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Per Dante, svoltare a destra
di Stefano Jossa
Dante di destra? Lo ha dichiarato, col compiacimento di chi ritiene di lanciare una provocazione dirompente («so di fare un’affermazione molto forte»), il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano in un’intervista al direttore di «Libero» Pietro Senaldi durante un evento elettorale di Fratelli d'Italia a Milano. Il ministro ha individuato in Dante Alighieri «il fondatore del pensiero di destra nel nostro Paese», perché ritiene che «quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri, ma anche la sua costruzione politica che è in saggi diversi dalla Divina Commedia sia profondamente di destra».
Sangiuliano sperava di suscitare reazioni indignate, com’è effettivamente avvenuto, per cui come provocatore alla Marco Pannella, alla Renato Zero o alla Aldo Busi ha decisamente funzionato bene. Molto meno bene ha funzionato come pensatore originale, perché la sua battuta ha una lunga storia, che si radica almeno in quel «Dante fascista» che nel corso del Ventennio si affermò progressivamente nell’immaginario di regime.
Rivelandosi estremamente difficile assimilare Dante alla prospettiva politica e culturale del PNF, perché l’etica francescana e la concezione universalista del poeta non potevano coincidere con il nuovo orizzonte aggressivo e nazionalista delle camicie nere, gli ideologi del tempo non trovarono di meglio che aggregare Dante al Pantheon eroico della Nazione, facendolo entrare in una lunghissima lista di campioni dell’italianità, da Giulio Cesare al Duce in persona, passando per, fra gli altri, Giangaleazzo Visconti, Emanuele Filiberto, Ugo Foscolo, i fratelli Bandiera, Goffredo Mameli, Camillo Benso Conte di Cavour, Alfredo Oriani, Giosue Carducci, Gabriele D’Annunzio e Nino Oxilia (così Vittorio Cian nel 1928): lista che di Dante faceva un santino come gli altri, ormai svincolato dalla sua reale esperienza letteraria e dalla sua concreta identità storica.
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L’età delle catastrofi
di Roberto Finelli
Un’epoca della modernità s’è evidentemente conclusa. Il capitalismo è infatti divenuto capitalismo universale. Ma pandemia e guerra stanno lì a dimostrare quanto la sua modernità, che almeno dal XVI° sec. ha significato crescita progressiva della ricchezza e allargamento dei beni primari a masse sempre più estese della popolazione, si sia venuta ormai estenuandosi.
Potremmo definire “età delle catastrofi” il periodo storico nel quale l’umanità si accinge ad entrare, o meglio nel quale è già entrata a partire dalla globalizzazione dell’economia neoliberale che s’è iniziata storicamente con l’implosione dell’Unione Sovietica e la diffusione dell’economia a dominanza di capitale all’intero pianeta. Nel giro di trent’anni il neoliberismo, vale a dire il capitalismo come espansione illimitata del capitale, nella sua forma di capitale produttivo, capitale finanziario e capitale commerciale, ha mostrato dopo un decennio di diffusione e sviluppo, tutti i suoi intrinseci limiti, per proporsi, nell’orizzonte di un passaggio egemonico dagli Stati Uniti alla Cina, come sintesi di tre catastrofi che sempre più si apprestano e stanno per attraversare e devastare la vita del XXI° secolo.
Tale nuova età delle catastrofi si configura attraverso la compresenza del suo agire su tre livelli distinguibili ma pure riconducibili a facce di una stessa realtà.
- La catastrofe ecologica.
- La catastrofe geo-politica.
- La catastrofe antropologica della mente.
1. La catastrofe ecologica
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Guerra, crisi e sfide per il futuro
di Alessandro Pascale
Relazione sulla politica estera e le ricadute economiche e sociali per il Comitato Scientifico di Democrazia sovrana e popolare, 14 gennaio 2023
Vorrei iniziare ricordando la particolarità del periodo storico che stiamo vivendo, segnato dalla crisi dell’impero statunitense e dall’ascesa di un mondo multipolare caratterizzato dall’egemonia crescente della Cina comunista. È in questo quadro che dobbiamo situare gli eventi degli ultimi anni, compresa la guerra alla Russia e la pandemia COVID.
Il mantenimento stabile nell’ultimo secolo di un assetto imperialista ha fatto sì che l’Occidente abbia potuto fondare il proprio benessere sullo sfruttamento del “terzo mondo”. Il passaggio alla globalizzazione neoliberista, avvenuto dagli anni ‘70, ha però mostrato tutte le contraddizioni del sistema capitalistico, facendo perdere sul lungo termine competitività all’Occidente. La guerra in corso non è quindi un evento episodico e casuale, ma la risposta delle élite transnazionali occidentali alla perdita del controllo monopolistico dei mercati ricchi di risorse dell’Africa, dell’Asia, dell’America latina.
Che la pace non sia in effetti salutare per l’Occidente era emerso dagli esiti del World Economic Forum, che a partire dalle elaborazioni di Klaus Schwab ha lanciato la necessità di un “great reset” per garantire il rinnovamento del processo di accumulazione capitalistica occidentale: in estrema sintesi mentre non si fa nulla per cancellare gli enormi squilibri dovuti ad un’economia finanziaria ipertrofica, totalmente sganciata dall’economia reale, si lancia l’idea di una conversione economica in senso ecologicamente sostenibile.
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Disumane dipendenze
di Salvatore Bravo
Il totalitarismo tecnocratico si svela nella pratica pedagogica e didattica. Il totalitarismo si caratterizza per il controllo massiccio e pervasivo della formazione di ogni ordine e grado. Sulla formazione il dominio si gioca il futuro, in quanto la scuola e l’università preparano la futura classe dirigente, pertanto controllare l’ordine del discorso e filtrarlo significa controllare i saperi e attraverso di essi le parole e le coscienze. Il totalitarismo è una megaoperazione di filtraggio dei contenuti e dei messaggi. Il potere riproduce se stesso con il controllo e la programmazione pianificata delle parole che possono essere pronunciate e pensate. Il linguaggio crea mondi ed ermeneutiche, pertanto formare al linguaggio del capitalismo implica disegnare confini invalicabili, imporre frontiere al linguaggio e al logos. Le tecnologie sono il mezzo più efficace per la riproduzione del dominio, sono controllate da privati che selezionano informazioni e siti, e nel contempo, sono un immenso affare. I dispositivi tecnologici sono la merce più acquistata dalle giovani generazioni e non solo.
