Fai una donazione
Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________
- Details
- Hits: 1105
L'Ucraina ha "diritto" ad aderire alla NATO? Realismo versus Idealismo
di Alberto Bradanini
Perché il solo orizzonte in grado di immaginare una prospettiva di pacificazione in Ucraina, che ponga fine ai massacri reciproci e apra la strada a una possibile riconciliazione, è costituito dal ripristino della sua neutralità
1. In un articolo pubblicato su Substack, Glenn Diesen, un pungente professore norvegese (dell’Università Sud-Orientale del suo paese) e acuto esponente della scuola realista delle Relazioni Internazionali - cui appartiene anche il più noto John Mearsheimer dell’Università di Chicago – sfida con argomentato coraggio la narrativa convenzionale occidentale, manifestamente costruita dai sistemi di comunicazione di massa - che l’operazione militare speciale decisa da Mosca il 24 febbraio 2024 sia stata una derivata non-provocata dell’intento russo di riproiettarsi sul quadrante esteuropeo un tempo occupato/presidiato dall’Unione Sovietica.
Le riflessioni del prof. Diesen costituiscono un prezioso arricchimento intellettuale e vaccinatorio contro la macchina della distorsione mediatica. Insieme alle sue riflessioni il lettore troverà a intermittenza alcuni commenti a margine da parte dello scrivente.
2. Confondendo i termini della questione, molti dipingono la scuola del realismo politico – rileva l’autore - come una teoria deficitaria sotto il profilo etico, non solo politico, contestandone la valenza teleologica, vale a dire la capacità di definire un convincente modello di gestione della competizione tra nazioni, che per i realisti è una derivata ineludibile della struttura anarchica del sistema internazionale. Tale indomabile competizione è causata dalla necessità degli stati di proteggere la loro sicurezza in assenza di un potere gerarchico che disponga del monopolio dell’uso della forza. Per gli idealisti (i seguaci della scuola di pensiero da cui prendono nome), la condotta degli stati deve invece ricondursi alla dimensione etica. Se i corrispondenti valori non sono rispettati - quelli generati dalla Grande Potenza di turno e coincidenti, non a caso, con i suoi interessi (oggi, gli Stati Uniti, portatori dell’ideologia democratica, liberale e mercantile) -, questa ha il dovere morale di imporli al resto del mondo. E qui, come si può immaginare, cominciano i guai.
- Details
- Hits: 1194
Il Rapporto Draghi fra mercantilismo benevolo e mercantilismo ostile
di Sergio Cesaratto
Sergio Cesaratto richiama l’attenzione sui tratti neo-mercantilisti del Rapporto Draghi e ritiene che in essi si annidi una critica implicita all'impianto neoliberista che ha ispirato la governance europea. Cesaratto sostiene anche che il 'nazionalismo europeo' che traspare dal Rapporto non sembra avere sempre accenti progressisti e, inoltre, che su di esso grava il rischio di essere minato dalla mancanza di uno spirito comunitario assimilabile a quello nazionale
Il Rapporto Draghi dedicato al futuro della competitività europea evoca diversi e opposti aspetti del mercantilismo. Il mercantilismo può assumere infatti forme benigne, in difesa dei propri interessi nazionali senza pregiudizialmente voler danneggiare nessuno, od ostili verso altri Paesi o verso la propria classe lavoratrice (Guerrieri, P. e Padoan, P.C., Neomercantilism and international economic stability, International Organization, 1986, pp. 29–42; Barba, A. e Pivetti, M. Merci senza frontiere, Rogas 2022).
L’ossessione mercantilista del perseguimento degli avanzi commerciali, per esempio, ben caratterizza le politiche economiche tedesche del secondo dopoguerra (Cesaratto, S., Sei lezioni di economia, Diarkos, 2019). All’interno dell’unione monetaria europea, il neo-mercantilismo tedesco ha in particolare costituito un fattore di squilibrio impedendo una crescita cooperativa dell’insieme dell’Unione e imponendo moderazione salariale ai medesimi lavoratori tedeschi. Spesso in una goffa imitazione del modello tedesco, l’Europa nel suo complesso costituisce a sua volta una realtà mercantilista, avendo basato la propria crescita non sul mercato interno ma sul sostegno alle esportazioni, costituendo in tal modo un fattore di squilibrio globale e di mortificazione del benessere interno (Paggi, L. e D’Angelillo, M., “Il Rapporto Draghi, la competitivitè, la politica”, dattiloscritto, settembre 2024). Con il processo di de-globalizzazione in atto (sulla cui natura e portata si discute invero molto), inizialmente dovuto alla pandemia e poi in maniera più strutturale alla crisi geopolitica, e con i prevaricanti vantaggi tecnologici acquisiti da Cina e Stati Uniti, le problematicità del modello europeo sono ora venute al pettine.
Quei vantaggi tecnologici non nascono a caso ma sono frutto di politiche di nazionalismo economico: protezione delle proprie industrie avanzate, massicci investimenti in ricerca e nell’apparato militare-industriale, realizzazione di economie di scala sostenendo il mercato interno, in particolare attraverso la domanda pubblica.
- Details
- Hits: 825
I BRICS a Kazan per un nuovo multilateralismo
di Alfonso Gianni
I paesi che si sono incontrati al vertice in Russia rappresentano oggi il 44,4% della popolazione e il 35,6% del Pil mondiali. Nonostante i media occidentali abbiano ingigantito i punti deboli della Dichiarazione finale, molti passi avanti sono stati compiuti nella cooperazione commerciale e finanziaria e per la riforma delle istituzioni globali
Quasi un quarto di secolo fa, precisamente nel 2001, un economista britannico conservatore, che ricoprì cariche importanti nella Goldman Sachs e nel Governo di Cameron, Terence James O’Neill, coniò l’acronimo BRIC – ed è per questo che il mondo lo ricorda – avvertendo che Brasile, Russia, India e Cina erano destinate in un prossimo futuro a trainare l’economia mondiale. Possiamo dire che il barone inglese ci prese. Anche se per lui la profezia si presentava piuttosto distopica. Da allora, passando attraverso un crescente disordine mondiale, segnato da guerre di ogni tipo – 55 sono quelle attualmente in corso, secondo un attendibile calcolo – crisi molteplici di dimensioni planetarie, economiche, finanziarie, pandemiche che hanno bruscamente ridimensionato le sorti magnifiche e progressive della globalizzazione dell’ultimo ventennio del secolo scorso, il numero dei paesi attorno a quei primi quattro è venuto crescendo. Nel 2010 l’acronimo è cambiato in BRICS, grazie alla adesione del Sudafrica. Più recentemente si sono uniti al gruppo paesi – tra loro assai diversi per ragioni economiche e politiche – quali l’Egitto, l’Etiopia, l’Iran, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Di conseguenza anche la sigla iniziale è cambiata ancora una volta: “BRICS Plus”.
