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L’economia dell’inganno
Il caso Volkswagen e il crony capitalism
di Maurizio Franzini
Maurizio Franzini cerca di collegare le riflessioni contenute nel libro appena pubblicato dai premi Nobel Akerlof e Shiller sull’economia dell’inganno e della manipolazione al caso recente, e clamoroso, che ha coinvolto la Volkswagen. Franzini sottolinea l’importanza delle riflessioni di Akerlof e Shiller che portano a considerare l’inganno endemico al mercato ma osserva che il caso Volkswagen prova che le forme dell’inganno sono molte, di diversa gravità e non possono essere contrastate soltanto con la regolazione
Il 22 settembre è stato pubblicato negli Stati Uniti il nuovo, e atteso, libro di due Nobel per l’economia, George Akerlof e Robert Shiller, dal titolo (singolare) “Phishing for Phools: The Economics of Manipulation and Deception” che potrebbe, un po’ liberamente, essere tradotto così: “A caccia di sprovveduti: l’economia della manipolazione e dell’inganno” .
La tesi centrale del libro è questa: l’idea di mercato che gli economisti hanno contribuito a diffondere è, quanto meno, parziale perché manca di considerare che il mercato (attraverso il profitto) fornisce un incentivo forte e sistematico a cercare vantaggi anche attraverso l’inganno e la manipolazione; peraltro, questi vantaggi si realizzano facilmente perché i consumatori possono essere manipolati e ingannati a causa sia delle limitate informazioni di cui dispongono sia delle falle che si aprono nella loro razionalità, – e che non sono né poche né occasionali come dimostrano numerose esperienze concrete (brillantemente documentate nel libro) e molti esperimenti di laboratorio.
Scrivono Akerlof e Shiller: “”Raramente i mercati liberi e non regolati premiano …l’eroismo di coloro che si astengono dal trarre vantaggio dalle debolezze psicologiche o informative dei consumatori. La concorrenza fa sì che i managers che si autodisciplinano in questo modo tendono a essere rimpiazzati da altri con meno scrupoli morali.
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Il velo alzato sul mondo dei morlock
Benedetto Vecchi
«Il regime del salario», le analisi di un gruppo di ricercatori e attivisti raccolte in un volume. Dal jobs act al job sharing, la discesa negli inferi della condizione lavorativa. Dai quali uscire senza sperare in facili scorciatoie
L’inferno degli atelier della produzione non è necessariamente un luogo dove ci sono forni accesi, rumori assordanti, caldo insopportabile e dove gli umani sono ridotti a bestie. Il lavoro può essere infatti svolto in ambienti lindi dove viene diffusa musica rilassante e piacevole; oppure in case dove la sovrapposizione tra vita e lavoro è la regola e non l’eccezione. L’immagine più forte del lavoro non è data certo da «Tempi moderni» di Charlie Chaplin. L’omino con baffetti, cappello e bastone risucchiato negli ingranaggi delle macchine rappresenta con lievità l’orrore della catena di montaggio. Strappa un sorriso di fronte la disumanità dell’organizzazione scientifica del lavoro. Ma la rappresentazione del lavoro non è viene più neppure dalla folla rabbiosa di Metropolis di Fritz Lang. Sono due film dove è presente l’imprevisto dell’insubordinazione, della rivolta. Ma in tempi di precarietà diffusa, occorre leggere le pagine o far scorrere i fotogrammi del film tratto dal libro di Herbert George Wells La macchina del tempo per avere la misura di come è cambiato il lavoro.
Il romanzo dello scrittore inglese è utile non tanto perché ci sono gli eloi, umani ridotti a ebeti che possono consumare di tutto in attesa di essere divorati dai morlock umani-talpa che vivono nel sottosuolo per produrre chissà cosa. La macchina del tempo è un testo significativo perché rappresenta una società che ha occultato gli atelier della produzione, li ha sottratti allo sguardo pubblico. Sono come le community gated delle metropoli: zone dove lo stato di eccezione – limitazione dei diritti e della libertà personale — è la normalità. Per gli attivisti e ricercatori del gruppo «Lavoro insubordinato» sono espressione di un regime che non conosce faglie distruttive e dove la crisi è la chance che il capitale ha usato per affinare e rendere più sofisticate, e dunque più potenti, le forme di assoggettamento e di compressione del salario del lavoro vivo. Lo scrivono in un ebook dal titolo programmatico Il regime del salario che può essere scaricato dal sito internet www.connessioniprecarie.org.
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Confini, frontiere, capitale
Sandro Mezzadra
1. “Che cos’è un’economia e, ancor prima, dov’è un’economia?” Si può riprendere la domanda di Immanuel Wallerstein1 per impostare un ragionamento sul rapporto che il capitale intrattiene in epoca moderna e contemporanea con i confini e le frontiere. Ogni economia – ogni “reticolo di processi produttivi più o meno strettamente interdipendenti” – si sviluppa all’interno di determinati “confini spazio-temporali”, aggiunge Wallerstein: la storicità di un sistema economico, la sua origine, la sua crescita, le sue trasformazioni corrispondono cioè a una specifica (ancorché mutevole) collocazione all’interno dello spazio, circoscritta da un insieme di “limiti”. Sorge dunque immediatamente il problema di comprendere “come questi confini si colleghino e interagiscano con quelli definiti da altre dimensioni sociali, in particolare dalla dimensione politico-legale e da quella culturale”.2
Posta in questi termini generali la questione, occorre specificare il modo in cui essa si pone a fronte dei caratteri storicamente specifici del capitalismo moderno. Particolarmente rilevante, da questo punto di vista, è il rapporto tra la produzione di spazio che contraddistingue il capitalismo e le modalità con cui lo spazio è prodotto e organizzato sotto il profilo politico. Molti studi hanno ricostruito i processi che hanno condotto all’emergere in Europa del confine lineare come astrazione geometrica, capace di circoscrivere (di produrre) lo spazio omogeneo della moderna forma-Stato3.