In assenza di una paideutica all’uso consapevole dei mezzi tecnologici si assiste all’occupazione dello spazio e del tempo delle nuove generazioni, le più indifese, con i dispositivi tecnologici. Per il nuovo totalitarismo è un doppio affare: le nuove generazioni sono un mercato fertile per il plusvalore, e inoltre comprano ciò che, in non pochi casi, li rende destrutturati nel carattere e nello spirito con la dipendenza dai dispositivi. Lo schiavo compra le proprie catene, poiché il dispositivo tecnologico consegna chi lo usa al sistema attraverso le informazioni che la rete acquisisce e mediante i messaggi che circolano in rete, i quali “possono colonizzare” la mente.
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In morte di Prospero Gallinari
19 gennaio 2013 - 19gennaio 2023
di Michele Castaldo
A dieci anni dalla morte di prospero Gallinari, ripubblico un articolo di commento nei giorni immediatamente successivi alla sua morte e che titolavo: In “morte” di Prospero Gallinari, in “vita” del giudice Caselli.
* * * *
« ….La morte del brigatista rosso Prospero Gallinari ed i suoi funerali potevano essere l’occasione per chiudere definitivamente una pagina tragica degli anni di piombo in Italia, e invece al suo funerale si sono risentiti slogan che rievocano quegli anni terribili ».
Così aprivano i maggiori telegiornali italiani nella giornata in cui si sono celebrati i funerali di Prospero Gallinari. Di qualche giorno prima, Giancarlo Caselli, sul giornale ‘Il fatto quotidiano’ del 18/1/13, metteva in guardia le nuove generazioni e in un articolo intitolato « il paese dei cattivi maestri» scriveva:
«Prospero Gallinari, prima di intraprendere la carriera di brigatista “culminata” con la spietata esecuzione (forse) del “prigioniero” Aldo Moro, si era reso celebre anche per certe singolari sfide che lanciava, tipo mangiare venti calzoni di fila o stare a torso nudo, sotto un albero tutta la notte. La sua morte ha ora scatenato sul web una pattuglia di nostalgici irriducibili, pronti ad osannare la lotta armata anche nel nuovo secolo. Risulta così confermata la patologia che, secondo Barbara Spinelli, affligge molti italiani, spesso vittime di una perdita di memoria che sconfina nell’amnesia e porta a una profonda sottovalutazione del pericolo che si corre occultando il passato per la mancanza continuativa di una coscienza etica. Così prosegue – con effetti devastanti – l’appropriazione indebita dei valori della resistenza partigiana e dell’antifascismo da parte di chi non ha l’intelligenza o l’onestà intellettuale di condannare la violenza organizzata praticata contro una democrazia: un arbitrario che ha potentemente contribuito all’indebolimento di quei valori.
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Come ho cominciato ad amare la bomba ….. ovvero …… la fisica sul tavolo di casa
di Paolo Di Marco
La Fisica è associata, nei titoli di giornali e nell’immaginario, a esperimenti costosi in laboratori con attrezzature esotiche: dai grandi acceleratori di particelle ai razzi interplanetari. E così appare sempre più qualcosa riservato a un mondo alieno e rarefatto di cui poco è dato sapere e soprattutto comprendere ai comuni mortali.
Ma non solo la ‘Fisica povera’ dei laboratori scolastici, ma anche quella esotica può essere fatta a casa propria, anche da qualcuno digiuno di scienza.
1- il caos (il rubinetto di Henon)
Nonostante se ne sia fatto molto parlare tempo fa il caos è ancora oggetto misterioso per la maggior parte di noi. Il fatto che evochi l’eterna lotta con l’ordine lo carica anche di significati morali tanto drammatici quanto impropri.
L’unico modo di esorcizzarlo è capirlo, e la strada migliore gli esperimenti.
Quello che vi proponiamo richiede solo un recipiente con un rubinetto di quelli classici.
Mettiamo il recipiente sul tavolo, e per terra una vaschetta con della carta argentata sul fondo (Se avete un rubinetto di quelli classici, cilindrici, potete farlo anche nel lavandino di casa..).
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Alle origini dell’ Unione Europea: Richard N. Coudenhove-Kalergi
di Gerardo Lisco
A leggere Kalergi, nello specifico il saggio “L' idealismo pratico”, nella speranza che la traduzione renda fedelmente il suo pensiero, ho la conferma di quanto talune teorie siano fondate sul nulla, soprattutto quando la lettura di un saggio sostanzialmente mediocre come quello appunto di Kalergi viene preso a riferimento per sostenere complotti da affezionati seguaci del Furher e del Duce. Il saggio di Kalergi sul piano della elaborazione teorica, come dicevo, è piuttosto mediocre, è da ascrivere alla vasta letteratura che in diversi contesti ha provato a delineare le tendenze future circa gli sviluppi dell’Umanità. Per Kalergi << La campagna e la città sono i due poli dell’esistenza umana. (…) L’uomo rustico e l’uomo urbano costituiscono antipodi psicologici (…)>>. Le due categorie di Uomo sono rintracciabili in qualsiasi contesto storico: dall’antichità fino all’età moderna. <<L’apogeo dell’uomo rustico è il nobile proprietario terriero, lo Junker, l’apogeo dell’uomo urbano è l’intellettuale, il Letterato>>. L’umanità rustica rappresenta la conservazione, la consanguineità, quindi la tradizione; l’umanità urbana è il prodotto di incroci e mescolamento tra appartenenti a gruppi sociali ed etnie diverse. Per Kalergi, << Nelle grandi città s’incontrano i popoli, le razze, le posizioni sociali. Come regola generale l’uomo urbano costituisce il tipico esempio di un meticciato degli elementi sociali e nazionali tra i più diversi. In lui si avvicendano senza elidersi le singolarità, i giudizi, le inibizioni, le tendenze di volontà e le visioni del mondo contraddittorie dei suoi genitori e dei suoi nonni, o almeno si indeboliscono tra loro (…) L’uomo del lontano futuro sarà un meticcio. Le razze e le caste di oggi saranno vittime del più grande superamento dello spazio, del tempo e dei pregiudizi. La razza del futuro, negroide ed eurasiatica, simile nell’aspetto a quella dell’Antico Egitto, è destinata a sostituire la molteplicità dei popoli con una molteplicità di personalità peculiari (…)>>.
