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La cassetta degli attrezzi
Postille a "Guerra e rivoluzione"
di Carlo Formenti
Premessa
In "Guerra e Rivoluzione" (2 voll. Meltemi, Milano 2023) ho affrontato alcuni temi "scabrosi" sui quali il marxismo occidentale non può esimersi di riflettere, se vuole uscire dalle secche in cui lo hanno impantanato decenni di opportunismo, settarismo e dogmatismo. Personalmente ritengo che l'opportunismo (vedi le ricorrenti tentazioni elettoralistiche e la conseguente disponibilità al compromesso con le borghesie liberali), benché pernicioso, abbia causato meno danni del settarismo e del dogmatismo, cioè della riproposizione rituale e ottusa di dogmi che un secolo di storia ha impietosamente falsificato. E' questo crampo ideale che ha impedito alle formazioni neo comuniste di radicarsi nel sociale e raccogliere consensi (mi riferisco all'arruolamento di nuove leve di militanti, non a qualche manciata di voti) fra i lavoratori e le giovani generazioni. In questo articolo propongo alcuni approfondimenti relativi ai temi affrontati nel libro uscito qualche mese fa. Non toccherò - se non marginalmente - le questioni relative alle trasformazioni strutturali del tardo capitalismo e alle nuove forme di socialismo emerse in Cina e America Latina, perché si tratta di problemi sui quali sono già tornato su queste pagine. Mi concentrerò invece: 1) sulla critica degli "ismi" (economicismo, progressismo, eurocentrismo, universalismo, ecc.) che hanno sterilizzato il marxismo occidentale; 2) sulla questione della forma partito.
I. Gli "ismi"che hanno affossato il marxismo occidentale
In un dialogo con Onofrio Romano, pubblicato da DeriveApprodi nel 2019 (1), elencavo cinque temi da affrontare per il rinnovamento del marxismo:
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La Striscia di terra bruciata
di Joshua Frank
Dopo aver abbattuto le persone e le case, c’è da avvelenare la terra e l’acqua. Ci penseranno l’utilizzo del fosforo bianco, l’inquinamento delle falde e l’abbattimento degli ulivi. Come rendere Gaza, una volta conclusa la campagna di sterminio, un angolo del mondo invivibile anche per le generazioni palestinesi a venire. Ci vorranno almeno cento anni per eliminare gli effetti ambientali di questa guerra.
* * * *
Su una pittoresca spiaggia nel centro di Gaza, 1.600 metri a Nord del campo profughi di Al-Shati, ormai raso al suolo, lunghi tubi neri serpeggiano attraverso colline di sabbia bianca prima di scomparire sottoterra. Un’immagine rilasciata dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) mostra decine di soldati che posano condutture e installano quelle che sembrano essere stazioni di pompaggio mobili che devono prelevare l’acqua dal Mar Mediterraneo e convogliarla nei tunnel sotterranei. Il piano, secondo vari rapporti, è quello di allagare la vasta rete di gallerie e tunnel sotterranei che Hamas avrebbe costruito e utilizzato per svolgere le sue operazioni.
“Non parlerò dei dettagli, ma includono esplosivi per distruggere e altri mezzi per impedire agli agenti di Hamas di utilizzare i tunnel per danneggiare i nostri soldati”, ha detto il Capo di Stato Maggiore dell’IDF, il Tenente Generale Herzi Halevi. “Qualsiasi mezzo che ci dia un vantaggio sul nemico che usa i tunnel, privandolo di questa risorsa, è un mezzo che stiamo valutando di utilizzare. Questo è un buon piano”.
Anche se Israele sta sperimentando la sua strategia di allagamento, non è la prima volta che i tunnel di Hamas vengono sabotati avvalendosi dell’acqua di mare.
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Parte I: Putin prepara l'Africa Corps russo per il calderone africano
di Giuseppe Masala
Mentre gli occhi del mondo sono giustamente puntati sulla nuova deflagrazione della “guerra mondiale a pezzi” avvenuta con l'attacco anglo-americano in Yemen per contrastare il blocco dello stretto di Bab al-Mandab da parte dei ribelli filo-iraniani Huti anche in Africa la situazione si fa sempre più grave.
Come ho già illustrato in passato anche l'Africa è di fatto uno dei campi di battaglia nei quali si confrontano l'Occidente e il blocco euroasiatico (in particolare la Russia, che è più esposta militarmente mentre la Cina lo è maggiormente economicamente); il fine è di guadagnare un vantaggio strategico sull'avversario con l'insediamento di basi militari, ma anche quello di mettere le mani sulle preziose materie prime del continente e di trasferire produzioni a basso valore aggiunto la cui produzione non è più economicamente sostenibile nei paesi d'origine. Quest'ultimo è per esempio il caso dell'Etiopia (da ultimo entrata nei Brics) che sta ricevendo ingenti investimenti cinesi anche con il trasferimento di produzioni a basso valore aggiunto e non più sostenibili per Pechino (1). Per quanto riguarda l'esposizione militare della Russia in Africa, bisogna dire che questa diventa ogni giorno più rilevante: non solo con l'ingresso della compagnia di ventura privata Wagner fondata dal quell'Evgenij Prigožin deceduto in un misterioso incidente aereo, ma anche con l'intervento diretto di forze russe (Istruttori e intelligence), e il trasferimento di armamenti anche molto sofisticati. Si fa peraltro sempre più insistente la voce secondo cui la Russia (intesa come entità statuale) starebbe organizzando e istituendo una vera e propria Africa Corps di altissimo livello per contrastare “il colonialismo occidentale” nel continente.
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Lenin con gli occhi a mandorla: l’asiacentrismo
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
Lenin, Meglio meno ma meglio (1923): «L’esito della lotta» (tra comunismo e imperialismo moderno) «dipende, in ultima istanza, dal fatto che la Russia, l’India, la Cina ecc., costituiscono l’enorme maggioranza della popolazione».
