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“Esserci” in Expo 2015
Mario Agostinelli
Il diritto di criticare Expo
Sono tra coloro che ritengono che le rilevanti risorse messe in campo per la realizzazione di questo “grande evento” avrebbero potuto essere spese più utilmente in altri modi, con ricadute probabilmente superiori in termini di posti di lavoro, di benessere per i cittadini e di sviluppo per la città di Milano. In questi mesi, di fronte a tutto quello che è accaduto, dall’illegalità allo sperpero di ingenti risorse economiche per l’organizzazione di Expo in una città e in un Paese dove la povertà e la diseguaglianza crescono quotidianamente e che avrebbero urgenza di ben altri interventi, ho maturato un giudizio complessivamente negativo. L’occasione di Expo si è consumata oscillando fino ad arretrare sui contenuti più innovativi e dirompenti, ritenuti troppo vicini ad ipotesi di trasformazione. Idee e progetti che si possono azzardare e mostrare di condividere solo nei convegni, ma non si praticano in realtà né nella prassi amministrativa né nella pratica economica e politica.
La tragedia poi della confusa, contradditoria e irregolare gestione preparatoria va rintracciata nella mancanza di una chiara catena di comando, con il ricorso alla nomina di commissari più o meno straordinari incardinati assurdamente su di una legge che riguardava la Protezione Civile e con provvedimenti che hanno rappresentato una specie di falso ideologico di Stato.
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Riflessioni sull’intervista di Putin al Corriere
di Militant
La lunga intervista del Corriere della Sera a Putin contiene diversi spunti sui quali sarebbe opportuno riflettere. In effetti, leggere la versione “del nemico” dell’Occidente sulle cose del mondo è assai utile, soprattutto quando rimette in ordine alcune verità fattuali completamente distorte dall’informazione liberale. Non bisogna essere “putiniani”, geopolitici o rossobruni, cedere alle sirene dell’eurasiatismo o approdare a rifiuti “culturali” dell’occidentalismo per comprendere come le ragioni della Russia siano completamente svalutate nella lettura quotidiana degli interessi strategici in campo nell’attuale scontro tra Usa-Ue e Russia. Perché se la Russia è un paese capitalista guidato da un governo conservatore (e su questo ci possono essere pochi dubbi), non per questo è automatica una simmetria tra questa e le potenze occidentali.
Non c’è alcuna lotta per l’egemonia regionale o globale, detto altrimenti, quanto un attacco geopolitico, portato avanti sia economicamente che militarmente, contro la Russia. Alcuni passaggi dell’intervista sono, appunto, parte di quella verità fattuale negata a priori dalle retoriche europeiste. E una certa indipendenza di giudizio e di autonomia politico-culturale dovrebbe consentirci di interpretare la realtà con strumenti antimperialisti e internazionalisti, non imboccati dai media mainstream.
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Finale di sistema
di Lanfranco Binni
La crisi del sistema politico italiano è entrata in una nuova fase di implosione. Sono decisamente interessanti i dati delle elezioni regionali del 31 maggio. Il primo dato in ordine di importanza è quello del non voto (48%): un cittadino su due non ha votato, e l’astensione ha colpito (passivamente e in buona misura attivamente) l’area politica della destra e della sinistra di sistema. Alle tradizionali ragioni dell’astensione (sono tutti ladri, sono tutti uguali) si sono aggiunte nuove ragioni di profondo dissenso politico, di dichiarata non partecipazione al gioco truccato di una democrazia rappresentativa infetta, dell’uso della cosiddetta volontà popolare da parte del partito unico della “nazione” che unisce destra e sinistra. Questa tendenza di astensionismo politico, già clamorosamente evidente nelle elezioni regionali del 2014 in Emilia Romagna, si è accentuata nelle regioni “rosse” (Liguria, Toscana, Umbria, Marche) mentre l’astensionismo non è aumentato in Campania e in Puglia. Il secondo dato è la salutare flessione del Pd, abbandonato da due milioni di elettori, in parte di antica tradizione Pci (rifluiti nell’astensionismo, nelle formazioni della “sinistra radicale”, nel Movimento 5 Stelle o nel populismo razzista della Lega) e in parte di destra (rifluiti nell’astensionismo o nella Lega). Il terzo dato è la forte affermazione del M5S, che prosegue, nonostante tutte le campagne dei media al servizio del sistema politico, la sua positiva crescita all’esterno del sistema, dentro e contro, su una linea di tenace autonomia che si dimostra vincente.
