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L'euro, un errore politico
Giuliano Battiston intervista Wolfgang Streeck
«L’euro non è l’Europa». Per analizzare con lucidità il negoziato sul debito greco Wolfgang Streeck suggerisce di partire da qui. «L’equazione tra l’Unione monetaria e l’Europa è semplicemente ideologica, serve a nascondere interessi prosaici», spiega nel suo studio il direttore del Max-Planck Institut per la ricerca sociale di Colonia.
Gli interessi dei paesi del Nord Europa contro quelli del Sud, della finanza internazionale contro le popolazioni mediterranee, del “popolo del mercato” (Marktvolk) contro il “popolo dello Stato” (Staatvolk): del capitalismo contro la democrazia. Per l’autore di "Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico" (Feltrinelli, 2013), il caso greco non rappresenta infatti che l’ultima variante del processo di dissoluzione del regime del capitalismo democratico del dopoguerra. Quel regime che aveva faticosamente tenuto insieme, in una combinazione fragile e instabile, democrazia e capitalismo appunto, dando vita a un patto sociale ormai imploso.
Anche in Europa. E proprio a causa di un’Unione europea che si è fatta «motore di liberalizzazione del capitalismo europeo, strumento del neoliberismo». E di una moneta comune che serve gli «interessi del mercato». Per uscire dal vicolo cieco dell’Europa liberista votata all’austerity, per Wolfgang Streeck, tra i più influenti sociologi contemporanei, si dovrebbe partire proprio dalla rinuncia all’euro come moneta unica. Con una nuova Bretton Woods europea.
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La rottamazione neoliberista della scuola della Costituzione è un attacco a tutti i lavoratori
di Andrea Zirotti
Come specificato nel post-scriptum aggiunto appositamente dall'autore, questo intervento è stato scritto alcune settimane fa, prima dell'approvazione al Senato con un gravissimo voto di fiducia. Lo riproponiamo comunque, come contributo di analisi non schiacciato sulla cronaca, ma volto a ragionare anche sulle tendenze di fondo della lotta intrapresa dalle classi dominanti sul tema della scuola, così come sul tipo di risposta che si rende necessario da parte delle classi subalterne
Anche un cittadino mediamente distratto ha potuto avvertire che i provvedimenti sulla scuola del governo hanno suscitato nello stesso mondo della scuola un'opposizione finora vasta, visibile, multiforme. Renzi e i suoi ministri si sono prodigati a rintuzzare l'ondata di critiche, con una propaganda che tuttora alterna toni sprezzanti a false disponibilità al dialogo e non disdegna messaggi offensivi per gli insegnanti, come la sceneggiata alla lavagna del "capo" del governo. Non c'è dubbio: il governo è sempre in prima linea, anche in questo aspetto del lavoro politico; il ruolo delle forze parlamentari, in primis dello zelante PD, ma anche delle giubilanti FI e NCD, è in ciò di supporto.
Qual è il nodo del conflitto? Una prima risposta, astenendosi da giudizi di valore, può essere: la ristrutturazione (o, meglio, la sua continuazione) del sistema scolastico nazionale. Nel rispondere a questa domanda, non di rado c'è chi si sofferma ora su uno, ora su un altro aspetto di questa devastante controriforma, perdendo di vista il progetto complessivo di trasformazione, per non dire del suo rapporto con il contesto attuale: un atteggiamento prevedibile in questi tempi di deboli coscienze politiche, in cui riesce a prevalere una lettura di tipo sindacale, e di sindacati in tempi di deboli coscienze politiche.
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L’organetto di Draghi IV
Quarta lezione: forward guidance e quantitative easing (2013-2015)
di Sergio Cesaratto
In questa lezione[1] ripercorreremo le vicende più recenti dell’euroarea sino al famoso quantitative easing
1) 2013: L’anno della forward guidance
Col consueto ritardo, nel corso del 2014 la BCE ha raggiunto la FED nel portare il tasso di interesse a breve termine praticamente a zero, il cosiddetto “zero lower bound” (ZLB). Una volta raggiunto lo ZLB, la politica monetaria sembra diventare impotente nel tentativo di condizionare, diminuendoli, i tassi di interesse a lunga con l’obiettivo di sostenere la domanda aggregata. Se inoltre, come nell’Eurozona, si manifestano segnali concreti di deflazione, i tassi reali a lunga tenderanno, a parità di tassi nominali, ad aumentare. Una maniera per diminuire i tassi reali a lunga è attraverso la promessa di mantenere i tassi a breve a zero per un periodo indefinito di tempo tollerando una ripresa dell’inflazione, che diventa anzi un obiettivo desiderato con lo scopo di far diminuire i tassi reali attesi a lungo termine. La diminuzione attesa dei tassi può anche determinare un deprezzamento della valuta che stimola la domanda aggregata e l’inflazione[2]. L’impegno a mantenere i tassi allo ZLB si chiama la “forward guidance” ed è stata adottata dalla FED dal 2008 e dalla BCE nel luglio 2013. Così Draghi nella conferenza stampa dopo la riunione del Governing Council della BCE:
Looking ahead, our monetary policy stance will remain accommodative for as long as necessary. …’The Governing Council expects the key…’ – i.e. all interest rates – ‘…ECB interest rates to remain at present or lower levels for an extended period of time’.