Dato per assodato il decisivo apporto reso da Lenin, dal 1893 al 1923, alla vittoria e al consolidamento dell’epocale Rivoluzione d’Ottobre, in gran parte sull’ex impero zarista, risulta ora poco apprezzato nella sinistra antagonista delle metropoli imperialiste il geniale contributo teorico (oltre che pratico) offerto da Lenin al processo di sviluppo del marxismo creativo e antidogmatico: gli schemi e le analisi innovative via via prodotte dal grande rivoluzionario russo (1870-1924) rispetto al capitalismo russo dal 1894 al 1916, al partito rivoluzionario, allo sviluppo in fasi differenti del processo rivoluzionario, al materialismo e alla logica dialettica, all’imperialismo contemporaneo, al capitalismo monopolistico di stato, al complicato processo di costruzione del socialismo in Russia, costituiscono una serie impressionante di gemme assai preziose e incastonate tra loro che servono, ancora oggi, all’elaborazione e alla praxis collettiva dei comunisti del Ventunesimo secolo, a un secolo dalla scomparsa del fondatore del bolscevismo/comunismo moderno.
Molto meno nota si rivela invece un’altra sezione del pensiero leninista, rilevante e importante, che consiste nella teoria dell’asiacentrismo.
Bisogna subito precisare che lo stesso concetto di Asia risulta di origine europea e risale allo storico greco Erodoto, essendo una categoria geopolitica non accettata dagli abitanti dell’Asia fino ai primi del Novecento.
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«Stiamo assistendo alla caduta finale dell'Occidente»
Alexandre Devecchio intervista Emmanuel Todd
Nel suo ultimo libro, lo storico e antropologo diagnostica La Sconfitta dell'Occidente. Nel suo saggio La Caduta finale, pubblicato nel 1976, l'autore aveva previsto con precisione il crollo dell'Unione Sovietica
GRANDE INTERVISTA A «LE FIGARO» – Nel suo ultimo libro, lo storico e antropologo diagnostica La Sconfitta dell’Occidente. Nel suo saggio La Caduta finale, pubblicato nel 1976, l’autore aveva previsto con precisione il crollo dell’Unione Sovietica. «Le Figaro» spera che, questa volta, il “profeta” Todd si sbagli.
* * * *
LE FIGARO. – Secondo lei, questo libro ha in particolare come punto di partenza l’intervista che ha concesso al «Figaro» esattamente un anno fa, intitolata “La Terza Guerra Mondiale è iniziata“. Ora lei constata la sconfitta dell’Occidente. Ma la guerra non è finita…
Emmanuel TODD. – La guerra non è finita, ma l’Occidente è uscito dall’illusione di una vittoria ucraina possibile. Non era ancora chiaro per tutti quando scrivevo, ma oggi, dopo il fallimento della controffensiva di quest’estate, e la constatazione dell’incapacità degli Stati Uniti e degli altri paesi della NATO di fornire armi sufficienti all’Ucraina, il Pentagono sarebbe d’accordo con me.
La mia constatazione della sconfitta dell’Occidente si basa su tre fattori.
Primo, la carenza industriale degli Stati Uniti con la rivelazione del carattere fittizio del PIL americano. Nel mio libro, smonto questo PIL e mostro le cause profonde del declino industriale: l’insufficienza della formazione di ingegneria e più in generale il declino del livello educativo, a partire dal 1965 negli Stati Uniti.
Più in profondità, la scomparsa del protestantesimo americano è il secondo fattore della caduta dell’Occidente.
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Multipolarimo, socialismo e decolonizzazione del mondo
di Antonio Castronovi
“Nel mondo che emerge, un mondo fatto
di conflitti etnici scontri di civiltà,
la convinzione occidentale dell’universalità
della propria cultura comporta tre problemi:
è falsa, è immorale, è pericolosa…
l’imperialismo è la conseguenza
logica e necessaria dell’universalismo.”
(S. P. Huntington: Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale).
Il mondo è scosso come non mai da un moto tellurico che sta rompendo gli ingiusti “equilibri” secolari ereditati dal colonialismo occidentale che ha saccheggiato, depredato e colonizzato interi continenti: dall’Africa all’Asia, dalle Americhe all’Australia. Interi popoli stanno riemergendo oggi dall’oscurità della storia e dalla marginalità, e stanno ritrovando le vie del proprio riscatto e della propria indipendenza e sovranità, accelerando la tendenza al multipolarismo.
La frattura che ha provocato questo evento è stata causata dalla decisione coraggiosa della Russia di non sottostare alle provocazioni della NATO di voler fare dell’Ucraina un avamposto anti-russo, minacciandone così la sicurezza. La guerra che ne è seguita sta mettendo in crisi l’ordine unipolare USA nel mondo, accelerando le spinte anticoloniali che si stanno liberando dall’egemonismo occidentale in Africa, in Asia, nel Medio Oriente, in America Latina.
Sta prendendo sempre più forma un nuovo ordine mondiale multipolare, con nuove istituzioni, nuovi rapporti di cooperazione tra Stati e paesi, con nuovi e diversi valori alternativi e contrapposti a quelli neo liberali.
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Oltre la Françafrique
I colpi di Stato in Africa nel processo di decolonizzazione
di Gabriele Santoro
Nei venti anni successivi all’indipendenza, ottenuta nel 1960, l’Alto Volta (dal 1984 Burkina Faso) vide tre colpi di Stato. Dopo quello del 1980 iniziò l’ascesa del militare e politico rivoluzionario Thomas Noël Isidore Sankara, classe 1949, il Presidente più giovane che l’Africa abbia conosciuto. Nominato Capitano, poi segretario di Stato per l’informazione, si distingueva spesso dalla condotta governativa quando questa avversava il popolo. Conquistavano il suo linguaggio coerente nel tempo con i comportamenti, la creatività, l’energia che sostanziarono un immaginario, quello del riscatto antimperialista dei vinti, che sostenne, seppure in assenza di libere elezioni, la sua scalata al vertice dello Stato.