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Appropriarsi della scienza – farla finita con il primitivismo
di lorcon
Questo articolo nasce come risposta all’articolo di Philippe Godard apparso su A – Rivista Anarchica n. 398. È nato come riflessione collettiva tra il sottoscritto e altri tre compagni. Un estratto è stato pubblicato nella rubrica della corrispondenza su A – Rivista Anarchica numero 401. Qua appare la versione integrale, come apparsa anche su Umanità Nova numero 30 anno 95. Si ringraziano G, G e C per gli spunti e le correzioni
Ben volentieri recepiamo l’invito al dibattito apparso su A Rivista numero 397 in merito all’articolo di Philippe Godard sulla ricerca scientifica. Da tempo pensiamo che sia necessario avviare una riflessione in campo anarchico in merito alla questione della scienza e della tecnica, sia nei risvolti applicativi della metodologia scientifica, le tecnologie, che nel merito della metodologia scientifica in sé e per sé.
È oramai fatto accertato che l’ultimo secolo e mezzo di storia umana abbiano visto una profonda accelerazione sia delle scoperte scientifiche “di base” che dell’invenzione di tecnologie basate sulle scoperte stesse. Questa accelerazione, riscontrabile in più campi, si è sviluppata insieme all’attuale sistema sociale, basato su determinati rapporti di produzione, ma al contempo mostra i limiti dell’ambiente stesso in cui si è sviluppata.
Al contrario del Godard noi non crediamo che la “scienza” sia legata in modo inestricabile con un sistema di dominio. Intanto bisogna capire di che cosa stiamo parlando: la scienza non è un oggetto, o meglio una collezione di oggetti-nozioni, ma bensì è un metodo. La metodologia scientifica è, a nostro modo di vedere, una metodologia intrinsecamente libertaria: l’onere della prova, la falsificabilità, la verificabilità, la riproducibilità, ovvero i capisaldi dei modelli di spiegazione scientifici, hanno sostanzialmente permesso di strappare dalle mani dei sacerdoti la spiegazione del mondo eliminando l’autoritaria dimostrazione per ipso-dixit e facendo stracci dei modelli finalisti e teologici cari alla tradizione cristiana e in generale alle tradizioni trascendentali.
Se pensiamo alla storia del pensiero umano come ad una storia di successioni di diversi modelli di spiegazione del mondo non possiamo notare quella gigantesca linea di frattura, frastagliata certo, che separa l’epoca medioevale in cui tutto veniva ricondotto all’azione divina dall’epoca moderna in cui i modelli di spiegazione del mondo devono essere continuamente rimessi in discussione e non peccano di una visione finalistica e antropocentrica.
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Le possibili ragioni dell'intervento della Russia in Medio Oriente
di Gaetano Colonna
L'intervento militare russo in Medio Oriente sembra avere completamente spiazzato gli osservatori occidentali: il monopolio occidentale delle operazioni di "polizia internazionale" a leadership anglo-sassone, a partire dal 1991, improvvisamente sembra essere stato infranto dalla decisione della Duma russa di colpire le forze anti-governative in Siria, siano esse affratellate o meno all'Isis.
Molti sono in effetti i risvolti paradossali di questo pesante intervento militare: la Russia che, a seguito della crisi ucraina, pareva relegata ai margini della comunità internazionale, sembra ora prendere a pretesto la lotta contro l'estremismo islamista per affermare con forza la legittimità del governo Assad. Si tratta quindi in definitiva, più che di un intervento dettato da ragioni ideologiche, di una netta ripresa della più classica delle Reapolitik: la difesa di un alleato storico della Russia, con la quale si pone anche in seria difficoltà uno dei più tradizionali avversari della Russia, la Turchia.
Elemento non meno importante, che Putin sta debitamente enfatizzando, è che la Russia si è così posta di fatto anche alla testa di una coalizione di forze (Siria, Iran e Iraq) che costituiscono un "fronte" arabo sfacciatamente antitetico a quello sunnita-wahabbita guidato dall'Arabia Saudita, proprio ora che quest'ultimo paese si trova impantanato, fra molte critiche anche al suo interno, in un intervento nello Yemen che sembra stia drenando senza costrutto importanti risorse militari dei paesi del Golfo.
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Francesco, Bentham e Jobs Act
di Joe Vannelli
A fine settembre, l’iter legislativo che valida il Jobs Act si è compiuto, nell’indifferenza più totale. Eppure con gli ultimi 4 decreti (immediatamente operativi) , si conclude il progetto di ristrutturazione completa del mercato del lavoro in Italia, si sancisce la precarietà come forma “normale” e “strutturale” del rapporto di lavoro, si ribadisce il primato del “padrone” (chiamiamo le cose con il loro vero nome) e si definiscono i contorni biopolitici del controllo diretto e indiretto sulla nostra vita. Mentre all’orizzonte, si prospetta la nuova fregatura del “divenire occupabile” e della diffusione del lavoro gratuto
Completata la macelleria sociale
Sono stati pubblicati il 24 settembre ultimo scorso (immediatamente entrati in vigore) gli ultimi quattro decreti legislativi che completano il Jobs Act: portano numerazione dal 148 al 151. Il governo ha approvato i testi solo il 4 settembre e li ha trasmessi a Mattarella il 12 settembre; la firma pare sia del 14 settembre, con un esame lampo.
La legge fissava un termine, e quel termine era scaduto il 26 agosto, come hanno fatto inutilmente notare i parlamentari dell’opposizione (5 stelle). Ma l’ineffabile ministro Poletti ha liquidato ogni protesta spiegando che il problema, semplicemente, non esiste. Sarebbe in effetti pura ingenuità sperare che con queste eccezioni (fondate forse, ma pur sempre cavillose) si possa bloccare la macchina autoritaria del governo, in assenza di significative reazioni sociali e a fronte (sul fianco sinistro) di una piena connivenza comportamentale, di sostanziale complicità.