La forward guidance soffre di un problema di incoerenza temporale, in quanto i mercati possono non fidarsi dell’impegno della banca centrale di mantenere i tassi di interesse a breve bassi per contrastare la deflazione temendo che invece li rialzi appena l’inflazione dia minimi segni di ripresa.
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Agamben “senza scelta” ovvero l’equivoco degli opposti
di Lorenzo Mainini
Riflessioni in due tempi attorno alla filosofia di Agamben. Qui e qui potete leggere la prima parte
S’è detto, in un precedente intervento, che l’inoperosità in Agamben è un esito inscritto, dal principio, nella sua archeologia filosofica. L’ambiguità originaria dell’essere, che poi si riduce all’irrisolvibilità tra atto e potenza, conduce direttamente all’inoperosità. La risalita agambeniana delle coppie antinomiche, in definitiva, non dice nulla di più, né modifica il processo: il servo è scoperto come potenzialità pura ma al contempo rimane figura della soggezione, la nuda vita è riemersione del biopolitico ma pure terreno prediletto per l’azione violenta del potere, e così avanti secondo l’antinomia.
A questo proposito meriterebbe d’essere pienamente sviluppata una discussione su un nuovo rimosso aristotelico, che soggiace a quest’impostazione filosofica: la questione degli opposti. Come abbiamo già tentato intorno all’energeia, anche ora ci limiteremo a tracciare le grandi linee del problema. Tuttavia, per impostare correttamente la discussione, fermiamoci a osservare in che modo l’inoperosità agambeniana cerchi di convertirsi in politica.
Nell’ultimo capitolo de L’uso dei corpi, intitolato Per una teoria della potenzadestituente, v’è allora una di quelle pause corsive che in Agamben spesso intervengono a specificare, come in nota, un aspetto della trattazione.
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Laudato si': lavoro e ricchezza
di Carla Filosa
Dire la verità in malafede
dovrebbe essere considerato disonesto.
Karl Kraus
Due grandi tematiche sono emerse in questi ultimi giorni: la continuità dell’esodo irrefrenabile di popolazione spinta dal bisogno estremo della vita minacciata, e il nuovo (si fa per dire) riversamento ideologico dell’enciclica papale. Di quest’ultima, analizzata al completo nelle sue 192 pagine, ci interessa per ora solo quanto attiene al concetto di lavoro e di ricchezza tessuti entro un contesto fumoso di termini sociologici – non scientifici – di “società”, “potere”, “finanza” o “consumo”.
In ordine di importanza, imposta dalla realtà materiale, affrontiamo insieme in primo luogo il significato di questa migrazione che – sembra – sta dilaniando la cosiddetta Europa. La riscoperta delle frontiere come ostacolo da parte degli Stati europei è solo un modo più elegante della rozzezza ungherese, propensa proprio all’innalzamento di un muro (cemento o mattoni, forse pietra come quella cinese?), per bloccare l’ingresso di chi ancora tenta di sopravvivere. Perché? Al di là di timori anche ancestrali, pur presenti, di promiscuità etnica, razziale o religiosa, sembra evidenziarsi il problema sostanziale della concorrenza lavorativa con la popolazione autoctona, che potrebbe risvegliarsi dall’assuefatta pacificazione sociale dei salari minimi, delle promesse lavorative dopo il volontariato gratuito, della speranza di mesi alternati di sopravvivenza, e così via tirando avanti.
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Grecia: bilancio (provvisorio) e prospettive di un riformismo onesto
di Michele Nobile
1. Lo scontro tra il governo di Tsipras e i creditori internazionali della Grecia si svolge sul terreno economico ma, in effetti, è tutto politico; e se oggetto dei negoziati è la politica economica e sociale della Grecia, in prospettiva ad essere in gioco è l'intero sistema delle politiche e delle istituzioni europee o, meglio, il limite a cui esse possono spingersi nel confronto col governo di uno Stato membro la cui prospettiva è diversa da quella sedicente liberista. Infatti, non esiste alcuna presunta legge o necessità economica per imporre alla Grecia la feroce austerità che ha dovuto sopportare e a cui pare destinata ancora per anni, stando alla volontà della troika dei creditori, ribattezzata «le istituzioni»; anzi, sono proprio l'austerità e la conseguente depressione dell'economia che impediscono di ridurre il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno. A fronte dell'iniquità della politica neoliberista della troika, la vittoria elettorale di Syriza e la formazione del governo Tsipras sono eventi di enorme importanza per la sinistra europea:
«Per la prima volta dalla formazione dell'area dell'euro, nel negoziato tra il governo Tsipras e la troika (Banca centrale europea, Commissione europea, Fondo monetario internazionale) si sono opposte in modo chiaro due linee realmente alternative, sul piano istituzionale e del confronto fra governi»1.
