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Via della Seta e nuovo multilateralismo: una prospettiva globale
di Gianmarco Pisa*
La dimensione multilaterale è una chiave di volta della risoluzione dei conflitti, a partire dall’eguaglianza tra le nazioni, la non-ingerenza e l’autodeterminazione, sulla base di un approccio politico e diplomatico. Nuovi sistemi di relazione, alternativi all’imperialismo e alle sue guerre, possono aprire nuovi spazi per la cooperazione internazionale, e fornire un contributo rilevante per lo sviluppo e per la pace.
Le rotte energetiche internazionali (la rete internazionale dei gasdotti e degli oleodotti) e in generale l’insieme delle rotte mercantili rappresentano, da sempre, uno strumento di lettura della dinamica internazionale, una misura dell’andamento delle relazioni strategiche e, per quanto riguarda l’aspetto specificamente geopolitico, un punto di vista, interessante per quanto non esaustivo, circa gli sviluppi sui diversi scacchieri geopolitici, sui rapporti di alleanze, sull’emergenza di nuovi attori e di nuovi interessi nei diversi quadranti. Per quello che riguarda la stagione storica e politica a noi più vicina, sotto questo aspetto, due date meritano di essere segnalate per la loro importanza: perché indicano dei passaggi di fase significativi e perché addensano al proprio interno una serie di eventi particolarmente rilevanti per la loro portata e per le loro conseguenze.
La prima di queste è senza dubbio il 1999.
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Il Capitale: un libro che non abbiamo ancora letto
Lo spettacolo sull’occupazione GKN
di Sara Nocent
Una mattina d’estate del 2021, i lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio ricevono una mail: la multinazionale londinese comunica il licenziamento di quattrocentoventidue dipendenti. Senza prima essersi confrontata con i sindacati. In un giorno di ferie forzate.
“Ce l’hanno fatta”, esclama uno degli operai che troviamo in scena. “Il capitale ci ha allenato a questo”. La consapevolezza di essere precari, il girone delle ferie forzate, il gioco delle delocalizzazioni e dei misteriosi cambi di proprietà che cercano di coprire l’intenzione, quella tutt’altro che nascosta, di abbattere il costo del lavoro e aumentare il guadagno degli azionisti.
Quanto tempo è passato, penso? E penso anche che siamo in tanti: in sala, in una serata di febbraio, in una città del ricco Nord Est come Udine, tra studenti e lavoratori riempiamo un intero teatro… per parlare del capitale. Dei suoi effetti, del sistema in cui ci troviamo che intrama le nostre vite ogni giorno.
Non è solo un libro, Il Capitale, non sono solo le teorie di Karl Marx. Tre volumi di cosa? Di parole, smembrate e proiettate su una tenda a strisce, come quelle che si trovano appunto nelle fabbriche o nei magazzini, in fondo alla scenografia, algide citazioni che sovrastano gli operai, che restano incomprensibili anche se parlano di noi.
Uno spettacolo è fatto di tempo, come il lavoro. Penso, continuo a pensare anche quando sono uscita dalla sala buia del Palamostre. Pianto gli occhi sul soffitto, perché la verità è che è fottutamente difficile rimanere impassibile.
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Il Marx "verde" di Kohei Saito
di Carlo Formenti
Mi sono già occupato delle tesi del marxista giapponese Kohei Saito nella prima puntata dell'articolo "La cassetta degli attrezzi. Postille a Guerra e rivoluzione", uscito il 18 gennaio scorso su questo blog (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/01/la-cassetta-degli-attrezzi-postille.html). In quell'occasione avevo discusso un suo libro dal titolo Marx in the Anthropocene (Cambridge University Press, 2022). Poco dopo, l'editore Fazi ha dato alle stampe l'edizione italiana di un testo precedente, L'ecosocialismo di Karl Marx (Karl Marx's Ecosocialism), un saggio che ha avuto uno strepitoso successo in Giappone (mezzo milione di copie!) e che, grazie alle sue tesi provocatorie, presumo ne avrà altrettanto a livello mondiale. Ho quindi ritenuto opportuno dedicargli questo secondo intervento nel quale, da un lato, ribadisco le perplessità formulate nel primo, dall'altro tento di approfondire alcuni dei temi affrontati da Saito che mi sono parsi tutt'altro che privi di interesse.
Saito mette le mani avanti, riconoscendo che, se ci si limita a considerare la produzione marxiana "canonica", sembrano più che fondate le critiche rivoltagli sia dagli ecologisti che da coloro che lo accusano di eurocentrismo (1): il filosofo di Treviri, il che vale a maggior ragione per Engels, aveva ancora, infatti, una visione unilateralmente ottimistica della funzione storica del capitalismo, al quale riconosceva il merito di avere accelerato, non solo il progresso economico, ma anche quello civile dell'umanità, contribuendo a emanciparla dai vincoli sociali e ideologici che impastoiavano il mondo precapitalista.
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Saccheggio dell'Africa: destra e sinistra al servizio della NATO - Michelangelo Severgnini
di Alessandro Bianchi
Mentre domenica “Io Capitano” di Garrone si presenterà agli Oscar con un film che non affronta minimamente il colonialismo occidentale dietro la nuova tratta degli schiavi, c'è un altro regista italiano, Michelangelo Severgnini, che da anni è impegnato a combattere la censura e l’ostracismo contro i suoi lavori che hanno il grande torto di farlo, diffondendo la voce diretta del continente africano.
Nel suo ultimo lavoro, “Una storia antidiplomatica”, prodotto da l'AntiDiplomatico, ha formalizzato una costituente sulla migrazione in 8 punti a disposizione del dibattito pubblico.
Per "Egemonia" ripercorriamo insieme a lui le varie tappe che hanno portato alla sua realizzazione.