Il partito democratico, nella sua complessiva struttura, ha completato dunque l’operazione di macelleria sociale, eseguendo gli ordini trasmessi dalla cabina europea di comando. Naturalmente le nuove norme sono presentate come un progresso, come una riforma capace di attuare finalmente la flexicurity; ma dal vecchio partito comunista i parlamentari democratici hanno ereditato solo le caratteristiche peggiori, ovvero una grande disinvoltura nel falsificare i dati e nel mentire in pubblico, occupando le posizioni di controllo, promuovendo la delazione.
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Perché c’è bisogno di un populismo di sinistra
Christian Raimo
Due mesi fa, quest’estate, ho assistito a Londra a una giornata della campagna elettorale di Jeremy Corbyn alla Union Chapel. Tra le molte cose (belle) che mi hanno sorpreso ne ho appuntate mentalmente un paio.
La prima è che l’intervento finale di Jeremy Corbyn durava da programma venti minuti, e venti minuti è durato. Tanto carismatico quanto sintetico, tanto chiaro quanto radicale.
Pantaloni larghi con le pinces, senza cravatta, aria da middle class novecentesca, ha parlato di rinazionalizzare le ferrovie, di abbassare le tasse universitarie, di rendere di nuovo pubblico ed efficiente il servizio sanitario nazionale, di sostenere un’alternativa economica chiara. Ha detto: “Non è possibile che la classe politica britannica abbia studiato tutta a Oxford o a Cambridge”, “dobbiamo avere una risposta umana e umanitaria alla questione delle migrazioni”, e ha concluso i suoi venti minuti con una frase di grande efficacia: “Immagino un mondo in cui tutte le persone si prendono cura delle altre, e questo mondo si chiama socialismo”.
Ma il suo intervento, convincente, perfetto, da leader che avrebbe effettivamente stravinto le primarie del Partito laburista, non è stato nemmeno il migliore della giornata.
Ad aprire infatti era stato un giovane attivista, opinionista del Guardian, che si chiama Owen Jones. I venti minuti di Owen Jones sono stati il miglior discorso di sinistra che ho sentito negli ultimi anni.
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La favola del postcapitalismo
di Lelio Demichelis
Il nesso tecnologia/capitalismo è tornato recentemente alla ribalta, interpretato in termini ottimistici, nel fortunato libro di Paul Mason, "Postcapitalism" (che a breve uscirà anche in Italia). L'errore è pensare che la tecnologia abbia il potere di liberarci dal capitalismo. È piuttosto il contrario: è la tecnologia che permette al capitalismo di sopravvivere ai suoi problemi
E’ arrivato un nuovo profeta che promette un postcapitalismo meraviglioso, umano, collaborativo, intellettuale, gratuito. Un postcapitalismo che sta nascendo dal capitalismo stesso e che, come il proletariato di Marx cancellerà questo capitalismo e ci porterà gioia, felicità, condivisione libera, la liberazione dalla fatica, eccetera eccetera. Perché si compia il passaggio al postcapitalismo basta confidare nella potenza rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie, confidare nel loro potere liberatorio e liberante nonché libertario, nella loro capacità di diffondere nuovi modi di lavorare e di consumare liberando il tempo dal lavoro e permettendo a noi mortali attività in rete finalmente libere e quindi non capitalistiche. Basta credere che il web sia la nuova fabbrica e che svolga la stessa funzione delle fabbriche del XIX° secolo e che il suo proletariato digitale, diverso da quello industriale perché più informato e più connesso, possa abbattere questo capitalismo.
Tutto bello e affascinante. Dimenticando però che se il vecchio proletariato – che era classe in sé ma anche per sé avendo una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo – è stato ormai in-corporato nel (è parte del corpo politico e culturale del) sistema capitalista, si è progressivamente sciolto nel capitalismo e ne condivide l’egemonia, questo proletariato digitale è nato invece già antropologicamente capitalista, non ha alcuna idea di una possibile alternativa, ha assunto in sé l’imperativo della propria integrazione nel sistema (il dover essere connessi) e pur essendo forse ancora classe in sé
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Turbolences en France: danger mortel pour l’euró!
Federico Dezzani
Le foto del dirigente di Air France che sfugge seminudo al linciaggio dei dipendenti ha girato il mondo: è l’icona del malessere che affligge l’Esagono. Il “motore franco-tedesco” è infatti grippato a causa del guasto al cilindro francese: è l’effetto del logorio prodotto dall’euro, moneta insostenibile per l’economia francese nel lungo periodo. Dall’industria alle finanze pubbliche, la Francia è in condizioni simili all’Italia, con l’aggravante che l’alto livello di sindacalizzazione e l’orgoglio nazionale, rendono inattuabile qualsiasi cura “Monti-Renzi” di svalutazione interna. Non è un caso che il terrorismo targato ISIS si concentri principalmente in Francia, bomba a orologeria che ticchetta inesorabile sotto l’euro
Air France, specchio di un Paese “en panne”
Lunedì mattina, 5 ottobre, riunione del comitato centrale di Air France. L’aria è tesa, fuori e dentro dal quartiere generale della compagnia aerea: i lavoratori sono in agitazione dopo la notizia trapelata il venerdì precedente che il vettore procederà con un ulteriore taglio di posti. Le indiscrezioni parlano di di cifre a tre zeri. Il direttore delle risorse umane (mestiere infame di questi tempi), Xavier Broseta, conferma: a essere soppressi saranno 2.900 posti, essenzialmente tra il personale di terra. La sala dove è riunita la dirigenza esplode: alcuni salgono sui tavoli, poi altri scavalcano e tra le urla premono sempre più i dirigenti verso le pareti di fondo. Cul de sac. Con le giacche lacere e scortati dagli addetti alla sicurezza, Boseta ed il vicepresidente dello scalo di Orly riescono a guadagnare l’uscita, ma all’esterno il clima è ancora più infuocato: premuti dalla calca in escandescenza, i due avanzano a fatica. Nelle riprese successive si vede Xavier Broseta, ormai a torso nudo, che incespica e ruzzola a terra, si rialza e riprende a correre verso le cancellate: la sicurezza lo issa a peso oltre recinzione e gli ultimi fotogrammi lo ritraggono allontanarsi semi-nudo e sotto choc.