La mia personale valutazione è che il governo Tsipras abbia operato nel migliore dei modi, per quanto umanamente possibile e date le circostanze. Ha mostrato saldezza di nervi, dignità e determinazione, caratteristiche non frequenti, per essere gentili, nella politica europea, in particolar modo in Italia.
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Oxi!
di Jacques Sapir
Sul suo seguitissimo blog, J. Sapir commenta il referendum greco. Le istituzioni europee hanno cercato di influenzarne il risultato giocando sporco, ma sono state sconfitte. La loro reazione ora è scomposta, e perfino l’addio di Varoufakis difficilmente aiuterà a trovare un accordo. L’uscita della Grecia dall’eurozona è in parte già in atto ed è una strada che porta alla dissoluzione dell’eurozona intera
La vittoria del «No» al referendum è un evento storico. Rimarrà una pietra miliare. Nonostante le numerose pressioni per il «Sì» esercitate dai media greci, così come dai leader dell’Unione Europea, nonostante la Banca Centrale Europea abbia posto le condizioni di una crisi bancaria, il popolo greco ha fatto sentire la sua voce. Ha fatto sentire la sua voce contro le bugie che sono state continuamente propinate nelle scorse settimane sulla situazione in Grecia. Diremo qualche parola riguardo a quegli editorialisti che hanno, intenzionalmente, modificato la realtà e suggerito che ci fosse un legame tra Syriza e l’estrema destra di Alba Dorata. Queste bugie non ci sorprendono più, ma non le dimenticheremo. La gente ha fatto sentire la propria voce con insolito vigore, dato che, contrariamente a quel che prevedevano gli exit poll, la vittoria del «No» è stata ottenuta con un margine considerevole, circa il 60%. Questo naturalmente rafforza il governo di Alexis Tsipras e dovrebbe dar da pensare ai suoi interlocutori. Presto sapremo cosa succederà. Ma possiamo dire subito che le reazioni di Martin Schulz al Parlamento europeo, di Jean-Claude Juncker a nome della Commissione [1] o di Sigmar Gabriel, il ministro dell’economia e alleato SPD del Cancelliere Merkel in Germania [2], non lasciano ben sperare a riguardo.
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Reddito, reddito delle mie brame, chi è il più povero del reame?
∫connessioni precarie
Pochi giorni fa la Regione Friuli Venezia Giulia ha varato una legge che garantisce un reddito minimo alle famiglie che vivono sotto la soglia di povertà. Questo passo mostra come il problema del reddito sia ormai progressivamente assunto dal sistema politico che ne fa una forma di controllo di una povertà sempre più diffusa. Questo intervento istituzionale investe e sempre più investirà il significato politico tanto del reddito quanto della povertà. Che cosa significa rivendicare il reddito nel momento in cui esso diviene una delle risposte istituzionali alla crisi? Che cosa significa assumere la povertà come categoria universale attorno alla quale organizzare la rivendicazione di un reddito? La domanda è tanto più urgente visto che la manifestazione di Libera contro la povertà del prossimo 17 ottobre sarà assunta dalla nascente coalizione sociale e non è indifferente ad alcuni settori di movimento.
Con la sua misura la giunta friulana, presieduta dall’impagabile Signora Serracchiani, sembra aver tenuto in scarsa considerazione le recenti dichiarazioni del suo caporeparto Matteo Renzi, che solo qualche settimana fa ha definito il reddito di cittadinanza una misura «incostituzionale» e «assistenzialista».