Che cos’è “una storia antidiplomatica”? “E’ tante cose insieme. Innanzi tutto, è un aggiornamento rispetto al film “L’Urlo”, che arriva a narrare le vicende come stavano fino ai primi mesi del 2021. Quel racconto andava aggiornato. Non solo perché nel frattempo si sono verificate alcune vicende storiche, penso alle mancate elezioni in Libia del dicembre 2021, ma anche perché in questi ultimi anni ho raccolto e ricevuto altro materiale dalla Libia e dall’Africa che a sua volta meritava di essere contenuto in un lavoro di questo tipo”.
“Una storia antidiplomatica” è, come correttamente illustrato nella sua recente recensione su l'AD da Giulia Bertotto, un “meta-documentario”, perché si raccontano anche le vicende pubbliche legate alla censura di questi mesi. Una data più di tutte ha segnato la carriera di Severgnini. Era il 25 novembre del 2022 a Napoli e la proiezione del film "l'Urlo" - durante il "Festival dei diritti umani" - viene interrotta in modo coatto da quello che poi il regista definirà “squadrismo buonista” delle Ong.
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Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
di Roberto Paura
Il testo fondamentale di William MacAskill e il pamphlet demolitorio di Irene Doda a confronto
Comprimendo l’intera storia della Terra in un’ora, scopriremmo che i primi mammiferi sono comparsi al minuto 57 e il primo Homo sapiens un centesimo di secondo prima dello scoccare dell’ora. Alvin Toffler, il futurologo dello “choc del futuro”, immaginò di ridurre gli ultimi 50.000 anni di storia umana in ottocento cicli di 62 anni (oggi sarebbero 801), osservando che solo negli ultimi settanta cicli esiste la scrittura, solo negli ultimi 6 la parola stampata, e quasi tutto ciò che utilizziamo oggi è stato prodotto nell’ultimo ciclo (Cfr. Toffler, 1988). Questo modo di ragionare sul “tempo profondo” aiuta a prendere coscienza di quanto passato sia alle nostre spalle. Ma quanto futuro c’è invece davanti a noi? Molto dipende da quanto durerà l’essere umano. William MacAskill, pioniere della filosofia del lungotermismo, prova a fare un calcolo in Che cosa dobbiamo al futuro. Se la nostra specie durasse in media quanto le altre specie di mammiferi, la storia umana potrebbe estendersi per un milione di anni, di cui 300.000 circa passati da quanto è emerso Homo sapiens. Abbiamo quindi almeno settecentomila anni ancora davanti a noi. Ma perché accontentarci? Essendo molto più capaci di qualsiasi altra specie vivente sulla Terra, dovremmo poter sopravvivere ben più a lungo di esse. La Terra resterà abitabile per centinaia di milioni di anni, e se ci diffondessimo nel Sistema Solare avremmo quattro miliardi di anni ancora davanti (tanti quanti ci separano dalla morte del Sole); ma se sciamassimo in tutta la galassia, o in tutto l’universo, potremmo sopravvivere per un milione di migliaia di miliardi di anni. Ma se invece un brutto giorno, come capitò ai dinosauri, un asteroide colpisse la Terra portandoci all’estinzione? Se qualche invenzione tecnologica fuori controllo arrivasse ad annientare l’intera umanità? Non è forse vero che, secondo gli esperti del Bulletin of Atomic Scientists, l’Orologio dell’Apocalisse è più vicino che mai alla mezzanotte?
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Scambiare lucciole neocapitaliste per lanterne socialiste
Ovvero, il capitalismo con caratteristiche cinesi
di Nico Maccentelli
Queste che seguono non hanno la velleità di costituire un saggio organico sulla Cina, ma semplicemente sono alcune note sparse, riflessioni nella fase in cui siamo giunti di sviluppo economico egemone di questo paese nel mondo e, nel contempo, di conflitto tra potenze capitalistiche, nell’era in cui assistiamo alla brutale e inesorabile decadenza dell’Occidente imperialista a guida USA. La Cina è una questione che dalla sinistra marxista non viene affrontata, a mio parere, con un approccio analitico che non sia di adesione acritica al nuovo papà ritrovato o, al contrario di critica libertaria che spesso si associa alla vulgata democraticista borghese della sinistra liberale. Quello che mi interessa, scevro da approcci dogmatici, è quello di parlare della Cina per comprendere quale socialismo in specifico sia realizzabile nei paesi come il nostro e, in generale, cosa sia oggi il socialismo possibile, a fronte dei fallimenti delle esperienze novecentesche. Senza trionfalismi e con tutto l’interesse dovuto a quelle esperienze che oggi lo proseguono sperimentando nella transizione problematiche nuove (mi riferisco per esempio a Cuba e al bolivarismo, che quivi non tratterò, ma che meritano un’analisi approfondita). L’argomento Cina l’ho già trattato su Carmilla qui, qui e qui, nonché in altri articoli anche del mio blog. Buona lettura.
* * * *
«Una seconda forma di questo socialismo, meno sistematica ma più pratica, ha cercato di distogliere la classe operaia da ogni moto rivoluzionario, dimostrando che ciò che le può giovare non è questo o quel cambiamento politico, ma soltanto un cambiamento delle condizioni materiali di vita, dei rapporti economici.
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Uniti nel genocidio: guerra, finanza e intelligenza artificiale in Israele
di Matteo Bortolon
“Niente accade per caso. Quando una bambina di 3 anni viene uccisa in una casa a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che non era un grosso problema ucciderla […]. Non siamo Hamas. Questi non sono razzi casuali, tutto è intenzionale. Sappiamo esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa”.
Tale agghiacciante testimonianza compare nell’inchiesta di una pubblicazione progressista israeliana costruita con colloqui con sette ex e attuali membri della intelligence israeliana. Quello che è più rilevante non è tanto il fatto che le vittime civili siano perfettamente prevedibili da parte di dell’esercito, ma il come può fare delle stime precise e le modalità con cui determina tali bersagli. E la risposta a entrambe le domande è: l’intelligenza artificiale.
