l’impero sia una forza per il bene. L’impero, ci viene detto, promuove la democrazia e la libertà. Diffonde i benefici della “civiltà occidentale”.
Si tratta di inganni ripetuti ad nauseam da media compiacenti e sciorinati da politici, accademici e potenti. Ma sono bugie, come sanno tutti coloro che hanno trascorso anni a fare reportage all’estero.
Matt Kennard nel suo libro The Racket – in cui racconta di Haiti, Bolivia, Turchia, Palestina, Egitto, Tunisia, Messico, Colombia e molti altri Paesi – squarcia il velo. Espone i meccanismi nascosti dell’impero. Ne descrive la brutalità, la mendacità, la crudeltà e le pericolose auto-illusioni.
Nell’ultima fase dell’impero, l’immagine venduta a un pubblico credulone inizia a incantare gli stessi mandarini dell’impero. Essi prendono decisioni basate non sulla realtà, ma sulle loro visioni distorte della realtà, colorate dalla loro stessa propaganda.
Matt lo definisce “il racket”. Accecati dall’arroganza e dal potere, arrivano a credere ai loro stessi inganni, spingendo l’impero verso il suicidio collettivo. Si ritirano in una fantasia in cui i fatti, duri e spiacevoli, non si intromettono più.
Sostituiscono la diplomazia, il pluralismo e la politica con minacce unilaterali e con lo strumento contundente della guerra. Diventano i ciechi architetti della loro stessa distruzione.
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Produrre e lobotomizzare
di Salvatore Bravo
Il ciclo del capitale con i suoi processi di valorizzazione è trattato da Marx nel II Libro de Il Capitale. Nell’esposizione marxiana vi è la condanna etica ai processi di monetarizzazione del lavoro umano. La condanna assiologica è il fondamento della critica marxiana. Il capitale è ciclo improntato all’accrescimento illimitato del plusvalore nel quale gli esseri umani (i sussunti) sono cannibalizzati da tale processo e incorporati nel sistema produttivo. Il capitalismo è, quindi, una visione del mondo in cui si converte la vita in morte, è “antiumanesimo militante”.
Il lavoro vivo è trasformato in lavoro morto, ovvero in accrescimento del profitto e in allargamento delle spire del mercato. Su tutto campeggia la sola categoria di quantità: il totalitarismo della quantità condanna ogni essere umano a vendersi al capitalista; è il rapporto di forza a determinare le relazioni di dominio legalizzate dai diritti astratti che li “definiscono”ed eguali. La logica di dominio è inoculata nel sistema sociale fino alla naturalizzazione della stessa mediante l’addestramento al’astratto. Si educa a pensare senza valutare le condizioni materiali in cui il soggetto opera. La quantità è il fine che muove il capitalismo, esso deve spogliare ogni esperienza del suo contenuto soggettivo, creativo e assiologico per immetterla nel mercato e per convertirla in strumento-azione che sostiene il capitalismo. Le macchine con cui i capitalisti si pongono in competizione incorporano il lavoro muscolare e intellettuale, esse “non sono solo macchine”, perché sono l’effetto dell’incorporamento nell’acciaio dei subalterni. Sono vampiri animati dal sacrificio dei popoli. La schiavitù salariata dell’operaio come dei tecnici non è solo nel prodotto finale ma in tutto il sistema produttivo.
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Il laboratorio Israele
Chiara Cruciati intervista Enzo Traverso
Dialogando con Chiara Cruciati, Enzo Traverso spiega perché la posta in gioco della guerra a Gaza ha una portata che va ben al di là del Medio Oriente
Questa intervista di Chiara Cruciati, vicedirettrice del manifesto, a Enzo Traverso è avvenuta il 16 giugno nell’ambito del festival Contrattacco organizzato da Edizioni Alegre. All’iniziativa, durata due ore, hanno assistito quasi 200 persone. Qui la trascrizione del colloquio, rivista dagli autori.
* * * *
L’8 giugno 2024, un’operazione israeliana per la liberazione di 4 ostaggi ha ucciso 276 palestinesi. Nei giorni successivi sono usciti dettagli sul modo in cui l’operazione è stata compiuta, nel cuore del campo profughi di Nuseirat. Eppure sui media occidentali e nelle dichiarazioni pubbliche dei leader politici si è parlato di «successo». La narrazione dell’offensiva israeliana passa da mesi per la sotto-rappresentazione se non l’occultamento dei crimini di guerra israeliani, eppure stavolta si è raggiunto un nuovo apice: definire una carneficina «un successo». Un massacro ampiamente anticipato dalle leadership europee che all’indomani del 7 ottobre dichiararono il sostegno «incondizionato» a Israele, dando di fatto la benedizione a qualsiasi forma di reazione.
In Gaza davanti alla storia dedichi un capitolo prezioso all’Orientalismo, più forte – scrivi – dell’eredità dell’Illuminismo. Dare valore diverso a una vita e a una comunità sulla base della presunta superiorità morale e culturale del mondo bianco occidentale è un tratto essenziale dell’Orientalismo. Possiamo leggere dentro a questo però anche una deriva necropolitica e, di rimando, fascista?
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Vincenzo Costa, La società dell’ansia
di Alessandro Visalli
Il libro di Vincenzo Costa, La società dell’ansia[1], è del 2024 e si inserisce nel filone dei suoi testi politici di cui fanno parte Elites e populismo[2], del 2019, L’assoluto e la storia[3], del 2023, e Categorie della politica[4], del 2023. Nel blog Nella fertilità cresce il tempo (un verso di Pablo Neruda dal Canto General[5]), questi libri sono stati letti in altrettanti post[6]. Rispetto a questi, tuttavia, il testo sembra aprire un altro e nuovo filone di ricerca che si collega probabilmente con alcuni altri del medesimo autore, inseriti nella tradizione fenomenologica di cui Costa è uno dei principali cultori[7]. Si tratta comunque di un testo ambizioso: il tentativo, per ora abbozzato di creare una sorta di economia politica delle emozioni.