“Osiamo inventare l’avvenire” sosteneva Sankara e non era semplice farlo nel secondo Paese africano più povero, dove l’aspettativa di vita non raggiungeva i quarant’anni. Non era semplice denunciare il fallimento degli stati postcoloniali, creati in quella regione del continente sotto la forte influenza francese, divenuti delle “democrature” segnate da regimi gerontocratici e prive di alcun contrappeso nei poteri statuali. Uno degli elementi più interessanti della breve e intensa vicenda sankarista fu proprio la messa in discussione del paradigma della Françafrique, perpetuatosi anche dopo il 1960, che è tuttora una questione politica e sociale aperta. Negli ultimi tre anni cinque paesi francofoni hanno vissuto colpi di stato militari: Guinea, Mali, Burkina Faso, Niger e da ultimo il Gabon.
Nel giorno della liberazione del Mali, Charles De Gaulle aveva ammonito: “L’indipendenza reale, l’indipendenza totale non appartiene a nessuno. Non c’è politica possibile senza cooperazione”.
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Materialismo dialettico in Mao Tse-tung
di Salvatore Bravo
Il marxismo è analisi oggettiva della realtà, è ricerca delle condizioni che conducono alla rivoluzione e all’emancipazione. Il materialismo dialettico è filosofia della prassi, essa con le sue categorie indaga la realtà permettendo di valutare i processi più idonei che conducono al comunismo. Il materialismo dialettico è una visione del mondo, aderire a esso significa partecipare alla lotta di classe nelle circostanze storiche date. Il materialismo dialettico è la Filosofia del proletariato, mentre l’Idealismo è la filosofia della borghesia capitalista. Mao Tse tung contrappone le due filosofie a cui corrispondono le classi sociali in lotta.
La Filosofia per Mao Tse-tung è sviluppo analitico della realtà, è dialettica materialistica con la quale la classe subalterna diviene consapevole delle condizioni oggettive che conducono alla rivoluzione. Dal fatalismo dell’Idealismo che eternizza i rapporti di forza, il proletariato può uscirne sono con il materialismo dialettico con il quale diviene consapevole che la subalternità non è un dato naturale, ma una relazione materiale dinamica e come tale trasformabile. La Filosofia non insegna il semplice rispecchiamento, essa è movimento di liberazione dalle catene che opprimono i dominati. Le classi operaia e contadina decodificano politicamente le condizioni per ribaltare i rapporti di forza e lo sfruttamento mediante il materialismo dialettico. Mao Tse-tung è erede della lesione filosofica di Marx ed Engels:
“Per quanto riguarda il problema dell’oggetto della filosofia, Marx, Engels e Lenin si opposero tutti quanti alla separazione della filosofia dalla realtà concreta e alla trasformazione della filosofia in una serie di dottrine indipendenti. Essi sottolinearono che la filosofia deve svilupparsi dall’analisi della vita reale e dei rapporti reali e si opposero al metodo della logica formale e dell’idealismo menscevico secondo il quale oggetto di studio sono i concetti logici o un mondo naturale di concetti logici.
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Da vent’anni li aiutiamo a compiere i peggiori crimini
di Francesco Cappello
L’Italia è colpevolmente al fianco dei governi israeliani, in qualunque loro azione, contribuendo fattivamente alle sue reiterate criminali politiche di guerra. La scelta, ormai ventennale, di collaborare al potenziamento dell’apparato bellico israeliano ha avuto l’effetto collaterale della completa perdita di credibilità del ruolo di mediatore in Medio Oriente del nostro Paese
La cooperazione tra l’industria militare italiana e quella israeliana è stata ratificata dal terzo governo Berlusconi che codificò un precedente accordo generale nella forma di memorandum di intesa, sulla cooperazione militare tra Italia e Israele, con la Legge 94 del maggio 2005, passata grazie a uno schieramento “bipartisan”. Il memorandum coinvolge i Ministeri degli Esteri e della Difesa con la piena partecipazione del Ministero dell’Università e della Ricerca. Prevede misure per promuovere gli scambi di tecnologie, formazione, reciproco addestramento (1), ricerca militare, manovre militari congiunte, nonché il reciproco trasferimento di armi e tecnologia.
L’industria militare e le forze armate del nostro Paese sono coinvolte in attività militari congiunte con Israele di cui persino il Parlamento della Repubblica Italiana non ha piena conoscenza. Siamo complici delle reiterate carneficine contro i civili palestinesi che loro chiamano guerra.
Nel luglio 2012, è stato raggiunto un nuovo accordo per l’esportazione dei sistemi militari italiani verso Israele, inclusi gli aerei M-346 consegnati alle forze armate israeliane nel luglio 2014, nel bel mezzo della criminale operazione “Margine protettivo” a Gaza (Le vittime furono circa 2300, tra cui 600 bambini e 11100 feriti). Sebbene i nuovi velivoli siano utilizzati per l’addestramento al pilotaggio dei caccia, possono anche essere armati e utilizzati per bombardare. In particolare, grazie alla loro facilità di utilizzo, possono essere utilizzati in zone urbane e durante conflitti con forze armate a basso dispiegamento di contraerea.
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I poveri non lo sanno
di Michele Blanco*
Giulio Marcon con una precisa e puntuale ricognizione tratta dalle principali fonti economiche e statistiche italiane: Istat, Banca d’Italia e Agenzia delle Entrate, ricostruisce, non solo i reali numeri della ricchezza in Italia, ma anche i suoi tipici tratti distintivi, come le modalità di accumulazione e di trasmissione ereditaria, il sempre più stretto rapporto tra il potere e la politica, gli stili di vita, la formazione dei figli dei ricchi nelle scuole esclusive e nelle università d’élite, gli enormi interessi spesso nascosti della filantropia, l’elevata evasione italiana dal pagamento delle tasse e i paradisi fiscali, che permettono di nascondere all’erario enormi quantità di ricchezza da tassare.