In questo modo si è giunti al XVI vertice dei BRICS, tenutosi tra il 22 e il 24 ottobre nella città della Federazione Russa di Kazan, sotto la presidenza di Vladimir Putin. La versione BRICS Plus/Outreach, adottata nell’ultimo giorno del summit, ha permesso di allargare la partecipazione a paesi che stanno maturando l’adesione al gruppo o sono comunque interessati a esso, raggiungendo quindi la cifra di 36 paesi, perlopiù appartenenti a quello che è stato chiamato il Global South, con la presenza anche di Stati aderenti alla NATO, come l’onnipresente Turchia fisicamente rappresentata da Erdogan. Erano presenti anche l’ANP con il suo presidente Abu Mazen in rappresentanza dello Stato di Palestina e il Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres.
- Details
- Hits: 1133
Il resoconto di un genocidio
di Chris Hedges - chrishedges.substack.com
L'ultimo rapporto delle Nazioni Unite documente i progressi di Israele nel suo assalto genocida a Gaza. Israele è intenzionato, avverte il rapporto, a espellere i palestinesi, a ricolonizzare Gaza e a rivolgersi poi contro la Cisgiordania
Un rapporto delle Nazioni Unite, pubblicato lunedì, descrive con agghiaccianti dettagli i progressi compiuti da Israele a Gaza nel tentativo di sradicare “l’esistenza stessa del popolo palestinese in Palestina”. Questo progetto genocida, avverte minacciosamente il rapporto, “si sta ora diffondendo in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est”.
La Nakba o “catastrofe”, che nel 1948 aveva visto le milizie sioniste cacciare 750.000 palestinesi dalle loro case, compiere più di 70 massacri e impadronirsi del 78% della Palestina storica, è tornata con gli steroidi. Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, ha pubblicato il rapporto, intitolato “Genocidio come cancellazione coloniale“, dove lancia un appello urgente alla comunità internazionale affinché imponga a Israele sanzioni e un embargo totale sulle armi fino a quando il genocidio dei palestinesi non sarà fermato. Chiede a Israele di accettare un cessate il fuoco permanente. Chiede che Israele, come richiesto dal diritto internazionale e dalle risoluzioni delle Nazioni Unite, ritiri i suoi soldati e i suoi coloni da Gaza e dalla Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est.
Come minimo, Israele, ormai fuori controllo, dovrebbe essere formalmente riconosciuto come Stato di apartheid e persistente violatore del diritto internazionale, afferma la Albanese. Le Nazioni Unite dovrebbero riattivare il Comitato speciale contro l’apartheid per affrontare la situazione in Palestina e l’appartenenza di Israele alle Nazioni Unite dovrebbe essere sospesa. In mancanza di questi interventi, l’obiettivo di Israele, avverte Albanese, probabilmente si realizzerà.
Potete vedere la mia intervista con la Albanese qui.
- Details
- Hits: 827
Brics 2024, sfida all’Occidente
di Daniele Pagini
Il Summit BRICS del 2024, tenutosi a Kazan, in Russia, dal 22 al 24 ottobre scorso, rappresenta un momento cruciale per la ristrutturazione dell’architettura economica e l’assetto geopolitico globale
La partecipazione dei paesi fondatori, ovvero Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, e l’ingresso di cinque nuovi membri, tra cui Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran e Arabia Saudita, hanno evidenziato l’urgenza collettiva di ridurre la dipendenza dal dollaro statunitense e di creare un ordine mondiale multipolare.
I risultati del Summit
Tutti i membri hanno sottolineato l’importanza della cooperazione per affrontare le sfide globali, riconoscendo che solo lavorando insieme possono promuovere lo sviluppo economico e sociale, la stabilità e la sicurezza regionale, la sostenibilità ambientale.
In particolare, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Iran hanno enfatizzato la necessità di diversificazione energetica per garantire uno sviluppo sostenibile e posto l’accento sulla questione palestinese. Etiopia ed Egitto hanno sottolineato l’importanza della sicurezza alimentare e della produzione di cereali per la stabilità regionale. Brasile e Sud Africa hanno valorizzato la cooperazione per la pace e la stabilità. Russia, India e Cina hanno evidenziato l’importanza del contributo collettivo per affrontare le sfide globali affermando che il loro modello può essere un esempio per altre regioni del mondo.
È emerso che Il nuovo assetto BRICS si basa su posizioni dominanti nella produzione di minerali e materie prime e sulla condivisione di risorse e tecnologie.
Non si tratta di sogni ma di realtà effettive.
I BRICS presentano una combinazione unica di risorse strategiche, economie di scala, avanzamento tecnologico e collaborazione, rendendoli un blocco economico e geopolitico di grande influenza a livello globale, e i loro numeri non lasciano adito a dubbi o perplessità.
- Details
- Hits: 1283
Gli Ebrei della Palestina Sovietica, una storia poco conosciuta
di Paolo Molina
Nel 1928 le prime famiglie ebraiche iniziarono a trasferirsi nel bacino del fiume Amur e ad accamparsi nelle vicinanze del piccolo villaggio di Tikhonkaja (alla lettera “Posto quieto”). Gradualmente trasformarono quel posto in Birobidzhan, (città a 8.200 chilometri ad est di Mosca), che diventò il capoluogo della Regione autonoma ebrea (lo è ancora oggi, con i suoi 74 mila abitanti).
L’unico modo per gli ebrei per fuggire dal nazismo era abbandonare l’Europa e "per poter lasciare il continente, gli ebrei dovevano fornire prove per l’emigrazione, che poteva essere un visto straniero o un biglietto navale valido". Documenti che erano difficili da ottenere dopo la Conferenza di Évian del 6 luglio ’38, quando 31 paesi su 32, compresi Canada, Australia e Nuova Zelanda, rifiutarono di ospitare altri immigrati ebrei avendo stabilito quote molto rigide.
Durante la Conferenza i paesi invitati sembravano simpatizzare per la causa ebraica, ma non fu presa decisione alcuna.
La Conferenza di Évian era stata voluta dagli Stati Uniti di Roosevelt, per discutere la questione dei rifugiati ebrei e la critica situazione del numero crescente di rifugiati ebrei in fuga dalla Germania nazista, con la speranza di sensibilizzare alcune nazioni ad accettare un numero maggiore di rifugiati e forse anche di distogliere l’attenzione dai limiti sull’immigrazione ebraica imposti dagli stessi Stati Uniti.
Alla conferenza parteciparono i delegati di 32 nazioni e 24 organizzazioni volontarie in qualità di osservatori. A Golda Meir, nella delegazione britannica in Palestina, non fu concesso di parlare.