In una inedita congiunzione, l’elemento militare, le aziende high-tech e alcuni enti finanziari speculativi hanno collaborato per raggiungere l’attuale massacro da parte dello Stato ebraico.
È noto come Israele abbia raggiunto una posizione ragguardevole nell’ambito della ricerca tecnologica. La zona chiamata Silicon Wadi, sede delle maggiori aziende del settore, è considerato seconda solo alla sua controparte in California; il paese vede il maggior numero di aziende tecnologiche start-up e di società quotate al NASDAQ (borsa di aziende di profilo tecnologico) al mondo, in proporzione alla sua ridotta popolazione. Dopo un famoso articolo di Wired scoppiò il caso, con la celebrazione del libro del 2009 Start-up Nation: the Story of Israel’s Economic Miracle. In esso i due autori, con una aneddotica esaltatrice di imprenditorialità di successo nel campo della ricerca tecnologica, riconducevano tale sviluppo al servizio militare e all’essere una nazione di immigrati (condizione che stimolerebbe l’inventiva e il rischio).
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Il male nel giardino di Höss. “Zona di interesse” di Jonathan Glazer
di Enrico Cattaruzza
Una domenica come tante, in fila fuori da un cinema – il più giovane in fila, nonostante l’età non più verdissima – aspettando un film di cui nulla so se non il voto altissimo su almeno due siti specializzati, e il seguente commento occhiato in una recensione: “Zona di interesse, il film di Jonathan Glazer tratto da un libro di Martin Amis, parla della banalità del male”, il concetto reso celebre dal titolo di un saggio di Hannah Arendt. Quello che dalla lettura come sempre frettolosa pare interessante è che, rispetto alla cospicua filmografia sul tema, stavolta il punto di vista non sia di una vittima né di un eroe, ma di un nazista, e nemmeno di un roboante Hitler o di un romantico Hess, ma del comandante del campo di Auschwitz, Rudolf Höss. Un tecnico, diciamo, un po’ più in alto di Eichmann, ma siamo lì.
Assidue ed estreme frequentatrici dei cinema della città sono le signore in odore o fresche di pensione, sole, con amiche o accompagnate dai riluttanti mariti, e sono senz’altro anche le più ciarliere: in attesa di comprare i biglietti, giocoforza ne ascolto i commenti mentre escono dalla proiezione precedente, sconsigliando la visione dell’opera di Glazer a noi del turno successivo: “Mai visto un film così brutto”; “Guarda, per una roba del genere non merita andare al cinema”.
Almeno cinque o sei di loro sono concordi nel bocciare senza appello quello che hanno appena visto. Un’ora e tre quarti dopo, non potrei essere più discorde.
Anzi, durante il film già comincio mentalmente a scrivere una recensione senza pericolo di spoiler, perché non c’è assolutamente nulla da spoilerare. Nemmeno è una recensione, questa cosa che mi scappa in diretta come la pipì, ma un semplice commento, una nota a margine: non si può riassumere o compendiare l’opera di Glazer, che è priva peraltro di una trama precisa, e che nemmeno indugia a disegnare personaggi compiuti.
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Italia ed Europa verso il suicidio economico: A quando la resistenza?
di Enzo Pellegrin
Qualche tempo fa, dalle pagine del quotidiano Domani, Gianluca Passarelli compiva un’impietosa fotografia della spettrale pace sociale che avvinghiava l’Italia.
I dati economici erano e sono da horror-movie, anche per le categorie sociali che sinora hanno avallato di tutto, sposando l’individualismo e l’ideologia liberale in nome del mito dell’opportunità, gioco che sinora pochissime volte ha valso la candela.
Il dato sistemico più impressionante è il crollo della produzione industriale, dato che più rappresenta lo stato dell’economia e della produzione reale, al netto della speculazione finanziaria e dei profitti speculativi dei rentiers. Ad aprile 2023 il dato precipitava al – 7,2%. Un crollo peggiore lo si era registrato solo nel luglio 2020, in piena pandemia. Del resto, a ottobre 2023, si registrava il nono mese consecutivo di calo della produzione induistriale italiana.
Sempre nell’ottobre del 2023, l’Istat decretava la brusca frenata della crescita del PIL. Se nel 2021 il rimbalzo post-pandemia attestava la crescita intorno all’8,3%, nel 2022, durante il governo Conte, si registrava ancora una crescita del 3,7%. Nel 2023, con la gestione di Draghi e Meloni, la crescita scendeva a un misero 0,7% che verrebbe cautamente confermato anche per il 2024, ma – come vedremo – con mille riserve.
Il dato che attesta come il sistema produttivo italiano abbia ingranato violentemente la retromarcia è quello sugli investimenti: Se nel 2021 e nel 2022 questi erano cresciuti rispettivamente del 20 e del 10 per cento, nel 2023 gli investimenti scendono a un misero + 0,6%, dato anche qui prudentemente solo confermato per il 2024. (1)
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Comunisti: lo spettro della frammentazione continua e l’esigenza dell’unità
di Fosco Giannini*
Di fronte allo scenario della polverizzazione del movimento comunista in Italia, ridotto a “isole” che non riescono, per mancanza di forze o per disabitudine a relazionarsi al di fuori della propria bolla, a uscire dalla loro “comfort zone”, l’impegno per l’unità è cruciale, e può trovare fondamenta solo nella presenza concreta nei luoghi di conflitto sociale e in una ritrovata compattezza culturale, politica e ideologica, nutrita da una ricerca teorica aperta e antidogmatica. Solo così si possono gettare le basi per la costruzione del tanto mancante partito comunista in Italia.