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Modernità e finzioni del tempo
di Jacques Rancière
Pubblichiamo il testo della conferenza che Jacques Rancière, uno dei più importanti filosofi francesi contemporanei, terrà a Firenze oggi (29 giugno) nella Sala Altana di Palazzo Strozzi alle ore 17:00. La conferenza, promossa dall’Institut Français Italia, in collaborazione con la Scuola Normale di Pisa, il Gabinetto Vieusseux e il Gruppo Quinto Alto, si svolge nell’ambito della rassegna di presentazioni e seminari «Prospettive critiche». Jacques Rancière ne discuterà con i Proff. Mario Citroni e Paolo Godani. Ringraziamo la casa editrice DeriveApprodi per l’aiuto nella realizzazione di questa pubblicazione
Per delucidare questo titolo partirò da una definizione molto generale: chiamo finzioni del tempo i modi di strutturazione dei rapporti di temporalità e le forme di razionalità della catena temporale che strutturano le nostre percezioni della politica e della storia, come della letteratura e dell’arte. Una definizione che implica a sua volta la ridefinizione del concetto di finzione. Si continua a opporre la finzione, intesa come invenzione di situazioni immaginarie, alla solida realtà con la quale sono alle prese, con modalità differenti, coloro che lavorano la materia, coloro che intendono penetrare la struttura delle cose e coloro che agiscono per cambiare le situazioni. Eppure, lo sappiamo almeno fin da Aristotele, la finzione è ben di più dell’invenzione di esseri immaginari. È una struttura di razionalità. È una modalità di presentazione che rende cose, situazioni o eventi percepibili e intelligibili. È una modalità di connessione che costruisce forme di coesistenza, di successione e di concatenamento causale tra eventi e conferisce a tali forme la modalità del possibile, delle reale o del necessario. Una duplice operazione necessaria ovunque occorra produrre un certo senso della realtà. È necessaria lì dove si tratta di definire le condizioni, gli strumenti e gli effetti di un’azione, ovvero, in sostanza, il senso stesso di ciò che significa agire.
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Le conseguenze del disamore
Pd dopo le regionali 2015
di Giorgio Salerno
Cosa accadrà ora? Cosa succederà al PD, e nel PD, dopo la batosta elettorale? Quali saranno le conseguenze del voto ?
Tutti i commentatori politici concordano sul fatto che i risultati delle elezioni regionali del 31 maggio 2015, ed i ballottaggi di domenica 14 giugno nei comuni interessati, hanno mostrato una crescente disaffezione dell’elettorato verso il PD di Matteo Renzi. Lo stesso Presidente del Consiglio lo ammette senza reticenze.
L’alto numero degli astenuti, soprattutto nelle cosiddette regioni rosse, ascrivibile prevalentemente all’elettorato piddino, e la diminuzione del voto di lista al Partito, con la perdita conseguente della guida di importanti città, sono il segnale di una delusione profonda che ridimensiona drasticamente il famoso 40,8 % conseguito alle elezioni europee del 25 maggio 2014. Appena dopo un anno il PD ha perso più di 2 milioni di voti, verso la destra e verso la sinistra. Molti elettori di centrodestra e di destra, ex berlusconiani che avevano visto nel giovane premier una reincarnazione dell’anziano leader, hanno preferito l’originale (Berlusconi, Salvini, lo stesso Alfano) alla copia (Renzi). Vecchia legge della politica.
Renzi ha perso verso sinistra non riuscendo a motivare il tradizionale elettorato del PD e non acquistando voti nuovi provenienti da questa area. Non è vero, come tendono a far credere i vertici del Partito, che la scelta dei candidati di sinistra (Casson) abbia fatto perdere voti. Ed allora la Moretti, la Paita, lo sconfitto aspirante sindaco di Arezzo? Candidati che più renziani di cosi’ non si poteva immaginarli.
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Dei debiti e delle colpe del vivente
Federico Zappino, Elettra Stimilli
Federico Zappino: Il tuo libro Debito e colpa, appena dato alle stampe, prosegue e attualizza le ricerche e le riflessioni che hai reso pubbliche nel 2011, nell’opera Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo (Quodlibet). In quel libro, i cui materiali erano stati radunati nelle fasi iniziali della crisi economica e sociale, l’impostazione genealogica appare dominante rispetto alle connessioni con il presente. Il debito del vivente è uno straordinario percorso nella teoria economica, nella patristica, nella teologia, nell’antropologia. Uno dei suoi fulcri trae spunto dalla suggestione weberiana del passaggio dall’ascesi intramondana protestante all’agire strumentale del dominio economico – passaggio che in sé riferisce, da un lato, di un sottofondo costante, di un costante essere-in-debito del vivente nei riguardi del Dio; dall’altro, di una risignificazione, potremmo dire, di questo essere-in-debito da parte del capitalismo. Una risignificazione che già Max Weber individua e che poi ritroviamo con chiarezza nelle riflessioni di Walter Benjamin, secondo cui il capitalismo assolve alla funzione a cui prima di esso aveva assolto la religione – esso stesso diventa una religione interamente cultuale, che non conosce alcuna dogmatica, né teologia. Una funzione che, con Foucault, potremmo definire al contempo di soggettivazione e di assoggettamento: il soggetto affida a questa nuova religione il compito di acquietare i bisogni e le preoccupazioni per il futuro, attraverso la produzione e il consumo, e prova anche un certo godimento nella possibilità di produrre e consumare.