Hitler dichiarò che se questi paesi erano disposti a simpatizzare per “questi criminali (gli ebrei), allora avrebbero dovuto essere abbastanza generosi da convertire la loro simpatia in un aiuto pratico. Da parte nostra, noi siamo pronti a lasciare andare questi criminali verso questi paesi, per quello che mi riguarda, anche su una nave di lusso“.
- Details
- Hits: 1461
"Kazan finirà nei libri di storia". Dialogo sui Brics
Alessandro Bianchi intervista Alberto Bradanini
Il Vertice Brics in Russia per il futuro del nuovo mondo multipolare. Il punto sul processo di Dedollarizzazione e il messaggio inviato all'occidente
Abbiamo chiesto all'Ambasciatore Alberto Bradanini[i], come sempre una bussola imprescindibile per comprendere i tortuosi tempi in cui viviamo, un commento più a freddo e ragionato sul Vertice BRICS di Kazan per "Egemonia".
Buona lettura.
* * * *
Ambasciatore, dopo alcuni giorni dalla sua conclusione, quali sono i suoi giudizi più a freddo sul Vertice di Kazan?
Senza enfatizzare oltre misura e a dispetto del fastidio con cui viene accolto in Occidente, non pare vi siano dubbi che il vertice Brics di Kazan sarà riportato nei libri di storia. Gli accordi di Bretton Woods (1944) conferirono al dollaro lo status di valuta di riserva in tutto il mondo e inaugurarono l’era della prevaricazione, a vantaggio dei vincitori, gli Stati Uniti. Kazan ha ora decretato che l’epoca dell’immutabilità del privilegio è giunta a fine corsa. I rapporti di potere sulla scena internazionale non cambieranno domattina, ma a Kazan il Sud del Mondo ha aperto nuovi orizzonti, insperati spiragli di luce nel tunnel distruttivo dove intendono rinchiuderci i generali Stranamore del Nord del Mondo. Costoro, in veste di cupe gentildonne e gentiluomini affetti da ipocrisia e narcisismo, si agitano con movenze ridicole su un palcoscenico da incubo, tentando di riportare indietro l’orologio della storia, quando il Regno del Bene era sovrano assoluto ed estrattore unico delle risorse altrui.
Che messaggio, secondo lei, è stato mandato all’occidente da Kazan?
Oggi l’Occidente è una locomotiva impazzita, il suo deragliamento metterebbe fine al genere umano.
L’eco che giunge da Kazan ha la concisione di un segnale telegrafico: “Il treno della storia si è rimesso in moto. Le pretese egemoniche dell’impero (nel silenzio ebete dei satelliti europei) hanno fatto il loro tempo.
- Details
- Hits: 986
La funzione dialettica del “Manifesto del Partito Comunista” nel processo storico
di Giannetto Edoardo (Nanni) Marcenaro
Introduzione
Il 175° anniversario della pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista, ricorso l’anno passato, cade in un’epoca nella quale lo sviluppo del processo storico, da una parte, ha dimostrato come – a dispetto dei trionfali proclami dei liberali all’indomani del dissolvimento dell’Unione Sovietica– il socialismo e l’ideologia Marxista-leninista siano ben vivi e abbiano acquisito più forza e ricchezza di quanta mai ne avessero creata prima, soprattutto nella Repubblica Popolare della Cina, e dall’altra parte invece, ha segnato in Occidente l’inizio di una profonda crisi di credibilità, diffusione, e radicamento nelle popolazioni dei vari Stati europei, per quegli stessi movimento e pensiero.
Gli ultimi trent’anni hanno visto un ridimensionamento, non distante da una completa cancellazione dal panorama politico nell’Occidente capitalistico, delle formazioni comuniste o socialiste la cui influenza sulla società e sulle culture nazionali, nonostante il continuo deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro, si è sempre più ridotta, sotto l’attacco costante e sistematico del revisionismo storico e delle incessanti ondate contrarie dei prodotti culturali di massa.
La classe capitalista ha potuto prendere l’iniziativa in assenza di qualsiasi costrizione e trasformare a propria immagine e somiglianza l’intera società, disgiungendo gli aspetti politici dei rapporti sociali da quelli identitari, in modo da isolare “individuo” e “società”, disinnescando quindi qualsiasi portata rivoluzionaria dei movimenti dei diritti cosiddetti “civili”, e trasportando le questioni economiche nel loro insieme sul terreno della meccanica “celeste” del “libero mercato”, con i subdoli mezzi della retorica keynesiana di “imprese” e “famiglie”, nella quale dilegua qualsiasi nozione di conflitto sociale o di classe e la prospettiva unica sull’orizzonte degli eventi è quello del thatcheriano “there is no alternative”: è consentito soltanto appellarsi al lumicino della speranza che “un altro capitalismo” sia possibile.
- Details
- Hits: 1268
Gli USA battono in ritirata? – Il piano che metterebbe fine all’eccezionalismo statunitense
di OttolinaTV
Ma se, invece che finire di scatenare la terza guerra mondiale, l’Occidente decidesse di ritirarsi? Di fronte alla debacle ucraina, al fallimento della guerra economica e commerciale contro la Cina e alla manifesta incapacità di tirare un ragno dal buco dal caos in Medio Oriente, negli ultimi mesi, sulle principali testate specializzate di politica internazionale d’oltreoceano, si sono andati moltiplicando gli appelli a un ridimensionamento complessivo delle ambizioni egemoniche dell’imperialismo a guida USA; e non mi riferisco alle fantasie erotiche sul fantomatico isolazionismo di Trump: per un impero globale come gli USA, che vive del furto sistematico di una parte consistente della ricchezza prodotta nel resto del mondo, l’isolazionismo – banalmente – non è un’opzione. No: mi riferisco a una lunga serie di riflessioni che partono dall’assunto che (volenti o nolenti) l’ordine globale, in qualche misura, è già multipolare e le mire egemoniche degli USA risulterebbero ormai sostanzialmente velleitarie: sostanzialmente, si avanza l’ipotesi che sia arrivata l’ora di operare una qualche forma di ritirata ordinata e si cerca di stabilirne fini e modalità; le riflessioni più comuni si limitano, di solito, a ipotizzare la ritirata da qualche fronte per concentrarsi maggiormente su quelli ritenuti più urgenti e vitali. Altre cercano di stabilire le condizioni minime necessarie affinché una ritirata ordinata non si tramuti in un vera e propria disfatta; ma mai nessuno si era spinto a ridisegnare, in modo così ampio ed esaustivo, le coordinate di un nuovo ipotetico ruolo degli USA e dei suoi alleati nel nuovo ordine multipolare come questo articolo pubblicato lunedì scorso su Foreign policy. Congelamento del fronte ucraino e fine all’espansionismo della NATO per permettere a una piccola (ma stabile) Europa di contrattare serenamente le condizioni della pace con il vicino russo, fine del sostegno incondizionato a Israele e definitiva ritirata degli USA dal Medio Oriente; e, soprattutto, stop a ogni tentativo di costruire una coalizione anti-cinese nel Pacifico: insomma, decisamente pane per i nostri denti. Ma prima di addentrarci nei dettagli di questo coraggioso piano, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per permetterci di non dover dichiarare anche noi la nostra ritirata e continuare, invece, la nostra battaglia quotidiana contro la propaganda e la dittatura degli algoritmi e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social – da YouTube a Spotify, da X a Telegram, passando per Rumble – e di attivare tutte le notifiche.