Dei ricchi e della loro ricchezza, in realtà, sappiamo poco o niente, e anche quando vengono pubblicate inchieste internazionali, che scoperchiano enormi giri finanziari illegali, società create fittiziamente in paradisi fiscali per evadere le tasse, liste infinite di ricconi evasori, sembra incredibile che l’interesse dei nostri media duri poche ore, nonostante si stimi che l’8% del patrimonio finanziario globale sia in paradisi fiscali. Diversamente dal mondo anglosassone, in Italia non ci sono molti studi che analizzano chi sono i ricchi nella nostra società, che cosa pensano, leggono, vivono, chi detiene la maggior parte della ricchezza in un dato periodo e per quali ragioni. Tutti noi italiani dovremmo saperne di più delle dinamiche economiche e sociali del Paese, capire come si esercita effettivamente il potere economico e finanziario, che influenza ha sul potere politico, come si formano le élite, perché in Italia ci sono tante ingiustificate diseguaglianze e tanta insopportabile povertà.
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Guerre teoriche? No, meglio interrogarsi sulle sfide dell'economia
Bisogna partire dalle idee che guidano la politica economica
di Roberto Romano
Continua il dibattito sull'insegnamento dell'economia neoclassica. Dal Pil potenziale al tasso naturale di interesse, i concetti possono essere riempiti in modo diverso a seconda dell'approccio teorico. Per Roberto Romano è più importante coltivare questa consapevolezza che cercare di delegittimare gli approcci mainstream
Dobbiamo smettere di insegnare l’economia neoclassica, come si sono chiesti Rochon e Rossi in un recente intervento su queste pagine? È una domanda retorica e forse inutile, sebbene lecita. Non appena si affaccia una sconfitta delle idee più o meno socialiste, ci domandiamo se la scienza mainstream debba avere ancora diritto di cittadinanza1. In realtà, sarebbe più comprensibile questa domanda: siamo all’altezza delle grandi sfide sociali, culturali, scientifiche, economiche e teoriche che attendono l’umanità?
* * * *
La ricerca economica è pervasa da troppi cliché, dalla necessità di pubblicare su riviste di classe A, da un bisogno spasmodico di penetrare ogni intercapedine della produzione di sapere. Tanto che, siamo onesti, si è persa la voglia di capire e comprendere il suo vero oggetto: la società. Perché non riprendiamo a studiare il mondo per come funziona realmente? Perché non ci facciamo più le domande di senso? Perché l’economia è uscita dal suo alveo naturale di scienza sociale?
Spesso mi sono posto domande su concetti come il Pil potenziale, la domanda effettiva e il tasso naturale di interesse. Ho cercato la risposta leggendo gli autori che, a torto o ragione, consideriamo autorevoli da entrambi i lati della “barricata”. Ma se mettiamo in una stanza dieci di questi autori, sono altrettanto certo che possiamo uscirne con più di dieci ipotesi di lavoro o proposte di soluzioni.
Che cosa si nasconde dietro questa incertezza? Il capitalismo è un modo di essere delle società che non si distrugge nelle crisi, ma evidentemente si trasforma e, una volta trasformato, dà luogo a una nuova cultura capitalistica e a nuovi rapporti tra il capitale, lo Stato e gli stessi capitalisti2.
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Il caso legale di genocidio
di Chris Hedges - chrishedges.substack.com
La Corte internazionale di giustizia potrebbe essere tutto ciò che si frappone tra i palestinesi di Gaza e il genocidio
L’esauriente memoria di 84 pagine presentata dal Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) che accusa Israele di genocidio è difficile da confutare. La campagna israeliana di uccisioni indiscriminate, la distruzione su larga scala di infrastrutture, tra cui abitazioni, ospedali e impianti per il trattamento dell’acqua, insieme all’uso della fame come arma, accompagnata da una retorica genocida da parte dei suoi leader politici e militari che parlano di distruggere Gaza e di eradicare i 2,3 milioni di palestinesi, sono tutte ottime ragione per arrivare alla condanna di Israele per genocidio.
Il fatto che Israele abbia diffamato il Sudafrica definendolo il “braccio legale” di Hamas esemplifica il fallimento della sua difesa, una diffamazione a cui hanno fatto eco quelli che sostengono che le manifestazioni organizzate per chiedere un cessate il fuoco e proteggere i diritti umani dei palestinesi sarebbero “antisemite”. Israele, con il suo genocidio trasmesso in diretta al mondo intero, non ha argomenti sostanziali per controbattere.
Ma questo non significa che i giudici del tribunale si pronunceranno a favore del Sudafrica. La pressione degli Stati Uniti – il Segretario di Stato Antony Blinken ha definito le accuse sudafricane “prive di merito” – sui giudici, scelti tra gli Stati membri dell’ONU, sarà intensa.
Una sentenza di genocidio è una macchia che Israele – che utilizza l’Olocausto come arma per giustificare la brutalizzazione dei palestinesi – avrebbe difficoltà a rimuovere. Sarebbe una sconfitta per l’insistenza di Israele che gli Ebrei sono le eterne vittime.
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I soggetti non emergono dalla terra
di Alessandro Visalli
Da Alessandro Visalli, Classe e Partito, Meltemi 2023[1]
In un agile libricino del 2019, Tagliare i rami secchi[2], Carlo Formenti e Onofrio Romano, hanno prodotto un agile e perspicace riassunto delle tesi ‘datate, incomplete, contraddittorie’ della lunga tradizione marxista. Tra queste emerge il bersaglio delle “Tesi sulla filosofia della Storia”[3] di Benjamin: la rivoluzione, e quindi il suo ‘agente’ la ‘classe’, interpretata come immanenza nell’evoluzione della Storia, e la natura cristologica dello stesso ‘proletariato’. Per come lo riassume, a un certo punto, Onofrio Romano:
“Non è un caso che l’anti-filosofo di Treviri non prefiguri mai una società comunista, non si cimenti a immaginare, vale a dire, il funzionamento ordinario della società liberata. Non si tratta di mera diffidenza nei confronti dell’atteggiamento eccessivamente prefigurativo dei socialisti utopisti. È una scelta che rinviene all’idea generale di trasformazione, come evento immanente allo sviluppo capitalistico, rispetto al quale ogni velleità di direzione politica dei processi è considerata un’ingenuità. È quindi inutile partorire disegni della società futura sulla base dei propri desideri. La società fa da sé. Occorre solo prenderne atto”[4].