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L’infamia della guerra e della socialdemocrazia nel ’900
di Antonio Negri
La guerra è un crimine contro l’umanità e oggi, nell’epoca nucleare, è anche crimine contro la natura e gli altri esseri viventi. Ma parlar di guerra nel secolo scorso, nel XX secolo, è parlare di Stato-nazione. Quanto è doloroso ricordare che nel XX secolo, quando si dice nazione, si dice guerra: noi tutti, qui presenti, siamo figli o nipoti (di prima o seconda o terza generazione) di sopravvissuti a quelle guerre. Dalla nascita del moderno ciascuno dei nostri Paesi è stato preda di guerre. E furono o mascalzoni o deboli di mente, comunque obnubilati da deliranti ideologie, quei letterati o politici che raccontarono ai popoli come le guerre – legate alla nascita e allo sviluppo delle nazioni europee – avessero generato la loro felicità. Pure e semplici falsità. Noi sappiamo infatti che la modernità e ciascuna delle nostre comunità nacquero dal lavoro e dal pensiero di donne e uomini forti che rinnegarono il feudalesimo e il papato, che si liberarono dalla schiavitù e lottarono per l’emancipazione del lavoro. E non dimentichiamo che questa vera storia fu sovradeterminata e travisata dalla violenza sovrana.
Essa si voleva legittimata dallo Stato, impiantata sull’identità della nazione, e pretendeva che popolo e nazione venissero considerati un unico concetto: e che quindi i sudditi – per amor di patria – fossero dallo Stato-nazione inviati al macello? Si rabbrividisce ora nel ricordare che alcuni fra i massimi intellettuali del XX secolo inneggiarono alla sovranità come bene assoluto e alla guerra e alla distruzione della nazione accanto, come necessità della vita dello Stato-nazione. Thomas Mann, 1914:
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L’ordine non regna ad Atene
di Raffaele Sciortino
Una liberazione di energie, un piccolo grande no costituente: il voto greco ha portato in un’Europa asfittica, avvinghiata allo status quo, un pezzo di America Latina. Non ha rotto con questo l’isolamento della resistenza greca, non può farlo da sola, ma -passione contro ricatto, dignità contro paura - ha sbattuto in faccia a tutti le conseguenze di una crisi che i pescecani dell’euromerdocrazia e della finanza in alto, ceti sociali ottusi o rassegnati o ancora illusi in basso non riusciranno a lungo ad attribuire agli “irresponsabili” greci (anche se è questo oggi il messaggio lanciato e in gran parte recepito nel resto d’Europa).
Dunque, l’ordine non regna ad Atene. Al contrario, abbiamo la prima vera scossa politica in Occidente dallo scoppio della crisi globale. Adesso cercheranno di fargliela pagare carissima. La parola d’ordine a Berlino e Bruxelles è subito diventata organizzare il Grexit, non importa se tra mal di pancia, timori e mugugni di politici e stati di secondo rango o addirittura del padrino d’oltreoceano. Non si può lasciar passare l’idea che resistere è possibile! Il regime change, fallito in forma soft, passa ora alla fase due, quella dura che chiuderà del tutto i rubinetti della moneta puntando a produrre ancora più miseria, caos, scontento e, chissà, “richieste di ordine”.
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Default totale
di Giulio Palermo
In questo articolo, propongo una riflessione ad ampio raggio sulla possibilità che il movimento contro il debito si sviluppi attivamente in ogni paese d’Europa, connotandosi in senso anticapitalista. Invece di tifare Grecia e sperare che il governo Tsipras strappi condizioni dignitose nelle trattative con i creditori che strangolano il paese, l’idea è di aprire fronti di lotta al debito pubblico in tutti i paesi. Non ovviamente nell’intento di stabilizzare il sistema finanziario — come vorrebbero alcune forze favorevoli a un default negoziato e parziale — ma per far saltare l’attuale assetto politico-finanziario e avviare un processo verso il socialismo.
Gli effetti moltiplicativi di un simile coordinamento anticapitalista europeo sono ovvi. Sul piano politico, il rafforzamento del governo Tsipras in Grecia sarebbe immediato. Se ne tocchi uno, ci ribelliamo tutti! Questo è il migliore messaggio che sfruttati e oppressi d’Europa possono inviare ai signori dell’euro e della finanza. Ma non mi interessano i ragionamenti politici senza copertura, le proposte irrealizzabili, giusto per fare dibattito. Non proverò quindi a sviluppare nei dettagli cosa accadrebbe nell’ipotesi, alquanto improbabile, di un ripudio del debito simultaneo e coordinato, da parte di un movimento internazionalista forte e consapevole. Sarebbe come costruire una strategia di lotta basandola sull’ipotesi di aver già vinto.
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Fondata sul turismo
di Fabrizio Federici
La Grande Trasformazione era in atto ormai da un paio di decenni. L’aveva preceduta una lunga fase di accorta preparazione, in cui le attività produttive – e l’industria in particolare – erano state spinte in una profonda crisi, i finanziamenti alla ricerca erano stati quasi azzerati, e si era diffuso tra la popolazione il mito di un’Italia «terra della cultura». Venne abilmente instillata la convinzione che bastasse sfruttare i beni culturali del Paese per assicurare a tutti la prosperità. «E pensare che si potrebbe campare soltanto di quello!»: nei bar non si mugugnava altro.
