Confini, guerre, migrazioni
di Alessandro Dal Lago
(S. Luna, Woman as a river between borders, da Pity the drowned horses, 2004)
I confini sono per definizione mobili. Cambiano, si spostano, avanzano e indietreggiano in virtù delle vicissitudini largamente imprevedibili della storia. Pensare che i confini definiscano realtà fisse, identità stabilite una volta per tutte e culture omogenee è una stoltezza che solo i neo-nazionalisti delle patrie locali possono impunemente proclamare, in un’epoca in cui le grandi compagini statali sono in crisi. E soprattutto i confini si moltiplicano senza sosta.1 Le crisi degli imperi sovranazionali e coloniali, tra inizio del XIX secolo e fine del XX (impero ottomano, austriaco, inglese, francese, sovietico, federazione iugoslava ecc.) hanno causato la moltiplicazione degli stati sulla carta geografica del mondo, trasformandola in una sorta di patchwork. Allo stesso tempo, all’interno dei confini, si stanno creando entità, enclave, autonomie che pretendono di essere distinte imponendo, con vario successo, nuovi confini. L’arretramento dei nazionalisti catalani e scozzesi (come l’armistizio tra baschi e stato spagnolo e tra cattolici nord-irlandesi e Regno Unito) non segna affatto la fine dei nazionalismi locali e la diminuzione dei confini, ma semmai uno stallo che può dar vita, come dimostrano la guerra a intensità variabile tra Ucraina e Russia e l’annessione della Crimea, a nuove contese sui confini.
La tendenza alla frammentazione e quindi alla moltiplicazione dei confini ha ovviamente subìto una battuta d’arresto immediatamente dopo la seconda guerra mondiale
. L’idea di un’entità sovranazionale europea era stata concepita da anti-fascisti come Schuman e Spinelli per arginare una volta per sempre la spinta all’egemonia, e alla guerra, dei diversi nazionalismi europei – soprattutto di quello tedesco. Infatti, l’inizio della “guerra civile europea” del XX secolo dovrebbe essere retrodatato al 1870-1871, e quindi alla sconfitta della Francia e alla fondazione del Reich germanico. Alla fine della seconda guerra mondiale, nell’impossibilità di giungere a un’unificazione politica tra stati vinti e vincitori, ricchi e poveri, grandi e piccoli, si pensava che una graduale unificazione economica, con la creazione di uno spazio comune, prima del mercato delle materie prime e poi della moneta, avrebbe fornito la condizione principale di una federazione politica. Il risultato paradossale è che, con l’istituzione dell’Euro, in assenza di un vero e proprio governo federale e di una banca centrale autorizzata a battere moneta, il conflitto tra economie ha preso il posto di quello tradizionale tra nazionalismi politici. Così, la Germania, per arginare i cui misfatti passati (e i possibili pericoli futuri) era stata pensata l’Unione Europea, sta riaffermando un’egemonia foriera di conflitti. Come mostrano il caso greco, il distacco progressivo del Regno Unito dall’Unione e anche la crisi russo-ucraina (in cui la Germania è fortemente coinvolta), per non parlare dell’opposizione crescente alle politiche monetarie comunitarie, il conflitto economico si sta politicizzando. In un certo senso la guerra civile europea continua sotto altre spoglie…
Nuove barriere e quindi separazioni confinarie si stanno producendo. Periodicamente, l’arrivo di stranieri irregolari sulle coste italiane (nonché greche e spagnole), provoca la sospensione degli accordi di Schengen e quindi la ricomparsa dei controlli alle frontiere interne dell’Unione Europea. Ma il fallimento dell’utopia di uno spazio libero infra-europeo non è la sola conseguenza dei movimenti demografici e geopolitici innescati dalla fine del bipolarismo. Quella forse più macroscopica è la mobilità verso l’esterno dei confini di uno spazio militare europeo che non coincide necessariamente con quello economico e politico.2 Per comprendere questo aspetto è necessaria una sintesi delle conseguenze politiche a lungo termine dei due fatti decisivi della storia europea del XX secolo: la guerra fredda e la sua fine apparente con il crollo del muro di Berlino nel 1989