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Grecia: la danza sull’abisso
di Francesca Coin e Andrea Fumagalli
La trattativa in corso tra Grecia e Brussel Group sta arrivando alla fase decisiva. A partire dalla tensione degli ultimi giorni, ricostruiamo la storia del debito greco per svelare gli inganni di un’informazione che racconta solo la versione dell’Europa dei più forti e per far meglio comprendere quale sia la posta in gioco per il futuro di una vera Europa sociale. Un futuro che dipende dal fatto che le politiche d’austerity vengano per sempre bannate. E ora che pure la Spagna s’è desta vuoi vedere che anche l’Italia…
* * * * *
Dopo un tira e molla di dichiarazioni di diverso segno, la trattativa tra la Grecia e i creditori istituzionali ha sancito la deadline finale: è il 30 di giugno. Il governo Tsipras ha infatti ufficialmente chiesto di accorpare le quattro tranche di pagamenti al FMI in unica tranche a fine giugno, come lo stesso regolamento del Fmi prevede. Sarebbe la seconda volta in cui tale clausola di accorpamento verrebbe adottata dagli anni Settanta a oggi.
L’ammontare complessivo è di circa 1,6 miliardi di Euro, ma tale cifra è solo l’antipasto. Entro la fine dell’anno le altre scadenze (sempre in termini di interessi) ammontano ad altri 1,4 miliardi al Fmi e ben 7,7 miliardi alla Bce.
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Il lato cattivo della storia
di Emilio Quadrelli
A partire da “La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini” (Feltrinelli, 2003), scritto con Alessandro Dal Lago, Emilio Quadrelli riflette sul lato cattivo della globalizzazione e su un mercato globale che, ancor prima che le merci, “produce produttori” e condizioni di lavoro marginalizzanti
Qui si genera il mondo delle ombre: masse senza volto costrette lungo un “asse orizzontale” fatto di lavori saltuari, precari e flessibili di basso profilo. Condizione che cagiona continue incursioni nell’ambito delle economie informali e/o illegali e che condanna il migrante, oggetto di una reiterata stigmatizzazione sociale fondata sulla “linea del colore”. Condizione che, tuttavia, sembra fagocitare il futuro prossimo anche di gran parte della forza lavoro in pelle bianca lungo un processo di globalizzazione in basso.
Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l’idillio. Diritto e “lavoro” sono stati da sempre gli unici mezzi d’arricchimento, facendosi eccezione, come è ovvio, volta per volta per “questo anno” (K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica).
Quando, nel 2003, La città e le ombre veniva data alle stampe, l’ordine discorsivo imperante era del tutto imprigionato all’interno delle cosiddette retoriche securitarie, ossia della minaccia che i mondi illegali rappresentavano per la società legittima.
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L'urgente rilancio dell'occupazione? Col sale in zucca (no "permeismo" allowed)
di Quarantotto
1. Repetita iuvant: secondo Eurostat, l'Istat dell'Unione europea, l'Italia ha una delle più basse spese pubbliche pro-capite in €uropa.
2. Infatti, ciò è confermato dai dati sul numero dei pubblici impiegati.
E si tratta di quelli del 2011, a cui sono seguiti ulteriori accorpamenti di strutture e blocchi del turn over, sul fronte organizzativo pubblico (molti credono che la spending review non sia in corso, solo perchè il livore accecante non consente neppure la memoria a breve sulle leggi sfornate a getto continuo).
In questo numero dobbiamo pure conteggiare un precariato - nei settori dell'istruzione e della sanità, ma non solo-, che è un record UE e che ci pone in infrazione rispetto alle direttive europee sulla preferenza per il contratto a tempo indeterminato.
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Riforma della scuola: la vera posta in gioco
di Luca Illetterati
A leggere e ad ascoltare molti dei discorsi chi si fanno sui giornali e in televisione sulla riforma della scuola l’impressione è che perlopiù non ci si accorga o non ci si voglia davvero accorgere di ciò che è in gioco dentro a questo scontro che vede contrapposti da una parte il governo, con in prima fila il premier , la parte maggioritaria del Pd (gli altri partiti della coalizione e i partiti dell’opposizione si limitano a guardare) e dall’altra gli insegnanti; quasi tutti, finora. C’è addirittura chi pensa (e ovviamente c’è chi vuol fare pensare) che si tratti semplicemente di una partita corporativa. Come se gli insegnanti fossero lì a protestare in difesa di rendite di posizione, peraltro difficili anche solo da immaginare per chiunque abbia davvero lavorato qualche giorno dentro una scuola. O che si tratti comunque di una sacca di resistenza di arcigna conservazione ipersindacale rispetto a una necessaria e urgente modernizzazione che non può più attendere.