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Tug of War
di Enrico Tomaselli
In inglese, tiro alla fune si dice ‘tug of war’, che letteralmente sarebbe ‘tipo di guerra’. Un espressione che si addice perfettamente a quanto sta accadendo in Ucraina, ma non perché le parti si stiano reciprocamente tirando dall’una e dall’altra parte, in un sostanziale stallo; il vero tiro alla fune vede infatti da una parte la realtà e dall’altra la narrazione, da un lato i fatti e dall’altro la propaganda. E più va avanti il conflitto, più i due capi della fune si allontanano, come se questa fosse elastica.
E questa divaricazione tra la guerra ed il suo racconto è ciò che oggi racchiude la vera minaccia di escalation.
* * * *
Soledar, la piccola cittadina appena a nord di Bakhmut, è nel suo piccolo un paradigma di molte altre cose. È, innanzi tutto, un esempio ormai classico di come procede l’esercito russo, in questa campagna d’Ucraina. Una volta identificato un punto del fronte che abbia una certa rilevanza tattica o strategica, comincia a premere in forze, impegnando il nemico in una battaglia di logoramento e contemporaneamente inizia a premere ai lati, sviluppando una manovra di aggiramento. Quando le ali della manovra si sono spinte abbastanza in avanti, tanto da minacciare le linee di rifornimento dell’obiettivo principale, il gioco è già sostanzialmente fatto. Sganciarsi e ritirarsi diventa estremamente complicato per il nemico, che quindi prova a resistere e lanciare controffensive. Finché la situazione si fa drammatica e l’aggiramento rischia di chiudere in un calderone l’intera forza dispiegata. A quel punto, inevitabilmente, ciò che accade è che una parte delle truppe viene sacrificata, lasciata sul posto a coprire la ritirata, mentre il grosso si sottrae all’accerchiamento.
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‘La Terza Guerra Mondiale è iniziata’
Le Figaro intervista Emmanuel Todd
Se guardiamo i voti dall'ONU, vediamo che il 75% del mondo non segue l'Occidente, che così appare piccolissimo. Vediamo che questo conflitto, descritto dai media come conflitto di valori politici, è un più profondo conflitto di valori antropologici
Grande intervista – Emmanuel Todd è antropologo, storico, saggista, prospettivista, autore di numerose opere. Molte di esse, come “La caduta finale”, “Illusione economica” o “Dopo l’impero”, sono diventati classici delle scienze sociali. Il suo ultimo lavoro, “La terza guerra mondiale”, è apparso nel 2022 in Giappone e ha venduto 100.000 copie.
Pensatore scandaloso per alcuni, intellettuale visionario per altri, “Rebelle Destroy” con le sue stesse parole, Emmanuel Todd non lascia indifferente. L’autore de “La caduta finale”, che ha previsto nel 1976 il crollo dell’Unione Sovietica, era rimasto discreto in Francia sulla questione della guerra in Ucraina. L’antropologo ha finora riservato la maggior parte dei suoi interventi al pubblico giapponese, perfino pubblicando nell’arcipelago un titolo provocatorio: “La terza guerra mondiale è già iniziata”. Per “Le Figaro”, descrive in dettaglio la sua tesi iconoclasta. […]
Oltre allo scontro militare tra Russia e Ucraina, l’antropologo insiste sulla dimensione ideologica e culturale di questa guerra e sull’opposizione tra l’Occidente liberale e il resto del mondo che ha acquisito una visione conservatrice e autoritaria. I più isolati non sono, secondo lui, quelli che sono ritenuti tali.
* * * *
Le Figaro. – Perché pubblicare un libro sulla guerra in Ucraina in Giappone e non in Francia?
Emmanuel Todd. – I giapponesi sono altrettanto anti-russi quanto gli europei. Ma sono geograficamente lontani dal conflitto, quindi non c’è un vero senso di urgenza, non hanno la nostra relazione emotiva con l’Ucraina. E lì, non ho affatto lo stesso status.
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Don Chisciotte e la sanità pubblica
di Valerio Miselli
Torniamo a scrivere di salute, di Sistema Sanitario Nazionale, del nostro stato di salute durante un periodo di epidemia influenzale, l’ennesima emergenza sanitaria che si abbatte su un sistema già reso fragile dall’impatto col COVID, dopo anni di tagli e revisioni, senza un posto fisso nell’agenda politica di chi ci governa, da molto tempo. Poi compaiono due articoli sulle pagine dei quotidiani, lettere di protesta nelle pagine riservate ai lettori, la figlia di una donna di 98 anni che è costretta ad aspettare per 12 ore su una barella al Pronto Soccorso, un giornalista molto conosciuto che ha la stessa sorte con il padre ultraottantenne che sta facendo chemioterapia, storie di visite negate, attese infinite, dignità umana calpestata, sofferenza. Storie quotidiane che non si vorrebbero sentire in un Paese che si vanta di avere un buon Sistema Sanitario Nazionale, dove la salute è garantita a tutti, per legge.
Le storie di malattia entrano in conflitto con il nostro sistema di cura, le persone diventano malati. La figura del paziente sottoposto al controllo smette di corrispondere in toto con la persona malata che comincia invece a rivendicare di aver voce in capitolo per ciò che riguarda il proprio corpo. Diventiamo tutti un po’ “Narratori feriti” secondo l’espressione di Arthur Frank. Il modello classico di cura per una patologia acuta (in pratica, chiamare il medico o telefonare al 118) non sempre riesce a soddisfare il bisogno emergente, la frattura narrativa che la malattia genera in ciascuno di noi, la necessità di un ripristino urgente dello stato di salute precedente.
