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Un Rebranding del Capitalismo
di Tomasz Konicz
La fine liberale come inizio autoritario: quando gli economisti liberali di sinistra scrivono parlando della fine del capitalismo, si riferiscono alla sua formazione autoritaria
«perché là dove mancano i concetti s'offre, al momento giusto, una parola.
A parole si litiga meravigliosamente, a parole si tracciano i sistemi,
alle parole è un piacere credere, alle parole non si ruba un iota.»
(Dal Faust di Goethe)
Finalmente! Dopo tutti questi anni [*1] in cui i critici del valore - simili a predicatori solitari nel deserto - hanno affrontato l'impulso autodistruttivo del capitale e messo in guardia circa il collasso [*2] del processo civilizzatore, dovuto all'incompatibilità tra capitalismo e salvaguardia del clima [*3], sembra che ad affrontare la questione ora ci sia arrivata anche la parte dominante dell'opinione pubblica. Se consideriamo la crisi sistemica, nei confronti della quale tutti gli approcci che pregano per la salute del capitale [*4] sono destinati a fallire, ciò non dovrebbe sorprendere affatto. Benché il "Partito della Sinistra", opportunisticamente disonesto, all’interno del quale le bande nazional-sociali si contendono l'egemonia[*5] con quelle liberali di sinistra, resta fedele alla sua monotona demagogia sociale, abbiamo visto se non altro che Ulrike Herrmann, economista del quotidiano "Taz", organo della sinistra-liberale del partito dei Verdi che è al governo, ha scritto un libro su "La fine del capitalismo", il cui sottotitolo dichiara l'incompatibilità esistente tra "crescita" e salvaguardia del clima. [*6]
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Tra l’anno della tigre d’acqua e l’anno del coniglio d’acqua
di Stefano Lucarelli
Una recensione a Raffaele Sciortino, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze, Asterios, 2022
1. Anche il 2023 come il 2022 sarà, secondo l’oroscopo cinese, segnato dall’elemento dell’acqua.
Sull’acqua è opportuno rileggere la seguente riflessione attribuita a Laozi – presunto autore del Tao Te Ching vissuto nel VI secolo a.C.: “Ecco come bisogna essere! Bisogna essere come l’acqua. Niente ostacoli – essa scorre. Trova una diga, allora si ferma. La diga si spezza, scorre di nuovo. In un recipiente quadrato, è quadrata. In uno tondo, è rotonda. Ecco perché è più indispensabile di ogni altra cosa. Niente esiste al mondo più adattabile dell’acqua. E tuttavia quando cade sul suolo, persistendo, niente può essere più forte di lei.”
Questa fluidità, questa capacità di adattamento, che è insieme forza basata su una lenta accumulazione di risorse, sembra caratterizzare la Cina contemporanea, potenza in sospeso fra l’apprendimento e l’assuefazione del modo di essere occidentale. Chi ha a cuore gli studi politici e le relazioni internazionali – e fra questi c’è senza dubbio Raffaele Sciortino, il quale ha anche il pregio di prendersi cura dei movimenti sociali – non può che scontrarsi oggi con l’esigenza rovinosa di fare i conti con la Cina, rileggendone la storia, per comprendere non solo il senso dell’attuale corso cinese, ma soprattutto le paure e le isterie che esso ha provocato nel mondo atlantico.
2. Sciortino ha scritto un libro diviso in tre parti: 1. Crisi nella globalizzazione; 2. Stati Uniti; 3. Cina. Una fatica che durante la lettura diviene sempre più ambiziosa. Pagina dopo pagina ci si ritrova avvolti in una riflessione profonda, alle prese con il tentativo di ripercorrere le trame che l’autore dipana.
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Segare il ramo, banchieri filantropi, e altre storie
di Alberto Bagnai
(...iniziato Verona, proseguito a Vicenza, terminato a Treviso. Pax tibi Marce evangelista meus...)
Nell'articolo con cui il 22 agosto 2011 lanciai il Dibattito sul "manifesto", attaccando da sinistra una Rossana Rossanda tutto sommato incolpevole (per non aver compreso il fatto), la chiave di volta del ragionamento era racchiusa in una frase che ex ante venne compresa da pochi, e che ex post forse sarà compresa da pochi altri (ma vale la pena di tentare):
"La Germania segherà il ramo su cui è seduta": che cosa voleva dire questa frase?
Proviamo a rispiegarne il senso economico e le implicazioni politiche. Sarà comunque un esercizio utile, indipendentemente dalla riuscita.
Prima premessa di metodo: la parola "domanda" esiste
Per mettere questa frase e le sue conseguenze nella prospettiva corretta bisogna però spogliarsi da ogni residua briciola di gianninismo, lo spaghetti-liberismo italiano tutto lato dell'offerta e distintivo (definisco questa corrente di "pensiero" riferendomi al personaggio di Giannino perché quest'ultimo è particolarmente influente - che non vuol dire autorevole!, iconico, e rappresentativo della consistenza scientifica di certe tesi).
Ricorderete che secondo Irving Fisher per ottenere un economista basta insegnare a un pappagallo a dire "domanda e offerta". In Italia occorre la metà dello sforzo: basta insegnare a un pappagallo (o a un giornalista) a dire "offerta", ed ecco pronto l'esperto di economia (quello autorevole)!
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La pace è finita, l’Unione Europea anche
di Sandro Moiso
Lucio Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2022, pp. 144, euro 16,00
E’ un agile libricino, ma c’è da augurarsi che la Befana in persona oppure qualche amico premuroso o caro parente l’abbia fatto pervenire nella tradizionale calza appesa al camino (o dove diavolo si voglia) dei lettori. Soprattutto di coloro che, ancora infatuati di filo-sovietismo e vetero-stalinismo d’antan, credono e affermano, senza mai averne letto una parola o un rigo, lo scarso interesse che rivestirebbero i saggi e gli studi di Caracciolo per i “compagni”. Spesso accusandolo di un filo-atlantismo ad oltranza che stride in maniera evidente con tutto ciò che l’autore va dicendo e scrivendo da anni.
Anche quelli che si ostinano a ritenere che la geopolitica sia “roba di destra” farebbero meglio a leggere il libretto oppure richiedere la consegna dello stesso da parte del drone con la scopa caratteristico del 6 gennaio. Poiché se è vero che acquistare «Limes», la rivista di cui Caracciolo è direttore, tutti i mesi può rivelarsi impegnativo e costoso, la lettura e l’acquisto di questo ultimo suo lavoro potrebbe occupare poco tempo e pesare non molto sulle tasche dei singoli (parlando comunque di tempo e soldi ben spesi).
Ma allora cosa conterrà di così importante il testo di cui si sta qui parlando, chiederà qualche lettore storcendo già il naso. La risposta è già nella prima riga, e in quelle seguenti, senza ombra di dubbio.
Il 24 febbraio 2022 è definitivamente finita la fine della storia. Trent’anni dopo la pubblicazione del saggio di Francis Fukuyama sopra La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), l’invasione russa dell’Ucraina impone sigillo all’illusione di emanciparci dalla prigionia del tempo, stigma di ogni progressismo occidentale.
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Caro amico, ti scrivo, ...
L’anno vecchio è finito, ormai Ma qualcosa ancora qui non va ...
Ma la televisione ha detto che il nuovo anno ... *
di Luca Busca
La fine di un anno e l’inizio di quello nuovo sono da sempre l’occasione migliore per fare bilanci. Si parte generalmente con un bilancio consuntivo per passare poi a quello preventivo per l’anno seguente. Di suo il 2022 è stato un anno di rara intensità, carico di eventi che possono essere racchiusi in quattro capitoli diversi di bilancio:
1. La Pandemia.
Cronologicamente viene prima la delirante gestione della pandemia di Covid-19 iniziata nel 2020. A gennaio la situazione si fa insostenibile. A causa di provvedimenti tanto coercitivi quanto inutili si superano i 250 mila contagi quotidiani. La propaganda, scatenata a favore di un vaccino privo di qualsiasi capacità di immunizzazione, ha indotto un odio feroce nei confronti di tutti coloro, incolpevoli, che hanno fatto una scelta diversa da quella imposta dal regime. Provvedimenti come il Green pass, nelle sue molteplici forme, hanno soppresso i diritti umani, civili e sociali di una minoranza composta da quasi nove milioni di individui. Numero a cui vanno aggiunti i genitori vaccinati che si sono rifiutati di far sottostare i propri figli al ricatto della somministrazione di un farmaco sperimentale. Crimine, quello di imporre una vaccinazione inutile a bambini e adolescenti, sicuramente tra i più gravi mai perpetrati da un governo nei confronti dell’unico futuro possibile del paese, i giovani.
Con il passare del tempo tutte le menzogne pandemiche sono venute a galla: l’immunizzazione nulla, anzi negativa dopo sei mesi dall’ultima somministrazione; il sostanziale e generalizzato abbassamento delle difese immunitarie, causato da vaccini e restrizioni che ha ritardato l’endemizzazione del virus; la blanda se non addirittura inesistente difesa contro le forme più gravi; il protocollo di cura sbagliato (“Tachipirina e vigile attesa”), divenuto la principale causa di morte da Covid; accanimento contro l’uso di antinfiammatori, del plasma iperimmune, delle cure precoci e domiciliari con il medico in presenza.
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Poche note sulla morte di Joseph Ratzinger
di Alessandro Visalli
Sono stato pochi giorni fuori dall’Italia, raggiunto a stento dalla notizia della morte del papa emerito Benedetto XVI e quindi ignaro della sorprendente ricezione della notizia. Improvvisamente alla vicenda terrena del vescovo cattolico sono state appiccicate etichette e bandierine da parte dei più diversi attori. L’intero sistema dei media, come un sol uomo, ha montato il racconto del santo e dell’eroe (nonché del genio) mentre molta parte della cosiddetta “area del dissenso”[1] ha ricalcato lo schema, riproducendovi sopra i propri stilemi.
Entrambi, abbastanza palesemente, utilizzando l’uomo contro il papa in carica che ha diverse colpe: non si allinea con il sufficiente entusiasmo alla parte dei ‘buoni’ nella guerra in corso contro la Russia[2], sostiene ancora, se pure in forma attenuata e dilavata, temi pauperistici ed anticapitalisti (peraltro tradizionali nella plurimillenaria istituzione che dirige)[3]. Ha sbandierato vistosamente uno scontro con la Curia nei primi mesi del suo papato, probabilmente giungendo ad un ‘modus vivendi’ negli ultimi. Il discorso di Francesco è del resto fortemente antimondialista e radicalmente opposto alle deviazioni dell’economia finanziarizzata, come si può apprezzare in questo frammento all’avvio della sua ultima enciclica.
“12. ‘Aprirsi al mondo’ è un’espressione che oggi è stata fatta propria dall’economia e dalla finanza. Si riferisce esclusivamente all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di investire senza vincoli né complicazioni in tutti i Paesi. I conflitti locali e il disinteresse per il bene comune vengono strumentalizzati dall’economia globale per imporre un modello culturale unico.
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Sul Capitalismo digitale
Francesco Maria Pezzulli intervista Giorgio Griziotti
Giorgio Griziotti, tra i primi ingegneri informatici laureati al Politecnico di Milano, ha esercitato la professione presso grandi aziende ICT, in Francia, dove ha vissuto in seguito alla sua partecipazione al movimento autonomo italiano degli anni ’70. La prima intervista a Giorgio Griziotti ho avuto modo di condurla nel 2016, in seguito alla pubblicazione di Neurocapitalismo, lavoro di fondamentale importanza per orientarsi nelle questioni del capitalismo digitale (vedi: “Neurocapitalismo, reti, comune”, in Sudcomune. Biopolitica inchieste soggettivazioni, n.1-2/2016). L’intervista che segue, invece, può essere considerata una continuazione della precedente (qui scaricabile: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-rivista-sudcomune) dal momento che affronta gli sviluppi recenti della riflessione sul Neurocapitalismo e sull’impatto delle tecnologie avanzate sulle soggettività. L’intervista viene pubblicata contemporaneamente da Effimera e Machina.
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Uno dei tanti meriti del tuo lavoro è legato al concetto di «Bioipermedia», ovvero un ambiente immateriale, fatto di tecnologie connesse, che influisce sui cambiamenti di soggettività ed è in grado di esercitare un controllo su ogni aspetto della vita dei singoli. Puoi raccontarci la formazione e lo sviluppo di questo concetto?
Ho introdotto una decina di anni fa il concetto di Bioipermedia, un termine derivato dall’assemblaggio di bios/biopolitica e ipermedia, in un numero speciale da me curato della rivista Alfabeta2 di Nanni Balestrini dal titolo “AlfaBioipermedia”[i] e poi l’ho ripreso e sviluppato in Neurocapitalismo[ii].