Ci sono alcuni bersagli polemici, più che altro rilevabili dai termini e dalle formule a volte tranchant adoperate: il primo è la cosiddetta “svolta linguistica”[8] e la successiva “svolta argomentativa”[9], quindi Habermas che le traduce entrambe in prescrizioni politiche e sociali negli anni Novanta; il secondo è il materialismo marxiano. E c’è un oggetto centrale: l’emergenza del legame sociale, ovvero dell’ordine sociale.
Dei due bersagli polemici principali (Habermas e Marx) il primo è più evidente, in particolare è criticata la centralità del suo concetto di “razionalità” come criticabilità di azioni ed affermazioni, e quello di “argomentazione” come relazione tra azioni linguistiche le quali si ancorano alla “costrizione non coatta” dell’argomento migliore universalisticamente ancorato[10].
Il problema che Costa sente è la disgregazione del senso nella società contemporanea, ovvero del senso socialmente costituito e condiviso (non già attraverso una discussione razionale). Quindi il problema che sente è quello dell’anomia e delle sue conseguenze sociali e psicologiche.
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Picconate sulla globalizzazione
di Roberto Iannuzzi
Colpendo economicamente Russia e Cina, gli USA sembrano determinati a smantellare l’attuale ordine globalizzato pur di preservare la propria residua egemonia
La persuasione che la competizione fra grandi potenze sia un gioco a somma zero ispira le scelte dell’élite politica americana e della componente atlantista di quella europea.
In base a questa visione, gli Stati Uniti e i loro alleati nel vecchio continente (in posizione molto subordinata, a dir la verità) devono compiere ogni sforzo per preservare l’egemonia americana e occidentale su un mondo sempre più insofferente ai diktat di Washington.
Questa sfida, vista come esistenziale, giustifica agli occhi della classe politica occidentale il ricorso a ogni mezzo, dall’ambito militare a quello economico.
Se nel campo militare abbiamo visto che USA e alleati europei sono disposti a rischiare una pericolosa escalation con Mosca pur di “dissanguare” la Russia in Ucraina, la guerra senza quartiere contro gli “avversari designati” dell’Occidente (Russia e Cina, in primo luogo) non può non coinvolgere anche la sfera economica.
La globalizzazione è un sistema ingiusto, fondato sullo sfruttamento della manodopera e delle materie prime dei paesi più poveri, che però ha anche minimizzato i costi di produzione, e dato lavoro a milioni di persone sollevandole dalla povertà assoluta.
Semplificando, essa è stata storicamente fondata su due poli: la Cina, la cosiddetta “fabbrica del mondo”, e gli Stati Uniti, il centro del sistema finanziario globale e il mercato di consumo di ultima istanza.
Ritrovandosi incapaci di competere in questo sistema da essi stessi creato, gli USA hanno deciso di smantellarlo, invece di correggerne gli squilibri. Unico obiettivo dell’élite americana è preservare l’egemonia di Washington. A qualunque costo.
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Perché gli USA non aiutano a negoziare una fine pacifica della guerra in Ucraina?
di Jeffrey Sachs - Common Dreams
Per l'amor di Dio, negoziate!
Per la quinta volta dal 2008, la Russia ha proposto di negoziare con gli Stati Uniti su accordi di sicurezza, questa volta attraverso le proposte avanzate dal presidente Vladimir Putin il 14 giugno 2024. Le quattro volte precedenti, gli Stati Uniti hanno respinto l'offerta di negoziazione preferendo una strategia neoconservatrice volta a indebolire o smembrare la Russia attraverso la guerra e operazioni segrete. Le tattiche neocon degli Stati Uniti hanno fallito disastrosamente, devastando l'Ucraina e mettendo in pericolo il mondo intero. Dopo tutto questo bellicismo, è tempo che Biden avvii negoziati di pace con la Russia.
Dalla fine della Guerra Fredda, la grande strategia degli Stati Uniti è stata quella di indebolire la Russia. Già nel 1992, l'allora Segretario della Difesa Richard Cheney teorizzava che, dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica nel 1991, anche la Russia avrebbe dovuto essere smembrata. Zbigniew Brzezinski suggerì nel 1997 che la Russia dovesse essere divisa in tre entità confederate: la Russia europea, la Siberia e l'Estremo Oriente. Nel 1999, l'alleanza NATO guidata dagli Stati Uniti bombardò l'alleato della Russia, la Serbia, per 78 giorni, allo scopo di frammentarla e installare una grande base militare NATO nel Kosovo secessionista. I leader del complesso militare-industriale statunitense sostennero vigorosamente la guerra cecena contro la Russia nei primi anni 2000.
Per garantire questi progressi contro la Russia, Washington ha spinto aggressivamente per l'espansione della NATO, nonostante le promesse fatte a Mikhail Gorbaciov e Boris Yeltsin che la NATO non si sarebbe mossa nemmeno di un centimetro verso est dalla Germania.
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L’Occidente è un accidente
di Paolo Ferrero
Cosa sta succedendo? Questa domanda è sempre più diffusa perché l’insicurezza e il disorientamento hanno oramai raggiunto un livello impressionante: alla precarizzazione della vita che ci ha imposto per decenni il liberismo si è infatti aggiunta la possibilità concreta della guerra. L’insicurezza sociale, la precarietà, la distruzione del welfare, uniti alla vicenda della pandemia del Covid e oggi al clima di guerra determinano un vero e proprio spaesamento, uno diffuso stato di choc.
L’insicurezza si nutre anche di una forte di perdita di credibilità delle narrazioni pubbliche: com’è del tutto evidente buona parte della comunicazione non è finalizzata a informare i cittadini ma a manipolare l’opinione pubblica. Pensate solo a come viene rappresentato dai media il genocidio del popolo palestinese a Gaza. Nell’insicurezza matura la sfiducia ma anche la ricerca spasmodica di certezze a cui aggrapparsi come a un salvagente.