- Details
- Hits: 1450
L’impresa della Wagenknecht
Michelangelo Severgnini* intervista Ramon Schack
"La BSW, grazie alla sua fenomenale ascesa in un brevissimo lasso di tempo, ha rivitalizzato il dibattito e ridisegnato il panorama politico della Germania".
Dal giorno della sua fondazione (l’8 gennaio 2024), il partito Bündnis Sahra Wagenknecht (BSW) ha cominciato lentamente a cambiare le carte in tavola all’intero dello scacchiere politico tedesco.
Nato come una costola di Die Linke, storico partito di sinistra, ha ormai più che triplicato, in meno di un anno, le percentuali che quest’ultimo partito ormai raccoglieva in Germania.
Come tutti i partiti europei che propongano un’agenda alternativa alle direttive più o meno ufficiali di Bruxelles, la BSW è stata in questi ultimi mesi accusata di razzismo, populismo e tutto il corollario appresso.
A quanto pare però, i suoi elettori non la pensano così e, nel mentre che l’Europa si fa una ragione sulle ragioni della BSW, gli elettori tedeschi sembrano progressivamente dare la loro preferenza a questa nuova formazione.
Per quanto sia un’alleanza nata intorno alla figura di Sahra Wagenknecht, questo nuovo progetto politico è forse l’unica proposta elettorale al momento in Germania in grado di raccogliere i bisogni delle fasce popolari della popolazione, ma anche di dare una risposta alle paure di una sinistra che esce a pezzi dalla stagione del finto moralismo fatto di Ong ancelle della menzogna e di sostegno militare all’Ucraina. Finto moralismo di cui sia Die Linke che il partito dei Verdi hanno dato ampio sfoggio Inn questi ultimi 3 anni di governo Scholtz.
- Details
- Hits: 979
A Kazan l’ordine del mondo è precipitato
di Thierry Meyssan
Il vertice dei BRICS a Kazan ha segnato la fine del dominio del G7 sul mondo. Le regole anglosassoni che organizzavano le relazioni internazionali saranno gradualmente sostituite da impegni vincolanti sottoscritti da ciascun Paese. Questa rivoluzione ci riporta ai tentativi fatti da Russia e Francia nel 1899 di stabilire un diritto internazionale, vanificati dalla Conferenza Atlantica e dal duopolio Stati Uniti-Regno Unito
Il XVI vertice dei BRICS allargati si è tenuto a Kazan (Russia) dal 22 al 24 ottobre [1]. Oltre ai nove capi di Stato e di governo dei Paesi già membri dell’organizzazione, vi hanno partecipato altri 11 Stati; inoltre, una ventina di Paesi hanno presentato richiesta di adesione.
Questo evento rappresenta il culmine della strategia avviata nel 2019 dal presidente brasiliano Luiz Inácio da Silva, dal primo ministro russo Vladimir Putin, dal primo ministro indiano Manmohan Singh e dal presidente cinese Hu Jintao. Il loro obiettivo era instaurare relazioni internazionali fondate sulla Carta delle Nazioni Unite, che avrebbero consentito a ogni Paese di svilupparsi. Non si trattava di opporsi all’imperialismo occidentale del G8 (di cui la Russia è stata membro fino al colpo di Stato occidentale di Maidan del 2014 in Ucraina), ma di esplorare un’altra via, senza gli anglosassoni.
Putin ha svolto un ruolo centrale nell’istituzione di questo organismo di cooperazione economica, simile a quello svolto dallo zar Nicola II nel 1899, quando fu inventato il diritto internazionale [2]. Fu Putin a organizzare il primo vertice dei BRICS a Ekaterinburg, dove la Russia fu però rappresentata dal presidente Dmitri Medvedev.
In un’intervista rilasciata in occasione del vertice di Kazan, Putin, citando le affermazioni del primo ministro Narendra Modi, ha ribadito che «i BRICS non sono un’organizzazione anti-occidentale, ma non-occidentale».
Nella dichiarazione finale i capi di Stato e di governo affrontano quattro questioni distinte [3]:
- Details
- Hits: 1076
Per il 120° anniversario della morte di Antonio Labriola
di Eros Barone
I clowns politici hanno sempre di che divertirci in questo paese dove fiorisce la commedia da piangere e la tragedia da ridere.
Lettera di Antonio Labriola a Friedrich Engels del 5 novembre 1894.
La “crisi di fine secolo” e lo stato di assedio politico caratterizzarono in Italia il periodo intercorrente fra le cannonate del generale Fiorenzo Bava Beccaris, con cui fu stroncata l’insurrezione popolare (Milano, 6-7-8-9 maggio 1898), e le revolverate dell’anarchico Gaetano Bresci, con cui fu stroncata la vita del re Umberto I (Monza, 29 luglio 1900). Tuttavia, questi eventi non impedirono una fioritura di studi e di ricerche intorno alla teoria di Marx, poiché in quel drammatico tornante fra i due secoli il marxismo conquistò una posizione di prestigio nella cultura italiana e divenne il centro di un ampio dibattito intellettuale che vide impegnate le menti più acute del tempo.
- Una eccezionale fioritura di studi e discussioni sul pensiero di Marx e di Engels
Nel volgere di pochi mesi videro la luce uno dopo l’altro i saggi di Benedetto Crocesu Materialismo storico ed economia marxistica, la monografia di Giovanni Gentile su La filosofia di Marx, 1 le considerazioni Pel materialismo storico di Corrado Barbagallo e La teoria del valore di Carlo Marx di Arturo Labriola: quattro giovani intellettuali emergenti che esordivano sulla scena della cultura facendo i conti con il pensiero marx-engelsiano. Sempre nello stesso periodo esplodeva la polemica sul revisionismo fra Merlino e Bissolati, il giovane Enrico Leone pubblicava sulla «Rivista critica del socialismo» un lavoro sul Metodo nel «Capitale» di Karl Marx e uscivano La produzione capitalistica di Antonio Graziadei e Il terzo volume del «Capitale» di Vincenzo Giuffrida. Una domanda sorge spontanea: come può essere spiegato il fatto che il marxismo, appena conosciuto venti anni prima, avesse raggiunto, in un’epoca in cui le idee circolavano ancora piuttosto lentamente, una simile influenza e un simile successo?