Peggio ancora per chi vive con una patologia cronica, dove spesso cresce il divario tra il dolore che aumenta e l’agenda dei medici che prendono in mano la situazione critica: mentre uno pensa che la sua vita stia deragliando, arrivano rassicurazioni inutili, perché non possono essere colte in quel momento.
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Un contadino nella metropoli degli anni ‘70
di Alessandro Barile
Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate rosse, Pgreco 2023, pp. 352, € 20,00.
La ripubblicazione di Un contadino nella metropoli a dieci anni dalla morte del suo autore, Prospero Gallinari (1951-2013), è opportuna almeno per due motivi. Il primo, rimettere in circolazione un libro stranamente introvabile, nonostante la prima edizione affidata a Bompiani, la notorietà della persona, l’attenzione (a volte genuina, più spesso morbosa) riguardo agli anni Settanta e alla lotta armata nel nostro paese. Vi è poi l’occasione di celebrarne il ricordo a dieci anni dal suo funerale-evento: al cimitero di Coviolo, Reggio Emilia, il 19 gennaio 2013 si convocarono spontaneamente un migliaio di persone, compagni di tutta Italia, reduci e giovani, brigatisti, non brigatisti, anti-brigatisti, chiunque si sentì toccato da una morte che sembrava trascinare con sé un’intera epoca. Una foto di gruppo, tra parenti spesso litigiosi, eppure accomunati, e non solo dal ricordo umano.
Ma la ripubblicazione di questo libro di «ricordi di un militante delle Brigate rosse» può servire anche ad altro, forse di più importante, o almeno di più utile. È un libro di memorie, e come tale è andato a suo tempo ad ampliare la già vasta produzione memorialistica sugli anni Settanta. Una memorialistica che, negli ultimi venti anni, ha dapprima lasciato spazio alla contro-memorialistica delle vittime (delle vittime reali ma, molto più di frequente, delle vittime indirette: familiari, amici, conoscenti); per poi cedere il passo a una storiografia che si è andata occupando molto di anni Settanta e del loro enigma indecifrato. La ricostruzione storica è rimasta però alquanto sterile. Nell’attuale, spasmodica, convalida di un suo statuto scientifico, la ricerca storica ha generato una tecnicizzazione degli eventi studiati. Siamo stati così invasi di libri sul lungo Sessantotto italiano, sulla lotta armata e sulla «strategia della tensione», sui profili umani e su quelli disumani.
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Gli Usa tornano nel Mediterraneo
di Fabrizio Verde
Se durante le precedenti amministrazioni gli Stati Uniti si erano sostanzialmente disinteressati al Mediterraneo perché maggiormente presi dagli sviluppi geopolitici in differenti quadranti geografici, adesso sembrano essere tornati a voler occuparsi del Mare Nostrum, un medioceano come lo definisce la rivista di geopolitica Limes.
Principalmente perché il Mar Mediterraneo si inserisce così nella disputa globale per l’egemonia tra gli Stati Uniti e vassalli occidentali da una parte che rappresentano l’unipolarismo in decadenza, e le potenze multipolari in ascesa guidate da Cina e Russia. Senza dimenticare poi paesi come la Turchia, che seppur inserita nel sistema di alleanze occidentali, in primis la NATO, non rinuncia al conseguimento dei propri interessi strategici anche quando questi vanno a cozzare con quelli del blocco occidentale. Così Ankara da tempo fa sfoggio di equilibrismo strategico anche se negli ultimi tempi sembra propendere di più verso est.
In questa partita Washington vuole mantenere il controllo del Mediterraneo per non perdere la sua influenza sui paesi costieri e per avere agilità di movimento tra gli oceani. Il declino dell'influenza degli Stati Uniti in Europa aveva creato, in una certa misura, un vuoto strategico intorno alla regione mediterranea. Ma con l’operazione di sostegno al regime di Kiev in Ucraina gli Stati Uniti hanno di fatto preso il pieno controllo sull’Europa. Un’Europa immolata sull’altare degli interessi economici e strategici di Washington.
La strategia statunitense prevede ovviamente il coinvolgimento dell’Italia, in funzione degli interessi statunitensi, anche se in Italia qualcuno cera di occultare il vassallaggio di Roma provando a dipingerlo come un rilancio del ruolo dell’Italia nel Mediterraneo.
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Movimento comunista in Italia
di Raffaele Gorpìa*
Delle ragioni legate all’assenza nel nostro Paese di un partito comunista degno di tale nome, dopo il suicidio del PCI, si è lungamente (e improduttivamente) dibattuto senza tuttavia che vi sia stata una univocità sostanziale di vedute che potesse contribuire alla ricostruzione di un soggetto politico rivoluzionario. Il fallimento del Partito della Rifondazione Comunista (neppure percepito come tale dai suoi attuali residui militanti), ha ulteriormente complicato le cose nell’immaginario collettivo perché avvenuto solo dopo pochi anni dal crollo del Muro di Berlino; a tal proposito, giova ricordare che oggi siamo ben lungi dall’avere una uniformità di vedute non solo riguardo alle cause che hanno portato alla dissoluzione dell’Urss ma anche rispetto alle cause profonde che hanno condotto alla morte del PCI. Possiamo però, in riferimento all’ultimo trentennio, dopo la scomparsa del PCI, in mancanza di una ricostruzione storica sistematica, almeno ripartire da alcuni elementi storici recenti e da alcune dinamiche significative di vita politica del Partito della Rifondazione Comunista nonché delle sue schegge fuoriuscite nelle varie scissioni, per cercare di comprendere alcune delle cause della drammatica fase vissuta attualmente dai comunisti in Italia, dovendo, nel frattempo, constatare ancora una volta come la storia, come diceva Antonio Gramsci, è sì maestra di vita, ma (ancora oggi), non ha scolari.