Uno spettro s’aggira tra il movimento comunista italiano: lo spettro della frammentazione compulsiva, della moltiplicazione parossistica. Sembra che non passi giorno senza che un’impercettibile parte comunista si stacchi da un’altra piccola parte e si organizzi come fronte, associazione, gruppo, sito comunista on-line. Il movimento comunista italiano, in preda a una crisi profonda e che può contare tra i sei e i settemila iscritti complessivi dei tre partiti più conosciuti (Prc, Pc, Pci), sembra poi “soffriggere” nella sua continua riapparizione, seppur molecolare, nelle città e nei paesi e, di questo passo, persino nei condomini. Persino il dissanguamento prolungato, e in corso ormai da tempo, di militanti e dirigenti che ha segnato di sé, estenuandolo, il Pc (di Rizzo, si dice) non ha trovato una strada univoca per “uscire” e riorganizzarsi, ma, a sua volta, si è ripresentato e si va ripresentando in tante forme diverse e autonome l’una dall’altra, in tanti, diversi e, uno dall’altro “indipendenti”, territori. In un quadro complessivo di feudalizzazione totale del movimento comunista italiano.
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Riscoprire Marx contro la comunicazione deviante, risorsa strategica del capitale
Salvatore Izzo intervista Luciano Vasapollo
«L’informazione e la comunicazione hanno ormai assunto un ruolo dominante sia sul terreno della produzione e dell’accumulazione sia su quello del consumo, reinventando l’impresa non solo nei suoi assetti strutturali ma come fabbrica sociale generalizzata; una fabbrica flessibile che si rigenera soprattutto nei suoi meccanismi di condizionamento di ogni struttura sociale in modo da imporre la cultura e i parametri di efficienza aziendale come valori sociali, come nuovi paradigmi del divenire sociale. E i nuovi media, il cui sviluppo prorompente è la conseguenza della ancor più incontrollabile espansione di Internet, rappresentano oggi fattori decisivi in tutti i processi economici». Lo afferma il prof. Luciano Vasapollo, esperto docente di economia dell’Università La Sapienza, in un’intervista a FarodiRoma.
«Per rispondere alla complessità dei bisogni aziendali postfordisti in un’ottica di accumulazione flessibile, la quantità e la qualità dell’informazione si trasforma dalla classica comunicazione aziendale in una comunicazione strategica sociale deviante che invade il territorio per imporre la cultura del profitto e del mercato come ultima spiaggia per l’umanità», spiega il docente, fondatore della Scuola di economia marxista decoloniale, d’ispirazione marxista, nell’ambito dell’ateneo romano, che è il più grande d’Europa.
* * * *
S.I.: Professore, è possibile analizzare con le categorie di Marx lo sviluppo imperioso dell’informazione nel mondo di oggi?
Siamo davanti a un capitalismo selvaggio che punta su un nuovo ruolo svolto dallo Stato-Impresa, da un Profit State del dominio tecno-economico con sempre più forti connotati di coercizione globale sociale.
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Cosa succede in Transnistria?
di Fabrizio Verde
Cosa succede in Transnistria? Ha fatto molto rumore a livello internazionale la richiesta di aiuto alla Russia che si è alzata da Tiraspol, capitale della Repubblica non riconosciuta. Il presidente Vadim Krasnoselsky durante il suo intervento al Congresso ha dichiarato che contro la Transnistria si sta applicando una politica di genocidio. Il riferimento è alle politiche della Moldavia miranti allo strangolamento economico, distruzione fisica di una parte del popolo, negazione della difesa legale, tentativo di imporre con la forza la lingua. "La voce dei transnistriani deve essere ascoltata. Dobbiamo parlare delle nostre libertà, dei nostri diritti, della nostra libera attività economica, del processo negoziale e, in ultima analisi, della pace in Transnistria", ha denunciato Vadim Krasnoselsky.
A tal proposito le autorità di Tiraspol hanno approvato una risoluzione dove si rileva che la Moldavia “ha essenzialmente lanciato una guerra economica contro la Transnistria, creando deliberatamente i presupposti per un deficit di bilancio multimilionario”. I deputati hanno affermato che la Moldavia sta bloccando la fornitura di medicinali e attrezzature mediche. Quindi Tiraspol chiede alla Russia di tenere conto del fatto che “più di 220mila cittadini russi hanno la residenza permanente sul territorio della Repubblica Moldava Pridnestroviana e l’esperienza positiva unica del mantenimento della pace russo sul Dniester, così come lo status di garante e mediatore nel processo negoziale” e attuare misure per proteggere la Transnistria in condizioni di crescente pressione da parte della Moldavia.
Come già riferito, la richiesta di aiuto alla Russia ha ottenuto grandissima risonanza all’estero. In passato sono stati adottati molti appelli di questo tipo e nel 2006 è stato addirittura indetto un referendum dove l’esplicito quesito era: "Sostenete il corso dell'indipendenza della Repubblica moldava di Transnistria e la successiva libera adesione della Transnistria alla Federazione Russa?".
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Guerra russo-ucraina: l’alluvione
Il “mondo Z” compie due anni
di Big Serge - bigserge.substack.com
Traduzione di Antonio Gisoldi
Mentre il calendario piomba in un altro anno e scorriamo i giorni di febbraio, gli anniversari importanti vengono evidenziati in successione. Siamo ormai al 22/02/2022 +2: due anni dal discorso di Putin sullo status storico delle regioni di Donetsk e Luganski, seguito il 24/02/2022 dall’inizio dell’operazione militare speciale e dallo spettacolare ritorno della Storia.
La natura della guerra è cambiata radicalmente dopo una fase di apertura cinetica e mobile. Con il fallimento del processo negoziale (grazie o meno a Boris Johnson), è diventato chiaro che l’unica via d’uscita dal conflitto sarebbe stata la sconfitta strategica di una delle parti da parte dell’altra. Grazie ad aiuti occidentali (sotto forma di materiale, sostegno finanziario, ISRii e supporto all’individuazione dei bersagli) che hanno consentito all’Ucraina di andare oltre la sua economia di guerra indigena che stava rapidamente andando in fumo, è diventato chiaro che questa sarebbe stata una guerra di attrito industriale, piuttosto che di manovra rapida e annientamento. La Russia ha iniziato a mobilitare risorse per questo tipo di guerra d’attrito nell’autunno del 2022, e da allora la guerra ha raggiunto la sua qualità attuale - quella di uno scontro di posizione ad alta intensità di potenza di fuoco ma relativamente statica.