Questa idea, profondamente radicata nella tradizione marxista e ripresa dal grande idealismo tedesco[5], poi funziona dentro la ‘grande committenza’ del socialismo novecentesco[6], nel senso antevisto da Antonio Labriola e da Rosa Luxemburg, come ottima scusa per non agire e affaccendarsi nella cucina, affidando il futuro alla ‘provvidenza’ laica dei destini progressivi della classe. Il filosofo cassinese, nel rifiutare nettamente le idealistiche distinzioni di vero e falso in sé, o giusto e ingiusto, ricondotte a una totalità che dispone di leggi immanenti nel divenire, rifiuta anche di interpretarle in senso deterministico o evoluzionistico.
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L’Unione Europea, coordinata dalla NATO, è lo strumento degli USA nel conflitto strategico della fase multicentrica
di Luigi Longo
[…] l’Europa è diventata una Eurolandia priva di sovranità economica e soprattutto geopolitica e militare. Al suo interno è insediato un corpo di occupazione straniero, denominato NATO, inviato da tempo come mercenariato soldatesco in Asia Centrale, pronto a minacciare e a rischiare una guerra mondiale in Georgia e in Ucraina. Se questo è anche in parte vero, allora che senso ha elencare la tiritera del nostro grande profilo europeo, dalla filosofia greca al diritto romano, dalle cattedrali romaniche e gotiche dell’umanesimo rinascimentale, dalla rivoluzione scientifica all’illuminismo, dall’eredità classica greco-romana al cristianesimo, eccetera?
Pura ipocrisia.
Costanzo Preve*
1. Avanzerò alcune riflessioni sull’Europa, non a partire dalla storia dell’Europa delle Nazioni, che si formarono dopo la dissoluzione dell’impero di Carlo Magno (1), ma a partire dalla guerra Russia-Ucraina (cioè l’aggressione Usa alla Russia via Nato-Europa), che di fatto sancisce la fine del progetto dell’Unione Europea (avanzato e realizzato dopo la seconda guerra mondiale, anche se pensato intorno agli anni trenta del secolo scorso dagli Stati Uniti d’America) sostituito dal nuovo ruolo della NATO che meglio si addice alle nuove strategie statunitensi nella fase multicentrica [conflitto tra potenza egemone in declino (USA) e potenze consolidate (Russia, Cina) e in ascesa (India)] (2). Una << […] Europa occidentale (anche l’Europa orientale, mia precisazione LL) sottomessa a una occupazione militare USA accettata dagli attuali governi fantocci, che appunto per questa ragione considero del tutto illegittimi, non importa se sanzionati o meno da elezioni manipolate >> (3).
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Mar Rosso, la sfida a USA e Israele che viene dallo Yemen
di Roberto Iannuzzi
Washington preferisce l’escalation alla diplomazia in una crisi dalle radici lontane, che gli USA hanno contribuito a creare, e che aggiunge incertezze al già instabile panorama regionale
Il Mar Rosso è solitamente una delle rotte commerciali più trafficate al mondo. Circa il 12% del commercio mondiale, quasi il 30% del traffico marittimo di container, e quantità significative di petrolio, passano attraverso il Canale di Suez a nord e lo Stretto di Bab el-Mandeb a sud.
Quest’ultimo, il cui nome letteralmente significa “porta della lamentazione” o “porta delle lacrime” (probabilmente per il pericolo che tale passaggio, caratterizzato da correnti e venti imprevedibili, secche e barriere coralline, anticamente costituiva per la navigazione), congiunge il Mar Rosso al Golfo di Aden, e quindi all’Oceano Indiano e alle ricchezze del continente asiatico.
Ai due lati dello stretto si fronteggiano Gibuti, sulla costa africana, e lo Yemen, all’estremità sudoccidentale della Penisola Arabica. Ed è proprio dallo Yemen, uno dei paesi più poveri del mondo, che il movimento sciita di Ansar Allah, meglio noto come gli “Houthi” (dal nome del fondatore Hussein al-Houthi), ha lanciato la sua sfida a Israele e agli Stati Uniti.
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Sessismo nelle fiabe? Nemmeno per sogno!
di Roberto Luigi Pagani
Anche per questo articolo mi scuso per eventuali errori o refusi, ma non ho il tempo di rileggere tutto con calma, vi chiedo la cortesia di segnalarmi: provvederò a correggerli appena potrò!
Non è un segreto, ma da un anno sto lavorando a una pubblicazione sul folklore islandese. Leggende, fiabe e racconti che, in una veste più o meno fantastica, tramandata nel linguaggio semplice di generazioni di contadini e pescatori, contengono grandi valori universali. Non sono di formazione folklorista, ma diciamo che per questo lavoro ho dovuto studiare parecchio sull’argomento, e ho acquisito una certa dimestichezza con simbolismi e convenzioni tipiche del genere. Per questo vorrei fare alcune considerazioni su alcuni stralci pubblicati di un monologo di Paola Cortellesi sul sessismo nelle fiabe tenutosi all’inaugurazione dell’anno accademico della Luiss (Libera Università internazionale di studi sociali). Preciso che non ho avuto occasione di sentirlo tutto, e riconosco sia possibile che queste frasi siano state de-contestualizzate e rese o distorte. Le discuto comunque nella forma in cui sono state riportate, perché ritengo offrano spunti utili per veicolare informazioni e considerazioni importanti nel clima culturale attuale.
Non posso purtroppo analizzare esaustivamente ogni elemento, per ragioni di spazio, e discuterò solo alcune frasi citate in articoli di giornale trattandoli sommariamente ma, spero, quanto basta per mostrare come (a mio modesto avviso) queste frasi travisino e distorcano parecchio gli elementi delle fiabe che criticano, in un modo a mio avviso molto parziale e ideologico. Parafraso per sintesi le asserzioni in oggetto, mettendole in corsivo e neretto. Non si tratta di citazioni testuali, e se ho frainteso a mia volta mi scuso anticipatamente, ma ripeto che l’obiettivo qui non è attaccare la persona a cui sarebbero attribuite, quanto proprio il loro contenuto letterale, così come appare.