Nel difficile compito di evitare sia le bugie di regime che quelle complottiste, abbiamo realizzato questo numero di “Su la Testa”, cercando di capire cosa c’è dentro e dietro questa situazione nebulosa connotata dal clima di guerra. Lo facciamo puntando l’attenzione sull’Occidente. Non solo perché ci viviamo ma perché è l’Occidente che più di ogni altro aggregato mondiale sta puntando sulla guerra. Giova ricordare, per sottolineare un solo elemento, che l’Occidente ha l’unica alleanza militare a largo raggio oggi esistente al mondo – la NATO – e nel 2023 ha speso 1.341 miliardi di dollari, pari al 55% della spesa militare mondiale pur avendo meno del 23% della popolazione.
Attorno ai nodi della guerra e dell’Occidente ruota questo numero della rivista che confido vi aiuterà a inquadrare il problema e spero venga letto e discusso collettivamente: perché la rifondazione del comunismo e il rilancio dell’alternativa si fondano necessariamente su una corretta analisi di fase.
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L’imperialismo e il conflitto tra aree valutarie
di Carla Filosa - Francesco Schettino
Imperialismo transnazionale e aree valutarie
La concatenazione transnazionale che ha cambiato la configurazione della lotta interimperialistica, ormai da molto non più rigidamente suddivisa per prevalente appartenenza statuale, appare nella richiesta di un’accresciuta capacità di penetrazione del capitale nel mercato mondiale. Perciò la predeterminazione di aree valutarie di riferimento supera in importanza la mera collocazione storica geografica dell’investimento.
Sarebbe perciò un grave errore ritenere, com’è diffuso costume, che gli elementi monetari e valutari siano soltanto una questione separata dalle strategie industriali produttive.
Da un lato, si pongono in risalto i caratteri di una rincorsa dell’“economia reale”, disperata perché in crisi, nell’attuale nuova divisione internazionale del lavoro – ovverosia, filiere di produzione, dislocazioni, esternalizzazioni, subfornitura a scala mondiale, “corridoi” energetici e altro, “vantaggio competitivo”, centralizzazione e trasformazione degli assetti proprietari internazionali, con rovesciamento del ruolo tra organismi sovrastatuali e stati nazionali, privatizzazioni se reputate efficaci, ecc.
D’altro lato, si evidenziano quelli di un’“economia monetaria” che cerca di procedere alla ridefinizione egemonica delle suddette aree valutarie di riferimento significativo per il mercato mondiale “unificato”.
La tematica delle aree valutarie si pone per individuare nel dettaglio quali elementi di costo siano espressi in dollari, in euro o nelle valute asiatiche, rublo, yuan e yen, e in quale valuta quindi si presentino in divenire anche i prezzi di vendita. Da quanto precede si possono dedurre alcuni argomenti chiave.
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Cittadini ucraini “russi”, “russofoni” e “filo-russi”: un po’ di chiarezza
di Andrea Muni
Prima puntata di un trittico di approfondimento sulla guerra civile ucraina e sul conflitto russo-ucraino (qui il link alla presentazione)
Riavvolgere il filo
Dopo il golpe/rivolta di Maidan del 2014 la fazione politica filo-occidentale e nazionalista che ha preso il potere nel Paese ha cercato di far passare in Occidente, con l’avvallo dei media, l’idea che non esista una parte considerevole di ucraini che è russo-ucraina, russofona e, in certi casi, filorussa. In questo approfondimento chiariremo come questi tre termini indichino tre cose diverse, da non confondere e sovrapporre necessariamente. Per la narrazione ultra-nazionalista filo-occidentale sposata dai nostri media, questi ucraini (russi, russofoni e/o filorussi) sarebbero una sorta di serpe in seno, un corpo estraneo, uno sparuto nemico interno eterodiretto dai russi da scacciare o rieducare. Eppure questi ucraini popolano buona parte del Sud e dell’Est del Paese, dove è condensata la minoranza etnica russa, dove gli ucraini sono maggioritariamente russofoni e dove è più frequente incontrare persone di orientamento geopolitico filo-russo. I cittadini ucraini che la nostra propaganda definisce genericamente filorussi: 1) raramente sono a favore o entusiasti della guerra, che infuria soprattutto nella loro parte di Ucraina e di cui patiscono nella carne e negli affetti come ogni altro ucraino, 2) non sono affatto tutti ideologicamente putiniani o ultra-nazionalisti, spesso sono anzi nostalgici dell’Urss, 3) non desiderano necessariamente l’annessione alla Federazione Russa, né tanto meno la desideravano dieci anni fa allo scoppio della guerra civile, 4) non si trovano solo nel Donetsk e nel Luhansk, ma sono diffusi in tutto l’Est e il Sud.
I cosiddetti filorussi sono quindi una parte dei cittadini ucraini dell’Est e del Sud del Paese, che è accomunata da alcune posizioni:
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Doppio colpo all’università
di Lorenzo Zamponi
Dopo la guerra all'autonomia del sapere scatenata dalle destre nelle settimane scorse, il governo passa alle vie di fatto: con un decreto che aumenta la precarizzazione e una legge delega che ridisegna la governance
Un doppio colpo all’università. Una riforma del precariato, che cancelli i passi avanti fatti nel 2022 tornando almeno alla Gelmini, se non a un suo peggioramento, da presentare subito, forse addirittura sotto forma di decreto da convertire in legge entro l’estate. E una riforma generale dell’università, che riveda governance, reclutamento, didattica e diritto allo studio, proposta sotto forma di legge delega in modo da permettere al governo di ridisegnare l’università a proprio piacimento.
Qualche settimana fa, su queste pagine, si parlava della guerra culturale scatenata dalla destra, non solo in Italia, contro l’università, come uno dei pochissimi luoghi di discussione comune e confronto tra idee rimasto nella nostra società. Nel giro di pochi giorni, ai primi di giugno, il governo ha aperto due fronti di conflitto molto concreti e materiali: prima, le anticipazioni fatte filtrare dalla commissione ministeriale sul precariato guidata dall’ex rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta, sull’impellente proposta di revisione al ribasso delle figure contrattuali precarie della ricerca universitaria rispetto alla parzialmente migliorativa riforma del 2022; poi, nel consiglio dei ministri di martedì 4 giugno, il varo del disegno di legge sulla semplificazione normativa, che prevede, all’articolo 11, una delega ad ampio spettro al governo per riformare l’università. Due fulmini a ciel sereno, arrivati senza il minimo coinvolgimento della comunità accademica (con la parziale eccezione della Conferenza dei Rettori, come vedremo) e che entrano a gamba tesa in una situazione molto delicata: quella di un sistema universitario mai così pieno di precari (grazie al Pnrr), che difficilmente accetteranno di buon grado un’ulteriore riduzione delle possibilità di accesso a un contratto dignitoso. Una bomba a orologeria in attesa di esplodere.