Un periodo decisivo i quadri intermedi di maggioranza del PRC lo ebbero nel momento della votazione per la partecipazione o meno ai due governi Prodi, già predisposti come erano a sostenere e votare in maggioranza le direttive del gruppo dirigente; ai quadri intermedi carrieristi interessava entrare nel governo, anche in alleanza con forze politiche antagoniste, e non importava se ciò avvenisse tenendo il cappello in mano e senza alcun reale rapporto di forza.
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La guerra capitalista
di Roberto Romano
Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli: La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, 2022
La guerra capitalista di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, arricchita dalla postfazione di Roberto Scazzieri, riprende e attualizza una delle più importanti tesi di Marx: la tendenza verso la centralizzazione del capitale, “una tendenza verso la centralizzazione del capitale in sempre meno mani, che disgrega l’ordine liberaldemocratico e alimenta la guerra militare tra nazioni”. Come sottolineano gli autori nella introduzione, all’interno del libro viene spiegato e approfondito “il legame tra centralizzazione capitalistica e assedio alla democrazia” (p. 9). L’intuizione di Marx relativa al processo di centralizzazione dei capitali viene pertanto trattata e approfondita alla luce delle recenti dinamiche economiche internazionali. La forza della legge relativa alla centralizzazione del capitale viene aggiornata e sistematizzata grazie alla network analysis. Gli autori calcolano un nuovo indice di network control che misura la percentuale degli azionisti detentori dei pacchetti di controllo della parte preponderante del capitale azionario quotato nelle borse (p. 99-137). In tal modo è possibile pervenire al “valore intrinseco del capitale controllato seguendo tutti i percorsi diretti e indiretti delle partecipazioni azionarie” (p. 107) .
Attraverso l’impiego di un modello vettoriale autoregressivo bayesiano (che viene ben spiegato in modo molto chiaro nella appendice a cura di Milena Lopreite e Michelangelo Puliga) Brancaccio, Giammetti e Lucarelli possono mettere in relazione la politica monetaria delle Banche Centrali con gli indici di centralizzazione precedentemente ricavati: una politica monetaria restrittiva, cioè un aumento dei tassi di interesse, “conduce a una riduzione del net control, ovvero alla riduzione della frazione di azionisti di controllo del capitale” (p. 124).
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Relazioni pericolose
di Enzo Traverso
Da Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre Corte, Verona 2022
Queste considerazioni sull’esistenzialismo giovanile di Lukács potrebbero essere estese a molte altre correnti di pensiero esaminate ne La distruzione della ragione. Valgono ad esempio per la critica di Weber alla razionalità occidentale, che Lukács stesso aveva incorporato nel proprio concetto di reificazione in Storia e coscienza di classe, un testo fondamentale del marxismo occidentale1. Valgono anche per Nietzsche, la cui appropriazione da parte dell’ideologia nazista non impedì a diversi studiosi marxisti o anarchici di considerarlo un pensatore stimolante. Sia Ernst Bloch che Herbert Marcuse accolsero le potenzialità emancipatrici di una rivolta dionisiaca contro la civiltà repressiva. Il pensiero di Nietzsche, ha sottolineato Marcuse, conteneva ben più di un rifiuto aristocratico della modernità e di una nefasta apologia della schiavitù; portava con sé anche “l’aria liberatrice” di una filosofia che tracciava la propria strada attaccando “la Legge e l’Ordine”2. Adorno e Horkheimer non ignoravano le ambiguità del nichilismo di Nietzsche, che già conteneva alcune premesse di un’ideologia “prefascista”, ma lo consideravano uno dei pochi, dopo Hegel, ad aver riconosciuto la dialettica dell’illuminismo3. E considerazioni analoghe valgono anche per Heidegger, il cui convinto sostegno al regime nazista non invalidava le molteplici direzioni del suo pensiero ontologico, in cui pensatori marxisti come Marcuse e Günther Anders hanno trovato preziose munizioni per la loro critica radicale della tecnologia e dell’alienazione capitalista. Adorno, che non esprimeva alcun compiacimento verso Heidegger nel suo Il gergo dell’autenticità (1964), non poteva accettare la tendenza di Lukács ad assimilare al fascismo tutte le forme di irrazionalismo che, in tempi diversi, erano affiorate in seno alla filosofia tedesca.
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La via governista al potere: perché il neoriformismo non può vincere
di Giacomo Turci
La crisi storica delle vecchie correnti riformiste europee ha agevolato l’emersione di un nuovo tipo di strategia politica a sinistra, il neoriformismo. Un’opzione che, nella sua logica di fondo e nelle sue esperienze più mature, non costituisce un’alternativa valida per il rilancio della lotta di classe e di quella per la rivoluzione e il socialismo
Il problema del soggetto politico mancante e la risposta neoriformista
La questione dell’evoluzione in soggetto politico dei dominati nella società capitalista, a partire dalle loro attività e lotte sociali, è tanto antica quanto di imperiosa attualità. Antica, perché si riconnette alla storia millenaria dell’azione e della soggettivazione politica degli sfruttati lungo la storia della società divisa in classi: per fare un solo esempio, Gramsci nei Quaderni (1975: 2284) nota come i coinvolgimenti crescenti dei ceti bassi nei conflitti tra i Comuni “davano la coscienza della loro forza ai popolani e nello stesso tempo ne rinsaldavano le file (cioè funzionarono da eccitanti alla formazione compatta e solidale di gruppo e di partito)”. In questo senso, si può notare con Lenin (1967: 70) che la guerra, se la intendiamo come parte e prosecuzione della politica con altri mezzi, è “espressione concentrata dell’economia”, dunque per nulla estranea alla vita e alla lotta economico-sociale dei salariati, e svariate volte ha giocato un ruolo di radicalizzazione e, appunto, soggettivazione dei subordinati; una dinamica che si potrebbe ripetere ‘in grande stile’ in questo tempo che assomiglia sempre più a quello di crisi, guerre e rivoluzioni (cfr. Albamonte 2021) che sconvolse il mondo un secolo fa. Dunque, dicevamo, una questione antica ma anche attuale, in modo particolare nel nostro paese: mentre i cicli storici passati di evoluzione e trasformazione della classe lavoratrice hanno finito per trovare ciascuno le sue forme di identità e organizzazione politica (nel senso ampio del termine), più o meno antagoniste rispetto alla classe dominante, quello posteriore alla crisi mondiale del 2008 ha sì visto un’evoluzione complessiva della classe lavoratrice in Italia, attraverso una serie di fenomeni (come la sua femminilizzazione, la precarizzazione sistematica delle nuove generazioni, la concentrazione di forza-lavoro immigrata in alcuni settori, eccetera), ma a quest’evoluzione non è corrisposta una nuova espressione politica sistematica; anzi, vi è tuttora una crisi, o quanto meno una stagnazione, delle correnti e delle organizzazioni politiche già esistenti prima di questo ciclo, e che ancora costituiscono la direzione delle istituzioni della classe lavoratrice.
