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Lucidità e tremore di Benedetto XVI, l’Inattuale
Eredità del “Papa della scelta”, che ha detto cose che andavano dette
di Gaspare Nevola
Ci sono molti che si dolgono della divina provvidenza perché lasciò peccare Adamo – sciocchi! Quando Dio gli diede la ragione, gli diede la libertà di scegliere, perché ragione non è altro che scelta, se no sarebbe stato solo un automa, un Adamo come appare nei teatri delle marionette
(John Milton, Areopagitica, 1644)
1. Ratzinger, il Papa della “scelta” e le sfide dell’iper o post modernità
La storia ricorderà Benedetto XVI come il Papa della clamorosa e inedita “rinuncia” di un pontefice al magistero pietrino e come il primo “Papa emerito” (forse destinato a restare unico). Il suo dell’11 febbraio del 2013 fu un gesto epocale: “inaudito”, senza precedenti. In un sol colpo, a saperlo leggere, quel gesto ha secolarizzato in profondità la Chiesa di Roma, forse più di ogni enciclica, tanto che mezzi di comunicazione ed esperti non sono riusciti a trovare la parola per definirlo. “Dimissioni”? No, perché non esiste una figura (terrena) alla quale un Papa possa inoltrarle: il Papa risponde solo al Signore Creatore. Il modo più appropriato per definire un simile gesto rimanda alla parola “scelta”. Una scelta maturata in dialogo con Dio e con la propria coscienza: la “scelta di Benedetto”. Questa la lezione.
Con quel gesto, annunciato urbi et orbi, il mondo (cristiano e non) apprende che anche un Papa può scegliere e scegliere, nella fattispecie, di rinunciare alla sua carica istituzionale (una lezione su cui molti dovrebbero riflettere). Eppure, per quasi un decennio quell’evento è rimasto a luci spente, nella dimenticanza dell’opinione pubblica.
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I dieci anni che sconvolgeranno il mondo? Prima parte
Appunti per una nuova teoria dell’imperialismo
di Raffaele Sciortino
Sullo sfondo della guerra in Ucraina e della recessione economica globale, l’urto possente che segnerà il prossimo futuro e sta già rimodellando il nostro presente: lo scontro tra Stati Uniti e Cina.
È su questo cambiamento di fase che, sabato 3 dicembre, abbiamo voluto ragionare con Raffaele Sciortino a Modena, per costruire un punto di vista e un’analisi approfondita che non si trovano nelle aule universitarie, sui podcast di Dario Fabbri o tra le infografiche di Instagram. Allargando il campo sull’epoca dei torbidi e di caos crescente che avevamo già cominciato a decifrare nel Mondo di domani, nella precedente iniziativa con Raf e Silvano Cacciari, di cui avevamo già riportato gli interventi su questo blog.
È questo scontro, oggi, il nodo cruciale del sistema-mondo capitalistico, imperniato su una globalizzazione giunta a un punto di non ritorno, tra equazioni impossibili e necessità di rilancio. Un conflitto che non si limit_a alle sfere alte della politica e dell’economia, ma inciderà sempre di più nella vita quotidiana di milioni di persone, e non in modo secondario a queste latitudini.
Che forma prenderà il caos internazionale da un punto di vista di classe? Da quali contraddizioni strutturali si darà il senso di marcia dello scontro? Quali scenari si apriranno per il ritorno del conflitto sociale?
«Gli dèi della fortuna favoriscono solo chi si prepara…», si chiude così il libro che abbiamo voluto presentare. Pertanto, partendo da queste domande, ma soprattutto da questa indicazione di metodo, pubblichiamo in tre puntate il ricco intervento e il proficuo dibattito della presentazione di Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenza, ultima, preziosa e non semplice fatica di Raffaele Sciortino. In questo prima tranche, un’introduzione alla crisi della globalizzazione capitalistica a trazione americana, sviluppata sul dollaro e sul ruolo di ordine/disordine di Washington nel sistema-mondo, che traccia fin da ora qualche appunto per una nuova, e necessaria, teoria dell’imperialismo ancora da scrivere.
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Sulla crisi del movimento comunista in Italia
di Carlo Formenti
Un anno e mezzo fa (maggio 2021) spiegavo su questa pagina le ragioni per cui, dopo qualche decennio in cui, pur non avendo mai smesso di professarmi comunista, non ho svolto militanza attiva, sentivo l'esigenza di impegnarmi concretamente in un progetto politico. A sollecitare tale scelta, scrivevo, era lo spettacolo degli effetti che quarant'anni di controrivoluzione liberale hanno prodotto in termini di degrado della qualità della vita e dei livelli di coscienza civile e politica di miliardi di esseri umani. Dopodiché esprimevo la convinzione che, per cambiare le cose , non occorresse ricostruire una "sinistra", termine che ha perso ogni valenza positiva agli occhi delle masse popolari, ma rilanciare l'obiettivo del superamento della società capitalista verso il socialismo.