Una semplificazione che a volte tocca dei picchi formidabili e degni forse di qualche considerazione.
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Costruire il «popolo»
Il nuovo populismo di Rafael Correa nel laboratorio dell’America Latina
di Damiano Palano
Il ritorno del «popolo»
«I poveri non solo subiscono l’ingiustizia ma lottano anche contro di essa! Non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi. Non stanno neppure aspettando a braccia conserte l’aiuto di Ong, piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai, o che, se arrivano, lo fanno in modo tale da andare nella direzione o di anestetizzare o di addomesticare, questo è piuttosto pericoloso. Voi sentite che i poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti; si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha molta voglia di dimenticare. Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma una parola è molto più di alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, la terra e la casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro: i dislocamenti forzati, le emigrazioni dolorose, la tratta di persone, la droga, la guerra, la violenza e tutte quelle realtà che molti di voi subiscono e che tutti siamo chiamati a trasformare.
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Il paradosso capitalista in due numeri
Militant
Se i capitalisti, presi singolarmente, non agiscono in termini razionali (in riferimento al sistema produttivo generale, s’intende), il capitalismo nel suo complesso sa descriversi molto bene. La voce del padrone, a volte, riesce ad illuminare meglio delle esegesi proletarie. L’assunto apparso sul Corriere di giovedì scorso sembra confermare questo dato. In un articolo di tal Roberto Sommella, si legge questa frase, buttata là per dimostrare una cosa che in realtà ne dimostra una opposta: “Apple quest’anno può guadagnare 88 miliardi di euro occupando 92.600 persone, mentre negli Anni 60 General Motors raggiungeva i 7 miliardi di dollari di ricavi dando un salario a 600.000 dipendenti.” Sembra una banalità, invece è esattamente qui il cuore della crisi capitalista, la contraddizione principale tale per cui le crisi, nell’attuale sistema produttivo, sono cicliche e mai risolte una volta per tutte. La natura borghese della riflessione del commentatore del Corriere impedisce però di trarne la giusta conclusione (una volta si sarebbe detto: la sua falsa coscienza necessaria che crede di scovare l’inghippo invece continua a non capirlo). Secondo Sommella, infatti, criticando tale forma produttiva di “crescita senza lavoro”, afferma che ormai, nel capitalismo digitale, questo riesce a generare profitti senza creare posti di lavoro (di qui alla conseguenza implicita subordinata, cioè che i capitali riescono a rigenerarsi senza mano d’opera lavorativa, il passo è brevissimo e già compiuto nella testa dell’articolista).
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Rimarrebbe pur sempre Spartaco
di Antonio Tricomi
Quella scattata da Guido Mazzoni con I destini generali (Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 115, € 14,00) è una fotografia della nostra epoca, e in special modo della società occidentale, autenticamente spietata perché intellettualmente onesta. Il merito principale del saggista lo potremmo infatti riassumere così: ricavare tale impietosa diagnosi in primo luogo dalla propria esperienza di scacco non già conoscitivo, ma etico-politico o, in altri termini, dalla consapevolezza di non essere legittimato a considerarsi in una qualche misura estraneo alla bancarotta della civiltà che caratterizza il presente solo perché almeno in parte formatosi sui principi – da tempo decaduti – della tradizione umanistica. Mazzoni muove cioè da un’addolorata ammissione di fisiologica correità emotiva – e, per paradosso non proprio estremo, anche culturale – con le mitologie perlopiù regressive che dominano l’età contemporanea. A parer suo, quel letterato, quel filosofo, quello storico che, in nome dell’ormai solo presunta eterodossia della propria educazione, immagini di potersi porre al di sopra o semplicemente al di fuori dell’oggi, e di riuscire a decifrarlo e magari a contrastarne le peggiori retoriche impiegando saperi o richiamandosi a valori che si ostina a credere strutturalmente irriducibili a quelli egemoni, finisce infatti col prodursi in uno sterile, tutt’al più moralistico esercizio di falsa coscienza, che gli vieta di misurarsi con un reale il cui ordito non si lascia più né cogliere criticamente, né lacerare in chiave utopistica da interpretazioni di tal genere.
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Il tempo dei barbari dentro la crisi
di Euronomade
«Ogni rapporto di egemonia (ossia di persuasione) è necessariamente un rapporto pedagogico» diceva Gramsci riferendosi tanto alle persone quanto alle istituzioni. Tradotto nella situazione europea del presente, possiamo sostenere che vi sia fiducia nelle regole e, anzitutto, in chi le trasmette? In tutta evidenza, no!