La situazione che si era venuta a creare era perfetta per un cambiamento radicale: masse di disperati da una parte, la speranza dall’altra in una svolta che passasse attraverso il massiccio sfruttamento turistico delle bellezze nazionali. Al momento buono, la trasformazione fu avviata con piglio deciso, e con rapidità tale che in breve tempo divenne irreversibile. Fu varato in pompa magna il «piano di riconversione economica totale» al turismo, che prevedeva innanzitutto il blocco di ogni forma di sostegno e di agevolazione alla produzione di beni e servizi (che non fossero, è chiaro, più o meno direttamente legati all’accoglienza). Fu stilata una lista di attività «tipicamente italiane» da sostenere, legate tutte, più o meno, all’ospitalità.
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Bentornati al sud
L'Eterna Questione Meridionale
Scritto da Marco Palazzotto
Da quando l’Italia è entrata in recessione con l’ultima crisi europea, dall’agenda politica nazionale è sparita quasi del tutto la questione meridionale. Si ha la sensazione che la Sicilia - e il resto del Meridione – sia condannata a un destino immodificabile a causa della sua atavica incapacità di mantenere il ritmo di aree più efficienti, più produttive, meno criminali. Il quadro politico e sociale che è stato costruito intorno alla questione meridionale è ormai ultrasecolare ed il suo indirizzo è quello che oggi conosciamo.
Antonio Gramsci in questo articolo del 1926 trattava della questione meridionale evidenziando aspetti ancora molto attuali. Già allora l’ideologia diffusa era quella di un Mezzogiorno come “palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalista o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l’esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto”.
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L’occasione del no. Sulla critica della democrazia del debito
∫connessioni precarie
Quanti no si possono dire in una domenica? Quale occasione rappresenta il referendum greco contro l’ultimatum delle istituzioni europee? Il referendum è stato un passaggio obbligato, dopo che, negli ultimi mesi, contro la pretesa greca di sottrarsi alla tirannia del debito, si è consolidata una vera e propria rivolta pro-slavery. Le élite europee – istituzionali, mediatiche ed economiche, conservatrici e socialiste – si sono coalizzate per dimostrare che una simile pretesa è tecnicamente insostenibile, ma soprattutto con l’intenzione di provare che essa è politicamente inammissibile. Gli assoggettati al debito devono stare al loro posto e subire le condizioni di salario e di reddito che le riscoperte «leggi naturali» del capitalismo riservano loro. Le settimane che hanno preceduto l’indizione del referendum sono state dominate dal tentativo sempre più plateale e volgare di delegittimare le pretese che il governo greco ha osato portare la tavolo delle trattative. Il carattere europeo e globale del referendum non è dato dallo scontro della Grecia con il resto d’Europa, ma dal tentativo di dare una lezione complessiva a chi pensa di potersi opporre alla tirannia della finanza. A questo punto in gioco non ci sono miliardi di euro, e non c’è nemmeno il nome della moneta con cui contabilizzare debiti e sacrifici. C’è il potere di decidere a favore di chi paga il prezzo più pesante della crisi.
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Il Clinamen greco
Riflessioni sulla questione greca e le potenziali conseguenze
di Francesco Schettino
Gli ultimi di giugno, e i primi del luglio del 2015 sono, senza dubbio, tra i giorni al tempo stesso più drammatici ed interessanti degli ultimi anni, se non altro per l’imprevedibilità degli eventi che si avvicenderanno sino a domenica 5 luglio; in quella data verrà celebrato, in uno dei momenti più solenni da quando l’Unione europea è stata creata, il celeberrimo referendum greco che chiederà al popolo ellenico di esprimersi sull’accettazione delle condizioni poste dalle “istituzioni” in relazione alla questione del debito pubblico.
Sono oramai ampiamente noti i fatti che negli scorsi giorni hanno determinato l’interruzione delle contrattazioni tra la ex-troika (ora istituzioni) ed il governo ellenico, rappresentato da Tsipras e dal ministro dell’economia Varoufakis, evento che ha indotto proprio il capo del governo a consultare il “popolo” sull’opportunità di proseguire o interrompere la lunga trattativa: volendoli riassumere – chiedendo al lettore la licenza di non essere estremamente rigorosi nell’esposizione –, le proposte del governo greco, basate principalmente sul recupero dell’evasione fiscale e l’aumento della tassazione dei grandi patrimoni e dei capitali, si sono scontrate pesantemente con le esigenze delle istituzioni di continuare a vessare i lavoratori greci attraverso l’aumento della tassazione indiretta, anche su ben di prima necessità, tagliando pensioni e stipendi degli impiegati pubblici e prolungando l’età pensionabile con effetto quasi immediato.