Nello stesso post analizzavo le ragioni del fallimento delle esperienze ascrivibili all'area dei populismi e sovranismi di sinistra, un'area che, per motivi che ho descritto in alcuni miei libri, mi era parsa più vitale delle formazioni neo/post comuniste residuate dal tracollo del PCI prima e di Rifondazione Comunista poi (1). Infine, interrogandomi su quali requisiti minimi avrebbe a mio avviso dovuto avere una formazione politica all'altezza delle sfide del nostro tempo, ne elencavo cinque:
1) un forte impegno nella ricostruzione dell’unità del proletariato distrutta da decenni di guerra di classe dall’alto, a partire dal lavoro teorico di ridefinizione del concetto stesso di classe finalizzato ad analizzare le nuove forme dell’oppressione e dello sfruttamento capitalistici, ma soprattutto non fine a sé stesso ma alla ricostruzione del partito di classe;
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Prefazione a “La teoria generale del diritto e il marxismo”
di Giso Amendola
Pubblichiamo la nuova prefazione di Giso Amendola che accompagna la ristampa della Teoria generale del diritto e il marxismo di E.B. Pašukanis. Il volume è uscito nella collana filorosso per le edizioni Pgreco, che sta riportando in libreria molti classici del marxismo da tempo non più disponibili. Da questa collana abbiamo pubblicato anche la nuova prefazione di Toni Negri a Stato e Rivoluzione di V.I. Lenin
1. Il diritto in transizione
La Teoria generale del diritto e il marxismo, che torna oggi disponibile alla lettura dopo essere stato a lungo testo amato e citato solo dal ristretto gruppo degli interessati alla critica marxista del diritto, è un testo per molti aspetti “datato”. Presentato nel 1923 all’Accademia delle scienze, e pubblicato nel 1924, è attraversato dal suo rapporto specifico con una precisa fase della Rivoluzione sovietica. Il 1924 è l’anno della morte di Lenin e dell’ascesa di Stalin. Tre anni prima, nel 1921, era iniziata la Nep, la Nuova Politica Economica, e con essa il tentativo leniniano di rivitalizzare spazi di mercato e di impresa all’interno del processo che si era aperto con la Rivoluzione. L’apparizione in questo anno decisivo segna in qualche modo il destino di questa Teoria generale: un testo che aspira a collocarsi a un alto livello di astrazione (astrazione del resto è una parola chiave di tutta l’impresa di Pašukanis) e, allo stesso tempo, è attraversato da cima a fondo dalla precisa contingenza postrivoluzionaria in cui nasce[1].
La stessa vita di Pašukanis esprime, portandola sino alla tragedia, questa tensione tra intensità dell’impegno teorico e il coinvolgimento intenso nelle vicende storiche postrivoluzionarie. Pašukanis è decisamente impegnato nella costruzione degli strumenti giuridici postrivoluzionari. Allo stesso tempo, proprio le posizioni elaborate negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione, ne segneranno, nonostante tutti i suoi ripetuti tentativi di riposizionamento, la sorte personale negli anni del consolidamento dello stalinismo, sino a scomparire nel 1937 nel gorgo delle purghe staliniane.
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Il marxismo secondo Bloch, una mappa del mondo che contiene il paese Utopia
di Fabio Ciabatti
Ernst Bloch, Speranza e Utopia. Conversazioni 1964-1975, Mimesis, Milano 2022, pp. 142, € 15,81
“Rompere l’assedio, tentare il futuro” è uno degli slogan scelti dal collettivo di fabbrica della GKN, impegnato nel difficile tentativo di salvare 300 posti di lavoro riconvertendo il sito produttivo in uno stabilimento “pubblico e socialmente integrato”. “Quanto stiamo tentando – sostengono i lavoratori della fabbrica fiorentina – è completamente nuovo e al contempo affonda pienamente le radici nella storia di questo nostro territorio”. L’accostamento potrebbe apparire eccessivo, ma in queste parole sembra di ascoltare la lontana eco del “principio speranza” di Ernst Bloch. Per il filosofo tedesco, infatti, il futuro autentico, l’avvenire propriamente utopico, è ciò che non è accaduto mai e in alcun luogo. Allo stesso tempo, “non tutto ciò che è scomparso è ciarpame, perché c’è del futuro nel passato, qualcosa che non è stato liquidato, che ci è dato in eredità”.1
Bisogna fare attenzione, però, perché in questa duplicità si apre anche lo sciagurato spazio per un futuro inautentico, quello rappresentato, per esempio, dalla traboccante retorica del “Führer che ci conduce a nuove imprese”; quello che si spaccia per un nuovo inizio ma risale fino alla notte dei tempi per riscoprire una patria concepita come “sangue e suolo”. In realtà, la vera patria è un luogo dove nessuno è mai stato, ma che dobbiamo cercare di raggiungere, ammesso che si intenda la categoria di Heimat nella sua vecchia accezione filosofica e mistica: “essere a casa”, trovarsi finalmente in un posto in cui cessa l’alienazione e gli oggetti non sono più estranei, ma prossimi al soggetto.
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Fusione – e confusione – nucleare
di Angelo Baracca e Giorgio Ferrari
Una campagna di stampa a livello internazionale ha esaltato l’esperimento fatto negli Stati Uniti verso la realizzazione delle fusione nucleare controllata, un sogno (una promessa) inseguito fin dai primi passi della tecnologia nucleare negli anni ’40-’50 del secolo scorso: periodicamente ogni decina d’anni veniva annunciato che la realizzazione sarebbe stata vicina.
Ma oggi questo pomposo annuncio richiede molte precisazioni e distinguo, che inevitabilmente sfuggono a chi è a digiuno di queste cose.
Fusione a confinamento inerziale, una scelta militare
Detto in parole semplici la realizzazione della fusione nucleare di nuclei leggeri (in un certo senso l’opposto della fissione di nuclei pesanti) richiede di riscaldare un plasma, tipicamente di deuterio e trizio, a milioni di gradi in modo che le energie cinetiche dei nuclei superino le barriere di repulsione elettrica.
La reazione di fusione nucleare è stata realizzata già nel 1949, ma in modo esplosivo; vale a dire nelle bombe termonucleari nelle quali un dispositivo primario a fissione genera la temperatura necessaria ad innescare un dispositivo secondario a fusione.
Da quel tempo è iniziata la ricerca per realizzare la fusione nucleare in modo controllato (non esplosivo) a scopi pacifici, ricerca che oggi si concentra su due metodi molto diversi: il confinamento magnetico di un “plasma” ottenuto dalla fusione di Deuterio e Trizio (DT) in macchine di grandi dimensioni del tipo Tokamak (l’esperimento più avanzato è l’impianto ITER, in costruzione a Cadarache in Francia) e il confinamento inerziale (FCI), concentrando su un corpo grande quanto un granello di pepe (pellet), composto sempre da D e T, enormi energie, tipicamente generate da superlaser, che comprimano e riscaldino il DT a milioni di gradi innescandone la fusione nuclearei.