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Le guerre creano le nazioni
di Gilbert Doctorow*
Nei media tradizionali si è parlato molto di come la guerra con la Russia, iniziata il 24 febbraio 2022, abbia forgiato l’Ucraina in una nazione sotto la brillante guida del presidente Zelensky. Questa nazione ha trovato fiducia in se stessa nella sua apparente capacità di resistere all’invasione armata da parte del potente vicino a est e persino di contrattaccare con un certo successo, misurabile nei grandi guadagni territoriali nell’oblast di Kharkov prima e in quello di Kherson poi. La nuova nazione ucraina sta condividendo le difficoltà e ci dicono che la speranza della vittoria la tiene unita, per ora.
Del fatto che un quarto della popolazione ucraina abbia abbandonato il paese non si parla. Non sto contando solo quelli che sono fuggiti in occidente, ma anche quelli che sono fuggiti in Russia. E perché si dovrebbe discutere il significato di questo fatto? Un quarto della popolazione dei tre stati baltici, un quarto dei rumeni e dei bulgari fuggirono all’inizio degli anni ’90 dopo il crollo delle economie dei loro paesi a seguito alla rottura dei legami commerciali con la Russia e mentre questi paesi tentavano, inizialmente senza successo, di integrarsi nei mercati europei. Che gli ucraini fuggano ora da una guerra mentre quelli di prima erano rifugiati economici, il risultato finale per chi rimane non cambia: e’ una specie di pulizia etnica autoinflitta che sfocia nella costituzione di una nazione politicamente piu’ omogenea dopo la crisi.
Nel frattempo, dall’inizio della “Operazione militare speciale”, nessuno ha parlato di come si sta formando una nuova nazione in Russia. La cosa non deve sorprendere ovviamente dato che i nostri esperti nelle università americane ed europee e nei centri studi hanno ormai smesso di essere centri studi sulla Russia, che era la loro funzione quando furono creati e per cui ricevono finanziamenti dall’inizio della guerra fredda nel 1949.
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Verso le conclusioni
di Franco Romanò
L’articolo si collega ai precedenti già pubblicati qui, qui e qui.[E. A.]
Così riprende il testo:
Ora che abbiamo esaminato le diverse idee di costo elaborate da diverse generazioni di economisti, e le difficoltà che abbiamo incontrato, passeremo a discutere quali sono le relazioni fra il valore delle merci e il loro costo di produzione; e in particolare in che senso si può dire che il costo di produzione determina il valore e in che misura deve condividere il suo potere di determinazione con la domanda. Naturalmente la prossima parte della nostra inchiesta sarebbe stata più facile qualora avessimo trovato una chiara e definita concezione di costo di produzione, sulla quale fossero d’accordo gli economisti. In prima istanza abbiamo fallito, ma vedremo pure che nella dettagliata applicazione della nozione di costo alla teoria del valore saremo in grado di portare avanti la nostra analisi per un pezzo un po’ più lungo di strada prima di essere costretti di nuovo rinunciare a fronte di nuove difficoltà che possono finalmente spingere la nostra mente a considerare cosa intendiamo realmente quando parliamo di costo. La difficoltà è dovuta al fatto che. nella determinazione del prezzo di ogni particolare merce, la nozione di spese di produzione sarà sufficiente per molti propositi, senza che sia necessario decidere se 1) ci sia o meno l’ombra di “costi reali” oppure sacrifici dietro di esso; 2) un altro nome per utilità del prodotto (costo di opportunità), esso stesso costo reale in ultima analisi (non in quanto somma di denaro ma somma di cose consumate nella produzione) e se tale concetto abbia o meno un solido fondamento. Per alcuni qualsiasi definizione di costo funzionerà bene. Tutte tranne una e cioè il costo di opportunità nella sua estrema e più consistente interpretazione … che non ha alcunché a vedere con la determinazione del prezzo delle merci.
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Un contadino nella metropoli, di Prospero Gallinari
Introduzione
di Le compagne e i compagni di Prospero
Dieci anni fa, il 14 gennaio 2013, Prospero Gallinari moriva a Reggio Emilia. Colpito dall’ultimo e definitivo malore cardiaco, venne trovato nei pressi della sua abitazione, riverso al volante dell’automobile. Era agli arresti domiciliari per motivi di salute. Come ogni giorno, si apprestava a recarsi nella ditta dove aveva il permesso di lavorare svolgendo mansioni di operaio.