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“L'Europa destabilizzata dal potere di ricatto dei creditori”
Marta Fana intervista Vladimiro Giacchè
Le ultime vicende sulla crisi greca hanno mostrato come un governo democratico, fedele al suo mandato elettorale, possa mettere in discussione la governance europea, rigida su regole punitive che nulla hanno a che fare con la virtuosità dei paesi dell’eurozona. Il fallimento più grande è proprio l’architettura della UE e dei suoi Trattati, che negano la possibilità di agire su obiettivi realmente strutturali, come l’occupazione, la capacità produttiva e i redditi. In questo contesto, la moneta unica è uno strumento di potere funzionale ad interessi altri, quali la stabilità dei prezzi e delle banche.
Se è vero che bisogna rimettere in discussione regole e obiettivi europei, allo stesso tempo è necessario capire in quali tempi queste modifiche possono intervenire. Più i tempi sono lunghi più è inevitabile che anche la moneta unica possa essere rimessa in discussione, in quanto strumento di potere.
Ne parliamo con Vladimiro Giacché, economista e Presidente del Centro Europa Ricerche.
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Non si è ancora fatta sera
Franco Berardi Bifo
L’Europa è unita come lo fu nel 1941
Il futuro dell’Unione europea è iscritto nell’esito del referendum che Alexis Tsipras è stato costretto a convocare per il 5 luglio, ma comunque vada questo referendum, - che vinca improbabilmente il no al ricatto e all’umiliazione, o che vinca dolorosamente il sì al ricatto e all’umiliazione, - il futuro d’Europa è segnato. Finirà nel sangue, dopo un lungo periodo di miseria e umiliazione. La Jugoslavia del 1993 su scala continentale: questo è ciò che ha prodotto l’arroganza finanziaria, questa è la vendetta del Fondo Monetario Internazionale.
Ne La questione della colpa (Die Schuldfrage), un testo del 1946, Karl Jaspers, il filosofo tedesco che viene considerato uno dei padri dell’esistenzialismo, distingue il carattere "metafisico" della colpa da quello “storico”, per ricordare che se ci siamo liberati del nazismo come evento storico, ancora non ci siamo liberati da ciò "che ha reso possibile" il nazismo, e precisamente la dipendenza della volontà e dell’azione individuale dalla potenza ingovernabile della tecnica, o meglio della catena di automatismi che la tecnica iscrive nella vita sociale.
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Tirannia europea?
di Jacques Sapir
Il prof. Jacques Sapir si pronuncia in maniera come sempre molto chiara sull’atto di forza da parte delle istituzioni UE, che in occasione della crisi greca si sono ormai inoltrate in una deriva in cui la posta in gioco non è più il debito, ma i principi della democrazia e della sovranità nazionale
Alexis Tsipras aveva deciso di indire un referendum il 5 luglio, per chiedere al popolo sovrano di decidere sulla diversità di posizioni che lo contrappone ai creditori della Grecia. Aveva preso questa decisione in seguito alle minacce, le pressioni e gli ultimatum che aveva dovuto affrontare durante gli ultimi giorni di trattative con la cosiddetta “troika” – la Banca centrale europea, la Commissione europea e il Fondo Monetario Internazionale. In tal modo, con un gesto che può essere qualificato come “gollista”, ha deliberatamente riportato nell’arena politica un negoziato che i partner della “troika” volevano mantenere nell’ambito tecnico e contabile. Questo gesto ha provocato una reazione dell’Eurogruppo di estrema gravità. Siamo in presenza di un vero e proprio abuso di potere che è stato commesso nel pomeriggio di questo 27 giugno, quando l’Eurogruppo ha deciso di tenere una riunione senza la Grecia. Quello che è in gioco ora non è solo la questione del futuro economico della Grecia. E’ la questione dell’Unione europea, e della tirannia della Commissione e del Consiglio, che è stata posta apertamente.
La dichiarazione di Alexis Tsipras
Il testo della dichiarazione fatta da Alexis Tsipras la notte dal 26-27 giugno sulla televisione di stato greca (ERT), da questo punto di vista è molto chiara:
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Grecia: e ora?
di Andrea Fumagalli
La trattativa tra il governo greco e i creditori (Brussel Group, ma sempre Troika) si è conclusa con un nulla di fatto. La Grecia (novello Davide) non ha la possibilità di spuntarla con la plutocrazia europea (il vecchio Golia). Ma la partita non si chiude ora, non finisce qui…
La possibilità che la Grecia e i creditori possano trovare un accordo è oramai del tutto tramontata.