È questo il video1 che ha fatto il giro del mondo e sarà ricordato come un momento saliente non solo della crisi di Air France ma anche della, sottaciuta ma acuta, crisi dell’economia francese. Se le compagnie di bandiera riflettono il prestigio e la ricchezza del Paese, allora le loro condizioni di salute sono indicatori importanti per il sistema socio-economico nel suo complesso.
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Laudato si’. Una Enciclica antisistemica
L’opinione di un marxista
di Michael Löwy
Considerando l’enorme influenza su scala mondiale della chiesa cattolica, è un contributo cruciale allo sviluppo di una coscienza ecologica critica. E’ stata accolta con entusiasmo dai veri difensori dell’ambiente, ha al contrario suscitato inquietudine e disprezzo da parte dei religiosi conservatori, rappresentanti del capitale e ideologi dell’«ecologia di mercato». Si tratta di un documento di grande ricchezza e complessità, che inaugura una nuova interpretazione della religione giudaico-cristiana – in rottura con «il sogno prometeico di dominio sul mondo» – e propone una riflessione profondamente radicale sulle cause della crisi ecologica. In diverse parti, come per esempio nell’inseparabile associazione del «grido della terra» con il «grido dei poveri», si percepisce che la teologia della liberazione – in particolare dell’eco-teologo Leonardo Boff – è stata una delle fonti d’ispirazione.
Nelle brevi note che seguono mi interessa enfatizzare una dimensione della Enciclica che spiega le resistenze presenti nelle establishment economico e mediatico: il suo carattere antisistemico.
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C'è la terza guerra mondiale. Non fatevi domande, obbedite...
Dante Barontini
Sabato sera, da Fabio Fazio, un attore intelligente e sincero – Pierfrancesco Favino – si è posto, e rivolto a tutti quelli “al di qua del tavolo, noi che siamo guardati”, la semplice domanda: “che cosa io ho venduto di me, per arrivare dove sono?”. È la domanda che si fa, a scopo professionale, prima di affrontare l'interpretazione di un personaggio molto lontano da lui – un politico corrotto, in questo caso – per trovare in se stesso la misura necessaria a calarsi in quei panni.
È una domanda che è inutile rivolgere ai giornalisti italiani, specie quelli dei grandi media e dai grandi stipendi (Gramellini, in tv, era non per caso imbarazzatissimo), anche se le risposte sarebbero certamente rivelatrici. Ben più di un'inchiesta che peraltro non fanno.
Scusate il lungo giro di parole, ma leggendo l'editoriale di Franco Venturini, sul Corriere della sera di oggi, quella domanda ci è riesplosa nella testa. Titolo promettente (Noi e la paura di una guerra mondiale), incipit farsesco, che rende pressoché inutile la lettura del lungo e incompleto elenco dei “pezzettini” di guerra che vanno componendosi in un mosaico complesso, articolato, a molte facce:
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Crisi neo-liberista e disgregazione del soggetto
Due volti del potere post-comunitario
Claudio Valerio Vettraino
La crisi che stiamo vivendo ormai da quasi un decennio e che rappresenta solo una forma determinata di una crisi generale che attraversa tutto il sistema capitalista-finanziario globale, non è solo indice di una ristrutturazione economica, per dirla in termini marxiani, ma ci parla di una mutazione profonda che investe la soggettività e la sua dialettica quotidiana con i processi storici in cui è immersa e che è chiamata a vivere o a sopportare a seconda dei casi e della posizione che questa stessa soggettività ricopre all’interno dei rapporti attraverso cui si produce e si riproduce la ricchezza complessiva della società.
Una ristrutturazione di una soggettività potremmo dire “orfana” di idee e valori, estromessa da qualsivoglia spinta utopista e di concreta appartenenza ad un tutto o ad una comunità che lotta – attraverso identità e riconoscimento reciproco (da e nella società) – per imporre gramscianamente una nuova egemonia e un’alternativa di sistema, che tenta a fatica di costruirsi come soggetto cosciente, figlia di quella soggettività umanistica che ha marcato la differenza – nei secoli – tra l’Occidente e l’Oriente, tra un approccio attivo, in questo precipuo senso critico-filosofico al mondo e alle cose e, viceversa, un approccio naturalistico nei confronti del tutto, in quanto eterno mutamento in cui il soggetto era “istintivamente” immerso.
Ovviamente la tendenza alla generalizzazione in questo mio contributo è necessaria, dato che non è possibile qui entrare in tali conflitti.