In un certo senso, il mondo sviluppato, almeno occidentale, è erede di quello riuscito vincitore nella seconda guerra mondiale. Non si deve pensare solo all’Organizzazione delle Nazioni Unite, nel cui Consiglio di sicurezza siedono in permanenza rappresentanti di stati come il Regno Unito o la Francia la cui influenza globale è divenuta secondaria, rispetto almeno ai grandi poteri globali come Usa, Russia e Cina. Si pensi soprattutto al sistema di alleanze che, tra il 1945 e il 1989, si contrapponeva alle potenze comuniste, Urss e Cina. La guida americana della Nato, l’alleanza di fatto con Israele per contenere gli stati medio-orientali alleati dell’Urss, la riduzione dell’Europa a “giardino”3 dell’occidente e così via erano conseguenze dirette della vittoria sulla Germania. Con il 1989 questo sistema si è trasformato in una realtà diversa e per certi versi sconosciuta. La Nato è diventata nei fatti un’appendice del controllo strategico che gli Usa esercitano, con difficoltà sempre crescenti, sul mondo. Il suo ambito di intervento si estende dal Maghreb all’Asia centrale. Ma la sua legittimità politica (e quindi autorità) è pressoché inesistente, con la conseguenza che alcuni stati, come la Germania o l’Italia, sono riluttanti a impegnarsi nei conflitti armati, mentre Francia e Regno Unito perseguono una politica militare autonoma e in certi casi aggressiva (Libia, Centro-Africa, Siria e così via). Allo stesso tempo il “Grande fratello” americano, in una situazione che impone sfide crescenti e costose, tende a disimpegnarsi da settori strategici, soprattutto il Mediterraneo, che non ritiene più essenziali alla sua sicurezza. Il risultato di tutto questo è un caos difficilmente controllabile che ormai si è insediato stabilmente ai confini orientali e meridionali del continente europeo.
Gli stati dell’Unione, singolarmente o mediante alleanze ad hoc, tendono, di conseguenza, a esternalizzare – in nome della sicurezza e della protezione di uno spazio rimasto sostanzialmente immune dalla guerra per settant’anni – i conflitti che potrebbero coinvolgerli ai margini dell’Europa. Siamo di fronte, in questo caso, a una situazione fluida e per certi versi imperscrutabile, che però mostra alcuni aspetti costanti: 1) la delega a stati periferici dei conflitti di varia intensità (dalle frizioni di frontiera alla ridefinizione dei confini e degli ambiti di sovranità) con la Russia e con il mondo arabo. Si devono interpretare in questo senso non solo il sostegno europeo all’Ucraina, ma anche il ruolo crescente degli stati dell’est europeo nella competizione strategica con la Russia di Putin e l’alleanza con vere e proprie sentinelle dell’occidente come l’Egitto dei militari. 2) Una strategia militare, in parte condivisa con gli Usa, soprattutto nell’epoca di Obama, che si basa soprattutto sull’impiego massiccio dell’aviazione e dei missili e su quello minimo dei boots on the ground, cioè delle truppe di terra. È una scelta che ha soprattutto lo scopo di perpetuare agli occhi dell’opinione pubblica europea l’immagine di un occidente pacifico e riluttante alla guerra;4 3) La militarizzazione del controllo delle frontiere meridionali degli stati della Ue, con l’impiego delle marine militari, la diffusione dei campi d’internamento e altre misure di “contenimento” dei migranti e profughi provenienti, per lo più, da paesi in guerra. È questo l’aspetto che definisce meglio di altri la fluidità dei confini contemporanei.
Come ho cercato di mostrare in uno scritto di qualche anno fa, i confini sono inseparabili dalle idee di frontiera e di fronte.5 Se, infatti, il concetto di confine rientra nella cartografia politica, nella rappresentazione astratta degli stati in quanto enti territoriali, la frontiera – idea al tempo stesso più mutevole e concreta – definisce le relazioni conflittuali, sopite o manifeste, tra paesi diversi. In altri termini, la frontiera, in condizioni pacifiche terra di nessuno in cui si negoziano i diversi ambiti economici, culturali e linguistici, può divenire, date alcune circostanze minime, un vero e proprio fronte. Così è avvenuto, nella storia europea degli ultimi secoli, fino alla seconda guerra mondiale, nel processo di costituzione e rafforzamento degli stati nazionali. Si pensi soltanto alle rivendicazioni delle minoranze che premevano per l’autonomia politica e quindi un cambiamento dei confini stabiliti in precedenza, e quindi ponevano le basi per futuri conflitti tra stati. Ma anche oggi, in un’epoca in cui, apparentemente, le controversie territoriali infra-europee sono terminate, circostanze esterne possono causare un ritorno delle frontiere interne e quindi l’apertura di veri e propri fronti tra stati. Così sta avvenendo oggi nel caso dei profughi e dei migranti. La periodica sospensione dei trattati di Schengen alle frontiere Italia/Francia e Francia/Regno Unito, la costruzione di un muro anti-migranti tra Ungheria e Serbia e così via rappresentano perfettamente la possibilità che un confine divenga una frontiera e questa acquisti valenze difensive, se non strettamente militari.