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Un saluto ai Gilet gialli
di Raoul Vaneigem
È stato questo l'emergere dei Gilet Gialli in Francia: un tuono nel cielo della mediocrità. La loro presenza ha catalizzato segretamente una forza insurrezionale che si stava risvegliando in tutto il mondo. L'ironia della storia ha voluto che siano apparsi in un paese dove l'abiezione e la stupidità avevano oscurato i Lumi di una volta.
La paradossale alleanza tra una volontà pacifica e una risolutezza incrollabile ha piombato nella confusione e nello smarrimento un governo che sonnecchiava assopito confidando nello scombussolamento mercantile delle masse. La mediocrità dei capi di Stato, dei notabili, delle élite era a questo punto talmente esemplare che bastava che il carro dello Stato dovesse solo "navigare su un vulcano"; citando la scherzosa espressione di Prudhomme.
Da destra a sinistra, un disprezzo unanime ha accolto i Gilet Gialli. Chi erano questi intrusi che improvvisamente riscoprivano l'ispirazione della Comune di Parigi, la gioia del maggio 1968, la tranquilla sicurezza degli zapatisti, quando molti di loro ne avevano solo una conoscenza rudimentale?
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La corruzione politica come strumento del capitale
di Domenico Moro
Recentemente il tema della corruzione politica ha riacquistato una notevole visibilità a causa delle inchieste della magistratura belga su ex e attuali eurodeputati, accusati di aver ricevuto denaro da parte del Qatar e del Marocco. A quanto sembra, la corruzione, elevata a sistema organizzato, ruoterebbe attorno a una Ong, Fight Impunity, nel cui Board siedono personaggi politici noti come Emma Bonino e Federica Mogherini[i], e il cui presidente è Pier Antonio Panzeri, un ex deputato europeo in quota Pd, che è stato arrestato[ii]. Panzeri è stato membro della direzione del Pd e prima ancora segretario generale della Camera del lavoro di Milano. Oltre a Panzeri sono risultati coinvolti anche il segretario della Confederazione dei sindacati mondiali ed ex sindacalista della Uil, Luca Visentini, e altri deputati del gruppo parlamentare europeo dei socialisti e democratici (S&D), tra cui la vicepresidente del Parlamento europeo, Eva Kaili, che è stata arrestata e sospesa dalle sue cariche.
L’inchiesta è caduta come una tegola sulla testa dei socialisti europei e su quella del Pd, già in difficoltà per la sconfitta alle recenti elezioni politiche e alle prese con la preparazione di un congresso e di primarie, che si preannunciano complicate. Tuttavia, non si può dire che, stando all’attualità, la corruzione riguardi solo l’Europa e il Parlamento europeo. Recentemente Ftx, una piattaforma di criptovalute statunitense, è fallita ed è stata accusata di frode, tanto che il suo fondatore, Sam Bankman Fried, è stato arrestato alle Bahamas per conto delle autorità statunitensi e rischia una condanna a 115 anni di prigione.
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La NATO contro la pace e il diritto
di Matteo Bortolon
Un ampio testo che rovesciando i luoghi comuni mostra la aggressività dei paesi occidentali in spregio alle istituzioni internazionali promuovendo golpe, invasioni illegali e infiltrazioni di truppe in svariate aree del mondo
Il testo di Daniele Ganser Le guerre illegali della NATO, Fazi 2022, è un testo assolutamente da leggere, soprattutto nell’attuale periodo in cui, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, l’Alleanza Atlantica è propagandata come il custode della democrazia e dei valori occidentali. Non è quindi fuori luogo ripercorrere varie tappe di un percorso che vede i principali suoi Stati membri protagonisti delle più clamorose violazioni del diritto internazionale, nonché la stessa NATO impegnata in conflitti in flagrante violazione di qualsiasi legittimità.
Non è l’unico motivo: si tratta di un testo poderoso (537 pp. escluse le note e la Cronologia), zeppo di note, fonti, dati, ma con linguaggio piano e chiaro, facilmente accessibile nella ricostruzione dei vari episodi; senza dubbio è merito del traduttore aver esercitato uno stile così invidiabilmente cristallino, ma dotato di un procedere meditato e ordinato, un po’ differente da quei testi militanti che, quasi divorati dall’ansia della divulgazione indignata, riversano dati e argomenti come pugni sul lettore, correndo da un punto all’altro del filo cronologico. I fatti narrati in diversi punti ci evocano il nostro presente non solo in relazione alle responsabilità di conflitti, golpe, bombardamenti e massacri, ma per le loro modalità attuative, echeggiandoci quello che stiamo vivendo dai primi del 2022. Ma procediamo con ordine vedendo in maniera più precisa i contenuti.
Il testo parte con alcuni capitoli che delineano la nascita delle Nazioni Unite e gli istituti giuridici che sanciscono il divieto di guerra in tutte le sue accezioni; questi primi svelti capitoli sono più che il prologo in senso temporale rispetto agli avvenimenti successivi.