Al netto delle questioni etiche, delle distinzioni tra fini, della ricerca del bene e della cosa migliore, – fra etica e neoliberismo vi è uno iato incolmabile, com’è noto –, quel consenso che, in termini materialistici, «nasce storicamente dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua posizione» si regge sulla «funzione di quel gruppo nel mondo della produzione». È dunque arduo sostenere che godano di fiducia le classi dirigenti e le classi politiche europee, le classi della finanza e le classi del debito: tant’è vero che hanno bisogno di pescare nell’archivio dell’orientalismo per fare breccia nella resistenza della Grecia di Syriza, allorché il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha definito il ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis “dilettante, perditempo e giocatore d’azzardo”. Contumelie simili le abbiamo viste lanciate, negli ultimi otto anni di crisi, contro Papandreou fino a Samaras, pur d’imporre e recuperare crediti e debiti; di consolidare un regime di messa a valore della Grecia, quale angolo arretrato di un’Europa stimabile e rispettosa; di estrazione violenta di rendita e profitto dalle periferie sottosviluppate; d’imbrigliamento della mobilità della forza lavoro, in un continuo tentativo di ricostruire il rapporto di sfruttamento e la capacità di valorizzazione, favorendo nuove accumulazioni sulla cooperazione e sul lavoro vivo.
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FIFA, che fifa!
di Elisabetta Teghil
La polizia svizzera, giorni fa, si è presentata senza preavviso e in abiti civili all’albergo Baume au Lac, dove soggiornavano molti delegati che avrebbero dovuto partecipare alle elezioni del nuovo presidente FIFA. Si è fatta dare dalla conciergerie le chiavi delle stanze ed è salita direttamente ai piani per procedere agli arresti dei dirigenti che lì soggiornavano per partecipare al voto di venerdì 28 maggio per l’elezione del vertice della FIFA e ha arrestato due vicepresidenti, uno di Cayman e l’altro dell’Uruguay, e i delegati di Costarica, Nicaragua, Venezuela e Brasile.
Alcuni di questi sono stati portati fuori dall’albergo in manette, sono stati videoripresi e le immagini sono state divulgate.
Il procuratore generale degli Stati Uniti, Loretta Lynch, ha dichiarato che le indagini erano state effettuate dall’FBI e che andavano avanti da vent’anni e che i dirigenti FIFA in questione avevano preso tangenti per influenzare la decisione di dove fare questo o quell’altro avvenimento calcistico e che “noi sradicheremo la corruzione del calcio mondiale”. E ha chiesto l’estradizione degli arrestati negli Stati Uniti.
A che titolo non si sa non avendo nessuna motivazione legale perché la FIFA ha sede a Ginevra e gli arrestati appartengono a paesi sovrani e indipendenti.
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“Buona scuola” o disastro antropologico?
Fabio Bentivoglio
Pubblichiamo un intervento di Fabio Bentivoglio sulla "buona scuola". Si tratta di un articolo in corso di pubblicazione sulla rivista Indipendenza. (M.B.)
Prendiamo spunto da alcune “perle” relative alla cosiddetta riforma “La buona scuola” illustrata da Renzi nel corso del video con lavagna e gessetti. Il nostro, con lo sguardo rivolto alla mitica crescita, esordisce indicando che la riforma in oggetto mira a fare dell’Italia una “superpotenza culturale”; aggiunge poi che per contrastare il dramma della disoccupazione giovanile sarà previsto in tutti gli ordini di scuola un monte orario significativo di alternanza scuola-lavoro. Il giorno seguente l’approvazione alla Camera dell’articolo 9 del relativo disegno di legge che attribuisce ai dirigenti scolastici il potere di scegliere gli insegnanti più consoni alla realizzazione degli obiettivi indicati nel Piano dell’Offerta Formativa dell’istituto, Repubblica (19.05.2015) riporta il commento entusiasta della ministra Giannini: “Sbagliato protestare, l’autonomia è di sinistra; vogliamo una scuola autonoma, responsabile e valutabile. Sono i principi della sinistra italiana progressista e illuminata che già aveva indicato Luigi Berlinguer”. Un merito va riconosciuto a Renzi e alla Giannini: è difficile condensare in così poche parole quello che a tutti gli effetti si configura come un disastro antropologico di cui forse manca ancora adeguata consapevolezza.