Ma il caso più interessante è senz’altro la variabilità dei confini marini e la sovrapposizione di frontiere e fronti tra riva sud del Mediterraneo e riva nord del continente africano. Per cominciare, si deve notare che i limiti delle acque territoriali sono sempre stati oggetto di controversie tra stati, sia per la loro estensione, spesso contestata da altri stati rivieraschi, sia per la limitazione alla sovranità dei singoli stati in nome dei diritti commerciali, di pesca e di transito.6 In altri termini, il mare, oltre ai territori su cui si esercita la sovranità tradizionale degli stati, è un luogo di conflitti immanenti o potenziali. Tutto questo, in un’epoca in cui, come notava Carl Schmitt in un suo celebre saggio, sono le potenze navali a esercitare il dominio globale.7 Comunque, indipendentemente dalle strategie globali di paesi come Usa e Regno Unito, a cui pensava soprattutto Schmitt, il mare costituisce lo spazio della globalizzazione delle mobilità umane. Questo vale soprattutto per il Mediterraneo, divenuto crocevia non solo di conflitti tra nord/sud e ovest/est del pianeta, ma anche dei percorsi di fuga di centinaia di migliaia di esseri umani dalla guerra, dalla povertà e dalla fame. Anche in questo caso si possono sintetizzare gli aspetti principali di un problema in cui si annodano dimensioni reali e immaginarie, economiche e culturali.
1. Le dimensioni quantitative del fenomeno, per quanto rilevanti, sono amplificate a fini propagandistici sia dai partiti e movimenti xenofobi, sia dai partiti maggioritari della UE. Per esempio, nel 2014, poco più di 120.000 profughi siriani hanno chiesto asilo negli stati membri dell’Unione Europea,8 cioè in un territorio di quattro milioni e mezzo di chilometri quadrati, abitato da 480 milioni di persone, con una densità media di 110 abitanti per chilometro quadrati. Il solo Libano, che ha una popolazione di poco più di quattro milioni di persone e una densità quattro volte superiore a quella dell’Unione Europea, accoglie oggi più di un milione di profughi siriani. In totale, il numero dei rifugiati siriani in Turchia, Iraq, Giordania, Libano ed Egitto supera i quattro milioni di persone.9 Nel complesso, l’intero continente europeo ospita appena una parte largamente minoritaria della popolazione mondiale di rifugiati.10 Questo dà un’idea del carattere sostanzialmente politico-elettorale dell’“emergenza migranti”, così come è agitata dal Front National in Francia, dalla Lega in Italia, da Pegida in Germania e così via. La questione principale, semmai, è che in Europa non esiste una coerente politica comunitaria in tema di migrazioni e richiedenti asilo. In questo campo si oscilla tra paranoia pubblica o chiusura delle frontiere, e, soprattutto nei paesi mediterranei, inclusione dei migranti nell’economia informale, se non in quella semischiavistica del lavoro negli sweatshop, nell’agricoltura stagionale ecc. Per quanto riguarda i profughi, si deve ricordare comunque che l’Italia ne ospita ufficialmente 78.000, meno della metà di quelli presenti in Germania e in Francia. In termini percentuali Olanda, Svezia ecc. sono molto più ricettivi dell’Italia, a onta delle periodiche lamentele del governo italiano sull’Europa non solidale.