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Ue e movimento comunista: cosa dovrebbe fare, oggi, il MpRC, se fosse un partito comunista?
di Fosco Giannini*
L’esigenza dell’unità del movimento comunista dell’Ue nella ricerca politico-teorica e nella lotta anticapitalista sovranazionale
Cosa dovrebbe fare, che compiti prioritari avrebbe, dopo queste elezioni europee 2024, il Movimento per la Rinascita Comunista se fosse un partito, un partito comunista e, ancor meglio, un partito comunista d’avanguardia? Cosa dovrebbe fare a partire dall’analisi della situazione concreta relativa all’Ue, così come mirabilmente è stata sviluppata dal compagno Ascanio Bernardeschi su questo stesso giornale, «Futura Società», in un editoriale dal titolo “Un voto che delegittima l’Unione europea”?
Ha scritto Ascanio: “L’Unione europea, fin dal trattato di Maastricht e dai suoi precedenti, si è caratterizzata come un tentativo di integrazione economica sulla base di un modello liberista e imperialista. È stata, per esempio, funzionale al colonialismo in Africa e, dopo la fine del campo socialista europeo, all’omologazione dei modelli sociali nei Paesi ex alleati dell’Urss, intossicando il continente di nazionalismo, razzismo e neofascismo, aderendo inoltre a tutte le guerre della Nato.
Le sofferenze sociali derivanti dalla crisi del capitalismo, l’assenza di ogni ipotesi alternativa alle politiche liberiste che hanno devastato i diritti sociali e richiesto un viraggio progressivo verso l’autoritarismo e la riduzione degli spazi democratici, hanno determinato un malcontento popolare che, in assenza – salvo pochissime eccezioni – di una sinistra forte e incisiva hanno avvantaggiato la lievitazione della falsa alternativa di destra”.E più avanti: “Per fortuna, nelle recenti elezioni europee non tutto il malcontento ha guardato a destra. Intanto c’è il dato importante, e non a caso trascurato dai media, dell’astensionismo (…) un dato così eclatante significa l’ennesima delegittimazione delle istituzioni dell’Unione europea. Ennesima, perché ogni qual volta i popoli sono stati chiamati a esprimere in appositi referendum (mai in Italia) l’approvazione o meno della Costituzione europea, quest’ultima è stata sonoramente bocciata, tanto che l’establishment ha ovviato cambiandole nome. Ora si chiama Trattato”.
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Il problema dei diritti fondamentali negli Stati Uniti (e non solo)
di Paolo Arigotti
Fabrizio De André, in uno dei suoi pezzi più celebri[1], cantava “Si sa che la gente dà buoni consigli, Sentendosi come Gesù nel tempio, Si sa che la gente dà buoni consigli, Se non può più dare cattivo esempio”.
Se applicassimo lo stesso principio ai rapporti internazionali, allora emergerebbe come in diversi stati, di ieri e di oggi, specialmente tra quelli che si ergono a difensori dei diritti umani – contemplati nella dichiarazione del 10 dicembre 1948, uno dei primi documenti approvati dall’Assemblea generale dell’ONU[2] - magari utilizzando tale scudo per giustificare una serie di azioni discutibili, esistono una serie di problemi di non poco conto: un qualcosa che potremmo facilmente inquadrare in quei “buoni esempi” di cui parlava il famoso cantautore genovese.
In effetti, gli Stati Uniti d’America detengono una serie di poco invidiabili primati sul fronte dei diritti umani.
Se molto si potrebbe dire, ed è stato detto, sulle guerre illegali (secondo lo statuto delle Nazioni Unite) condotte in giro per il mondo[3], magari in nome della presunta “esportazione della democrazia”, oggi preferiamo soffermarci sul versante interno.
Prima di spostare la nostra attenzione sulla realtà degli States, ci sembra importante ricordare come da più parti sul banco degli imputati vengano messe le enormi spese militari, che così tanto incidono sul debito americano, dovute non solo alle operazioni belliche tout court, ma anche al mantenimento di un colossale apparato – composto di basi, installazioni e forze dislocate nei quattro angoli del pianeta – che sottraggono non poche risorse alla cittadinanza.
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Cosa è andato storto nel capitalismo?
di Michael Roberts
Ruchir Sharma ha pubblicato un libro dal titolo What went wrong with capitalism? [Cosa è andato storto nel capitalismo?]. Ruchir Sharma è un investitore, gestore di fondi, autore ed editorialista del Financial Times. È a capo delle attività internazionali di Rockefeller Capital Management ed è stato investitore nei mercati emergenti presso Morgan Stanley Investment Management.
Con queste credenziali, di essere “organico alla bestia” o addirittura “una delle bestie”, dovrebbe conoscere la risposta alla sua domanda. In una recensione del suo libro sul Financial Times, Sharma delinea la sua argomentazione. In primo luogo, ci dice: «mi preoccupa la posizione degli Stati Uniti alla guida del mondo. La fiducia nel capitalismo americano, costruito su un governo limitato, che lascia spazio alla libertà e all'iniziativa individuale, è crollata». Egli osserva che ora, la maggior parte degli americani non si aspetta di «stare meglio tra cinque anni» – un minimo storico da quando l'Edelman Trust Barometer ha posto questa domanda per la prima volta, più di due decenni fa. Quattro americani su cinque dubitano che la vita per la generazione dei loro figli sarà migliore di quanto lo sia stata per loro. Secondo gli ultimi sondaggi Pew, la fiducia nel capitalismo è diminuita tra tutti gli americani, in particolare tra i democratici e i giovani. Infatti, tra i democratici sotto i trent’anni, il 58% ha ora un'«impressione positiva» del socialismo; solo il 29% dice la stessa cosa del capitalismo.