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Ordinamenti e sguardo antropologico
Su Ordoliberalismo di Adelino Zanini
di Ubaldo Fadini
Leggendo il recente e magistrale studio di Adelino Zanini, Ordoliberalismo. Costituzione e critica dei concetti (1933-1973), il Mulino, Bologna 2022, mi è venuta in mente un’immagine, tra Lyotard e Deleuze, che ne può restituire il disegno teorico che si delinea in più di 500 pagine, vale a dire quella del ‘figurale’, con il suo intento di fondo di carattere anti-rappresentativo, anti-narrativo e decisamente performante in senso radicalmente critico, per così dire.
Può avere un qualche senso questa associazione nel momento in cui questo libro di Zanini si presenta innanzitutto come un tentativo di segno storico-concettuale di ricostruzione di una costellazione di temi e figure, quella dell’‘ordoliberalismo’, così contraddistinto dall’emergere di tante differenze e sfumature non insignificanti da risultare infine come estremamente spregiudicata? È a tale spregiudicatezza, messa ulteriormente a valore dal suo parziale fluire in ciò che è noto come ‘parola-baule’ che ha segnato buona parte della vita economica, sociale e politica del nostro Continente: ‘economia sociale di mercato’, che vorrei fare riferimento in questo mio contributo, virando in particolare e per concludere verso questioni che mi sono più vicine e che riguardano il complesso teorico dell’antropologia filosofica moderna.
Ma prima di arrivare a ciò mi pare opportuno indicare le componenti essenziali di Ordoliberalismo che sono da rinvenire nell’analisi puntuale, quasi a formare delle distinte e accurate monografie, dell’opera di tre studiosi imprescindibili come Walter Eucken, Franz Böhm e Alfred Müller-Armack.
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La guerra che fingiamo non ci sia
di Maria Rita Prette
Incontro-dibattito sul libro La guerra che fingiamo non ci sia di Maria Rita Prette (Sensibili alle foglie, 2018), presso il Leoncavallo Spazio Pubblico Autogestito, Milano, 6 novembre 2022
Credo sia molto importante parlare della guerra, una parola diventata un po’ tabù: nel senso che come Paese sono una trentina d’anni che facciamo guerre, anche se non le dichiariamo più e le chiamiamo con altri nomi. A ben vedere, quando ho fatto questo lavoro, anch’io ho faticato a chiamare ‘guerra’ le cose che ho incontrato, perché hanno un carattere sleale e feroce che va ben oltre il modo in cui i conflitti sono stati concepiti dall’umanità fino al 1991. Dobbiamo quindi guardare queste nuove forme delle guerre per come si esprimono, per come vengono fatte, per i dispositivi che attuano, a partire dal momento in cui hanno cominciato a essere realizzate in queste modalità, ossia: non più due eserciti che si confrontano.
Forse la seconda guerra mondiale è stato il conflitto ‘di passaggio’ verso questo nuovo modo, caratterizzato soprattutto dall’utilizzo dell’aviazione; ormai ci siamo abituati al fatto che si bombardino delle città, dei quartieri, dei Paesi, che li si rada anche al suolo. Penso che dovremo rifletterci, perché bombardare una città e raderla al suolo - come hanno fatto gli americani a Dresda nel 1945 e come abbiamo fatto noi in tutti Paesi in cui siamo stati, dalla Somalia all’Afghanistan, alla Libia, alla Siria - vuol dire colpire dei civili. Questo è il primo tabù che viene rotto dalle nuove forme della guerra: a morire sono principalmente i civili, molto meno i soldati.
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Senza padri né maestri. Giovani degli anni Ottanta
di Diego Giachetti
Pubblichiamo un'analisi di Diego Giachetti sugli anni Ottanta che si inserisce nel progetto della cartografia dei decenni che Machina sta portando avanti e che darà vita in primavera a due Festival, il primo a Roma sugli anni Ottanta e il secondo a Bologna sugli anni Novanta [1]
Delle nostre voglie e dei nostri jeans che cosa resterà
Cosa resterà di questi anni Ottanta
Afferrati e già scivolati via
Anni vuoti come lattine abbandonate
Anni rampanti dei miti sorridenti da wind-surf
(Raf, Cosa resterà degli anni ’80, 1989)
Negli anni Ottanta due giovani generazioni s’intersecavano, si combinavano e si scompaginavano. Una, più attempata, aveva per protagonisti gli attori sociali e politici dei movimenti degli anni Settanta. L’altra, infante e adolescente nel decennio precedente, si accingeva a diventare giovane negli anni Ottanta. Il primo e più «anziano» spezzone generazionale stava abbandonando il campo dell’impegno politico, travolto dal riflusso, come si diceva, dopo la sconfitta dei movimenti e delle possibili rivoluzioni, politiche e personali, allora possibili. Una ritirata spesso costretta, rabbiosa, rancorosa, incapace di produrre adattamento e inserimento nella vita quotidiana, ancora in grado di organizzare resistenze sociali, culturali e politiche, minoritarie e sempre più relegate in determinati e specifici ambiti. Parallelamente maturava una generazione «vacua», secondo la definizione del filosofo ex operaista Massimo Cacciari, che aveva evitato il «massacro» della repressione poliziesca e mass-mediologica subito dai giovani estremisti degli anni Settanta, ma che non sfuggì alla rivincita della politica negli anni Ottanta [2]. Una rivincita all’insegna del rampantismo craxiano, della politica come investimento, carriera, affare e accaparramento delle risorse, che preparava il suo fallimento nei confronti della società civile, dei partiti e delle istituzioni, camminando, senza saperlo, verso «tangentopoli», termine usato dal 1992 per definire un sistema diffuso di corruzione politica
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Manipolazioni di Marx
di Antiper
Critica dell’introduzione di Marco Santoro (Giochi di potere. Pierre Bourdieu e il linguaggio del “capitale”) a Pierre Bourdieu, Forme di capitale, Armando editore, 2015
Ci è capitato solo di recente di leggere l’Introduzione che Marco Santoro, noto studioso del sociologo francese Pierre Bourdieu, ebbe a scrivere qualche anno fa per la pubblicazione di Forme di capitale [1].