2. Una distinzione tra profughi e migranti è oggi pressoché impossibile. Infatti, la maggioranza delle persone sbarcate o salvate in mare provengono, oltre che dall’Africa sub-sahariana, da Eritrea, Afghanistan, Pakistan, Palestina, Sudan, Somalia, Iraq, Siria, Libia e così, paesi in cui guerra o povertà sono realtà endemiche. Si deve notare, inoltre, che da una ventina d’anni, in quasi tutti i paesi citati, gli stati occidentali hanno avuto un ruolo decisivo nello scatenamento o nell’allargamento dei conflitti armati. La distinzione ossessiva tra migranti e profughi appare dunque come una misura retorica difensiva rispetto a responsabilità politiche dirette e difficilmente aggirabili. Allo stesso modo, l’insistenza su scafisti e “mercanti di carne umana” come principali responsabili degli sbarchi ha il senso di una deresponsabilizzazione dell’occidente rispetto alle vere ragioni della mobilità dai pesi poveri a quelli ricchi.11 Un discorso analogo vale per la presenza di supposti terroristi sulle imbarcazioni provenienti dalle rive libiche o tunisine. Anche in questo caso l’allarme non è stato mai confermato dai fatti e rientra in quella comunicazione dell’emergenza che caratterizza la politica della UE ( e non solo) verso profughi e migranti.
3. La questione del controllo delle frontiere e la militarizzazione degli spazi aperti. Come mostra la presenza delle marine militari di diversi stati della UE nella acque tra Africa e Sicilia, gli sbarchi dei migranti sono assimilati a minacce strategiche, se non militari in senso stretto. Qui, l’aspetto interessante e decisivo è l’estensione dei confini europei molto al di là dei limiti delle acque territoriali. Da più di vent’anni, l’Europa esercita la pretesa di stabilire i propri confini sulla stesso territorio degli stati dalle cui rive partono i migranti. Nel 1995, l’allora presidente del Consiglio italiano Lamberto Dini propose al governo albanese di istituire centri di detenzione per migranti in territorio albanese, una misura così insensata da cadere subito nel vuoto, ma che dà una misura dell’arroganza e dell’irrealismo degli stati europei in tema di immigrazione.12 Oggi, il pattugliamento delle coste libiche e la proposta di istituire campi di raccolta dei profughi in Libia, un paese in preda alla guerra civile, rientrano nella stessa tradizione – che difficilmente può sfuggire all’accusa di neo-colonialismo.13
Se vista in una prospettiva mediterranea, la questione dei confini meridionali d’Europa mostra facilmente la sovrapposizione di frontiera e fronte. Lungi dal corrispondere a sede di quello scontro di civiltà teorizzato una ventina d’anni fa da S. P. Huntington, il Mediterraneo appare oggi come uno spazio in cui si aggrovigliano conflitti economici (controllo delle materie prime), lotte per la sovranità (tra stati europei e nordafricani, ma anche tra gli stessi stati europei, come nello scontro sotterraneo per la gestione delle risorse petrolifere libiche), tentativi di influenza politica, commerciale e religiosa (ruolo di Qatar, Arabia Saudita e Turchia nelle cosiddette primavere arabe), conflitti sull’informazione e così via. Ognuno di questi conflitti definisce dei fronti, frutto di avanzate e ritirate, e questi a loro volta rimodellano i confini. In una versione globale e de-territorializzata del vecchio colonialismo, i confini del mondo occidentale si estendono all’Africa e all’Asia minore e centrale. Allo stesso modo, i confini di quello che un tempo si sarebbe definito “mondo libero” sono scavati ormai nelle pianure dell’Europa dell’est e dell’Ucraina. Tuttavia, questa estensione, al tempo stesso occasionale, intermittente e avida di risorse materiali e simboliche, non emana da alcuna strategia unitaria e condivisa. In questo senso, è gravida di rischi imprevedibili. Infatti, all’interno della galassia occidentale si muovono poteri autonomi e scarsamente capaci di prevedere e controllare le conseguenze delle proprie iniziative, economiche e militari (il caso della guerra in Libia del 2011 condotta autonomamente da Regno Unito e Francia è probabilmente il più indicativo, se non il più rilevante).
Tutto questo, è il caso di dire, sulla pelle di milioni di esseri umani che aspirano a una vita decente o fuggono dalle guerre. La fine del bipolarismo e il collasso del cosiddetto socialismo reale non costituiscono, da questo punto di vista, un progresso rispetto all’epoca della guerra fredda, né tanto meno qualcosa di paragonabile a una “fine della storia”. Forse, le possibilità di un conflitto nucleare sono diminuite. Ma certamente i conflitti locali e globali sono aumentati in modo incontrollabile. E con esso i fronti di guerre occulte o aperte scatenate da stati e governi, e pagate come sempre dagli esseri umani.
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