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Il patto suicida
Lettere al futuro n. 8
di Marino Badiale
1. Il patto sociale nelle società premoderne e nella modernità.
In questo scritto espongo alcune riflessioni sulla situazione dello “spirito del tempo”. Il punto di partenza è la convinzione che la società attuale sia indirizzata verso un rovinoso crollo di civiltà, che sarà causato dal concorrere di una serie di crisi concomitanti, fra le quali la più significativa in questo momento è la crisi climatica. Ho argomentato tale mia convinzione in interventi passati [1] e non mi soffermerò su di essa in questo scritto, che è piuttosto dedicato ad esaminare le conseguenze di questa situazione sul piano della cultura e delle ideologie.
Il punto di partenza è una considerazione del tutto generale (e piuttosto banale): in ogni società umana che presenti un gruppo sociale dominante e uno o più gruppi sociali subalterni, esiste una qualche forma di “patto sociale”, non sempre chiaramente esplicitato, per il quale i ceti subalterni accettano il dominio dei ceti dominanti. Nessun dominio stabile può basarsi esclusivamente sulla forza bruta, ma deve prevedere un momento nel quale le istanze dei ceti subalterni sono considerate e almeno parzialmente soddisfatte; ovviamente questo avviene entro limiti ben precisi, compatibilmente cioè con la perpetuazione del potere e dei privilegi dei ceti dominanti [2]. Naturalmente, niente garantisce che il patto sociale funzioni: può succedere che i ceti dominanti falliscano nel tener fede al patto, per incapacità propria o per cause di forza maggiore (disastri naturali, sconfitte militari). Ma in tal caso il loro dominio è messo seriamente in pericolo, e se non viene ripristinato e reso storicamente efficace un patto sociale soddisfacente, i ceti dominanti vengono abbattuti e sostituiti da altri ceti dominanti.
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Sraffa, Marx e la primavera
di Paolo Di Marco
1- il quadrato magico
Il testo di Sraffa che oggi compare, l’ultimo delle Lezioni, completa il quadro della critica dei fondamenti della teoria economica: quadro in tutti i sensi, dato che abbiamo l’articolo di Sraffa del 26, queste Lezioni, Keynes visto attraverso gli occhi di Anna Carabelli nella edizione completa delle opere, e infine Graeber col suo ‘Debito, gli ultimi 5000 anni’.
Da Sraffa vengono tre elementi di analisi della teoria marginalista: il primo (nell’articolo del 26) è che non necessariamente c’è un solo punto d’incontro tra la curve di domanda ed offerta, quindi un punto di equilibrio non è determinato con certezza, e con esso un saggio del profitto; il secondo che in generale tutte le curve che formano la parte analitica della teoria sono arbitrarie e provengono da sistemi di equazioni indeterminati; il terzo che l’ambito in cui possono avere applicazione pratica è ristretto a pochi casi marginali. Il tutto accompagnato dall’osservazione che la riscoperta della ‘economia volgare’ da parte dei marginalisti e la loro fortuna appare dovuta più alla voglia di abbandonare la teoria classica e con essa l’imbarazzante fardello del valore-lavoro, nonché lo spettro socialista che ad esso si era accompagnato, che non a meriti intrinseci.
Conviene aggiungere una nota matematica che non è sempre palese: quando si dice che in una teoria economica un sistema è sovradeterminato (come nel caso di Marx che aggiunge con l’uguaglianza somma-prezzi=somma-valori una condizione di troppo) o è indeterminato (come nel caso di Marshall- e con lui tutti i marginalisti per l’insieme delle curve di produzione) diciamo una cosa molto precisa: il sistema è sbagliato. Non è una soluzione. Se fosse uno studente che si presenta col compitino fatto gli diremmo: torna a casa e rifai da capo.
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La verità sulla guerra russo-ucraina
di Carlo Formenti
In un mondo ideale, quando scoppia una guerra come quella oggi in atto fra Russia e Ucraina, che minaccia di avere gravi conseguenze non solo per le popolazioni coinvolte ma per l'intero pianeta, la prima preoccupazione di chi è in grado - per cultura e competenze - di analizzare le cause reali del conflitto, dovrebbe essere quella di trasmettere le proprie conoscenze al largo pubblico dei non addetti, non solo per aiutarlo a farsi un'opinione corretta su quanto sta accadendo, ma anche per stimolarne l'impegno a fare il possibile, se non per porre fine alla strage, almeno per limitare i danni. Purtroppo non viviamo in un mondo ideale, bensì nell'Italia attuale, cioè in un Paese inglobato in due blocchi economici, politici e militari, l'Unione Europea e la Nato, asserviti agli interessi di una superpotenza come gli Stati Uniti che, oltre a essere la prima responsabile della guerra, è anche determinata a fare sì che essa si prolunghi il più a lungo possibile, nella speranza di rallentare il proprio declino, danneggiando non solo una delle nazioni belligeranti, quella Russia che assieme alla Cina è la sua maggiore controparte geopolitica, ma anche gli "alleati" europei, i quali, dovendo pagare un prezzo elevato ove il conflitto si prolungasse, vedrebbero ridursi la propria capacità competitiva nell'ambito del blocco occidentale. Non stupisce quindi che le classi intellettuali sopra evocate - giornalisti, accademici, esperti di storia, politica ed economia, ecc. -, invece di svolgere un ruolo di informazione obiettiva sui fatti e di analisi scientifica delle loro cause, siano impegnati in una forsennata campagna propagandistica contro una delle parti belligeranti, presentandola come l'unica responsabile della guerra, se non come l'incarnazione del male assoluto.
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Annuntio vobis gaudium magnum: habemus papam!*
Ratzinger, a Roma via Friburgo
di Roberto Fineschi
1. Il “pastore tedesco”
L’evento è stato mondiale, oggi più che in passato. L’esposizione mediatica cui la Chiesa Cattolica (d’ora in poi CC) è stata sottoposta sotto Giovanni Paolo II ha reso l’elezione pontificia un fatto più internazionale che mai. Chi gode della parabola o delle fibre ottiche avrà ammirato in varie lingue – dall’inglese al francese, passando per il tedesco – agonia e funerali del fu regnante, preparativi ed elezione del nuovo: una vera e propria ubriacatura eterea.