La natura di questa guerra d’attrito-di posizione si presta all’ambiguità in ambito d’analisi, perché nega i segni più attraenti ed evidenti di vittoria e sconfitta che hanno a che fare coi grandi cambiamenti nel controllo del territorio. Invece, bisogna farsi bastare un’ampia varietà di analisi posizionali di tipo aneddotico, su piccola scala, e dati nebulosi, e tutto questo può essere facilmente mal interpretato o frainteso.
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Dal colonialismo sanitario ai barbari epistemici. La nuova Africa è l’Europa?
di Domenico Fiormonte
Perché scrivo questo libro? Perché condivido l’angoscia di Gramsci: “Il vecchio mondo è morto. Il nuovo è di là da venire ed è in questo chiaro-scuro che sorgono i mostri”. Il mostro fascista, nato dalle viscere della modernità occidentale. Da qui la mia domanda: che cosa offrire ai Bianchi in cambio del loro declino e delle guerre che questo annuncia? Una sola risposta: la pace. Un solo mezzo: l’amore rivoluzionario.
Houria Bouteldja
1. Colonialismo sanitario. L’Africa e il caso di Ebola
Tra il 2017 e il 2018 Helen Lauer, filosofa della scienza che lavora da trent’anni in Africa e docente all’Università di Dar es Salaam (Tanzania), ha pubblicato una serie di fondamentali ricerche che denunciano gli effetti dell’agenda sanitaria globalista sulla salute pubblica in Africa. In realtà nel cosiddetto Sud Globale si discute da anni di questi problemi, ma poco o nulla trapela all’interno dello sfinito mondo universitario europeo, per non parlare dei media mainstream. Dico subito che si tratta di studi che oggi, a due anni di distanza dalla pandemia COVID, probabilmente nessuna rivista accademica pubblicherebbe. E le ragioni appariranno chiare a breve. Le ricerche condotte da Lauer ci offrono un’efficace rappresentazione del cosiddetto colonialismo sanitario, fenomeno assai diffuso e che, come vedremo nella seconda parte, ha investito in pieno anche l’occidente. Fa da sfondo alla sua analisi il concetto di ingiustizia epistemica, cioè (molto in sintesi) quelle ingiustizie generate da un accesso diseguale ai mezzi di produzione, rappresentazione e diffusione della conoscenza. Cercherò qui di riassumere il contributo che si intitola The Importance of an African Social Epistemology to Improve Public Health and Increase Life Expectancy in Africa.
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Il capitalismo genocidiario si cela dietro la cortina della società dello spettacolo
Il suo linguaggio è divenuto finzione filmica
di Salvatore Bravo
Capitalismo genocidiario
Il capitalismo non è mai sufficientemente compreso nelle sue dinamiche distruttive e negatrici della natura umana e della vita. La sua azione globale non può che incontrarsi e scontrarsi con i limiti delle conoscenze personali e, specialmente, con le censure dirette e indirette a cui siamo sottoposti. Riorientarsi in una realtà organizzata secondo la forma del capitale mediante il “velo dell’ignoranza” è operazione non semplice. Se ci poniamo nell’ottica del cittadino medio e delle nuove generazioni possiamo ben comprendere quanto “il capitalismo dello spettacolo” riduca il pianeta a uno strumento da usare e da consumare: in tal modo la vita dei popoli e la storia del capitalismo sono obliati. Il capitalismo senza la mediazione umana della storia può continuare la sua corsa nelle comunità e negli individui; può continuare a bruciare vite e popoli e a percepirsi come “assoluto”.
Il capitalismo si autopresenta come “assoluto” e costruisce di sé una immagine ipostatizzata, in quanto coltiva l’ignoranza di sé. Le esistenze organizzate in stile “reality” consentono ai crimini del passato e del presente di perpetuarsi. Il capitalismo dello sfruttamento e genocidiario si cela dietro la cortina della società dello spettacolo. Anche il linguaggio è divenuto finzione filmica, non a caso la parola “capitalismo” è stata abilmente sostituita con le espressioni “liberale e liberista”, le quali ammiccano alla libertà. Si ha l’impressione di essere dalla parte giusta, e di vivere nella libertà: naturalmente la libertà “capitalistica” deve essere intesa come la possibilità di affermare il proprio “io” usando il mondo e riducendo ogni incontro a mezzo per accrescere l’ego-idolatria. La storia del capitalismo riportato alla sua verità storica e ai suoi crimini è paideutica per accrescere qualitativamente la crescita umana e politica delle soggettività e delle comunità.
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Raddoppiare gli errori fatali
di Piero Pagliani
la dedichiamo a tutti quelli - e sono tanti - che pur essendo testimoni di fatti importantissimi e determinanti dell'avvenire della civiltà, neanche se ne accorgono!
Enzo Jannacci, “Prete Liprando e il giudizio di Dio”
1. Neanche se ne accorgono!
Qualcuno si chiederà perché ho così poca stima, e a volte nessuna, per la maggior parte dei politici, dei media e degli “esperti”, uomini e donne, che occupano la scena italiana, europea e occidentale.
La risposta è semplice: perché non si meritano nessuna stima.
Nel 2014 alcuni deputati del neonato Movimento 5 Stelle e il compianto giornalista Giulietto Chiesa, mi chiesero di presiedere un convegno internazionale intitolato “Global Warning”, cioè “attenzione alla guerra globale”. Il convegno si tenne presso la Biblioteca del Senato della Repubblica. La tesi dei lavori era che la Nato stava preparando un grande scontro con la Russia nell'Europa orientale. Tesi che Giulietto Chiesa ribadì nei suoi tour in giro per l'Italia. Con tutte le critiche di carattere teorico e politico che io gli rivolgevo schiettamente in quegli anni, riconosco volentieri che Giulietto vedeva più lontano di tutti i suoi colleghi giornalisti, sia perché era più intelligente, sia perché conosceva la Russia e l'Europa orientale molto meglio.