Questa è una brutta notizia per Sharma, forte sostenitore del capitalismo. Cosa è andato storto? Secondo Sharma, è l'ascesa del big government[1], del potere monopolistico e del denaro facile per salvare le imprese più grandi. Ciò ha portato alla stagnazione, alla bassa crescita della produttività e all'aumento delle disuguaglianze.
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Indisciplinabili dal fordismo
Hobos, wobblies e i limiti di Gramsci
di Fabrizio Denunzio
Fabrizio Denunzio riflette su come leggere Gramsci oggi, interrogando le positività e le criticità di Americanismo e fordismo e provando a illuminare i processi di formazione di soggettività che, dentro e fuori il fordismo, non si sono lasciate disciplinare dalla logica della produzione tayloristica e che, nella sostanza, lasciano intravedere forme di vita, di lotta e di sindacalismo non riconducibili a quelle che si sono affermate nel movimento operaio europeo tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo
Come leggere Gramsci oggi
In almeno due importanti lavori usciti di recente, a poca distanza l’uno dall’altro, Pasquale Serra ci invita a leggere Gramsci in modo molto diverso da quanto lo si sia fatto negli ultimi decenni, ossia da quando il furore filologico degli esperti – credo databile dagli inizi degli anni Novanta del Novecento e identificabile sempre presuntivamente, visto che l’autore non cita mai esplicitamente gli artefici di questa svolta, con Gianni Francioni e il suo progetto di una nuova edizione nazionale dei Quaderni del carcere – ha preso il sopravvento sul modo abituale con il quale in Italia, tra gli anni Cinquanta e i Settanta del XX secolo, si era solito leggere il pensatore sardo, cioè non allontanandolo mai dall’attualità politico-sociale del paese e da tutti i più scottanti problemi che lo assillavano: dal lavoro in fabbrica all’emigrazione, dal fascismo alla questione meridionale, e così via.
Con la conquista dell’egemonia interpretativa da parte delle ermeneutiche filologiche, il gramscismo italiano si è ridotto a una sapiente quanto ferrea macchina di citazioni avendo oramai abbandonato ogni pretesa analitica della realtà contemporanea. Questo passaggio ha determinato una forma di produzione intellettuale altamente «spoliticizzata» quanto sterilmente «speculativa» (Serra 2019, p. 67), meglio, allora, molto meglio, riprendere la lezione degli argentini per i quali il «loro Gramsci» non ha mai smesso di reagire con le questioni fondamentali del loro tempo, il peronismo prima fra tutte: da qui la decisione di Serra di curare l’edizione italiana del saggio di Horacio Gonzáles Il nostro Gramsci, dalla quale sono ricavabili le precedenti argomentazioni polemiche[1]. Che non sono destinate a finire.
Nel secondo dei due lavori a cui ho appena fatto riferimento, Serra rilancia la polemica, purtroppo lasciando anche questa volta nell’anonimato i suoi bersagli, ma non avrei difficoltà a riconoscervi, come esempi illustrativi, i lavori di un Giuseppe Cospito (2004, pp. 74-92) o di un Fabio Frosini (2004, pp- 93-11).
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Covid, l’ultima parola
di Paolo Di Marco
Premessa
Con un articolo sul NYTimes del 4 Giugno della biologa molecolare Alina Chan abbiamo finalmente e pubblicamente tutti gli elementi necessari a dire l’ultima parola sulla pandemia.
Dato che si presenta come un giallo colla classica lenta raccolta di indizi, la formulazione di ipotesi e i colpi di scena, per non dimenticare tutti i possibili depistaggi, ne seguiremo lo svolgimento lungo le tappe essenziali.
Le informazioni fondamentali sono riassunte in una sequenza di articoli, partendo dal Wall Street Journal poi da quello seminale di Wade sul Bulletin of the Atomic Scientists del 5/5/2021, passando all’intervento su Nature del Giugno ’20 con un articolo a primo firmatario Daszak, poi all’articolo sul Times di Tufekci del ‘22, poi quello di Wallace del ‘22 e infine questo di Chan.
A questo vanno aggiunti i dati sulla mortalità da pandemia raccolti sul Bulletin of the Atomic Scientists così come gli ultimi studi su Nature a altri giornali scientifici sui danni collaterali dei vaccini.
1- le origini: Wuhan
A Wuhan, epicentro della pandemia, c’è il grande laboratorio per la ricerca sui virus, WIV; dato che il virus più simile al COVID (96%) proviene dai pipistrelli, e la cava di pipistrelli più vicina (da cui proviene il simile) è a centinaia di km di distanza, qualcuno sospetta subito che l’origine dell’epidemia sia un incidente di laboratorio.
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Il fattore Malvinas
di Pietro Terzan
Daniele Burgio, Massimo Leoni, Roberto Sidoli: Terza guerra mondiale? Il fattore Malvinas, ed. LAntiDiplomatico, 2024
«Il fattore Malvinas prevede l’incombere di una gravissima crisi economico-sociale all’interno degli Stati Uniti, collegata a un’evidente inefficacia nel contrastarla persino da parte della rete di protezione offerta dallo Stato e dalla parastatale Federal Reserve, che conduca come sua (evitabile) conseguenza alla vittoria dell’ala più oltranzista e reazionaria dell’imperialismo americano con il suo mantra: “Non abbiamo più niente da perdere. Meglio tentare di vincere ad Armageddon che avere le masse in rivolta armata a Los Angeles, Washington e in giro per tutto il Paese”. O tutto, o niente».1
Il parallelismo storico con le scelte della dittatura militare argentina che nel 1982, con la società in piena catastrofe economica e con il popolo sfinito pronto a rivoltarsi, preferì sfidare una potenza atomica, occupando le isole Malvinas sotto il controllo coloniale britannico dal 1833, piuttosto che essere colpita da un violento cambiamento interno, risulta brillante e fertile di ragionamenti. Facciamo però prima un passo indietro. Sta per scoppiare la Terza Guerra Mondiale? Si combatte ormai da qualche anno una guerra mondiale ibrida e a pezzi? Siamo già nella Quarta guerra mondiale, contando così nell’elenco la Guerra fredda? Come possiamo comprendere “i misteri della politica internazionale”? Sicuramente l’ultimo libro di Burgio, Leoni e Sidoli ci riempie la testa di spunti.