Della concezione politico-sociale di fondo – o della Dottrina Sociale che dir si voglia – della CC si è già detto in passato (vedi Contraddizione, n. 77), vediamo che riflessioni si possono fare oggi a proposito del nuovo pontefice: Joseph Ratzinger. Il “pastore tedesco”, come è stato beffardamente ma efficacemente battezzato dal quotidiano “Il manifesto”, ha sfatato la consuetudine per cui chi entra papa esce cardinale; dato per vincente dai bookmaker, ha pagato poco chi ha scommesso su di lui: entrato papa è uscito papa col nome di Benedetto XVI.
Nato in Baviera nel 1927 in una famiglia profondamente cattolica da padre gendarme, non è tuttavia filo-nazista – così si legge nella sua autobiografia1 – anzi vive con apprensione l’entrata in guerra e la politica espansionistica hitleriana. Non ancora diciottenne, Joseph prenderà parte al conflitto nella contraerea – ma lui non spara – quando l’esercito tedesco era arrivato ad arruolare perfino i ragazzini. Studia teologia e si fa la fama di “liberal”, tanto che, giovanissimo, partecipa al Concilio Vaticano II come consulente del cardinal-arcivescovo di Colonia Frings; i buontemponi in rosso lo battezzano bonariamente il “teenager” in quanto, allora poco più che trentenne, tale sembrava in mezzo a tante cariatidi.
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Il fascismo del XXI Secolo
di Fulvio Bellini*
La struttura in crisi: lo Stato in mano alla sola borghesia
In svariati passaggi delle opere di Karl Marx si parla di struttura e sovrastruttura, e in premessa del presente articolo, si desidera ricordare che questi concetti sono attuali, che abbracciano ideologie e politica, e che spiegano il titolo di questo scritto. Come noto, la descrizione sintetica ma limpida di struttura e sovrastruttura il filosofo di Treviri ce la pone nella prefazione del testo Per la critica dell’economia politica del 1859: “Nella produzione sociale delle loro esistenze, gli uomini inevitabilmente entrano in relazioni definite, che sono indipendenti dalle loro volontà, in particolare relazioni produttive appropriate ad un dato stadio nello sviluppo delle loro forze materiali di produzione. La totalità di queste relazioni di produzione costituisce la struttura della società, il vero fondamento, su cui sorge una sovrastruttura politica e sociale e a cui corrispondono forme definite di coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo generale di vita sociale, politica e intellettuale. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. Ad un certo stadio di sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in conflitto con le esistenti relazioni di produzione o – ciò esprime meramente la stessa cosa in termini legali – con le relazioni di proprietà nel cui tessuto esse hanno operato sin allora. Da forme di sviluppo delle forze produttive, queste relazioni diventano altrettanti impedimenti per le stesse. A quel punto inizia un’era di rivoluzione sociale. I cambiamenti nella base economica portano prima o dopo alla trasformazione dell’intera immensa sovrastruttura”.
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Il nodo politico dell’inflazione
di Claudio Gnesutta, Matteo Lucchese
Di fronte all’inflazione italiana, le politiche monetarie restrittive sono inadeguate, le questioni chiave sono il conflitto distributivo prodotto dall’aumento dei prezzi, le possibili politiche dei redditi, gli spazi per una politica che metta al centro la difesa dei redditi reali
Dalla seconda metà del 2021 l’economia italiana, come le altre economie occidentali, è stata colpita da un grave shock inflazionistico, partito dall’aumento dei prezzi dell’energia importata. Le tensioni che sono state messe in moto hanno effetti profondi – nel breve come nel medio periodo – sull’economia del Paese. Per comprenderne la portata e gli effetti occorre guardare ai fenomeni inflativi come processi di riaggiustamento (economico e sociale) in seguito ad uno shock dovuto all’improvviso trasferimento di reddito reale dall’interno all’estero, che si esaurisce quando l’assetto distribuivo (e produttivo) interno risulta socialmente “accettabile” nelle nuove condizioni interne e internazionali.
I termini della questione.
Lo shock inflazionistico che stiamo osservando origina dall’esterno del sistema economico nazionale – è dovuto essenzialmente all’aumento dei prezzi dei beni energetici importati, e solo in seconda battuta, di quelli alimentari (i dati sull’inflazione sono presentati nell’articolo di Giuseppe Simone e Mario Pianta https://sbilanciamoci.info/inflazione-e-salari-i-dati-e-le-politiche/). Si tratta cioè di uno shock che ha inizialmente aumentato i costi di produzione delle imprese, lasciando immutato il livello dei redditi interni. Sul piano macroeconomico, l’aumento del prezzo dei beni energetici implica – a parità di energia importata – un trasferimento netto di reddito reale dai paesi che subiscono l’aumento a quelli che forniscono la materia prima; un flusso di trasferimenti che si ripete fin tanto che dura la maggiore dipendenza del paese da tali importazioni.
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Ernst Bloch: perché ci si alza la mattina?
di Rocco Ronchi
Ci sono delle buone ragioni per sperare? Oppure, detto più prosaicamente ma anche in modo maledettamente più concreto, “perché ci si alza la mattina?”. Se nella notte ci si è rigirati insonni nel letto era proprio perché quella domanda non sembrava trovare risposta. La speranza in certe ore notturne è proprio come morta. “Perché ci si alza allora la mattina?” chiede il filosofo Ernst Bloch nella sua conversazione del 1964 con Theodor W. Adorno, da lui chiamato amichevolmente Teddy (Qualcosa manca… sulla contraddizione dell’anelito utopico contenuta in Ernst Bloch, Speranza e utopia, Conversazioni 1964-1975, a cura di R. Traub e H. Wieser, Mimesis, Milano 2022). Quali sono le radici metafisiche di quella folle speranza in un giorno migliore senza la quale l’esistenza sarebbe intollerabile? Il curatore italiano del libro Eliano Zigiotto, come Laura Boella, che lo correda con una breve e intensa post-fazione (dal titolo: Il coraggio di sperare e di disperare) insistono nel “datare” queste conversazioni: sono, ripetono, di cinquanta – sessanta anni fa quando il mondo era profondamente diverso, quando la guerra fredda imperava e la filosofia era praticata come atto critico e sovversivo.
Bloch e Adorno (per non parlare di György Lukács, compagno di studi filosofici del giovane Ernst, anche lui fugacemente presente in questi dialoghi) erano filosofi che nell’hegelo-marxismo avevano il loro orizzonte di riferimento teorico e nel socialismo quello pratico. Le loro strade certo divergono, anche drammaticamente, ma tutti condividono la speranza in una trasformazione radicale dello stato di cose, anzi il loro dissidio nasce proprio dai diversi modi in cui questa comune speranza può essere declinata.
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Teologia e filosofia per studenti della scuola dell’obbligo
Considerazioni su Joseph Ratzinger, Umberto Eco, Vito Mancuso e Telmo Pievani
di Costanzo Preve
Con il solito ritardo, pubblico questo saggio dell’ottimo Costanzo Preve
Umberto Eco ha concesso un’intervista al giornale tedesco Berliner Zeitung del 19/9/2011. Cito dal virgolettato riportato da “Repubblica”, 20/9/2011. Afferma Eco:
“Ratzinger non è un grande filosofo, né un grande teologo, anche se generalmente viene rappresentato come tale. Le sue polemiche, la sua lotta contro il relativismo sono, a mio avviso, semplicemente molto grossolane, e nemmeno uno studente della scuola dell’obbligo le formulerebbe come lui. La sua formazione filosofica è estremamente debole. In sei mesi, potrei organizzare io stesso un seminario sul tema del relativismo. Si può stare certi che alla fine presenterei almeno venti posizioni filosofiche differenti. Metterle tutte insieme come fa papa Benedetto XVI, come se fossero una posizione unitaria, è estremamente naif”.
Ho conosciuto molti anni fa Umberto Eco in un seminario residenziale dei gesuiti all’Aloysianum di Gallarate. Era esattamente quello che sembra: un brillante e superficiale retore, che supplisce alla mancanza di profondità con un fuoco d’artificio di erudizione. Ma qui siamo alla vera e propria “boria dei dotti” di cui parla Vico (sia pure in un altro contesto), per cui persino Ratzinger è sottoposto alla correzione delle tesine con matita rossa e blu.
Ho superato purtroppo da tempo l’età della scuola dell’obbligo. Ma voglio dire la mia. Affronterò prima il tema della teologia, e poi quello della filosofia. Dico subito che per me Ratzinger è un filosofo di primo livello, del tutto indipendentemente dal suo ruolo di papa e dal fatto che personalmente non sono in alcun modo una pecorella del suo gregge.
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Euroatlantismo. Come l’Occidente va alla guerra
di Giacomo Simoncelli
Quasi due mesi fa è stato pubblicato il 2023 Index of U.S. Military Strenght del think tank Heritage Foundation, istituto molto vicino ai Repubblicani al punto da dedicare il sostanzioso studio al senatore dell’Oklahoma James M. Inhofe.
Non è uno dei nomi più conosciuti al di qua dell’Atlantico, eppure Inhofe è dalla fine del 2017 uno dei più importanti esponenti dello United States Senate Committee on Armed Services, poco dopo ha avuto un ruolo chiave nel promuovere lo stanziamento record di 716 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2019 del Pentagono e da anni è indicato da GovTrack.us – piattaforma nata con l’intento di rendere più trasparente l’attività e la composizione delle camere statunitensi – come tra i membri più conservatori del Congresso, date anche le sue posizioni da negazionista del cambiamento climatico.
Questo per chiarire le idee sull’orientamento politico dell’Heritage Foundation.
Torniamo appunto all’Index. Arrivato alla sua nona edizione, rappresenta una fonte di informazioni straordinaria non solo per conoscere in dettaglio le linee strategiche che guidano gli USA, ma – se messo in relazione con gli indirizzi degli altri attori che in un modo o nell’altro stanno facendo emergere un mondo multipolare – diventa quasi uno strumento di formazione politica, in una fase in cui lo stallo della competizione globale si è rotto.
Questo articolo infatti nasce dalla necessità di indagare la configurazione concreta che sul piano militare l’imperialismo europeo in costruzione potrebbe assumere, con un salto di qualità sospinto dalla guerra in Ucraina, per meglio sapere come e dove combatterla.
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“Teologia politica e diritto” di Geminello Preterossi. Un libro “più moderno di ogni moderno”
di Carlo Magnani
Teologia politica e diritto è il titolo del libro di Geminello Preterossi uscito per i tipi di Laterza nell’ottobre del 2022. Si tratta di un testo importante, che rappresenta forse una epitome del lungo e apprezzato lavoro di ricerca che l’Autore ha inaugurato con la monografia Carl Schmitt e la tradizione moderna nella metà degli anni Novanta. I due ambiti tematici indicati nel sobrio titolo, cioè la teologia politica e il diritto, costituiscono infatti la materia viva su cui Preterossi riflette da sempre, ma in questa circostanza si registra un salto, che consiste nella intensificazione della loro esposizione alla luce di quel magma filosofico che chiamiamo ancora il Moderno. Siamo costretti ad essere parte del Moderno, anche nostro malgrado, nonostante le mode culturali, nonostante i vari prefissi “post” che vorrebbero spingerci verso un ineffabile “oltre”. Il messaggio che ci giunge da queste pagine è che per comprendere la dimensione politico-giuridica bisogna confrontarsi con tutta la tradizione moderna, che è quella che parte da Cartesio (nella metafisica) e Hobbes (nelle scienze politiche e giuridiche) per giungere sino ai nostri giorni.
Il rapporto che Preterossi allaccia con questa trazione è passionale e coinvolgente, riprodotto in una prosa che è al contempo misurata e accalorata, precisa e debordante. Non si tratta affatto di un testo facile, tantomeno da recensire, anzi, presenta una complessità notevole, necessitando una assimilazione lenta e meditata. Come avviene in tutti i grandi libri, al centro c’è una sola grande idea che trova sviluppo in variegati pensieri, una sola grande questione che viene approfondita con la forza con cui si deve maneggiare la pietra portante che dovrà reggere tutto l’edificio.
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La Questione Tedesca
di Gaetano Colonna
La Germania è oggi spinta ad assumere ancora una volta un ruolo militare. Dapprima con un discorso davanti al Parlamento tedesco il 27 febbraio 2022; ora con un lungo articolo pubblicato sull’autorevole Foreign Affairs, espressione del Council of Foreign Relations, certamente uno dei più influenti e storici think tank statunitensi, il cancelliere tedesco Olaf Sholz ha proclamato al mondo la “svolta epocale” (Zeitenwende) alla quale la Germania deve rispondere anche sul piano militare, pudicamente denominato “di sicurezza”.
Si riapre quindi la questione tedesca in Europa. Da un secolo e più, infatti, l’accusa che grava sulle spalle della Germania è quella di aver tentato per ben due volte l’assalto al potere mondiale, secondo la comoda vulgata codificata dai suoi vincitori – seppure rimessa in discussione da storici anglo-sassoni di valore, da Taylor a Clark.
Dopo due epocali tragedie che, oltre a milioni di morti e a distruzioni inimmaginabili, condussero la Germania alla condizione di Anno Zero, il paese mitteleuropeo ha beneficiato di alcuni decenni di pacifica prosperità, sia prima che dopo la sua riunificazione, barcamenandosi con una certa abilità fra Est ed Ovest: prendendo a Ovest una cultura fotocopia di quella anglosassone, e commerciando freneticamente con l’Est, ancor più dopo il crollo dell’Urss.
Destinata ad essereil campo di battaglia fra est e ovest in caso di guerrafra le superpotenze, la Germania viene inserita nella Nato il 9 maggio 1955 (a dieci anni esatti dal crollo del III Reich), anno in cui appunto vengono ricostituite le forze armate tedesche (Bundeswehr), che trovano poi una collocazione costituzionale nel 1968, quando i terremoti in corso nell’Europa orientale, culminati nell’invasione della Cecoslovacchia, facevano temere contraccolpi nei rapporti fra Usa e Urss.
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Marx e la Gemeinwesen
Prefazione a Urtext
di Jacques Camatte
È nel Frammento del testo originario (Urtext, 1858) e nei Grundrisse, opere incompiute o abbozzi di Marx, che si trovano piú possibili, che il sistema è aperto.1 È un momento di legame essenziale con le opere dette «filosofiche», giovanili. Non che Marx abbia successivamente abbandonato ogni contatto con la filosofia, tutt’altro. Il Libro primo del Capitale è pienamente comprensibile solo se si conosce almeno ciò che Aristotele ha scritto nella sua Metafisica a proposito della forma e della materia, e la logica di Hegel. In non poche pagine del Capitale si ha inoltre un’innegabile eco spinoziana. Nell’Urtext è ad un Hegel giovane che Marx si collega, un Hegel che gli era sconosciuto, quello che s’interrogò a fondo sulla Gemeinwesen, in particolare quella greca; e al di là di Hegel, Marx si collega sotterraneamente a una quantità di uomini come Gioacchino da Fiore, Niccolò da Cusa ecc.2
Autonomizzazione del valore di scambio, comunità, rapporto Stato-equivalente generale, definizione del capitale come valore in processo, tali sono i punti essenziali affrontati nell’Urtext. Non gli sono esclusivi, perché li si ritrovano nei Grundrisse e nel Capitale. Tuttavia in questo testo lo studio è piú sintetico e i diversi argomenti sono affrontati simultaneamente; ed essi sono rilevanti, soprattutto per ciò che riguarda l’autonomizzazione e la comunità. Nel Libro primo del Capitale invece l’esposizione è piú analitica.
Nel complesso, per quanto riguarda la comunità, Marx fa, nelle opere pubblicate mentre era in vita, il seguente ragionamento: la distruzione della vecchia comunità a causa dell’autonomizzazione del valore di scambio, distruzione che permette pure l’autonomizzazione dei diversi elementi costitutivi (individuo, politica, religione, Stato), costituisce il punto di partenza di un ampio movimento, del quale profitta la borghesia per svilupparsi.
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Pacifismo radicale. Non c’è giustizia senza pace
di Francesco Coniglione
La discussione sul pacifismo ha trovato nuovo alimento dalle recenti vicende belliche, di cui la questione Ucraina è la più scottante. Ma una chiarificazione sul suo senso non può incanaglirsi nella discussione minuta dei singoli fatti o nella esibizione più o meno impattante di morti e distruzioni, magari con attribuzioni di colpe che fanno proprie in modo acritico la versione di uno dei due contendenti. È necessario, a mio avviso un discorso più di fondo, che parte dalla radice e che quindi dia del pacifismo una lettura “radicale”.
A tale fine vorrei partire da un assunto da me presupposto a tutto il ragionamento che verrà: nessun valore, nessun ideale, nessuna visione del mondo o ideologia può valere più della vita di uomini, donne, anziani e soprattutto bambini. Non v’è nessuna giustificazione, di nessun tipo, che possa essere addotta per la morte e lo spegnersi del sorriso di un fanciullo, nessuna libertà o indipendenza che possa essere ritenuta prioritaria rispetto alla distruzione, della miseria e della sofferenza di una popolazione.
Perché alla morte non c’è riparo e una vita spezzata lo è in modo definitivo, mentre qualsiasi altro valore o principio, se perduto, può essere riconquistato, ritrovato: la storia non è mai “per sempre” e ogni condizione politica, sociale, economica può essere cambiata col tempo e la perseveranza degli uomini. La vita è invece data una sola volta e la morte è irreversibile.
Vedo subito la prima obiezione: con questo atteggiamento ciascuno – uomo o popolo – sarà preda del primo violento che se ne voglia approfittare. E di fronte a tale tipo di violenza, si ritiene che vi possa essere una “guerra giusta”, per difendere se stessi e i propri cari.
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'Dalla Quarta Rivoluzione industriale' al 'Grande Reset'
Il pensiero di Karl Schwab e la crisi del capitalismo
di Leonardo Sinigaglia
Negli ultimi due anni si può dire che Karl Schwab abbia per molti sostituito la figura di George Soros come personificazione di ogni tendenza negativa, o percepita come tale, del nostro mondo. Dal’inizio dell pandemia del Covid-19, Schwab, con le sue idee sull’occasione propizia per un “Grande Reset”, è diventato nelle ricostruzioni dei più critici nei confronti delle politiche pandemiche nientemeno che il “regista” di ciò che si stava sviluppando sotto i nostri occhi.
Questa visione regala a Schwab gradi di potere e autorevolezza che forse non gli appartengono, e si concentra sulla descrizione dell’economista tedesco come il vertice di un gruppo di “incappucciati” dediti alla dominazione globale e alla creazione di un futuro distopico. Ma chi è Klaus Schwab? E in che relazione sono le sue analisi e le sue proposte col nostro mondo e coi suoi processi?
La figura di Schwab è ovviamente connessa all’organizzazione da lui fondata, il World Economic Forum. Anch’essa sconosciuta ai più prima del 2020, la sua natura ancora una volta è ricondotta a qualcosa di ‘occulto’, una setta di individui estremamente potenti dediti al perseguimento dell’orizzonte “transumano”.
Ma cos’è veramente il WEF, al di là di preoccupazioni e ricostruzioni più o meno veritiere, è lo stesso Schwab a dirlo, e in maniera brutalmente onesta: “[...] the international organization for public-private cooperation”[1], ossia “l’organizzazione internazionale per le cooperazione fra soggetti pubblici e privati”.
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La pelle dell'orso
di Enrico Tomaselli
Gli imperi, così come ogni altra forma di organizzazione umana, sorgono, vivono e poi decadono. Nella fase di formazione, un impero manifesta una forma di aggressività espansiva, nella fase di declino una forma di aggressività difensiva. Quando un impero comincia a manifestare quest’ultima forma di aggressività, è segno inequivocabile che è iniziato il suo declino. La sola questione aperta è quanto durerà tale fase, e quanto sarà rovinosa
Giro di boa
Come sempre, la realtà prima o poi si afferma. Comincia a filtrare attraverso le maglie delle narrazioni mistificatorie, si aggruma qui e là, quindi emerge in tutta la sua evidenza. È ciò che sta accadendo, riguardo al conflitto in Ucraina. Giorno dopo giorno, si delineano i pezzi del puzzle, si ricompone il disegno complessivo. In fin dei conti, è davvero stupefacente che ancora nessuno osi dire l’intera verità.
Per quanto l’impero statunitense abbia programmato lo scontro con la Russia da almeno tre lustri, per quanto lo abbia lungamente preparato, alla prova dei fatti la sua strategia si sta dimostrando fallace.
Gli obiettivi di Washington erano almeno tre: impegnare Mosca in una lunga guerra di logoramento, tranciare definitivamente ogni connessione tra Russia ed Europa, ed isolare internazionalmente il paese nemico. Questi tre obiettivi, però, erano e sono subordinati ad una condizione ineludibile, ovvero la capacità di condurre lungamente la guerra senza uscirne sconfitti. E ciò implica il riuscire a logorare la capacità di combattimento della Federazione Russa, ed in misura abbastanza significativa, prima di trovarsi a propria volta logorati dal conflitto. L’evidenza dei fatti dice che questa condizione non si è verificata, né si verificherà, e pertanto il disegno strategico degli USA si fondava su un calcolo sbagliato.
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Tra il 2022 e il 2023: ombre e chiavi di volta
di Vincenzo Comito
Guerra, inflazione, shock energetico: vediamo in dettaglio gli eventi chiave dell’anno che sta finendo cercando poi di mettere in campo qualche previsione per il 2023
Siamo alla fine del 2022, anno che non ha portato in generale molte buone notizie al mondo (riferendosi all’ano che sta finendo Martin Wolf sintetizza la questione in tre parole: “guerra, inflazione, shock energetico”) (Tindera, Wolf, 2022); comunque, in queste note cerchiamo di fare il punto su alcuni eventi svoltisi in questo periodo e di mettere in campo alcune previsioni per il nuovo anno ed oltre.
Il mondo, il continente europeo e l’Eurozona
L’Ocse, dopo aver stimato la crescita dell’economia mondiale al 3,1% nel 2022 (comunque in ritirata rispetto a precedenti stime), valuta ora quella del 2023 al 2,2%, in notevole riduzione rispetto all’anno precedente (altre istituzioni parlano per la verità del 2,7%). Peraltro, nelle stime dell’ente appaiono grandi differenze tra le varie aree del globo; come in passato a tirare la volata è l’Asia: così, per l’India è prevista una crescita del 6,2%, del 4,6% per la Cina, mentre per gli Stati Uniti si pensa ad uno 0,5% (di nuovo, qualcun altro è più ottimista).
Al di là delle cifre, i rappresentanti del Fondo Monetario e della Banca Mondiale si mostrano molto preoccupati per delle prospettive globali che si vanno deteriorando (The Economic Times, 2022). Il direttore generale del Fondo, Kristalina Georgieva, ha di recente dichiarato che gli indicatori disponibili mostrano ulteriori riduzioni delle prospettive economiche globali, mentre David Malpass, capo della Banca Mondiale, si mostra preoccupato per il rischio di una recessione a livello mondiale (The Economic Times, 2022).