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L’organetto di Draghi II
Seconda lezione: la Bce, la crisi e il raddoppio del bilancio (2008-2011)
di Sergio Cesaratto
Pubblichiamo alcune lezioni preparate da Sergio Cesaratto per economiaepolitica.it, dedicate alla BCE e alla politica monetaria. La serie, intitolata l'”Organetto di Draghi”, prevede quattro lezioni: 1) Moneta endogena e politica monetaria; 2) La BCE di fronte alla crisi; 3) LTRO, Target 2, Omt; 4) Forward guidance e Quantitative easing
Nella lezione precedente abbiamo introdotto il concetto di endogenità della moneta – cioè l’idea che normalmente è il mercato a determinare l’ammontare di liquidità creata dalla banca centrale – e in connessione a ciò, abbiamo spiegato come quest’ultima attui a politica monetaria1. In sintesi la banca centrale soddisfa le esigenze di liquidità del sistema in maniera tale che nel mercato monetario prevalga il tasso di interesse a breve termine che essa ha fissato come obiettivo. Questo tasso fa poi da punto di riferimento a tutti i tassi di mercato a più lunga scadenza.
Il bilancio della BCE
Andiamo dunque al bilancio della banca centrale, quello che nelle sue dichiarazioni più recenti Draghi vuole portare a 3 trilioni. Col termine bilancio traduciamo l’inglese “balance sheet”. In italiano dovremmo dire “stato patrimoniale”, ma il termine bilancio ci sembra meno minaccioso per il lettore. Il bilancio di una banca centrale racconta ciò che essa fa (o non fa). Più precisamente, dovremmo parlare di bilancio dell’Eurosistema che consolida (somma) i bilanci delle singole banche nazionali dei paesi membri dell’Euroarea2.
Come forse ricorderete, la BCE crea liquidità in cambio di “attività” (assets) – come valute straniere o titoli forniti a garanzia della liquidità ricevuta3.
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I 12 principi fondamentali della Costituzione
di Enrico Galavotti
I 12 principi fondamentali della nostra Costituzione (22.12.1947) vengono considerati intangibili: infatti nessun governo ha mai pensato di modificarli. Secondo un certo orientamento dottrinale maggioritario, che trova conferma nella giurisprudenza costituzionale, essi sono sottratti alla possibilità di revisione costituzionale prevista all’art. 138 della Costituzione, in quanto la loro modifica o soppressione stravolgerebbe l’identità stessa della Costituzione, ovvero la forma democratica dello Stato. Sembrano una sorta di decalogo veterotestamentario, una serie di enunciati assolutamente dogmatici. Vediamo se davvero dobbiamo considerarli così.
Art. 1
L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
La Repubblica è democratica in quanto fondata sul lavoro e non sulla rendita o sullo sfruttamento del lavoro altrui. Questo è vero, ma bisognerebbe specificarlo espressamente, perché il concetto di "lavoro", in sé, non indica affatto il carattere "democratico" di una Repubblica. Nel sistema capitalistico il lavoro è soltanto una merce, al pari di altre, che si acquista sul mercato, tant'è che si parla di "mercato del lavoro".
Più che essere "fondata" sul lavoro, la Repubblica italiana dovrebbe essere fondata sulla "proprietà collettiva dei mezzi di lavoro", quella che permette a tutti di non dover essere sfruttati per poter vivere. Il lavoro può non essere una "merce" soltanto se la proprietà dei fondamentali mezzi produttivi non è privata.
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Piacevolezze del moderno imperialismo
Un poligono di tiro chiamato mondo
di Gianfranco Greco
Un poligono di tiro chiamato mondo
Per il celebre psicologo americano Steven Pinker, autore tra l’altro de “Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è l’epoca più pacifica della storia”1 il mondo non è mai stato così sicuro e prospero.
Suggestivo. Come altro si può definire una scempiaggine che trascolora in comicità allo stato puro? Laddove non si è portati a privilegiare i motti di spirito ci si accorge come la realtà – quella tremendamente reale – rimandi, al contrario, ad una rappresentazione che va a cozzare contro l’assertività di talune scuole di pensiero che prefiguravano e continuano a prefigurare – a datare dalla fine della Guerra fredda e dal collasso dell’Unione sovietica - un unico modello politico-economico dominante – quello capitalistico – che avrebbe quale portato naturale il conseguente esaurirsi delle cause strutturali dei conflitti.
Un accurato rapporto dell’Institute for Economics and Peace rileva – a quanto riporta Federico Rampini - come “Dal 2007 ad oggi l’indice della pace globale ha ripreso ad arretrare paurosamente. Quell’anno – che coincide con l’esplosione della grande crisi economica – segna anzi una svolta negativa rispetto ad un trend di lenta riduzione delle guerre dopo il secondo conflitto mondiale”2.