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Ascetici perché «creativi»
Benedetto Vecchi
L’innovazione è il vangelo del capitalismo. Non è così per Joseph Schumpeter, che la considera un fenomeno raro. Un sentiero di lettura a partire dal saggio «Il fenomeno fondamentale dello sviluppo economico» pubblicato dal Mulino
Un’operazione editoriale ardita questa del Mulino che ha avuto la regia accorta, ma discreta di Adelino Zanini, filosofo, ma anche storico del pensiero economico, avendo dedicato molta della sua attività di ricerca teorica a Joseph A. Schumpeter e Adam Smith, con felici incursioni nell’opera di John Maynard Keynes e nel campo della critica dell’economia politica di Karl Marx. L’operazione consiste nella pubblicazione di due capitoli scritti da Schumpeter per la sua Teoria dello sviluppo economico e poi soppressi dallo stesso economista austriaco perché «devianti» rispetto al corpus centrale dell’opera. Nella sua introduzione, Zanini ritiene, in maniera convincente, che invece sono testi rilevanti, perché danno la misura del laboratorio teorico di Schumpeter e della messa a fuoco della figura cardine del suo pensiero economico, cioè quella figura dell’imprenditore che ha, per Schumpeter, la capacità di rompere l’equilibrio inerente l’agire economico grazie alla sua capacità di proporre una nuova combinazione di elementi noti – nelle tecnologie, nel credito, nel processo produttivo e nella sfera della circolazione, nella domanda di beni – tale da produrre una discontinuità nello sviluppo economico.
Adelino Zanini argomenta, sempre nell’introduzione a Il fenomeno fondamentale dello sviluppo economico (Il Mulino, pp. 200, euro 18), la decisione della pubblicazione di questi due capitoli, archiviati e mai più ripresi da Schumpeter, non tanto per offrire allo studioso materiali che vanno a comporre, come tasselli persi, il puzzle di un pensiero economico centrale tra gli anni Venti e Cinquanta del Novecento, ma perché consentono, dato il loro carattere introduttivo e riassuntivo – si tratta in origine del 2 capitolo e del 6 capitolo della Teoria dello sviluppo economico – di evidenziare la sua presa di distanza dall’economia neoclassica allora dominante nelle università, visti i non sono pochi rinvii proprio alla critica dell’economia politica di Marx.
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La filosofia di Putin
di Pierluigi Fagan
La Russia è un continente culturale, per me, di difficile decifrazione. Ammetto prioritariamente la mia ignoranza sostanziale epperò, proprio questa ignoranza mi muove a cercar di colmare almeno i vuoti più gravi. E’ come sempre, una sollecitazione esterna a muovere la curiosità di comprensione.
Sono stato abbonato a Foreign Affairs, la rivista di geopolitica e relazioni internazionali che fa da riferimento a gli ambienti di Washington. Mi mandano perciò una newsletter ed ho accesso libero ad un articolo a numero. Questa settimana (oggi 26.09.15) mi ha colpito il titolo di un articolo su “Il filosofo di Putin”, Ivan Ilyn e l’ideologia di Mosca, di A. Barbashin e H.Thoburn. Poiché mi incuriosiva il fatto che Putin avesse un filosofo di riferimento e non conoscendo affatto Ivan Ilyn, ho fatto un po’ di ricerca. Il secondo scatto di curiosità che mi ha spinto poi più in là nella ricerca, ampliandola, è stato un articolo del New York Times del 03.03.14 a firma David Brooks in cui si dava notizia (riprendendo Maria Snegovaya dal Washington Post) del fatto che Putin aveva inviato in dono ai governatori regionali, una trilogia di titoli che comprendeva, oltre al “I nostri compiti” di Ilyn, la “Filosofia della diseguaglianza” di Berdjaev e la “Giustificazione del Bene” di Soloviev (o Solove’v, Solovyov). Beh, l’idea che il capo di un sistema così forte e potente avesse inviato tre libri di filosofia al secondo livello di gestione territoriale del sistema, era intrigante assai. Di primo acchito, la faccenda si configurava come l’invio di una linea ideologica il che era interessante, soprattutto per un modestissimo “pensatore in proprio” come il sottoscritto. Interessante perché qui da noi sembrerebbe strano che Obama o Cameron o più modestamente Renzi, inviassero tre libri in dono ad una struttura di secondo livello. Peggio ancora, di filosofia. Interessante anche il fatto che non si trattasse di un documento di Putin ma di tre libri, di altrettanti autori, del XIX° e XX° secolo (Solovyov nasce nel 1853 e Ilyn muore nel 1954, Berdjaev sta in mezzo) noti e pubblici, tra le colonne portanti della tradizione culturale russa, almeno i primi due (Soloviev e Berdajev). Cosa voleva dire a livello di contenuto? Qual’era l’idea che voleva trasmettere Putin? Cosa dicono questi tre autori e come sono tra loro correlabili in un unico discorso che dovrebbe rivelarci qual è l’idea che Putin ha del destino russo?
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Per l'attualizzazione della filosofia della prassi gramsciana
Ettore Gallo intervista Luciano Vasapollo
Quali sono le cause della crisi e cosa la distingue dalle crisi del passato? Quali sono le prospettive politiche e ideologiche in questa fase? È possibile un secondo New Deal keynesiano o è in discussione l’intero assetto dell’egemonia capitalistica? Cosa hanno ancora da insegnarci Marx, Lenin e Gramsci? In definitiva, come dovranno agire nei giorni, nei mesi e negli anni che ci aspettano le sinistre di classe di tutto il mondo?
Cerchiamo di rispondere a queste domande con il Prof. Luciano Vasapollo, marxista, critico dell’economia e docente all’Università di Roma "Sapienza" e alle Università de La Habana e Pinar del Rio (Cuba), nonché direttore del Centro Studi CESTES dell’USB-Unione Sindacale di Base e dirigente politico comunista da oltre quaranta anni.
L’intervista è di Ettore Gallo, studente e militante del Collettivo Economia La Sapienza. Questa lunga e approfondita conversazione costituisce l’intervista conclusiva di un ciclo iniziato quest’anno e che ha toccato come temi il fallimento delle trattative fra Grecia e Unione Europea ( “A cu’ si fa’ pecura, lu lupu si lu mangia!”- Tsipras doveva rompere la gabbia) e le prospettive politiche dei Paesi dell’ALBA (L'Alba euromediterranea: da provocazione teorica a percorso reale). Ricordiamo inoltre un’intervista-conversazione alla vigilia delle elezioni europee del maggio 2014 (link) e la partecipazione dello stesso Prof. Vasapollo a un’iniziativa promossa lo scorso maggio dal Collettivo Economia sullo sviluppo economico e le prospettive politiche dei Paesi dell’ALBA (video).