Ascoltate bene questi 57 secondi: https://www.youtube.com/watch?v=sDPVIljawNU
Era esagerato? Era complottista? Giudicate voi.
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La “sinistra” alla moda
di Danilo Ruggieri
Andare controcorrente è uno dei pregi di Sarah Wagenknecht. La ormai ex leader della Linke tedesca, dopo una lunga battaglia interna, alcuni mesi fa ha rotto gli indugi e ha abbandonato insieme ad altri il partito, colpevole di una svolta liberale e cosmopolita, non più attenta alle lotte sociali, tradizionale patrimonio della storica sinistra tedesca operaista e socialdemocratica. Questa rottura è stata preceduta dalla pubblicazione in Germania nel 2021 di un suo libro (“Contro la sinistra neoliberale”) che ha fatto molto discutere e che è stato pubblicato nel maggio 2022 dai tipi di Fazi in Italia.
Va subito detto che da quando è stato scritto il libro di acqua sotto i ponti ne è passata veramente tanta.
A soli tre anni dalla sua pubblicazione uno sconvolgimento sistemico degli equilibri geopolitici ha ridisegnato le mappe dello scontro internazionale. L’inizio dell’operazione militare speciale russa in Ucraina in difesa delle popolazioni russofone del Donbass, l’estensione del conflitto alla NATO che dirige e sovraintende lo sforzo bellico ucraino, la distruzione delle linee strategiche di approvvigionamento del gas tra Russia ed Europa e la guerra di sterminio israeliana a Gaza di questi mesi con scenari di allargamento mediorientale, segnano un cambio epocale della prospettiva politica, anche interna, di quei movimenti “antisistema” che si muovono nel continente europeo. Il libro fa i conti solo in parte con gli effetti nefasti della crisi pandemica scoppiata nel 2020 e rientrata in sordina in corrispondenza con le note vicende del febbraio 2022. I tratti generali dell’analisi politica e sociale che l’autrice fa della situazione tedesca, e che si potrebbero estendere all’ Europa occidentale, vengono confermati, anzi rafforzati, osservando le posizioni assunte dalla larga parte dei ceti politici che dirigono la sinistra “progressista” liberale e “radicale”.
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Mario Draghi, la competitività europea e i nuovi Mezzogiorni
di Guglielmo Forges Davanzati*
1 – L’economia europea perde posizioni nella competizione internazionale e sperimenta, al suo interno, una costante crescita delle divergenze regionali (l’impoverimento relativo del Mezzogiorno rispetto al Nord è parte di questa dinamica).
A Mario Draghi, come è noto, è stato affidato il compito di redigere il rapporto sulla competitività europea, che verrà ultimato verosimilmente a giugno prossimo. Nel discorso dello scorso 15 febbraio all’Economic Policy Conference di Washington (durante il conferimento del premio Paul A. Volcker Lifetime Achievement Award), che va letto insieme a quello a3ll’Ecofin del 24 febbraio, ne ha resi noti i fondamentali ingredienti.
Partiamo dalla diagnosi. L’ex Governatore della BCE formula due critiche. La prima è rivolta al modello della globalizzazione sperimentato negli ultimi decenni, che avrebbe portato squilibri commerciali in un contesto di crescente partecipazione agli scambi commerciali internazionali di Paesi che avevano punti di partenza, in termini di livello di sviluppo, molto diversi.
Draghi riconosce che le delocalizzazioni prodotte dalla globalizzazione hanno considerevolmente ridotto la quota dei salari sul Pil, creando ostilità in coloro che ne sono risultati danneggiati. Così come, contrariamente alle promesse, la globalizzazione non si è associata alla diffusione dei valori orientati al rispetto delle libertà individuali e della democrazia.
La seconda critica attiene alla politica economica e da qui origina la sua proposta.
Draghi osserva correttamente che l’Unione Monetaria Europea (UME) ha puntato, per la sua crescita, su un modello trainato dalle esportazioni, in una condizione di competizione fra i Paesi membri, che risulta perdente nel lungo periodo.
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Il problema russo non è sconfiggere l’Occidente ma cosa farne dopo
Intervista a Rostislav Ishchenko* a cura di Aleksey Peskov
Questa intervista al politologo Ishchenko dà un’idea molto sorprendente su come dall’altro lato della nuova cortina di ferro si percepisca con inedite preoccupazioni l’attuale crisi sistemica occidentale, che creerà un “vuoto da riempire” e un fardello. La Russia potrebbe dover affrontare le stesse questioni che gli USA hanno affrontato al momento del crollo dell’URSS. Traduciamo un’intervista al politologo Rostislav Ishchenko che dà un’idea molto sorprendente su come dall’altro lato della nuova cortina di ferro si percepisca con inedite preoccupazioni l’attuale crisi sistemica occidentale, che creerà un “vuoto da riempire” e un fardello di responsabilità globali.
Alla data del 24 febbraio, si sono compiuti esattamente due anni dall’inizio dell’Operazione Militare Speciale (SVO). Allora sembrava a tutti che, anche se ci sarebbero state difficoltà, queste non sarebbero durate a lungo, gli aeroporti “intorno all’Ucraina” sarebbero rimasti chiusi inizialmente solo per una settimana. Si sbagliavano.
Poi intervennero i paesi occidentali, e anche lì l’orizzonte della pianificazione era calcolato in settimane, al massimo mesi: armiamo l’Ucraina, colpiamo la Russia con sanzioni, e tutto lì crollerà come un castello di carte. Ma si sbagliavano anche loro.