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Il proiettile umano nel “cupo incantesimo runico”
Lo sguardo di Ernst Jünger su guerra e pace
di Riccardo Ferrari
Pubblicato per la prima volta nel 1920, Nelle tempeste d’acciaio è un romanzo autobiografico tratto dai diari dove Ernst Jünger annotò meticolosamente quello che vedeva dalla «comunità combattente delle trincee» durante la Prima Guerra Mondiale, sul fronte franco-tedesco. La riscrittura continua dell’esperienza traumatica del conflitto (le successive cinque edizioni variamente modificate del primo libro, gli altri scritti narrativi che rielaborano i diari, i testi destinati alla pubblicistica di ambito nazionalistico, i saggi filosofici sulla Mobilitazione totale e sulla nuova figura storica dell’Operaio) percorre tutti gli anni Venti e i primi anni Trenta, configurandosi come un esasperato tentativo di trovare un senso all’evento insensato della guerra[1].
Ferito quattordici volte e decorato con la massima onorificenza del Reich, la “Croce pour le mérite”[2], Jünger racconta la sua esperienza con i toni di un’avventura epica ma, nello stesso tempo e in modo strabico, con distacco oggettivo e sguardo “fenomenologico”. È forse da questo doppio movimento che conviene partire per comprendere l’unicità di questo testo, ossia la capacità di essere contemporaneamente dentro l’evento epocale della modernità («La battaglia finale, l’ultimo assalto, sembravano ormai arrivati. Lì si gettava la bilancia del destino di due interi popoli; si decideva l’avvenire del mondo»[3]) e di descriverlo con completa estraneazione, osservando da distante i processi di tecnicizzazione che la Grande Guerra aveva reso irreversibili.
Le tappe della discesa agli inferi del conflitto si snodano dall’arruolamento volontario, quando era ancora uno studente liceale, al primo contatto con il fronte e la morte, la vita elementare nel fango delle trincee, le grandi battaglie della Somme e poi nelle Fiandre come comandante di truppe d’assalto. La descrizione visiva prevale su ogni considerazione ideologica o politica, come ipnotizzata dallo spettacolo catastrofico di quella che chiamerà la “guerra dei materiali”.
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Diario della crisi | Chi paga l’inflazione da profitti?
di Christian Marazzi
Questa rubrica prende avvio oggi grazie alla collaborazione tra due realtà editoriali che si propongono di favorire la discussione e la critica politica: Effimera e Machina. Ad esse si aggiunge il periodico online El Salto che tradurrà e divulgherà i testi di questa sezione in spagnolo. Le uscite, con cadenza quindicinale, avverranno in contemporanea sui tre siti.
Il tema che vogliamo trattare non è nuovo. Il concetto di crisi ha sempre innervato la critica al capitalismo, nelle sue diverse declinazioni, da quello fordista a quello bio-cognitivo al nuovo volto dell’accumulazione consentita dalle piattaforme. In questo momento, tuttavia, riteniamo di essere in presenza non solo di una crisi di natura sociale ed economica ma di una molteplicità di crisi. Siamo cioè in presenza di una convergenza di diverse tipologie di crisi, che innervano tessuti e realtà anche molto dissimili fra loro: l’ambiente e la riproduzione-sociale, la cultura e la comunicazione, la politica e la rappresentanza, solo per citare alcuni esempi eclatanti.
Ci troviamo a sfidare un contesto complesso e variegato, al cui interno il sistema di produzione capitalistico sta mostrando in modo evidente la sua natura predatrice e distruttiva. La guerra, da questo punto di vista, rappresenta solo la rivelazione manifesta di queste crisi. È necessario perciò comprenderne la natura profonda, interrogarle e cogliere gli elementi di “squilibrio traumatico” che possono comportare. Krisis (Κρίση) nel greco antico significa “scelta”. Per noi “scegliere” significa “cambiare”. Il diritto alla scelta, all’autodeterminazione è uno strumento possibile per iniziare ad immaginare un nuovo cambiamento. Un cambiamento in grado di cogliere tutti questi aspetti.
I contributi che seguiranno saranno caratterizzati così da una natura multidisciplinare, in grado di cogliere i diversi aspetti critici che vi si nascondono e che raramente sono posti in primo piano.
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Sovranità filiale. Cristo e la teologia politica
di Gabriele Guzzi
Il periodo natalizio permette di affrontare alcune domande che potrebbero apparire a prima vista bizzarre: viene rivelata in Cristo una nuova immagine del potere? Esiste, oggi, una novità nel rapporto tra il Cristianesimo e la Modernità? C’è un nesso tra il bivio che sta vivendo il pensiero politico con quello che sta affrontando la scienza economica? Tenteremo di rispondere a queste insolite domande dialogando con il nuovo libro di Geminello Preterossi, Teologia Politica e diritto (Laterza 2022).
Il volume tenta un’interpretazione non nichilistica del giusrazionalismo moderno nel nesso decisione-sovranità. Per l’autore, lo sfondamento del basamento sostanzialistico non condurrebbe – necessariamente – al dominio immanente di un ordine economico, ma alla possibilità di un trascendimento in chiave democratica. L’analogia di concetti teologici con concetti politici implicherebbe così una sostituzione – mai del tutto realizzata – della verticalità della religione con una visione mobilitante. In questo senso, la secolarizzazione del Cristianesimo dovrebbe “riconoscere un limite interno”[1]: proprio per far sì che qualcosa possa essere secolarizzato (diritti, democrazia, fioritura delle soggettività) non tutto deve essere secolarizzato.
Credo che molti ragionamenti del libro possano essere letti alla luce della massima di Hobbes, “Jesus is the Christ”. Come è noto, per Schmitt, questa sarebbe la frase più importante di Hobbes: “la sua forza agisce anche quando nel sistema concettuale della costruzione speculativa viene posta al margine”[2]. Nel riconoscimento dell’identità redentrice di Gesù, Hobbes troverebbe così un “punto di appoggio”, “un contenuto minimo”[3]; per Schmitt, “l’effettivo elemento di chiusura del sistema di Hobbes”[4].
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