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Il "proletariato" palestinese
Un po’ di cifre
di Alessandro Mantovani
I proclami e i comunicati della resistenza contro Israele non ne fanno menzione; per essa le sue rivendicazioni specifiche non hanno nella lotta di liberazione nazionale luogo a procedere. Parliamo del proletariato palestinese.
Per contro diverse tendenze internazionaliste occidentali danno per scontato che esista, che possa essere autonomo dal nazionalismo borghese, che debba respingere le false sirene della lotta nazionale e combattere - assieme al proletariato del Medio Oriente, incluso eventualmente quello israeliano - contro la propria borghesia, in vista della propria emancipazione1.
Esiste davvero un proletariato palestinese? E se sì, qual è il suo peso sul totale della popolazione araba della Palestina? Non è facile determinarlo, dal momento che non solo le statistiche sono incomplete ma soprattutto redatte secondo criteri di non facile lettura marxista.
Per il marxismo la classe proletaria, in quanto classe rivoluzionaria, non si definisce in base al mero fatto di percepire un salario, bensì tenendo conto di quegli elementi dinamici che fanno di uno strato sociale un fattore in grado di incidere sui rapporti tra le classi: ad esempio una maggior concentrazione sul territorio, nelle unità produttive e nei servizi conferiscono notevole influenza sociale e politica anche a gruppi relativamente poco numerosi rispetto al resto della popolazione. Il proletariato russo arrivò al potere in Russia, nel 1917, benché minoranza, perché a Pietrogrado era concentrato e forte. Un altro elemento da tenere presente è il grado di “purezza” del rapporto fra capitale e lavoro salariato. Ad esempio un salariato stagionale, ancora legato parte dell’anno all’agricoltura, differisce alquanto per mentalità da un operaio industriale. Un lavoratore dei servizi differisce da un addetto alla catena di montaggio, ecc.
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Nelle mani sbagliate
di Paolo Cacciari
Il tormento crescente che rende cupa la vita di ogni giorno a causa delle guerre e delle devastazioni ambientali e climatiche che non sembrano conoscere limiti non deve impedire di pensare e guardare il mondo diversamente. È necessario prendere atto che affidare la cura delle relazioni tra gli esseri umani e tra loro e la natura agli apparati di governo degli stati significa infilarla in un binario morto. Abbiamo bisogno di rovesciare l’approccio ai problemi, scrive Paolo Cacciari nel nuovo numero della rivista Quaderni della decrescita (“Energia: quanta, quale, per chi”): smetterla di delegare la loro soluzione a chi occupa posizioni di potere nell’economia, nella politica istituzionale, nella tecnoscienza, e affidarci alle comunità che vivono i territori in molti modi diversi.
* * * *
E se l’errore fosse ab origine? Se la ragione di tanti, tragici fallimenti non dipendesse dalla correttezza delle analisi della situazione e nemmeno dall’appropriatezza degli obiettivi da raggiungere1, ma dall’errata impostazione del problema? Ovvero, dalla scelta del chi e del come dovrebbe agire per ottenere i risultati desiderati? Affidare la cura delle relazioni tra gli esseri umani e tra loro e la natura agli apparati di governo degli stati significa infilarla in un binario morto. È sbagliato aspettarsi che a risolvere le crisi planetarie, umane ed ecologiche, siano coloro che le hanno create.
Allora, forse, è necessario rovesciare l’approccio ai problemi; smetterla di delegare la loro soluzione a chi occupa le posizioni di potere ai vertici dell’economia, della tecnoscienza, della politica e affidarli invece alle comunità insediate nei territori2, alle popolazioni direttamente responsabili della bontà delle relazioni tra gli esseri umani e tra loro e gli ecosistemi di appartenenza.
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La trasformazione europea digitale, smart e verde: un imbroglio nero come il carbone
di Franco Maloberti
Allegria! L’Europa diventa digitale, e saremo tutti meglio serviti. Mica è uno scherzo, la Commissione è decisa a fare di questo spicchio di millennio il decennio digitale europeo. “L’Europa deve ora rafforzare la propria sovranità digitale e fissare norme, anziché seguire quelle di altri Paesi, incentrandosi chiaramente sui dati, la tecnologia e le infrastrutture“. Tutto grazie anche all’intelligenza artificiale. L’ha detto anche Ursula nel suo discorso sullo stato dell’unione del 13 settembre 2023; infatti “ha affermato che la prima priorità dell’UE è garantire che l’intelligenza artificiale abbia uno sviluppo antropocentrico, trasparente e responsabile“. Antropocentrico, perbacco! Con l’uomo al centro, mica pissi-pissi bau-bau. E non ha detto solo questo. Ha anche detto che “È il momento di mostrare ai giovani che possiamo costruire un continente in cui ognuno può essere ciò che è, amare chi desidera e cercare di realizzare le sue ambizioni. Un continente riconciliato con la natura e che funga da guida nel settore delle nuove tecnologie. Un continente unito nella libertà e nella pace. Ancora una volta, per l’Europa è giunta l’ora di farsi trovare pronta all’appuntamento con la Storia“. Mecojoni! Continente unito nella libertà? Si fa per dire!…Nella pace? Beh, quella c’è davvero. Basta fare un giro in Ucraina o a Gaza e…ecco la pace. Macché Ucraina e Gaza? Loro non sono continente europeo, loro non contano. Poi, chissenefrega se tanti bambini muoiono ammazzati e anche scuoiati, mica sono nostri i bambini, i loro (i sette, grandicelli, di Ursula – ‘membro di Classe I dell’ordine di Jaroslav il Saggio‘ (Ucraina)) e la bambina di Giorgia, sono ben al sicuro. Le mamme di quei bambini che vengono ammazzati da bombe amiche, graziosamente fornite dal pacifico e avanzato Occidente, se ne faranno bene una ragione (se non sono già morte anche loro)…
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Il feticcio del Fronte Unico, la concretezza della Rivoluzione (e della controrivoluzione)
di Sandro Moiso
Graziano Giusti, Comunisti e Fronte Unico. Il “Biennio Rosso” e gli anni della politica del “Fronte Unico” in Italia (1918-1924), Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, Milano 2023, pp. 573, 18 euro
Come si afferma nella quarta di copertina della recente ricerca di Graziano Giusti, pubblicata dalla Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, «il termine “Fronte” è forse uno dei più usati – e anche abusati – in politica. Per l’uso che ne viene fatto in campo militare, esso richiama il concetto del “fare argine” contro il nemico, del porsi su una linea di efficace difesa per raccogliere le forze e passare successivamente al contrattacco».