In due anni, la Russia ha potenziato i muscoli e allenato il cervello, mentre l’Occidente sta vivendo dissidi interni e gravi problemi economici. E a qualcuno viene l’idea, in questo momento, che ci convenga prolungare il conflitto, tipo: “aspettiamo – e l’Occidente crollerà da solo”. Sarebbe bello, giusto? Ma le speranze che, non appena i paesi occidentali si siano rotti, tutti i problemi della Russia finiscano all’istante, sono state dissipate nel corso di una conversazione con «Svobodnaya Pressa» («Stampa Libera») dal politologo, commentatore di MIA “Russia Today”, Rostislav Ishchenko…
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Stati Uniti e Cina allo scontro globale
Intervista a Raffaele Sciortino
Dal n. 6 di “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe” in uscita nei prossimi giorni pubblichiamo in anteprima questa intervista a Raffaele Sciortino.
Per l’edizione inglese, in uscita in questi giorni, ha scritto un capitolo di aggiornamento che tiene conto degli sviluppi nel frattempo intervenuti.
Gli abbiamo rivolto alcune domande che cercano di cogliere i dati essenziali del mutamento di quadro, a partire ovviamente dal conflitto Russo-Ucraino e dalla situazione in Medio Oriente.
* * * *
Collegamenti: Dopo due anni di conflitto l’Occidente collettivo sembra avviato ad un serio scacco in Ucraina, per quanto gli obiettivi che perseguiva l’Amministrazione Biden siano nel complesso raggiunti: logoramento della Russia, compattamento della Nato, subordinazione dell’Europa, postura minacciosa verso la Cina. Possiamo aspettarci una svolta da qui alle elezioni Usa?
Bella domanda. Direi di no se per svolta si intende qualcosa che possa assomigliare anche alla lontana a un serio percorso negoziale voluto e condotto dall’attore decisivo, Washington. Non solo: neppure un’eventuale vittoria di Trump porterebbe probabilmente a una svolta effettiva, semmai a qualche mossa politica dal valore simbolico. La mostruosa macchina statale statunitense si è oramai sintonizzata sulla modalità guerra – che è riduttivo definire per procura – in quel quadrante strategico.
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Un keynesiano “tecnologico”
L’economia politica di Luigi Pasinetti
di Stefano Lucarelli
L’economista italiano sviluppò la teoria di Keynes approfondendo l’importanza del progresso tecnico. E il suo contributo alla scienza economica resta fondamentale
Luigi Lodovico Pasinetti è stato uno dei più importanti economisti italiani. Il progetto teorico che ha caratterizzato il lavoro intellettuale di questo 'signore' appare molto distante dagli obiettivi di ricerca che oggi dominano nei dipartimenti di scienze economiche. Pasinetti aspirava infatti alla costruzione di un paradigma economico alternativo essenzialmente fondato sul fenomeno della produzione e del cambiamento tecnologico, in contrapposizione al paradigma prevalente basato essenzialmente sul fenomeno dello scambio e sulla scarsità delle risorse naturali1.
Nelle note che seguono cercherò di mettere a disposizione dei lettori alcuni elementi sostanziali che emergono da quei lavori di Pasinetti che, nella mia esperienza di insegnamento, rappresentano dei passaggi formativi imprescindibili2.
Come per Keynes, anche per Pasinetti i problemi economici principali che occorre risolvere in una economia monetaria di produzione sono l’incapacità a provvedere a una occupazione piena e la distribuzione iniqua della ricchezza e del reddito. Ma, a differenza di Keynes, egli non limita la sua analisi agli effetti dei cambiamenti della domanda finale sull’occupazione e sulla distribuzione della ricchezza. Pasinetti, infatti, approfondisce anche gli effetti che il progresso tecnico può avere sui principali problemi economici, nella convinzione che il processo di produzione industriale implichi una applicazione continuativa nel tempo dell’ingegno umano per l’organizzazione e il miglioramento dei processi produttivi.
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Genealogia dello Stato e del moderno potere politico
di Sandro Moiso
Carl Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, (a cura di Carlo Galli), Società editrice il Mulino, Bologna 2024, pp. 336, 29 euro
Nella cultura politica occidentale, fermamente segnata dai residui del moralismo cristiano, due sembrano ancora essere gli autori difficili da maneggiare, soprattutto a “sinistra”: Niccolò Machiavelli e Carl Schmitt. Lontani tra loro nel tempo e per collocazione politica e ideale, hanno contribuito con le loro opere, anche se il secondo era particolarmente restio a essere appaiato al primo, a fornire validi strumenti per la comprensione e la scomposizione dei meccanismi del Potere e dello Stato moderno nei loro elementi essenziali.
Inviso alla Chiesa il primo, le cui opere sono state per lunghissimo messe all’Indice, e al pensiero liberale e di sinistra il secondo, hanno avuto entrambi la capacità di mettere “scientificamente”, per quanto possa essere considerata scienza quella politica, a nudo gli snodi e le caratteristiche autentiche della gestione politica delle società organizzate intorno al modello statale.
Per Machiavelli, soprattutto nel Principe, l’elemento fondativo del poter, dello stato e della loro conquista e gestione è da ritrovarsi nella Forza ovvero nell’uso della violenza organizzata in funzione di tali fini. Per il secondo, a distanza di poco meno di cinquecento anni e dopo le rivoluzioni borghesi che hanno modificato l’assetto dinastico degli Stati moderni, si tratta, di definire gli stessi per mezzo delle categorie dell’eccezione e della decisione. O, per meglio dire ancora, dello stato di eccezione e della autorità basata sulla possibilità/necessità di decidere sullo e dello stato di eccezione. Così, nello svolgimento del discorso, chi scrive cercherà di cogliere il filo rosso che lega il ragionamento novecentesco di Schmitt a quello del cinquecentesco pensiero del teorico politico fiorentino.