- Details
- Hits: 1503
Israele e il potere totalizzante
di Patrick Lawrence
l'AntiDiplomatico ha il piacere di pubblicare il terzo articolo in esclusiva del grande giornalista statunitense Patrick Lawrence. Corrispondente pluripremiato per the International Herald Tribune per diversi anni, Lawrence ha appena pubblicato il suo ultimo libro Journalists and Their Shadows con Clarity Press. Per l'AntiDiplomatico è motivo di grande orgoglio ed emozione avere la possibilità di entrare dentro l'Impero statunitense con una delle migliori penne al mondo per farlo (A.B.)
"La mera finzione è sufficiente nel nostro mondo post-7 ottobre. Si preferisce, proprio come osservava la Arendt ne Le origini del totalitarismo, che le persone sottoposte a una propaganda incessante arrivino a preferire l'inganno"
In un memorandum del Dipartimento di Stato dal titolo “Review of Current Trends” e contrassegnato come “Top Secret”, George F. Kennan rifletteva sulla situazione degli Stati Uniti al 24 febbraio 1948. La data presente sul rapporto. Le vittorie del 1945 erano passate da tre anni e gli Stati Uniti si ritrovavano improvvisamente a essere una potenza globale. Come sintetizzava magistralmente qualche anno dopo Luigi Barzini, noto giornalista italiano, in Gli americani sono soli al mondo (Random House, 1953), gli statunitensi erano “tanto nervosi e incerti, quanto potenti.”
Divenuto il più celebre diplomatico americano durante i decenni della Guerra Fredda, Kennan è oggi ricordato come l'architetto della politica di “contenimento” di Washington. Riportiamo di seguito un breve, illuminante, passaggio della sua visione del dopoguerra:
Abbiamo circa il 50% della ricchezza del mondo, ma solo il 6,3% della sua popolazione... Il nostro vero compito da oggi è quello di concepire un modello di relazioni che ci permetta di mantenere questa posizione di disparità senza che la nostra sicurezza nazionale ne risenta. Per farlo, dovremo fare a meno di ogni sentimentalismo e di ogni sogno a occhi aperti... Non dobbiamo illuderci di poterci permettere oggi il lusso dell'altruismo o di divenire il benefattore mondiale.
Più avanti nel suo scritto Kennan ipotizzava:
- Details
- Hits: 927
Votare contro il cattivo di turno
di Nicola Melloni
Le elezioni presidenziali Usa sono l'ultimo esempio della tendenza alle urne degli ultimi anni: scegliere il meno peggio. Ma siamo sicuri che serva davvero a sventare il pericolo delle destre?
Con le elezioni statunitensi che si avvicinano, torna centrale il dibattito sul cosiddetto voto per il meno peggio – che prevede di votare Kamala Harris per cercare di fermare il pericolo rappresentato da Donald Trump. Nulla di nuovo, in Italia siamo abituati almeno dal 1994 e dal voto «contro» Berlusconi e raramente «a favore» dell’altra coalizione – anche se in verità già Indro Montanelli invitava a votare la Democrazia cristiana «turandosi il naso» per fermare un altro pericolo, quello comunista.
La logica del meno peggio è particolarmente importante in periodi di polarizzazione e grande tensione politica, quando chi abbiamo davanti non è solo un avversario ma un nemico che mette a rischio l’esistenza stessa della democrazia. Ecco allora che davanti a un rischio del genere, l’unica cosa da fare è un «fronte comune», il cui collante è la difesa della libertà, e la lotta contro fascismo, razzismo, intolleranza. Un compito nobile, il cui costo è però, spesso, la rinuncia a un programma politico coerente o che parli ai bisogni concreti delle persone. La situazione è poi esasperata da sistemi politici bi-partitici o bi-polari, dove la vittoria dell’uno è la sconfitta dell’altro.
Se da una parte, dunque, la sconfitta dell’altro è la determinante principale del voto, dall’altra la politica attuale sembra esistere solo intorno alla vittoria elettorale, che par quasi esser diventato l’unico mezzo per far politica, spesso dimenticando il ruolo chiave che le opposizioni dovrebbero giocare nella polis democratica. Ci viene spesso ripetuto che solo al governo si possono cambiare le cose, anche se «cosa» cambiare rimane spesso molto vago. Ed è la sinistra che viene costantemente chiamata a baciare il rospo, per ovvi motivi.
- Details
- Hits: 1410
Comunisti/e: forma-partito, Il rapporto tra democrazia interna e progetto rivoluzionario
di Fosco Giannini*
Nell’affrontare la questione della forma-partito comunista, il primo nodo da sciogliere è proprio quello legato alla “questione del partito”. Assistiamo ormai da decenni, in Italia ma non solo, a un attacco forsennato alla forma-partito in quanto tale. Tant’è che, sulla scorta di questo attacco proveniente dai media mainstream e dunque dalla cultura dominante borghese, non poche formazioni politiche italiane apparse negli ultimi decenni hanno preventivamente rinunciato al termine partito (dalla Lega a Potere al Popolo, passando per il Movimento 5 Stelle) nella speranza che, sbarazzatisi di questo termine reso “inadeguato e pesante” dall’aggressività ideologica del capitale, tutto poteva essere più facile e più vicina la possibilità di stabilire legami più forti con le masse, con l’elettorato, con il popolo, attraverso una visione delle cose che scadeva, appunto, in un populismo più o meno consapevole proprio a partire dalla scelta di rimuovere la parola “partito”, prima tappa, spesso, di uno scivolamento politico verso inclinazioni populiste che tanto hanno caratterizzato la Lega quanto il M5S di Beppe Grillo. Cancellare il termine “partito” ha voluto dire aderire innanzitutto al quel senso comune di massa, per tanta parte costruito ad arte dalla classe dominante attraverso i suoi portavoce mediatici, che vedeva e tuttora vede (certo, anche per colpa delle varie formazioni partitiche e della loro quasi totale genuflessione agli interessi del capitale) nei partiti la sede primaria della corruzione e dell’“occupazione dello Stato”, in una visione, ecco perché populista, svuotata da ogni coscienza di classe e incline ad addossare tutta la colpa dello sfruttamento oggettivo e sempre più pesante dei lavoratori non più alle contraddizioni di classe e all’attacco di classe padronale, ma “al sistema dei partiti”, alla “partitocrazia” e, dunque, alla stessa forma-partito.
- Details
- Hits: 1118
Perché i Brics vogliono una moneta di riserva internazionale
di Claudio Conti - Guido Salerno Aletta
L’avanzata e soprattutto l’allargamento dei paesi Brics sono un problema ormai molto consistente per la propaganda che deve vendere la storica “superiorità occidentale”. Soprattutto sul piano economico.