Pertanto il Fronte Unico di cui si parla, come è possibile espungere dalle date, è quello intorno a cui si svolse un acceso e combattuto dibattito, sia a livello internazionale che nazionale, negli anni immediatamente successivi a due degli avvenimenti fondativi per le strategie politiche del XX secolo: la prima carneficina mondiale e la rivoluzione russa.
Dibattito aperto dalla convinzione, diffusa nella Terza Internazionale appena fondata, che tale strategia fosse la migliore o la più adatta per togliere dall’impasse l’iniziativa dei partiti comunisti appena formati o in via di formazione. Una tattica che, senza dichiararlo apertamente, andava nella direzione di accelerare la Rivoluzione in Occidente. Sia per liberare dalla schiavitù capitalistica milioni di proletari e lavoratori, che per superare l’isolamento in cui la neonata Unione Socialista delle Repubbliche Sovietiche era venuta a trovarsi durante la Guerra civile, inizialmente foraggiata dalle potenze occidentali tra il 1918 e il 1919.
A questo andava ad aggiungersi la controffensiva della parte avversa che, soprattutto in Italia e in Germania, iniziava ad affidare le sue sorti alle milizie del Fascismo italiano e dei Freikorps tedeschi, in cui avrebbero poi affondato le loro radici le formazioni paramilitari naziste.
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L'ampliamento dei Brics ulteriore passo in avanti nella ridefinizione degli assetti internazionali
di Andrea Vento*
Il Bric: da aggregato geoeconomico a soggetto geopolitico
La genesi dell'acronimo Bric viene ricondotta all'economista inglese Jim O'Neil quando a fine 2001 in un documento[1], redatto in qualità di Chief Economist della Banca di investimenti Goldaman Sachs, identificò il nuovo aggregato geoeconomico composto da Brasile, Russia, India e Cina come il gruppo di Paesi che, in base a caratteristiche comuni, avrebbero verosimilmente dominato l’economia mondiale del secolo appena iniziato. Pertanto, secondo O'Neil, agli Stati Uniti per poter mantenere la leadership globale anche nel XXI secolo sarebbe stato dunque necessario inglobarli nella governance economica e finanziaria mondiale egemonizzata fino a quel momento dal sistema occidentale.
I quattro paesi risultavano, infatti, accomunati da alcune caratteristiche simili da consentir loro nell'arco di alcuni lustri di posizionarsi nei piani alti della graduatoria delle potenze economiche mondiali: la condizione di economie in via di sviluppo, una popolazione numerosa, un vasto territorio, abbondanti risorse naturali strategiche e prospettive di forte crescita del PIL e della quota nel commercio mondiale.
La tesi sostenuta da O'Neal non venne, tuttavia, pienamente percepita nella sua portata strategica negli ambienti di Washington, in quegli anni, peraltro, impegnati nella ridefinizione dell'assetto geopolitico mediorientale con gli interventi militari in Afghanistan e Iraq. Finì, invece, per fornire un inaspettato input aggregativo per i quattro paesi che fino ad allora avevano scarsamente cooperato dal punto di vista economico[2] e geopolitico, i quali, a partire dal settembre 2006, iniziarono a effettuare annualmente riunioni informali a margine dell'Assemblea generale dell'Onu.
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Le scorie dentro di noi, 2200 torri Eiffel sopra di noi
La plastica dimostra come l’umanità non sia in grado di gestire il pianeta
di Gabriele Lolli
La prima azione che ho fatto dopo aver letto le prime venti pagine del libro è stata quella di cambiare i pantaloni della tuta che indossavo in casa, che sono al 70 per cento cotone e al 30 per cento di poliestere. Le microplastiche sono particelle dell’ordine di un micron (un millesimo di millimetro, e più piccole ci sono anche le nanoplastiche, nella scala di virus e molecole); in casa, oltre che dai vestiti (di acrilico, nylon, elastan) per sfregamenti e usura, scorie di plastica sono rilasciate da lavatrici, coperte, divani, tappeti, e ci sono quelle volutamente inserite nei prodotti acquistati come dentifricio, detersivi, cosmetici (oltre alle plastiche note a tutti, dalle bottiglie agli imballaggi dei supermercati ecc.). Nel 2022 è arrivato l’annuncio che la plastica è presente nel sangue, sospettata finora, adesso provata con esperimenti che ne hanno rilevato la presenza nell’80 per cento circa dei soggetti esaminati; piccole quantità per ora, ma misurabili, e a ruota scoperte anche nei polmoni, nelle urine, nel latte materno, nel liquido seminale: sono il polietilene tereftalato, il polistirene, il polietilene, altri con quote a scendere. Non si sanno ancora gli effetti, ma incombe il ricordo delle polveri di amianto.
Le microplastiche sono introdotte anche con il cibo, perché usate nella produzione agricola, dove si cospargono i campi con piccole pastiglie plastificate a lento rilascio: col tempo i prodotti chimici entrano nel suolo, ma la plastica resta lì; e comunque i vasi linfatici delle piante portano nutrienti ai semi e insieme anche microplastiche assorbite dal terreno; la frutta più che la verdura è inquinata per i tempi più lunghi di maturazione ed elevata vascolarizzazione del frutto.
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Lo strano caso del caso Moro by Report
di Davide Carrozza
Domenica sera è andata in onda una puntata di Report sul caso Moro: una serie di inesattezze e omissioni davvero imbarazzante per una trasmissione del servizio pubblico. Le paventate incredibili rivelazioni annunciate via social nei giorni precedenti, in realtà non sono altro che i soliti argomenti già analizzati, le solite congetture cavalcate dalla Commissione Moro 2, le quali però inevitabilmente cozzano con le ben 4 sentenze e i lavori di altre due commissioni. Sarà forse anche per questo che tale commissione non produsse mai una relazione finale non chiudendo i lavori? Di seguito solo alcune delle questioni affrontate da Report che necessitano perlomeno di chiarimenti, non escludo di ritornarci con un altro articolo di aggiornamento…troppa roba!