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Il reddito della gleba
di Alberto Bagnai
Il gioco è assolutamente evidente e del tutto scoperto. A cosa serve nascondersi? Sanno che ci cascherete, come siete cascati nella trappola dell'euro, e che ci cascherete per lo stesso motivo: perché non volete fermarvi a pensare, perché qualsiasi sforzo intellettuale che superi la dimensione dell'appartenenza da curva calcistica è superiore, soprattutto adesso, dopo sette anni di crisi, alle vostre possibilità.
Qual è il gioco?
Ma è semplice! Barattare il diritto a un lavoro con il diritto a un reddito.
Lo chiamano reddito di cittadinanza, ma qui lo chiameremo reddito della gleba. Risparmieremo caratteri, e aderiremo meglio all'essenza del ragionamento. Così come la servitù della gleba legava il colono a un fondo, il reddito della gleba serve a legare i nuovi coloni al precariato. Ma se mi avete seguito fin qui (e soprattutto se avete seguito Quarantotto) non avrete certo bisogno che ve lo spieghi, lo scopo del gioco: in un mondo dove la totale libertà garantita al capitale determina uno schiacciamento dei redditi da lavoro e quindi un aumento della disuguaglianza e una traslazione della classe media verso il basso (come ho mostrato in L'Italia può farcela); in un mondo nel quale, stante il principio fondamentale della tutela ultra vires degli interessi dei grandi creditori (che non amano l'inflazione, se pure moderata), l'unico meccanismo di aggiustamento è la deflazione; in un mondo nel quale quindi la polarizzazione dei redditi indotta dalla deflazione sta creando una platea sterminata di poveri; bene: in questo mondo, il nostro mondo, si pone il problema di tenerli buoni, questi poveri...
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Ancora su destra e sinistra
Marino Badiale
Mi sembra che il tema della dicotomia destra/sinistra, con le tesi contrapposte della sua perdurante validità oppure del suo superamento, sia sottinteso in alcune delle discussioni a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi (per esempio quella relativa a Diego Fusaro, partita daqui e proseguita per esempio qui). Si tratta però di una tematica che resta spesso sottintesa, o magari accennata e liquidata con poche battute. Il risultato è che sul tema del superamento di destra e sinistra vi è un certo grado di confusione. Penso sia bene provare almeno a dissipare un po' di questa confusione. Un'occasione per farlo può essere questo articolo, di qualche tempo fa, di Moreno Pasquinelli, che ha il merito di affrontare esplicitamente la questione. In realtà lo scopo ultimo dell'articolo mi sembra sia quello di portare un attacco al tentativo, attribuito a Fusaro, di creare di una forza politica sovranista ma non caratterizzata in termini di destra e sinistra. Non è però di questo che intendo trattare adesso: mi interessa invece discutere la ricostruzione della genesi della tesi sul superamento di destra e sinistra (d'ora in poi, per brevità , la chiamerò ”tesi del superamento”), ricostruzione proposta da Pasquinelli all'inizio dell'articolo. Mi trovo infatti a dissentire su alcuni aspetti di tale ricostruzione, e penso che esplicitare questo dissenso possa essere un contributo a fare chiarezza su questi temi.
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Una carta del precariato?
G Battiston intervista Guy Standing
Pubblichiamo la versione integrale di un’intervista a Guy Standing apparsa sull’Espresso online
I partiti della sinistra socialdemocratica? «Inservibili». I sindacati? «Su posizioni difensive». L’idea novecentesca del lavoro inteso soltanto come lavoro salariato? «Un ostacolo all’emancipazione e all’egualitarismo». L’obiettivo della piena occupazione? «Pura utopia». Anche nel suo ultimo libro, Diventare cittadini. Un manifesto del precariato (Feltrinelli, euro 19, pp.336, trad. Giancarlo Carlotti), non risparmia bordate e posizioni poco ortodosse Guy Standing, docente di Development Studies alla School of Oriental and African Studies di Londra, una vita trascorsa ad analizzare le trasformazioni del lavoro e, più recentemente, il mondo dei precari. Che da supplicanti, soggetti a un dominio arbitrario, privati dei diritti sociali e colpiti da una cronica insicurezza economica, possono diventare i veri protagonisti delle battaglie per una «società giusta». È questa per Guy Standing la parabola che deve compiere il precariato, la nuova «classe esplosiva». Una classe sociale colpevolmente tradita dai partiti di sinistra, ancorati al capitalismo industriale e perciò incapaci di archiviare l’immaginazione economica del Novecento.
Per farlo, spiega Standing, occorre partire da due priorità: ripensare lo stesso concetto di lavoro, includendovi sia le attività produttive sia quelle riproduttive e il tempo libero, e rivedere l’intero sistema della redistribuzione della ricchezza, introducendo un reddito minimo universale.
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L’islamizzazione della rivolta radicale
C. Tricot intervista Alain Bertho*
Pubblichiamo qui una versione ridotta dell'intervista apparsa su «Regards» in cui per analizzare gli attentati di gennaio a Parigi Alain Bertho ci invita a considerare il punto di vista dei soggetti stessi, sottolineando le difficoltà attuali nel proporre una radicalità positiva.
Come ha interpretato gli attacchi terroristici dei primi dell'anno a Parigi?
Qualche giorno dopo gli attentati del 7 e del 9 gennaio ho letto Underground. In questo libro, basato essenzialmente su interviste, il romanziere giapponese Haruki Murakami prova a comprendere l'attacco mortale al gas nervino Sarin perpetrato dalla setta Aum nella metropolitana di Tokyo nel 1995. Ha così interrogato alcune vittime e alcuni membri della setta. Il suo lavoro mostra fino a che punto, in questo genere di situazioni, le irriconciliabili esperienze soggettive delle vittime e degli assassini si oppongano sul senso dell'evento. L'esperienza delle vittime è quella di un perché senza risposta. La ripetizione circolare delle testimonianze e dell'estremo dolore non produce alcun significato. Lo abbiamo visto a gennaio in Francia, lo abbiamo rivisto a Tunisi a marzo. Quando «le parole non bastano più», o quando «non esistono parole» per dirlo, significa che l'evento è «impensabile», nel vero senso della parola. Ma ciò che restituisce il senso dell'atto e ne assicura la sua continuità soggettiva prima, durante e dopo l’evento, è ciò che pensano coloro che ne sono stati attori o che avrebbero potuto esserlo. Questo è l'intento di Haruki Murakami quando dà la parola ad alcuni membri d'Aum.
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La crisi, vera e falsa contraddizione del mondo contemporaneo
di Alain Badiou
La modernità è prima di tutto una realtà negativa. Effettivamente si tratta di una rottura con la tradizione. È la fine del vecchio mondo di caste, nobiltà, obblighi di carattere religioso, riti giovanili di iniziazione, mitologia locale, sottomissione delle donne, potere assoluto del padre sui suoi figli, e divisione ufficiale tra un piccolo gruppo di governanti e una massa condannata di lavoratori. Nulla può spingere questo movimento indietro – un movimento che, evidentemente, è iniziato in Occidente con il Rinascimento, si è consolidato con l’Illuminismo del XVIII secolo e poi materializzato nelle innovazioni senza precedenti nelle tecniche di produzione e nel costante affinamento dei mezzi di misurazione, di circolazione e di comunicazione.
Forse il punto più sorprendente è che questa rottura con il mondo della tradizione, questo vero e proprio tornado che si abbatte sul l’umanità – quello che in appena tre secoli ha spazzato via forme di organizzazione che duravano da millenni – crea una crisi soggettiva le cui cause e portata sono evidenti , e uno dei cui aspetti più rilevanti è la difficoltà estrema e crescente che i giovani, in particolare, affrontano nel trovare un posto in questo nuovo mondo.
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Moneta unica in avvitamento, tensione militare in ascesa
di Federico Dezzani
A distanza di un mese dall’articolo “A che punto è l’euro-notte”, torniamo sull’argomento assimilando le recenti novità politiche e militari: il nostro impianto analitico, secondo cui il collasso dell’euro sarà accompagnato dalla recrudescenza della guerra ucraina dietro impulso angloamericano, è corroborato giorno per giorno dall’evolversi della situazione. Le recenti tornate politiche nel Regno Unito e Spagna confermano l’avanzato stato di decomposizione dell’Unione Europea, mentre il rifiuto greco a qualsiasi ulteriore misura di austerità accelera l’uscita di Atene dall’eurozona, che scatenerebbe l’implosione della moneta unica nel lasso di qualche settimana. Se in Ucraina la tregua vacilla, le elezioni politiche in Polonia rafforzano lo scenario di un nuovo Intermarum a guida angloamericana da opporre a Mosca: le probabilità di un conflitto aumentano di pari passo con la frequenza delle esercitazioni che si svolgono dal Mar Baltico al Mar Caspio.
A Ovest defezioni
Gli imperi nascono da un città, da un popolo o da uno Stato e da lì espandono il loro dominio verso una periferia sempre più lontana: quando l’organismo politico muore, la disgregazione compie il percorso inverso, partendo dagli arti e risalendo in direzione del cuore.