All’inizio di questa settimana di travaglio e di passione, l’offerta del governo Tsipras di venire incontro ad alcune richieste della Troika (aumento parziale Iva e dell’età pensionabile, seppur in tempi lunghi) per recuperare i 400 milioni di differenza tra le parti (pari allo 0,002 del Pil Europeo!) aveva fatto credere che fosse possibile giungere a una soluzione.
Invece il risultato è stato esattamente l’opposto.
L’irrigidimento dei creditori
Abbiamo infatti assistito a un irrigidimento delle posizioni dei creditori. Il primo, tra loro, è stato il Fmi, poi, il 26 giugno, è stato il turno dell’Eurogruppo. Perché tale irrigidimento, quando si era quasi vicino al traguardo di un accordo economico utile a tutti?
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Grexit: quelli che ‘la democrazia trionfa (ma anche no)’
di Alberto Bagnai
La decisione presa dal premier greco di indire un referendum sull’austerità (rectius: sull’opportunità di accettare o respingere il piano di “salvataggio” delle “istituzioni”, che poi sarebbero la troika) ha scatenato nei nostri lidi la solita tifoseria da stadio: chi inneggia al trionfo della democrazia, chi ostenta scetticismo.
Non se ne abbiano i tromboni sfiatati del “primato della politica”: per valutare il senso politico di questa mossa il dato dal quale partire resta quello economico. È strano che questo non venga compreso soprattutto a sinistra, dove una volta andava di moda una cosa chiamata materialismo storico. Ma non entriamo in questo. La cosa importante è capire che l’austerità non è una bizza, né una virtù, della signora Merkel. L‘austerità è la conseguenza inevitabile dell’adozione dell’euro: se non puoi svalutare la moneta, per promuovere le esportazioni dalle quali ottenere la valuta forte necessaria per saldare i debitori esteri, devi svalutare il lavoro. I colleghi “appellisti”, quelli che con toni fra il dickensiano e il deamicisiano da anni ci frantumano le gonadi con l’idea che un euro senza austerità sia possibile (errore blu per il quale boccerebbero e bocciano i loro studenti del primo anno) dovranno rassegnarsi.
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«Il golpe della Troika contro il governo Tsipras»
Intervista a Christian Marazzi
L’economista Christian Marazzi: «La Troika in Grecia come i militari in Cile con Allende. L’aggressione è un avvertimento a Podemos in Spagna. Oggi bisogna andare allo scontro, a piedi scalzi e con le armi della verità. Dobbiamo istituire la democrazia reale in Europa». «La vittoria del No al referendum è importante, ma l’esito della crisi non è scontato. La Grecia è sola»
Per Christian Marazzi, economista e autore de Il diario di una crisi infinita (Ombre Corte), «il referendum indetto da Tsipras domenica in Grecia è una mossa eroica. Non vedo un tentativo di addossare la responsabilità di una scelta sulle spalle del popolo greco di fronte ad una impasse evidente della trattativa. Ci vedo invece un atto di grande onestà e verità».
Molti sostengono invece che quello di Tsipras sia un atto di disperazione.
Niente affatto. La sua è una resa dei conti con le politiche neoliberiste che in Grecia si sono rivelate per quello che sono sempre state: un attacco sistematico alla democrazia, un totale disprezzo delle classi lavoratrici, il perseguimento criminale di politiche di arricchimento dei più ricchi. Oggi bisogna andare allo scontro, non c’è altra soluzione. Questa battaglia va fatta a piedi scalzi, con le armi della verità, contro la strategia della menzogna della Troika e dei mass-media che mistificano i dati economici e sociali e servono gli interessi dei poteri forti.
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Parabola di un falso capo carismatico
di Federico Dezzani
Attendendo il decorso del dramma greco, solchiamo il Canale d’Otranto e torniamo alle terre natie, per studiare la parabola discendente di Matteo Renzi. L’ex-sindaco di Firenze, “molto intelligente, energico come Fanfani, empatico ed una spugna nell’imparare” come lo definisce l’Ing. De Benedetti nel novembre 2014, ha perso la smalto iniziale e le promesse di una catarsi del Paese si sono inabissate nella fantomatica palude. Installato a Palazzo Chigi con la missione di attuare i desiderata della Troika imbellettandoli con una politica spregiudicata e giovanilistica, Renzi paga il fallimento di ricette economiche sbagliate e soprattutto lo scotto di essere un finto “capo carismatico”, salito alla ribalta nazionale senza sudore ed un’autentica missione innovatrice. Perché l’establishment euro-atlantico, nel disperato tentativo di salvare l’eurozona, ha insediato un uomo solo al comando? Leggere il sociologo tedesco Max Weber per trovare la risposta.
Aria di smobilitazione
C’è aria di smobilitazione nei palazzi romani e nei salotti buoni italiani: la promettente campagna di Matteo Renzi, incensato dai media nazionali ed internazionali come il salvatore delle patria e l’ultima speranza dell’Italia, si è arenata.
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