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G7 in Italia: il nostro futuro nella gabbia digitale passa anche da Trento
di Konrad Nobile
L’implementazione dell’intelligenza artificiale e la sua applicazione nei più disparati campi dell’attività umana pare essere una ghiotta e desiderabile opportunità, talvolta una necessità, che il mondo deve seguire per il proprio bene e il progresso generale. Almeno questo è quello che sostiene una folta schiera di santoni televisivi, eminenti accademici, politici, scienziati e ricchi imprenditori.
“I rischi sono grandi, ma ne vale la pena”, ci dicono mentre la nuova intelligenza viene, passo dopo passo, sdoganata e data in piccole dosi alle masse.
E così, se Israele sfrutta nientemeno che un’intelligenza artificiale per aiutarsi nella sua guerra genocida (1), le industrie “civili” iniziano a sfornare nuovi smartphone integrati con l’IA e sempre più persone si cimentano nell’uso di sistemi come “ChatGPT” per generare testi o immagini, per trovare risposte o addirittura per avventurarsi in piccole truffe, come per esempio “scrivere” libri da rivendere in rete.
Alcune resistenze sono già state vinte, altre se ne vinceranno nel tempo e, pian piano, volenti o nolenti l’IA entrerà nelle nostre case, nelle nostre tasche e nelle nostre vite (e, chissà, forse pure nei nostri corpi), in un processo analogo a quello fatto a suo tempo da internet e dal digitale.
L’era dell’intelligenza artificiale è però solo ai suoi albori e la sua regolamentazione e strutturazione definitiva deve ancora essere messa a punto. Il tema di questa nuova frontiera è dunque centrale in tutti gli attuali summit internazionali e nei grandi vertici intergovernativi.
L’IA è stata addirittura l’argomento cardine dell’ultimo Forum Economico Globale e, tra i vari incontri del G7, che quest’anno vede spettare la presidenza all’Italia, ve ne sarà uno tutto dedicato a tale questione.
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La fiducia nelle istituzioni e i dividendi di guerra
di Fabio Vighi
‘La morte dell’Occidente non ci ha privato proprio di nulla di vivo ed essenziale e la nostalgia è quindi fuori questione.’ (Giorgio Agamben)
Anche se quasi nessuno lo vuole ammettere, il nostro “sistema” è obsoleto, e per questo si sta trasformando in “sistema chiuso”, ovvero totalitario. È altrettanto evidente che i pochi che continuano a trarre vantaggio materiale dal sistema capitalistico – il famigerato 0,1% – sono disposti a tutto pur di prolungarne l’obsoleta esistenza. Alla radice, il capitalismo contemporaneo funziona in modo molto semplice: si emette debito da una porta e lo si riacquista da un’altra grazie all’emissione di nuovo debito; un loop all’apparenza inattaccabile da cui origina la maggior parte dei fenomeni distruttivi con cui ci troviamo a convivere.
Gli esecutori del meccanismo sono una classe di funzionari-profittatori il cui principale tratto psicologico è la psicopatia. Sono talmente devoti al meccanismo da esserne diventati delle estensioni – come automi, lavorano indefessamente per il meccanismo, senza rimorso alcuno per la devastazione di vita umana che dispensa. La dimensione psicopatica (disinibita, manipolatoria, e criminosamente antisociale) non è però una prerogativa esclusiva della cricca finanziaria transnazionale, ma si estende a macchia d’olio sia sulla casta politico-istituzionale (dai vertici dei governi agli amministratori locali), che sull’apparato cosiddetto intellettuale (esperti, giornalisti, scrittori, filosofi, artisti, nani e ballerine). In altre parole, la mediazione politico-culturale della realtà è oggi interamente mediata dal meccanismo stesso. Chi entra nel sistema non solo deve aprioristicamente accettarne le regole ma, ipso facto, ne assume lo specifico carattere psicopatologico. Così, la folle oggettività capitalistica (il suo spietato congegno riproduttivo) diventa indistinguibile dal soggetto che lo rappresenta.
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Tempesta e bonaccia
di Gianni Giovannelli
Open pathway trough the slow sad sail
Trough wide to the wind the gates to the wandering boat
For my voyage to begin to the end of my wound
(Dylan Thomas)
(Apri un varco nella lenta, nella lugubre vela
Schiudi al vento le porte del vascello vagante
Perché inizi il mio viaggio verso la fine delle mie ferite)
(trad. Ariodante Marianni)
La guerra prende piede, cresce giorno dopo giorno, una vera e propria tempesta che non lascia intravedere momenti di tregua. In Ucraina non è solo un conflitto di trincea, uno scontro fra soldati per la conquista di aree territoriali e per la distruzione delle risorse del nemico. Non c’è dubbio che sia anche questo, come non c’è dubbio che al fronte muoiano, accanto ai militari di professione, migliaia e migliaia di soggetti rastrellati, costretti a indossare la divisa, o, anche, volontari vittime della propaganda nazionalista. Però non basta. Piovono bombe lanciate dai droni, cadono missili, la strage di civili prosegue senza sosta. I fabbricanti di armi si arricchiscono, godono di scandalose agevolazioni fiscali, vengono lautamente pagati con il denaro sottratto alla sanità, all’istruzione, alle pensioni, ai resti di welfare eroso. L’opposizione alla guerra, anche se proposta senza foga o quasi sottovoce, viene immediatamente equiparata a tradimento, diserzione, crimine contro le istituzioni. La chiamata alle armi è contagiosa. A Gaza ha preso la forma del massacro. Poco importa la qualificazione tecnico-giuridica, se si tratti di genocidio o meno. Rimane una carneficina, con le immagini di soldati felici di uccidere, consuete durante ogni strage della popolazione consumata da un esercito occupante, incitato dai comandanti a rimuovere ogni forma di scrupolo morale.
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Eric Gobetti: La storia calpestata, dalle Foibe in poi
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E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin
Qui è possibile scaricare l'intero volume in formato PDF
A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
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A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
Qui il volume in formato PDF
Luca Busca: La scienza negata
Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung
Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare
Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
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Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
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Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto