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Siamo ancora in tempo per dire no ad una nuova guerra in Iraq
Patrick Boylan*
Pacifisti del mondo svegliatevi: non avete altro da perdere che la vostra sfiducia!
Il Pentagono è furioso. Grazie ad una “gola profonda”, il Corriere della Sera ha potuto rivelare in prima pagina, ieri mattina il 6 ottobre, che il Ministro della Difesa Roberta Pinotti e il suo omologo statunitense Ashton Carter avevano già deciso l'uso, per missioni di bombardamento, dei caccia italiani attualmente in Iraq per i soli compiti di ricognizione. Decisione presa, dunque, ancor prima dell'arrivo del sig. Carter in Italia ieri pomeriggio per la sua visita ufficiale di due giorni, e ancor prima che il Parlamento italiano potesse discutere l'intera questione, come imporrebbe la Costituzione.
La reazione alla notizia di Corsera e la successiva controreazione del governo sono state immediate: grida di scandalo da più parti seguite dal dietrofront del Presidente del Consiglio Matteo Renzi e dei suoi ministri. “Si tratta solo di un'ipotesi”, hanno rassicurato in coro sia Pinotti che il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni; “Sottoporremo senz'altro la questione al Parlamento prima di decidere definitivamente qualsiasi cosa.”
Quindi Carter lascerà la Capitale oggi sicuramente a mani vuote. Grazie all'anonimo “Chelsea (Bradley) Manning” italiano che svelò la tresca, il governo Renzi fallisce il tentativo di replicare il colpo di mano che il governo di Mario Monti realizzò invece nel luglio del 2012. Infatti, Monti e l'allora Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola riuscirono ad autorizzare alla chetichella – e sempre in barba alla Costituzione italiana – l'impiego bellico dei caccia tricolore che erano stati inviati in Afghanistan in precedenza per i soli compiti di ricognizione. E i parlamentari, con poche eccezioni, scelsero di sonnecchiare.
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Il Grande Rifiuto*
di Giovanna Cracco
“La trasformazione fisica del mondo implica la trasformazione mentale dei simboli, delle immagini e delle idee che a esso si riferiscono.”
Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione
In L’uomo a una dimensione Marcuse riprende il concetto filosofico di ‘pensiero negativo’ come pensiero critico: è la capacità individuale di sviluppare un discorso che si oppone all’esistente (il ‘pensiero positivo’ della società), che immagina, progetta, crea un’alternativa; che utilizza il potere critico della Ragione, la logica dialettica bidimensionale, per giudicare la realtà, distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è da ciò che dovrebbe essere, l’Essere dal Non-Essere.
Per il pensatore della Scuola di Francoforte, perdere la capacità di elaborare il pensiero negativo è inevitabile nella società industriale tecnologica, che crea ‘falsi bisogni’ per sostenere la costante crescita di produzione e consumo di merci; una produzione e distribuzione di mas-sa che reclamano l’individuo intero, e annullano quella dimensione interiore della mente nella quale un tempo prendeva forma il pensiero di opposizione a una realtà che imprigiona l’uomo anziché liberarlo, che lo mercifica, dal processo di sfruttamento lavorativo alla sua trasformazione in consumatore. “I prodotti indottrinano e manipolano; promuovono una falsa coscienza che è immune dalla propria falsità. E a mano a mano che questi prodotti benefici sono messi alla portata di un numero crescente di individui in un maggior numero di classi sociali, l’indottrinamento di cui essi sono veicolo cessa di essere pubblicità: diventa un modo di vivere. E un buon modo di vivere – assai migliore di un tempo – e come tale milita contro un mutamento qualitativo” (1).
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Tasse e welfare, lo scambio ineguale
di Marco Bascetta
Alla vigilia di ogni legge di stabilità il dibattito sulla pressione fiscale ritrova un suo asfittico momento di vita. Difficilmente si spinge però oltre una materia buona per demagoghi e commercialisti. Un pensiero forte sulla fiscalità sembra fermo da decenni e, soprattutto, saldamente ancorato a una destra che sa bene quello che vuole. Gli si oppone da sinistra, con spirito egualitario e scarso ascolto politico, la denuncia della «regressività» del sistema fiscale e la proposta di un suo rivoluzionamento portate avanti da Landais, Piketty e Saez1.
Sul fronte opposto, per quanto detestabili, i nipotini di Hayek, hanno saputo dimostrare un certo rigore e insediarsi stabilmente nell’orientamento di politiche governative impegnate nella competizione per la migliore offerta di vantaggi fiscali. Il loro totem, la celebre «curva di Laffer» nella quale si dimostra che oltre un certo limite di imposizione fiscale il gettito decresce perché decrescerebbe l’imponibile più rapidamente dell’aumento dell’imposta, sta ancora in piedi, sia pure in virtù di brutali rapporti di forza. Anche se l’ipotesi paradossale da cui muove, secondo cui una imposizione del 100% corrisponderebbe alla disincentivazione di qualsiasi attività è banalmente incontrovertibile, almeno in una economia di mercato.
Da qui discende, per vie non proprio limpide, l’avversione per qualsivoglia progressività fiscale, la difesa dei patrimoni e delle rendite, il dirottamento dell’imposizione verso i consumi, il concetto che il welfare se lo devono pagare soprattutto quelli che ne usufruiscono (e dunque non i più ricchi).
Insomma la destra, sul fisco, ha le idee assai chiare.