1) Il presunto covo di Via Massimi.
In numerose sentenze, in particolare nel Moro Quinques si ricostruisce con dovizia di dettagli, (grazie soprattutto alla testimonianza dell’Ingegner Altobelli, alias Germano Maccari poi condannato all’ergastolo come quarto carceriere), la genesi del covo di Via Montalcini, indicato da tutte le sentenze come unica prigione dell’On. Moro per tutti i 55 giorni: acquistato dalle BR con i proventi del sequestro Costa, fu individuato perché possedeva tutte le caratteristiche necessarie e ristrutturato dallo stesso Altobelli/Maccari per ricavare l’intercapedine e la cella insonorizzata dove fu rinchiuso Moro per 55 giorni; lo stesso Maccari fu infatti ingaggiato dalle BR per le sue doti da costruttore ed esperto di muratura. Dopo la conclusione tragica che conosciamo infatti, fu lo stesso Maccari a smantellare il tutto insieme a Prospero Gallinari, l’altro carceriere.
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L’Italia nel Triangolo delle Bermuda tra Pnrr, Mes e Patto di Stabilità
di Fulvio Bellini
La politica economica e quella estera dettate dagli Usa, confezionate dall’Unione Europea e applicate dal Partito Unico in salsa urbana (Pd) e da quello in salsa burina (Fratelli d’Italia), ci stanno conducendo fuori dal tunnel, dove ci sta… l’Argentina e il suo default
“L’uomo è immortale; la sua salvezza viene dopo. Lo Stato non è immortale, la sua salvezza si ottiene ora o mai più”.
Cardinale Armand-Jean du Plessis duca di Richelieu
Premessa: alcune questioni sul senso di uno Stato
Henry Kissinger ha spesso dimostrato di essere affascinato dalla figura del Cardinale Richelieu, dal suo pensiero politico e dal suo modo di condurre lo Stato. Anche quando analizza l’operato di Otto von Bismark di un paio di secoli dopo, l’ex Segretario di Stato Usa ci infila il pensiero del Cardinale che abbiamo citato, ad esempio accostandolo al seguente passaggio di una lettera sul concetto di realpolitik indirizzata dal Cancelliere di Ferro al suo mentore, generale Ludwig von Gerlach, aiutante di campo del Re di Prussia: “Sono pronto a discutere con voi il punto di vista dell’utilità, ma se porrete antinomia fra diritto e rivoluzione, cristiani e infedeli, Dio e il diavolo, non potrò più discutere e mi limiterò a dire: ‘Non sono della vostra opinione e voi giudicate in me ciò che non vi spetta giudicare’. Questa amara dichiarazione di fede era l’equivalente funzionale dell’asserzione di Richelieu che, essendo l’anima immortale, l’uomo deve sottoporsi al giudizio di Dio, ma, essendo lo Stato mortale, questo può essere giudicato solo da come funziona” (Henry Kissinger, l’Arte della Diplomazia). Richelieu e Bismarck pongono alcune questioni di filosofia della politica assai utili da considerare nell’analisi della situazione italiana odierna, di un paese cioè che pare non veda nessuna luce nel tunnel di decadenza nel quale si è infilato ormai trent’anni fa. A titolo di aggiornamento, nell’ultimo mese del 2023 il Bel Paese è finito, consapevolmente oppure meno, addirittura al centro di una sorta di Triangolo delle Bermuda, foriero di foschi presagi per il 2024 e gli anni a venire.
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Yemen: un paese strategico nella scacchiera geopolitica
di Paolo Arigotti
La narrazione del mainstream sovente ci presenta gli Houthi – altrimenti detti Ansar Allah (“partigiani di Dio”) – come un gruppo ribelle, quasi a sottolinearne la natura non ufficiale di quello che, piaccia o meno, rappresenta il governo dello Yemen, perlomeno di una buona parte di questa martoriata nazione, ivi compresa la capitale Sanaa[1]. E non sarebbe neppure il caso di sminuirne il potenziale militare, tenuto conto che parliamo di un movimento di resistenza sciita che è stato in grado di tenere testa, a partire dal 2015, alla coalizione a guida saudita, nell’ambito di una lunga e sanguinosa guerra civile che ha funestato la nazione più povera della penisola arabica.
Gli Houthi sono tornati all’onore delle cronache quando hanno apertamente sfidato la potenza talassocratica per eccellenza, quella statunitense, nel contesto di uno dei più importanti e strategici “colli di bottiglia” del mondo: lo stretto di Bab al-Mandeb, sul mar Rosso, lo snodo di collegamento con l’oceano Indiano. Nessun dubbio circa le ragioni degli Houthi, che possono essere lette nelle dichiarazioni ufficiali del governo yemenita, nelle quali traspare la natura ritorsiva della strategia messa in atto a partire dallo scorso 14 novembre, per quanto il primo attacco si sia verificato il 19 ottobre, quando il cacciatorpediniere americano USS Carney aveva intercettato tre missili sparati dalle coste dello Yemen. Il gruppo sciita, quale risposta alle violenze perpetrate dalle forze armate israeliane nella striscia di Gaza, già costate la vita a oltre ventimila persone (per lo più donne e bambini), ha annunciato l’intenzione di prendere di mira, con droni e missili, qualsiasi nave legata a Israele che transiti da Bab al-Mandeb, che funge da porta d’accesso anche al Canale di Suez, per il cui tramite – giova ricordarlo - transita circa il 10 per cento del commercio globale e qualcosa come 8,8 milioni di barili di petrolio, corrispondenti più o meno a un decimo delle forniture globali, senza contare il circa 8 per cento di gas liquido.
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E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
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Tutti i colori del rosso
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Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
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Luca Busca: La scienza negata
Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
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