«I grandi stati, ricorda Mearsheimer, non sono né buoni né cattivi, non perseguono la virtù ma l’egemonia, non si conformano alle tavole della legge morale ma alle dure regole della sopravvivenza. Per muoversi nella giungla delle relazioni internazionali occorre aggrapparsi ad alcuni assunti fondamentali. Occorre ricordare che la società internazionale è anarchica; che le grandi potenze dispongono di una considerevole forza militare e sono quindi, nei loro reciproci rapporti, potenzialmente pericolose; che nessuno stato può essere certo delle intenzioni degli altri; che la principale preoccupazione di ogni stato è la sopravvivenza; che i comportamenti dei singoli stati sono tuttavia razionali e quindi attenti a calcolare, per quanto possibile, le relazioni altrui».2
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Una cosiddetta “conferenza per la pace”, e il suo fallimento
di Gianmarco Pisa
A metà tra un’iniziativa politica di parte e un’operazione internazionale di offensiva mediatica, il vertice di Bürgenstock, un vero e proprio caso di “peacewashing”, si è concluso con un totale fallimento.
Si è conclusa con un clamoroso fallimento la cosiddetta “conferenza per la pace” in Ucraina, svolta presso il resort di Bürgenstock, in Svizzera, tra il 15 e il 16 giugno scorsi, e organizzata dalla Confederazione Elvetica, raccogliendo, in questo sforzo politico, la richiesta dell’Ucraina, che aveva avanzato una proposta contenente l’indicazione di un format di discussione decisamente “singolare”: una conferenza internazionale, sulle questioni della pace e del superamento della guerra nel Paese, sostanzialmente collegata alle iniziative del mondo occidentale e dei Paesi Nato nel supporto allo sforzo bellico del governo di Kiev, e che, sin dalla sua premessa, non prevedesse la partecipazione della “controparte”, vale a dire la Federazione russa. Come indica la piattaforma di questa iniziativa politica, pubblicata sul sito del Ministero degli Esteri della Confederazione, infatti, “il summit si baserà sulle discussioni che hanno avuto luogo negli ultimi mesi, in particolare sulla “formula di pace” ucraina e su altre proposte di pace basate sulla Carta delle Nazioni Unite. L’obiettivo del summit è quello di ispirare un futuro processo di pace. Per raggiungere questo obiettivo, il summit intende a) fornire una piattaforma per il dialogo sul percorso per raggiungere una pace globale, giusta e duratura per l’Ucraina basata sul diritto internazionale e sulla Carta delle Nazioni Unite; b) promuovere una comune intesa per un possibile quadro per raggiungere questo obiettivo; c) definire congiuntamente una tabella di marcia su come coinvolgere entrambe le parti in un futuro processo di pace”.
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Luciano Canfora. Uno storico "sovversivo"
Per una lettura tendenziosa del "Dizionario politico minimo"
di Carlo Formenti
Premessa
Luciano Canfora: Dizionario Politico Minimo, a cura di Antonio Di Siena, Fazi, 2024
Il dizionario politico è un genere che l’editoria specializzata in Scienze Sociali ha proposto con una certa frequenza negli ultimi decenni, un fenomeno che può essere interpretato anche come reazione all’horror vacui generato dalla progressiva rimozione della politica - intesa come prassi orientata a cambiare lo stato presente delle cose - dall’orizzonte della realtà postmoderna, a mano a mano che viene surclassata da altre sfere dell’agire umano, a partire all’economia. Si tratta di un genere che non amo particolarmente, perché praticato perlopiù da accademici – filosofi, sociologi e politologi – che tendono a neutralizzare il carattere antagonistico del politico, “inscatolandolo” in lemmi infarciti di categorie astratte e trans-storiche (se non anti-storiche).
Ciò premesso, per i tipi di Fazi è appena uscito il “Dizionario politico minimo” di Luciano Canfora (a cura di Antonio Di Siena) (1), che ho invece decisamente apprezzato: in primo luogo, perché non si tratta di un “vero” dizionario, nel senso che il curatore, come spiega nella Introduzione, ha realizzato una lunga intervista a Luciano Canfora, articolandola su una cinquantina di parole chiave che, più che vere e proprie voci, sono “stazioni” di un percorso attraverso l’attualità storico-politica (2); in secondo luogo perché lo sguardo di Canfora, in quanto storico, si concentra sui fatti invece di perdersi in disquisizioni astratte; infine perché, grazie al lavoro del curatore (che pure attribuisce il merito alla chiarezza espositiva dell’intervistato), il testo risulta scorrevole e di gradevole lettura e - grazie anche alla lunghezza contenuta - si divora in poche ore.
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Dall’indignazione all’azione
di Davide Sali
«La base psicologica su cui si erge il tipo delle individualità metropolitane è l’intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori.»
«Quella rapida successione e quella fitta concentrazione di stimoli nervosi contraddittori […] sollecita costantemente i nervi a reazioni così forti che questi alla fine smettono di reagire.»
G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito
Quante volte capita di sentire, all’interno del soverchiante flusso di informazioni a cui siamo impietosamente sottoposti tutti i giorni, frasi come “le immagini della guerra indignano”, “è opportuno condannare con fermezza le infelici uscite del tal ministro”, “si deve stigmatizzare senza ambiguità il terribile episodio” o, infine, l’immortale “è polemica!”. Queste espressioni si trovano nel linguaggio giornalistico quando si deve riportare brevemente una vasta reazione dell’opinione pubblica, per esempio legata al clamore scaturito da certi fatti. Ma si trovano altresì nel linguaggio istituzionale: sono cioè gli stessi politici o personalità pubbliche che le utilizzano direttamente al di là della mediazione giornalistica. Questo fatto, lungi dal rappresentare un semplice vizio di forma volto magari a rendere fruibile brevemente un pensiero complesso, è sintomatico dell’atteggiamento prevalente con cui si affrontano tematiche di attualità e non nasconde nessun pensiero complesso: è, al contrario, tutto il pensiero. Ciò significa che oltre la presa di posizione, la condanna a parole, la stigmatizzazione estemporanea non c’è nient’altro. A titolo d’esempio, cos’è la richiesta ripetitiva e pedante del PD affinché l’attuale esecutivo “condanni” esplicitamente il fascismo se non una genuina espressione del loro modo di pensare e una effettiva indicazione dell’unica differenza che li separa da FdI?