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Guerra, ideologia e tecnica
Fabio Bentivoglio
Pubblichiamo l'intervento di Fabio Bentivoglio al convegno "1914-2014: Cento anni di guerre", tenuto a Napoli il 4-12-14, organizzato dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dal Rotary Club.
(M.B.)
I cento anni di guerra (1914-2014) oggetto della nostra attenzione sono scanditi dalla Prima e Seconda guerra mondiale (1914-1918 e 1939-1945), dalla guerra fredda (1945-1991) e, in seguito, da un ciclo di guerre indicate in forma generica con varie dizioni: “guerra infinita”, “guerra globale” “guerra al terrorismo”… È mio intento cogliere dal punto di vista storico gli aspetti di continuità e discontinuità del fenomeno “guerra”, riguardo l’origine dei conflitti, l’ideologia e la tecnica.
Origine dei conflitti
Uno dei rari casi in cui nella storia è possibile registrare una costante, confrontando anche epoche molto lontane, è proprio quello sulla natura delle dinamiche che danno origine alle guerre: le guerre sono state e sono espressione di progetti politico-militari riconducibili a dinamiche economiche, di potere, predominio, ricchezza, controllo del territorio e simili. Ovviamente ogni epoca storica si differenzia dalle altre per la configurazione dei rapporti economici e per le forme di potere, ma i moventi che determinano le guerre hanno una matrice comune.
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Organizzare la rottura costituente
Un passaggio necessario
di Sandro Mezzadra e Toni Negri
Mentre prosegue il duro scontro tra il governo greco, le istituzioni europee e il Fondo Monetario Internazionale, le elezioni spagnole del 24 maggio hanno aperto una nuova breccia nell’“estremismo di centro” che ha governato gli anni della crisi in Europa. A Madrid, a Barcellona, in decine di altre città di piccola o media grandezza, peculiari coalizioni di movimenti sociali urbani, esperienze di associazionismo e forze politiche hanno travolto gli equilibri istituzionali esistenti e hanno fatto irruzione all’interno dei governi municipali con programmi nati nel corso delle lotte, a partire dal 15M. Il ruolo di Podemos è stato importante all’interno di molte di queste coalizioni, che hanno tuttavia tratto la propria forza dal radicamento in dinamiche di mobilitazione e costruzione quotidiana, irriducibili alla forma partito. È su questa base che dovranno ora essere sperimentati processi innovativi di governo municipale, di fondamentale importanza anche in vista delle elezioni politiche di novembre. Questa rottura non è simbolica ma istituzionale: la costituzione materiale è messa in discussione, quella spagnola (e greca) e quella europea.
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Una breve ricostruzione del dibattito storico-teorico sul neoliberismo
Andrea Baldazzini
Ormai sono anni che il tema del neoliberismo è al centro di moltissimi studi e dibattiti, ma nonostante le innumerevoli attenzioni che gli sono dedicate, ancora non si possiede un quadro complessivo del fenomeno in grado di dar conto delle sue reali dimensioni e sfumature. Certamente non si può pensare al neoliberismo come al risultato di configurazioni casuali, più stimolante risulta invece provare a pensarlo nei termini di un organismo che ha raggiunto una fase molto avanzata del suo sviluppo, e che nel nel corso degli anni è stato in grado di mutare adattandosi all’ambiente, fino a ribaltare il rapporto di subordinazione facendo si che l’ambiente stesso si modificasse in funzione dei propri bisogni di gestione e riproduzione. Prima ancora di entrare nel merito dei temi di questo lavoro, è importante fin da subito tenere presente che il neoliberismo va visto come una costellazione di elementi tra di loro eterogenei ma capaci di agire secondo un sentire comune, un organismo appunto. Ciò fornisce già una prima considerazione in riferimento al metodo di indagine che si vuole adottare nel voler studiare questa strana creatura, infatti molte delle analisi prodotte a riguardo scadono in un eccessivo riduzionismo epistemologico, motivo per cui nelle poche pagine che seguiranno l’intento sarà semplicemente quello di fornire alcune coordinate storico-sociologiche in merito alle radici e alla razionalità (cioè la natura dei modi di dispiegamento) del neoliberismo. L’obiettivo non è tanto quello di fornire un commento sul fenomeno in questione, quanto piuttosto di mettere un po’ d’ordine nello scenario idealtipico che in molti hanno, ma che spesso risulta essere confuso e rischia di non permettere un serio dialogo o addirittura di sottovalutare il nemico.
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