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Le narrazioni di Obama
di Mauro Poggi
Gli Stati Uniti accusano la Russia di attaccare i ribelli moderati anziché le milizie dello Stato Islamico. Il New York Times del 30 settembre scrive, citando ufficiali americani, che “gli attacchi non erano diretti contro lo Stato Islamico ma contro gruppi di opposizione che combattono il regime di Bashar al-Assad, a cui Putin ha assicurato il proprio appoggio. Le forze aeree russe hanno bombardato i sobborghi a nord di Homs, dove la presenza dei militanti dell’ISIS è scarsa o nulla”. Cita inoltre un comandante ribelle, tale Saleh: ” Siamo in prima linea contro l’esercito di Bashar al-Assad. Siamo ribelli moderati e non abbiamo alcuna affiliazione con l’ISIS. L’ISIS è almeno a 100 chilometri lontano da qui”.
Lo scorso maggio il Dipartimento della Difesa USA aveva dato il via a un programma di addestramento dei ribelli moderati siriani, da usare come truppe locali sul terreno sia contro lo Stato islamico che contro Bashar al-Assad. Il programma prevedeva l’addestramento di 5.400 ribelli all’anno.
Cinque mesi dopo, davanti a un’allibita Commissione del Senato, il generale Lloyd J. Austin III ha dovuto ammettere che i 500 milioni di dollari spesi a questo titolo avevano prodotto “poche dozzine” di combattenti. Una buona parte di questi, in luglio, era stata attaccata dalla propaggine al-qaedista in Siria, il Fronte al-Nusra: molti erano fuggiti o rimasti uccisi, altri si erano aggregati alle milizie del Fronte, consegnando loro armi ed equipaggiamenti ricevuti dalla CIA.
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L’“intellettuale collettivo”. Da Gramsci al mondo attuale*
di Alexander Höbel
1. La riflessione di Gramsci negli scritti politici
Quello dell’intellettuale collettivo è un tema classico dell’elaborazione gramsciana, e in parte si collega a quella estrema attenzione al terreno della formazione e dell’approfondimento, al lavoro culturale organizzato, tipica della sua impostazione. Per Gramsci, cioè, come già era stato per Gobetti, “la cultura è organizzazione”, e agendo sulla formazione della coscienza di singoli e masse ha ricadute decisive sul piano politico1.
Già nel dicembre 1917, dinanzi alla proposta di una “Associazione di cultura” emersa nella sezione torinese del Partito socialista, Gramsci osservava: “Una delle più gravi lacune dell’attività nostra è questa: noi aspettiamo l’attualità per discutere dei problemi e per fissare le direttive della nostra azione”, il che fa sì che non tutti si impadroniscano “dei termini esatti delle questioni”, cosa che provoca “sbandamenti”, disorientamento, “beghe interne”. Non esiste cioè “quella preparazione di lunga mano che dà la prontezza di deliberare in qualsiasi momento”, perché chiari sono i presupposti teorici della decisione politica. “L’associazione di cultura dovrebbe [quindi] curare questa preparazione […]. Disinteressatamente, cioè senza aspettare lo stimolo dell’attualità, in essa dovrebbe discutersi tutto ciò che interessa o potrà interessare un giorno il movimento proletario”2.
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Perché la Fed rischia di finire nella trappola del Quantitative Easing
Francesco Lenzi
Con la frase “sarà probabilmente appropriato alzare il livello obiettivo dei tassi d’interesse federali entro la fine dell’anno” Janet Yellen, presidente della Federal Reserve, pare aver tolto ogni dubbio sul fatto che ci stiamo avvicinando al primo rialzo dei tassi d’interesse negli Stati Uniti. Sono passati circa 6 anni da quando vennero fissati allo 0-0,25% per far uscire il gigante americano dalle secche della Grande Recessione.
Da allora la prima economia del mondo è riuscita a recuperare quasi interamente i posti di lavoro persi, anche se non è riuscita a riavvicinarsi ai ritmi di sviluppo avuti negli anni precedenti al crollo della Lehman Brothers. Dalle parole della Yellen l’abbandono dei tassi a zero sembra pertanto giustificato dal fatto che, con l’occupazione vicina al pieno impiego e l’attività economica in fase di recupero, l’inflazione potrebbe tornare a far capolino. La “normalizzazione” della politica monetaria avrebbe anche lo scopo di contrastare il pericolo di formazione di “bolle” finanziarie, visto il lungo periodo trascorso con tassi a zero e continue immissioni di liquidità.
Però, se dopo i ripetuti messaggi del board della Fed è ragionevole attendersi il molto annunciato rialzo dei tassi e un progressivo percorso di normalizzazione della politica monetaria statunitense, l’analisi del modo in cui i mercati hanno anticipato questa decisione e l’economia globale sta attualmente reagendo porta a conclusioni non più così scontate.
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Renzi, la disoccupazione giovanile e il sindacato
di Guglielmo Forges Davanzati
Il tasso di disoccupazione giovanile, che riguarda individui di età compresa fra i 15 e i 24 anni, ha raggiunto, nell’ultima rilevazione ISTAT di giugno, il 44,2%, in aumento di 1,9% rispetto al mese precedente, raggiungendo il livello più alto dal primo anno di stima (il 1977). La rilevazione esclude i giovani inattivi, ovvero coloro che non cercano lavoro. L’ISTAT rileva che nell’ultimo anno, il tasso di disoccupazione complessivo è aumentato di 0.3 punti percentuali.
A ben vedere, l’attuazione di politiche di contrasto alla drammatica crescita della disoccupazione giovanile, in particolare nel Mezzogiorno, non sembra essere oggi fra le priorità di questo Governo. La propaganda governativa è prevalentemente concentrata nel vantare il merito di aver contribuito, tramite il Jobs Act, alla trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato. Ma anche se ciò è accaduto, si fa riferimento a lavoratori già occupati e, dunque, prevalentemente adulti. Molti commentatori fanno osservare che la trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato è semmai da imputare agli sgravi fiscali attribuiti alle imprese, non alla “riforma” in quanto tale. E, seguendo questa interpretazione, è prevedibile che alla scadenza del periodo durante il quale le imprese potranno godere di decontribuzioni, molti contratti verranno ri-trasformati in contratti a tempo determinato. Ma soprattutto la propaganda governativa è impegnata in una tenace battaglia volta a dipingere il sindacato come una forza reazionaria, la cui azione frena la crescita.