L’ingresso, un anno fa, di altri quattro paesi (Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti), ha portato quell’area a rappresentare il 35% del Pil e quasi la metà della popolazione mondiali, mentre il G7 (Usa, Giappone, Gran Bretagna, Canada, Italia, Francia e Germania) è sceso ormai al 30% del Pil, con appena un sedicesimo della popolazione. Particolari decisivi: la quota del Pil “occidentale” continua a scendere velocemente e l’età media nei Brics (e nei candidati) è molto bassa, mentre l’area G7 sente il morso del calo demografico, con popolazioni che invecchiano e fisiologicamente escono dalla produzione (nonostante il costante aumento dell’età pensionabile).
Anche il fatto di controllare il 42% della produzione di petrolio chiarisce l’importanza di questo insieme, forte nella produzione e nelle materie prime. Soprattutto tenendo presente che alcuni paesi già oggi sulla porta dell’organizzazione potranno solo aumentare di molto queste caratteristiche: a cominciare da Arabia Saudita, Malesia, Algeria, Venezuela, Indonesia, Cuba.
Detto in estrema sintesi, economie sovradimensionate dalle attività finanziarie, con una popolazione in calo, contro economie “fisiche” che possono contare su una massa di giovani che – una volta migliorate le condizioni per il loro protagonismo in tutti gli ambiti del lavoro (istruzione, formazione, sviluppo industriale, ecc) – non potranno che moltiplicare la distanza che già ora separa i Brics dall’”Occidente collettivo”.
- Details
- Hits: 1111
Il libro Bianco Ue sulle tecnologie duali e le strategie militari e civili del nuovo imperialismo europeo
di Federico Giusti
"È inutile attaccare l’imperialismo o il militarismo nella loro manifestazione politica se non si punta l’ascia alla radice economica dell’albero e se le classi che hanno interesse all’imperialismo non vengono private dei redditi eccedenti che cercano questo sfogo.”
J. A. Hobson, L’imperialismo, Newton & Compton editori, Roma 1996, p. 119.
Partiamo da questa considerazione di Hobson, un liberale che scrisse un saggio critico sul colonialismo inglese a cavallo tra Otto e Novecento, per cercare di fare chiarezza sui processi di militarizzazione in atto nella società e in particolare nel settore educativo e universitario.
E un'altra considerazione va fatta rispetto a una visione euro centrica ancora imperante che ha portato a letture preconfezionate non solo dei processi in atto nell'area Mediorientale ma anche in altre zone del Globo, ad esempio rispetto al saccheggio operato dalle multinazionali in alcuni continenti nella ricerca di materie prime rare indispensabili per la svolta green e i processi di digitalizzazione.
In questo caso la classica visione ecologica dei processi di transizione dimentica di guardare a quanto accade nei paesi del terzo mondo e in via di sviluppo, guarda con sufficienza, o sterile esaltazione, ai Brics, non coglie il nesso tra i processi di militarizzazione, te tecnologie duali e i processi di ristrutturazione del capitalismo occidentale.
Lo sforzo analitico per comprendere la realtà dovrebbe partire invece dall'intreccio tra militarismo e processi riorganizzativi del capitalismo, tra politiche imperialiste e neo coloniali e la svolta green almeno per non cadere negli schematismi del passato.
- Details
- Hits: 1524
Sul filo del rasoio 2/2
di Enrico Tomaselli
Se c’è una cosa fondamentale che va messa subito in chiaro, per quanto riguarda l’attuale fase del conflitto in Medio Oriente, è che – esattamente come per il conflitto in Ucraina – siamo di fronte a un conflitto radicale, in cui la dimensione spaziale (territori) è assolutamente secondaria, mentre a essere prevalente è la dimensione temporale (durata), e soprattutto che si tratta di un conflitto in cui gli obiettivi delle parti sono assolutamente inconciliabili. Questo significa che non esiste una possibilità intermedia tra vittoria e sconfitta, non c’è spazio alcuno per mediazioni e negoziazioni che puntino a stabilire una qualche pace duratura, e che anche solo opzioni tattiche, come dei cessate il fuoco temporanei, sono estremamente difficili. In entrambe i casi, si è superato un punto di non ritorno; e lo si è superato non nel corso delle due guerre, dove pure si registra una continua escalation, ma nel momento stesso in cui hanno preso avvio. Così come l’avvio dell’Operazione Speciale Militare, il 24 febbraio 2022, ha segnato (forse persino senza piena consapevolezza da ambo le parti) il passaggio a una fase di conflittualità irreversibile, altrettanto è stato per l’operazione Al Aqsa Flood, il 7 ottobre 2023.
Nello specifico, quanto si sta verificando nel teatro mediorientale – che al di là delle motivazioni peculiari è comunque parte a pieno titolo del confronto globale in atto – si presenta come uno scontro tra attori con posizioni assolutamente non conciliabili. La posta in gioco, infatti, è un completo ridisegno del quadro geopolitico regionale (che, come visto nella prima parte, si ripercuote ampiamente, anche ben oltre i paesi direttamente coinvolti) e che, a prescindere dagli esiti immediati del conflitto, presenta due sole possibili opzioni: o la distruzione dell’Asse della Resistenza, Iran compreso, con tutto quello che ciò comporterebbe (espulsione della Russia dal Medio Oriente, cancellazione definitiva dei progetti legati alla Nuova Via della Seta, crescenti minacce occidentali in Asia Centrale ed Africa), o viceversa espulsione di qualsiasi influenza regionale da parte americano-occidentale.
- Details
- Hits: 1788
"Prima che sia tardi?" Storico militante per la Palestina di Milano sul perché (questa volta) non ha manifestato
Patrizia Cecconi intervista Vincenzo Barone
La lettera aperta che uno storico amico del popolo palestinese, l’avvocato Vincenzo Barone di Milano, ha reso pubblica ha sollecitato il nostro interesse e per questo abbiamo deciso di intervistarlo. Vincenzo Barone ha partecipato alle 54 manifestazioni che ogni sabato si svolgono a Milano per chiedere la fine del genocidio a Gaza, ma al 55° sabato ha deciso di non partecipare e ne spiega il perché. A chi interessa solo il numero o l’opportuna etichetta che fa “audience” potrà sembrare bizzarro dedicare un’intervista a uno dei tanti militanti che non hanno mai amato mettersi in mostra, ma chi crede che la Storia, proprio quella con la S maiuscola, cresca su un prato composto di milioni di fili d’erba, il pensiero di un singolo militante, un “filo d’erba” di quel prato, ma pensante, impegnato e serio conoscitore, anche dall’interno, della questione palestinese, merita approfondimento e diffusione, così lo intervistiamo contando anche in una possibile riflessione sulle sue ragioni.