Dato l’argomento del testo Santoro non può esimersi dal trattare della relazione tra il concetto di capitale in Bourdieu e il concetto di capitale in Marx, ma lo fa in modo da presentare sistematicamente la distanza, il distacco, la critica, la superiorità… di Bourdieu nei confronti di Marx
“molto distante però sia dal marxismo che dalla teoria economica” “[la] teoria economica (inclusa quella di orientamento marxista) concepisce un’unica specie o forma di capitale – il capitale economico” “uno dei capisaldi della visione sociologica di Bourdieu, strumento di rottura rispetto a qualunque visione economicista della società inclusa quella marxista con il suo primato accordato alla sfera economica e in particolare alla produzione di merci” “avvicinando Bourdieu a Weber piuttosto che a Marx” “sostanziale revisione del concetto così come questo era stato incorporato nella teoria economica (inclusa quella marxiana)” “distanza di questa definizione da quella che regge l’impianto analitico marxiano e le sue derivazioni” “prendeva le distanze dal marxismo ortodosso, il cui economicismo e panmaterialismo il sociologo ed etnologo Bourdieu non ha mai nascosto di considerare fuorvianti e inadeguati” “colpire il riduzionismo economicista di cui il marxismo è accusabile almeno quanto la teoria economica” [2]
Niente di particolarmente sorprendente; nelle università italiane si fa carriera trattando Marx come un appestato o almeno presentandone una versione “decaffeinata” e politicamente corretta.
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L'Occidente è debole dove conta...e alcune delle conseguenze non sono ovvie
di Aurélien*
In questo articolo tratto dal sito 'Trying to understand the world', l'alto funzionario britannico che scrive sotto lo pseudonimo di Aurelien* (e che già abbiamo tradotto qui e qui) fa il punto sulla inadeguatezza della capacità militare e di sicurezza dell'Occidente rispetto alle sfide attuali e ne analizza le principali conseguenze. In seguito alle scelte strategiche perseguite negli ultimi decenni, l'Occidente si trova ora infatti - pur dotato di armi sofisticatissime e con una spesa per la difesa che si mantiene elevata - non solo sfornito dei mezzi adatti a una guerra su vasta scala di tipo convenzionale, ma anche nell'impossibilità di ricostituirli in tempo utile. Questa discrepanza tra le scelte strategiche degli anni passati e gli obiettivi che le élite democratiche e Neocon si sono dati, è l'elefante nella stanza (o meglio il fenicottero rosa), con cui si arriverà necessariamente a fare i conti.
Ho sostenuto più volte che molto probabilmente l'Europa si ritroverà presto parzialmente disarmata, politicamente isolata ed economicamente vulnerabile, e che, a meno di qualche tipo di intervento sovrannaturale, quei processi non possano essere invertiti. Qui voglio entrare più nel dettaglio di quelle che penso possano essere alcune delle conseguenze di questa debolezza militare e in materia di sicurezza, oltre ad estendere brevemente l'analisi agli Stati Uniti. Alcune delle possibili conseguenze potrebbero risultare sorprendenti.
Ci troviamo, credo, in un momento abbastanza unico nella storia del mondo: l'Occidente, collettivamente la più grande singola costellazione economica del mondo, ha passato trent'anni a ridurre progressivamente la sua capacità di combattere una guerra terrestre/aerea convenzionale, specializzandosi invece nelle modalità estreme dei conflitti. In pratica, ciò equivale ad armi nucleari e sottomarini, caccia ad alte prestazioni e aerei d'attacco da un lato, e contro-insurrezione e proiezione della forza in un ambiente permissivo dall'altro, senza che ci sia molto in mezzo. Come spiegherò tra poco, non è la prima volta che le nazioni hanno ridotto radicalmente le loro forze armate o vi sono state obbligate, né è la prima volta che le nazioni si trovano con forze irrimediabilmente inadatte ai compiti che potrebbero dover eseguire; tuttavia questa è, in realtà, la prima volta che intere capacità sono state abbandonate sulla base del presupposto che non sarebbero mai state necessarie, e ora è impossibile ricostituirle. Vale a dire, che l'attuale capacità militare convenzionale dell'Europa e degli Stati Uniti oggi è poco adatta all'attuale situazione mondiale, ma è tutto ciò che sarà a disposizione nel prossimo futuro.
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Il capitalismo come forma religiosa
di Alessandro Visalli
Quello che segue è uno dei paragrafi del libro "Classe e Rivoluzione", in preparazione per i tipi di Meltemi ed in uscita presumibilmente in primavera-estate.
Fa parte di un breve prologo sui "Capitalismi" che muove dalla lezione di Walter Benjamin per approfondire la forma di vita e di teologia economica implicita ma operante nel capitalismo. Seguirà un capitolo sulle 'rivoluzioni' e quindi un terzo, a completare la Parte Prima, sui 'mutamenti', nei quali, ripassando per il tema delle forme religiose dei capitalismi nel corso del tempo e per le forme idolatriche del mercato come salvezza, si arriva a descrivere il 'compromesso' dei trenta gloriosi, la sua 'revoca' nei successivi quaranta anni, e la 'revoca della revoca' (ovvero il ritorno della storia), in corso di dispiegamento.
La Parte Seconda e Terza (rispettivamente 'concetti' ed 'azioni') si occuperanno di trarre le conclusioni e di segnalare un percorso nella rete concettuale della tradizione marxista (e non solo) per dismettere gli abiti del lutto, propri della 'revoca', e riattivare i potenziali della situazione, evitandone alcuni rischi. Tra questi quello di correre avanti, immaginarsi a cavallo di un'onda mentre se ne viene portati, evitare il sentiero stretto di un lavoro lungo, determinato e paziente, volto alla creazione di nuove soggettività nell'azione di comunità politiche capaci di esprimere una nuova visione del mondo. Tuttavia non da questo estranee e fuggenti, come monaci benedettini. Serve un lavoro sistematico di interpretazione e rottura, azione concreta sui territori, immersione nelle controversie del proprio tempo, fatica del dialogo con i diversi e con i vicini, sforzo della memoria.
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