L’aumento della disoccupazione giovanile è imputabile al fatto che, come registrato da Banca d’Italia, fin dal 2010, la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti.
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Estasi metropolitane
di Elvio Fachinelli
Il testo pubblicato nel volume collettivo Velocità. Tempo sociale tempo umano (a cura di Marco Manzoni e Sergio Scalpelli, Guerini e Associati, Milano, 1988, pp. 113-116) venne ripreso con alcune varianti in Elvio Fachinelli, La mente estatica (Adelphi, Milano 1989, pp. 90-95).
Una singolare linea culturale percorre l’Ottocento e attraverso Poe e Baudelaire giunge fino a Walter Benjamin e oltre. Essa trova nella folla, nel brulichio e nella promiscuità della folla, una fonte di affascinamento e di ebbrezza. Una citazione, da Les fleurs du mal di Baudelaire:
Dans les plis sinueux des vieilles capitales, /Où tout, même l’horreur, tourne aux /enchantements, /Je guette, obéissant à mes humeurs fatales, /Des êtres singuliers, décrépits et charmants. [1]
Oppure ancora, questi due versi trovati non so più dove:
L’apparizione di questi volti nella folla / petali su un ramo nero bagnato (Ezra Pound, In una stazione del metro).
Qui l’esplosione della parola «petali», contrapposta e legata al «ramo nero bagnato», costituisce una traccia di ciò che Benjamin chiamava una «illuminazione profana».
Estasi metropolitane e “velocità divina”
È da notare che la folla è storicamente un antecedente della massa. Secondo Benjamin, la folla è il velo che nasconde al flâneur la massa.[2]Nella folla gli individui conservano la loro fisionomia, sia pure come granelli affiancati gli uni agli altri. Passando a massa, questa fisionomia si perde.
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Il realismo dei sonnambuli
La Turchia, il Pkk, l’Isis e l’Occidente
di Giovanni Tomasin
«Se non faremo l’impossibile ci troveremo di fronte l’impensabile». Murray Bookchin
Alla fine dell’agosto scorso il generale in pensione ed ex direttore della Cia David Petraeus ha suggerito di armare alcune componenti di al-Nusra, il ramo siriano di al-Qaida, per combattere il sedicente Stato islamico. Di primo acchito potrebbe sembrare l’ennesimo riflesso pavloviano del Pentagono: armare gli islamisti ha funzionato contro i sovietici negli anni ’80, funzionerà contro l’Isis, poco importa che il califfato sia l’esito finale di quella stessa operazione afghana. Si tratta invece di una predisposizione al patto con il diavolo che pare affliggere buona parte degli analisti occidentali orientati a una soluzione “realista” della crisi. Una pulsione che, considerato il numero di diavoli in azione nel conflitto siriano, potrebbe costare caro.
Il monumentale Diplomacy di Henry Kissinger dipinge con efficacia l’alternarsi, nella storia della politica estera americana, di due correnti di pensiero: l’eccezionalismo messianico, volto a perseguire la missione storica degli Usa come faro della libertà nel mondo, e un realismo d’impronta più europea. Il primo è storicamente associato ai presidenti democratici, il secondo a quelli repubblicani. L’equazione è rimasta pressoché valida fino alla presidenza Clinton. George W. Bush e i circoli neoconservatori hanno rovesciato i termini della questione in otto anni di amministrazione radicalmente interventista e unilaterale. I risultati sono noti. Dopo la sbornia neocon, il realismo è tornato di moda: alla fine del suo mandato il presidente Barack Obama, in patria accusato spesso di avere un atteggiamento naïve, ha dimostrato invece di aver appreso discretamente le lezioni della scuola di Kissinger.
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Confini, guerre, migrazioni
di Alessandro Dal Lago
(S. Luna, Woman as a river between borders, da Pity the drowned horses, 2004)
I confini sono per definizione mobili. Cambiano, si spostano, avanzano e indietreggiano in virtù delle vicissitudini largamente imprevedibili della storia. Pensare che i confini definiscano realtà fisse, identità stabilite una volta per tutte e culture omogenee è una stoltezza che solo i neo-nazionalisti delle patrie locali possono impunemente proclamare, in un’epoca in cui le grandi compagini statali sono in crisi. E soprattutto i confini si moltiplicano senza sosta.1 Le crisi degli imperi sovranazionali e coloniali, tra inizio del XIX secolo e fine del XX (impero ottomano, austriaco, inglese, francese, sovietico, federazione iugoslava ecc.) hanno causato la moltiplicazione degli stati sulla carta geografica del mondo, trasformandola in una sorta di patchwork. Allo stesso tempo, all’interno dei confini, si stanno creando entità, enclave, autonomie che pretendono di essere distinte imponendo, con vario successo, nuovi confini. L’arretramento dei nazionalisti catalani e scozzesi (come l’armistizio tra baschi e stato spagnolo e tra cattolici nord-irlandesi e Regno Unito) non segna affatto la fine dei nazionalismi locali e la diminuzione dei confini, ma semmai uno stallo che può dar vita, come dimostrano la guerra a intensità variabile tra Ucraina e Russia e l’annessione della Crimea, a nuove contese sui confini.
La tendenza alla frammentazione e quindi alla moltiplicazione dei confini ha ovviamente subìto una battuta d’arresto immediatamente dopo la seconda guerra mondiale
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