* * * *
D. Buongiorno Enzo, abbiamo letto la tua lettera di rifiuto al 55° appello che chiedeva di manifestare per la fine del genocidio a Gaza con la parola d’ordine “fuori l’Italia dalla guerra prima che sia troppo tardi”. Vuoi spiegare a chi ci legge il motivo del tuo rifiuto?
Questa decisione è maturata a seguito di una profonda, dolorosa analisi e mi amareggia, in virtù del rapporto che mi vanto di avere con il movimento pro-Palestina, aver deciso convintamente di disertare l’ultima manifestazione. Per questo ho reso pubblico il mio pensiero, sperando che da ciò consegua un riflessione collettiva. La Palestina è vittima sacrificale (e iniziale) di un processo di sgretolamento e allontanamento della popolazione indigena da parte dell’occupazione israeliana. È un progetto genocida le cui mire non si arresteranno a Gaza e Cisgiordania ma c’è motivo di credere, e ogni analista di geopolitica lo sa, che si allargherà a Libano, Siria, Iraq e una fetta del regno hashemita: un’idea omicida partorita un centinaio di anni fa e riscontrabile nelle documentazioni desecretate circa due decenni or sono.
- Details
- Hits: 955
Il popolo di Trump
di Giovanna Baer
Chi è il popolo di Trump? 74 milioni di voti alle ultime presidenziali, 12 milioni in più del 2016: se Trump se n’è andato chi l’ha votato è ancora lì e più numeroso. Viaggio nei fattori decisivi per la scelta del voto, tra livello di scolarizzazione ed ‘etnicizzazione‘ della working class
Nonostante la sconfitta elettorale nelle presidenziali del 3 novembre scorso, l’America non ha abbandonato Trump: The Donald ha ottenuto 74 milioni di voti, 12 milioni in più del 2016 – il che fa di lui il candidato più votato nella storia americana, Joe Biden a parte. Il presidente uscente è riuscito a convincere più del 70% dei suoi elettori (1) che la presidenza gli sia stata sottratta con la frode, e le sue truppe hanno lottato con lui in tribunale, sui media e per le strade fino alla fine, quel 6 gennaio in cui fedelissimi sostenitori hanno preso d’assalto Capitol Hill per impedire che il Congresso ne certificasse la sconfitta. Durante la transition molto si è parlato del rifiuto di Trump di concedere la vittoria, della sua dipendenza dai social media, del suo equilibrio mentale sempre più in bilico, della nuova procedura di impeachement a seguito dei fatti del 6 gennaio, dell’America spaccata in due; ma quasi nessuno si è interrogato sul perché una metà degli americani continui a sostenerlo nel bene e nel male, contro ogni previsione e, a volte, anche contro il proprio interesse.
Dai dati finora disponibili (che non comprendono, purtroppo, un’analisi del voto postale, il cui peso, in questi tempi pandemici, è stato tutt’altro che marginale), le presidenziali del 2020 hanno finito per assomigliare molto a quelle del 2016, in palese controtendenza rispetto ai sondaggi pre-elettorali, tutti solidamente pro Biden. Lo conferma Charles H. Stewart, direttore e fondatore del MIT’s Election Data and Science Lab (2): “Ci sono stati lievi cambiamenti, ma […] molto meno drammatici di quanto ci hanno fatto credere i sondaggi. Semmai, alcune tendenze si sono rafforzate, come la prevalenza del voto Dem fra l’elettorato under 30. In tutti gli altri gruppi di età (30-44, 45-64, 65 e oltre) il divario fra i due contendenti è stato abbastanza ridotto”.
- Details
- Hits: 1572
Il nuovo autoritarismo
di Nico Maccentelli
In questi ultimi mesi si è visto di tutto in fatto di violazioni dell’art. 21 sulla libertà d’espressione. Lo sappiamo bene noi a Bologna, quando il sindaco PD, Matteo Lepore, ha esercitato pressioni indebite definibile censura, sulle attività di ben due case di quartiere: Villa Paradiso e la Casa della Pace, con il divieto a proiettare due film definiti “putiniani”. In particolare PD e +Europa sono stati molto attivi in questa attività censoria che va ben oltre la diffamazione, poiché dare del putiniano a destra e a manca a chiunque voglia accedere a fonti informative che non siano quella ufficiali è lo “sport ufficiale” di chi ha sposato la linea guerrafondaia della NATO e della classe dirigente ucraina, che sta usando la popolazione come carne da macello per reggere la pacca fino alle presidenziali USA e oltre, mantenendo un regime banderista, dunque filo-nazista, che ha soppresso i più elememtari diritti politici, religiosi e civili.Ma il grottesco lo ha raggiunto l’on. PD Debora Serracchiani con la sua interrogazione ai ministri Piantedosi e Tajani circa la pubblicazione di manifesti come li vedete nel post della onorevole e che come potete constatare non hanno nulla di filo-putiniano nel loro essere un appello alla pace e a non considerare nemico né un popolo, né una nazione.
Se la Serracchiani avesse un minimo di conoscenza delle cose saprebbe che l’Italia non è in guerra con la Russia. Così come se avesse un minimo di cognizione in fatto di democrazia, si renderebbe conto che in Italia, fino a prova contraria, c’è il diritto di manifestare il proprio pensiero.
Se poi prendiamo i contenuti di detto manifesto: «vogliamo la pace, ripudiamo la guerra» (art. 11 della Costituzione Italiana), non pare proprio che tale manifesto inneggi ad alcuna guerra, al contrario, rivendica uno degli articoli fondamentali della nostra Carta Repubblicana.
- Details
- Hits: 1275
Fine della megamacchina, un libro di Fabian Scheidler
di Sébastien Navarro
Dal n. 7 di “Collegamenti” (autunno 2024) riportiamo questa recensione di Sébastien NAVARRO al libro di Fabian Scheidler, “La fine della megamacchina. Storia di una civiltà sull’orlo del collasso”. Trad: Gaia D’Elia, Castelvecchi, 2024, 396 p., brossura, EAN: 9788868266622
Ricordo di aver sfogliato le pagine con le mani umide, il terrore, l’impossibilità di prendere la vera misura di ciò che stavo leggendo. Quanti anni ho? Forse venti. È tardi per aprirsi alla politica ma vengo da un ambiente in cui mi è stato trasmesso ben poco. La mia “presa di coscienza” avviene quando sono oramai un giovane adulto. Ho ingoiato chilometri di letture, sperando di recuperare un arretrato che non recupererò mai. Ho letto Le vene aperte dell’America Latina di Eduardo Galeano (1940-2015) e non ricordo come questo libro sia finito nelle mie mani. Quello che so è che leggerlo mi toglie il fiato. L’entità dei massacri e dei saccheggi nel continente sudamericano è così vasta da stordirmi. “La storia è un profeta che guarda all’indietro: partendo da ciò che è stato e in opposizione a ciò che è stato, annuncia ciò che accadrà”, scrive Galeano. Pochi paragrafi dopo, l’uruguaiano riassume un lungo continuum storico: “I conquistadores sulle loro caravelle e i tecnocrati in jet, Hernán Cortés e i marines nordamericani, i corregidores del regno e le missioni del Fondo Monetario Internazionale, i mercanti di schiavi con i profitti della General Motors”.