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La guerra inevitabile
di Enrico Tomaselli
A volte, non c’è davvero alcuna ragionevolezza, nelle scelte fatte dai leader. Ovviamente molto dipende dal contesto, e dal pensiero politico-ideologico cui fanno riferimento; un caso di scuola è quello di Adolf Hitler, che dagli anni del putsch di Monaco alla vigilia dell’Operazione Barbarossa mostrò sempre una grande lucidità politica e strategica, per poi finire via via preda di un vero e proprio delirio psicotico.
Qualcosa del genere sta purtroppo accadendo ancora una volta e, paradossalmente, stavolta il ruolo è ricoperto dal leader israeliano Netanyahu.
Quantomeno a partire dal 7 ottobre 2023, le sue capacità di leadership – da politico di lungo corso – si sono progressivamente affievolite, e appare sempre più governato dagli eventi, piuttosto che colui che li governa.
In questo continuo avvitamento, nel quale ovviamente trascina con sé un paese che – peraltro – al di là dei suoi errori, largamente si identifica col suo pensiero di fondo, ogni giorno viene fatto un passo in più verso una nuova guerra, forse più rapida di quella ucraina, ma di sicuro molto più feroce, e molto più destabilizzante.
In un certo senso, Israele sembra condannato alla coazione a ripetere.
Ovviamente, al di là della personalità di Netanyahu, c’è un problema di fondo, che va ben oltre lui e il suo governo, ed è l’ideologia sionista. Non è questa la sede per analizzarla, e sviscerarne le enormi contraddizioni che la caratterizzano, ma non si può non farne menzione poiché è su di essa che si fonda – letteralmente e in ogni senso – lo stato israeliano. Questo imprinting fondativo non può pertanto essere rimosso, e si riflette nelle scelte operate dalle varie leadership israeliane, dal ‘48 a oggi. Israele, semplicemente, non può cessare di essere ciò che è, non può diventare altro da sé.
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Cacciare Macron!
di Leonardo Mazzei
Verso un “Libano senza sole”?
A una settimana dalle elezioni europee le onde sismiche del tracollo macroniano continuano a propagarsi nella politica francese. Sarà così almeno fino al 7 luglio, data del ballottaggio. Ma forse anche dopo, se si realizzerà lo scenario previsto dall’ex ministro del lavoro Olivier Dussopt (quello della controriforma delle pensioni), che ha descritto la futura situazione istituzionale in Francia come “un Libano senza sole”. Un quadro un po’ desolante per l’improbabile Napoleone del XXI secolo. Ed è interessante che colui che da mesi scalpita per lanciare le sue truppe verso il fronte ucraino, debba adesso combattere una battaglia interna che potrebbe vederlo alla fine cadere di sella. Potenza della guerra e della vertigine del potere!
Questa cartolina che ci arriva da Parigi, oltretutto se affiancata a quella proveniente da Berlino, ci parla in effetti di una cosa sola. Il vero vincitore delle elezioni europee è un signore che risiede a Mosca e che non era candidato per alcun seggio a Strasburgo: Vladimir Putin. I capoccioni dell’escalation euroatlantica sono usciti scornati dalle urne, questo è il fatto. Nulla di definitivo, ovviamente, riguardo al futuro ruolo dei paesi Ue nella guerra. Ma di certo una sberla dalle conseguenze imprevedibili. E gli sviluppi da seguire maggiormente nelle prossime settimane saranno proprio quelli francesi.
Tre le questioni fondamentali: chi vincerà le elezioni legislative del 30 giugno – 7 luglio? Potrà uscirne un governo stabile? Macron potrà restare davvero all’Eliseo dopo le elezioni? Per provare a rispondere a queste tre domande è necessario comprendere come si sta ridisegnando il quadro delle alleanze e dei programmi elettorali in questa brevissima campagna elettorale. Tutto questo alla luce del particolare sistema elettorale del Paese transalpino.
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Il martello di Maslow
di Salvatore Minolfi
Qual è il bilancio dell'unipolarismo USA? Per il Watson Institute oltre novecentomila vittime, costi finanziari in trilioni e neanche l’apparenza di un ordine politico. A mancare non è stata la forza, ma la politica: una visione, un progetto
Con la guerra in Ucraina, il conflitto in Palestina e l’allerta su Taiwan, i tre più importanti tra i comandi strategici americani, attraverso i quali si dispiega operativamente il globalismo a stelle e strisce (Eucom, Centcom, Indopacom), risultano, per la prima volta, simultaneamente ingaggiati. Basterebbe questa osservazione a riconoscere il carattere generale e sistemico della crisi, la sua potenziale radicalità e la sua apparente refrattarietà a qualsiasi trattamento politico.
Introducendo un fascicolo di “Limes” interamente dedicato all’assenza di “fine” (il fine-la fine) delle guerre e delle crisi in cui sono coinvolti oggi gli Stati Uniti, direttamente o indirettamente, Lucio Caracciolo spaziava tra una spiegazione antropologica (la guerra, clausewitzianamente, non ha in se stessa un limite), una culturale (il limite è un elemento costitutivamente estraneo all’american way of life) e una di natura storico-politica (al declino dell’egemonia americana non si associa l’emergere di una tangibile alternativa). A questi spunti di analisi, sicuramente stimolanti, sarebbe utile associarne uno che indaghi più direttamente i caratteri distintivi dell’ordine americano ora in discussione. Da questa prospettiva si potrebbe valutare in che misura la moltiplicazione dei conflitti, il divorzio tra mezzi e fini, l’apparente eclissi della politica e, in ultimo, il ritorno dell’immagine di un nemico a tutto tondo, siano un portato della qualità stessa, della speciale conformazione che l’ordine americano ha assunto da più di un trentennio, con la sua agenda, le sue formule, la sua prassi, le sue istituzioni.
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Si intravede
di Alessandro Visalli
Comincia ad affacciarsi uno schema[1]. Il lungo ciclo, più che trentennale, nel quale in modo sostanzialmente sincrono con l’accelerazione del mondo unipolare negli anni Novanta e poi zero, intorno ad eventi altamente spettacolarizzati come il Protocollo di Kyoto (1997) e le successive COP, nel contesto delle denunce sempre più forti del IPPC circa l’incipiente cambiamento climatico, l’insorgenza della portante emozionale della lotta per un mondo più pulito ed equilibrato sembra essere sempre più sfidata da quella per un mondo più ‘democratico’, ovvero controllato dai Giusti. Si tratta, ovviamente, di due mobilitazioni dell’ansia, nelle quali la struttura è la medesima: il normale corso del mondo è minacciato da una crisi, da un avversario, che mette a repentaglio tutto, bisogna produrre una mobilitazione straordinaria prima che sia troppo tardi. Nessuno può volere altrimenti. Sembra, insomma, quasi che sia necessario un asse di orientamento per tenere in piedi il mondo nell’epoca del tramonto di tutti valori. Che una trascendenza si debba ogni volta imporre per colmare il vuoto nel quale cade, e da tempo, l’Occidente.
Perché serve un nuovo schema? Cercandone le radici bisogna riferirsi al movimento di fondo del nostro tempo: il tramonto dell’egemonia tecnica, economica e politico-militare dell'Occidente[2]. Questo movimento, di portata storica, che arriva a conclusione di un ciclo di mezzo millennio, ha infatti conseguenze in ogni direzione, e talvolta inattese. Di una conseguenza inattesa vogliamo ora parlare, ma prima bisogna focalizzare qualche sfondo.
Una delle dimensioni della sconfitta (o del fallimento) è in direzione della pretesa, nutrita appunto da cinque secoli, di guidare la modernizzazione e le sue costanti transizioni.
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Qualcosa di nuovo sul Fronte Occidentale
di Gianandrea Gaiani
Tre eventi internazionali in pochi giorni – Il G7 in Puglia, la Conferenza di pace in Svizzera e il summit dei ministri della Difesa della NATO a Bruxelles – hanno messo in luce la debolezza dell’Occidente, le sue crescenti quanto malcelate divisioni, la dissociazione dalla realtà di parte dei suoi leader ma anche qualche sprazzo di concreto realismo.
Un contesto di debolezza generalizzata, forse senza precedenti, di quasi tutti i leader delle potenze euro-atlantiche (in scadenza o dimissionari o in profonda crisi di consensi) che ha visto emergere l’Italia, padrona di casa del G7, per la stabilità del suo esecutivo, l’unico tra quelli delle grandi nazioni europee a essere uscito rafforzato dal voto dell‘8 e 9 giugno anche in virtù della posizione moderata e realistica assunta nelle ultime vicende che hanno riguardato il conflitto ucraino.
Instabilità crescente
Nonostante il tentativo di alcuni di presentare l’Italia “isolata” dagli alleati per il no secco all’impiego delle nostre armi fornite a Kiev contro obiettivi in territorio russo, a uscire isolati (dal proprio elettorato) sono stati proprio i governi più “bellicosi”. Pochi giorni dopo aver promesso di inviare in Ucraina aerei Mirage e truppe francesi Emmanuel Macron ha subito una sconfitta senza appello che lo ha costretto a indire nuove elezioni in Francia a fine giugno mentre il governo tedesco ha raggiunto l’apice della sua debolezza, con la SPD del cancelliere Olaf Scholz scavalcata persino da AfD.
Fuori dalla UE anche la crisi del governo conservatore britannico sembra pagare il prezzo del conflitto in Ucraina e delle sue conseguenze economiche e sociali: il premier Rishi Sunak ha indetto elezioni per il 4 luglio e sembra voler fare di tutto per farle vincere al Partito Laburista considerato che ha promesso, in caso di vittoria, il ripristino della leva militare obbligatoria.
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Tradurre o tradire?
Il compito del traduttore secondo Walter Benjamin
di Afshin Kaveh
La recente edizione critica del breve testo di Walter Benjamin intitolato Die Aufgabe des Übersetzers, ovvero Il compito del traduttore (Mimesis, 2023, pp. 174, 14 euro) curato nella nuova traduzione italiana di Maria Teresa Costa con tanto di testo tedesco a fronte, permette di immergersi, con rinnovate possibilità rispetto alla vecchia edizione nella traduzione di Solmi, all’interno della ricchezza di uno degli scritti più stimolanti del filosofo tedesco. Composto ormai cent’anni fa, tra il 1921 e il 1923, fu pensato come introduzione alla traduzione che lo stesso Benjamin fece dal francese al tedesco dei Tableaux parisiens di Charles Baudelaire.
Il compito che Benjamin si diede, come da titolo, era quello di scandagliare il processo che permea la traduzione di un testo da una lingua a un’altra, mettendo però in discussione l’idea della traduzione come mero processo immobile che si limita al passaggio da un testo di partenza, privilegiandolo o meno rispetto alla diversa lingua in cui verrà poi tradotto, a uno di arrivo, arricchendolo o meno rispetto alla composizione della lingua originale. Contrapponendosi e anzi allontanandosi ferocemente dallo scontro dei diversi approcci tradizionali di traduzione, ovvero tra chi innalza la fedeltà contro la libertà e chi, viceversa, la libertà contro la fedeltà, le riflessioni di Benjamin si immettono da una parte sulla scia di quelle che saranno negli anni a seguire le sue teorizzazioni estetiche, in particolare de Il dramma barocco tedesco e di parte de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, così come del suo successivo confronto coi problemi filosofici hegelo-marxiani nelle Tesi di filosofia della storia, tanto da anteporre spesso il compito del «traduttore» a quello del «filosofo» e, come vedremo, ponendo quasi il problema della traduzione come fosse un problema della «filosofia della storia».
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