Galeano scriveva queste righe alla fine degli anni Sessanta. Mezzo secolo dopo, il drammaturgo e saggista tedesco Fabian Scheidler scrive nella sua introduzione a La fine della megamacchina: “Il processo di espansione iniziato in Europa cinque secoli fa si è rivelato una storia che, per la maggior parte dell’umanità, è stata immediatamente sinonimo di deportazione, impoverimento, violenza di massa – persino genocidio – e saccheggio di territori. Questa violenza non è finita. Non è una malattia infantile del sistema, ma una sua componente strutturale e duratura. La distruzione delle condizioni di vita di centinaia di milioni di esseri umani a causa del peggioramento del cambiamento climatico ce lo ricorda oggi.
- Details
- Hits: 1449
Pensare il proprio tempo. Emmanuel Todd
di Salvatore Bravo
Per poter ricostruire la possibilità di un progetto comune è necessario decodificare in profondità le cause della decadenza occidentale, e in particolare europea, che sembra inarrestabile. Non si tratta di mettere in atto una giaculatoria dagli esiti infausti, ma di liberarsi dalle sovrastrutture pregiudiziali che impediscono di cogliere la “verità storica” e di pensarla. Emmanuel Todd, bisogna riconoscerlo, ha avuto il coraggio etico nella sua analisi sulla sconfitta dell’Occidente di individuare una delle macro cause all’origine della disintegrazione europea. Ogni civiltà è viva e creante, se ha una identità dialettica. L’identità è il collante valoriale che consente di organizzarsi intorno ad assi assiologici e politici. L’identità non è un monolite, ma è tale se contempla al suo interno opposizioni, resistenze e alternative con le quali ci si raffronta. L’identità dev’essere sottoposta a una continua revisione razionale nello spazio pubblico della politica. L’Occidente ha raso al suolo, e non solo in senso metaforico, ogni identità e ogni modello etico. La liberazione da ogni “da”, è oggi nichilismo realizzato. Solo il mercato con le sue oscillazioni domina; la legge del più forte ha instaurato il più feroce degli individualismi capace di attuare solo i personali interessi economici immediati. Tale logica trasversale a ogni classe sociale rende l’Occidente incapace di comprendere le identità e ciò lo espone al disastro e alla sconfitta. Le azioni militari non valutano la variabile identità, ma si limitano a misurare i soli rapporti di forza quantitativi, per cui la sconfitta è sempre dietro l’angolo. L’identità dona forza plastica e dinamicità; l’Occidente mutilo dell’identità, ne ha un vero terrore-orrore e finisce per calcolare le contrapposizioni secondo paradigmi militari e di forza. Si dilegua, così, la componente motivazionale e spirituale che rende un sistema attivo.
- Details
- Hits: 1690
I fronti ucraini, il summit dei BRICS in Russia e la “strategia dello struzzo”
di Gianandrea Gaiani
Il vertice del BRICS tenutosi a Kazan (Russia) è stato ampiamente trascurato da molti media occidentali. Dopo il primo giorno di lavori non se ne trovava traccia sulle prime pagine di nessun grande quotidiano italiano e lo stesso approccio veniva evidenziato da qualche osservatore sulla stampa britannica. Il giorno successivo solo due quotidiani italiani hanno messo il summit in prima pagina ma solo per evidenziare le critiche alla presenza del segretario generale dell’ONU all’evento.
Un distacco mediatico che coincide in buona parte con quello (di facciata) della politica, forse non casuale, da abbinare alla scomparsa da prime pagine, TG e persino agenzie di stampa occidentali dei resoconti dai fronti ucraini dove si moltiplicano di giorno in giorno le avanzate russe e i centri abitati liberati od occupati (a seconda dei punti di vista) dalle truppe di Mosca.
Una “strategia dello struzzo” (dalla leggenda infondata che lo struzzo infili la testa nella sabbia per non vedere le minacce) che non ci risparmierà dall’impatto con la cruda realtà.
Fenomeno peraltro non nuovo: basti ricordare che la lunghissima battaglia di Bakhmut, a cui sono state dedicate migliaia di pagina per raccontare l’epica resistenza delle truppe di Kiev, è scomparsa dai giornali dopo la sua caduta in mano alle truppe russe del Gruppo Wagner nel maggio 2023 al punto che diversi giornali hanno accuratamente evitato per molti giorni persino di rendere noto il successo russo.
Anche la caduta di Avdiivka è stata ignorata, quella di Ugledar (o Vuhledar) ampiamente sminuita d’importanza: altre roccaforti probabilmente continueranno a cadere nel silenzio mediatico di Europa e Occidente, ovviamene con qualche bella eccezione.
- Details
- Hits: 1274
Critica e autocritica del progresso
di Alessandro Volpe
È concepibile una situazione in cui la categoria di progresso perda il suo significato, e che tuttavia non sia la situazione della regressione universale che oggi si allea col progresso. In tal caso il progresso si trasformerebbe nella resistenza all’incessante pericolo della ricaduta. Il progresso è quest’opporre resistenza al pericolo su ogni gradino, non l’abbandonarsi al flusso globale del processo, non il lasciarsi andare in balìa della scalinata.
(Theodor W. Adorno, da Parole chiave. Modelli critici)
1. Critica e progresso
Negli ultimi anni il tema del progresso è tornato all’attenzione del dibattito filosofico, e non sono pochi oggi i contributi teorici a recuperare un’idea forte di progresso che non si limiti a pensarlo in termini di possibilità, ma anche di realtà fattuale. [1] Alcuni di questi contributi si rifanno all’idea di evoluzione morale o di incremento etico-politico in termini di conquiste istituzionali e giuridiche. Una ripresa teorica che si presenta curiosamente in controtendenza rispetto alla generale percezione di una crisi del progresso e di fiducia che sembra investire le società occidentali. Tuttavia, la rivalutazione di un concetto così esigente deve sapersi accompagnare a una consapevolezza delle sue eventuali distorsioni e dei suoi eventuali nodi problematici. Il dibattito che ha di recente animato la teoria critica intorno all’idea di progresso può senza dubbio aiutare ad accrescere tale consapevolezza.
Il punto di vista che la teoria critica può offrire è quello di un’analisi dei rapporti di potere relativi e spesso impliciti ai concetti e alle formazioni di pensiero; un’impresa teorica non meramente decostruttiva poiché interessata anche a illuminarne contenuti di riflessione ed emancipazione.
Page 62 of 612