Ai suoi funerali presenziarono molte persone. Vecchi militanti delle Brigate Rosse, anziani esponenti del movimento rivoluzionario italiano, tanti emiliani che lo avevano conosciuto da giovane, e tanti giovani che avevano imparato a rispettarlo ascoltando le sue interviste, e leggendo il suo libro di ricordi intitolato Un contadino nella metropoli.
Sembrò e fu veramente un funerale di altri tempi. Una testimonianza di unione, e una occasione per legare insieme passato, presente e futuro, nel ricordo di un uomo la cui integrità era assolutamente incontestabile. La circostanza disturbò parecchio. Piovvero dichiarazioni di condanna e fioccarono persino denunce. Come si era potuto pensare di seppellire quel morto in quel modo? Ci sono cose, nel nostro paese, che non si devono fare. Scoperchiare l’infernale pentola della storia, come la chiamava Marx, può essere pericoloso.
Infatti la storia è un campo di battaglia. E lo è nel duplice senso di mostrarsi come terreno di lotta fra le classi tanto nel suo svolgimento, quanto nella sua ricostruzione postuma. Questo assunto, o se si vuole questa cruda verità, emerge nel modo più chiaro quando si parla degli anni Settanta italiani. A distanza di parecchi decenni, risulta evidente l’importanza politica e la vastità sociale del conflitto che vi si produsse fra il proletariato e la borghesia. Ma non per caso, dopo tutto questo tempo, le polemiche infuriano ancora senza esclusione di colpi, inscenando sempre lo stesso copione: il rifiuto, da parte della classe dominante, di ammettere che il proprio potere venne messo in discussione da una nuova generazione di comunisti, radicata nella società e intenzionata a dare senso concreto alla parola rivoluzione.
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La macchina della propaganda
di Alberto Bradanini
Introduzione
Secondo la narrativa dominante, la propaganda, vale a dire la sistemica produzione di falsità, colpirebbe solo le nazioni prive di libertà di espressione, i paesi autocratici, autoritari o dittatoriali (appellativi, invero, attribuiti a seconda delle convenienze). Nei paesi autoritari, con qualche diversità dall’uno all’altro, il quadro è piuttosto evidente, domina la censura: alcune cose si possono fare, altre no. A dispetto delle apparenze, tuttavia, anche nelle cosiddette democrazie, l’obiettivo è il medesimo, controllare il disagio della maggioranza contro i privilegi della minoranza, cambia solo la tecnica, una tecnica basata sulla Menzogna, che opera in modo sofisticato, creando notizie dal nulla, mescolando bugie e verità, omettendo fatti e circostanze, rimestando abusivamente passato e futuro, paragonando ostriche a elefanti.
Confondendo ulteriormente il quadro, per il discorso del potere – in cima al quale, a ben guardare, troviamo sempre l’impero americano in qualche sua incarnazione – i paesi autoritari sono poi quelli che non si piegano al dominio dell’unica nazione indispensabile al mondo (Clinton, 1999), colonna portante del Regno del Bene.
Coloro che dominano la narrativa pubblica, dunque, controllano la società e per la proprietà transitiva la ricchezza e le inquietudini che vi si aggirano. D’altra parte, persino chi siede in cima alla piramide è inquieto, preso dall’angoscia di perdere ricchezza e potere. E la coercizione non basta, occorre il consenso e il ruolo della propaganda è quello di disarticolare il conflitto, contenere quel malessere che si aggira ovunque come un felino in attesa della preda.
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(Neo)fascismo e antifascismo, oggi*
di Valerio Romitelli
La frase con cui Marx ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte riprende e rettifica Hegel per misurare le differenze tra Napoleone e il suo nipote Napoleone III è arcinota: “i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte (…) la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”.
1. Ci si azzarderà allora a sostenere che la Meloni è la farsa di Mussolini? Il suo governo la caricatura di quello formato dall’allora futuro Duce nell’ottobre di cent’anni fa? Non esageriamo. Nell’ottobre scorso, 2022, il senatore Scarpinato[1] in un memorabile discorso[2] al parlamento ha messo i puntini sulle i. La tradizione che il governo Meloni incarna non è esattamente il fascismo, ma il neofascismo. Questa precisazione è decisiva. A partire da essa si spiegano molte cose.
Si spiega lo sbaglio colossale di tutti coloro più o meno “rosso-bruni” che hanno intravisto in questo governo una qualche possibile protezione nazionalista di fronte alle perversioni della globalizzazione neo-liberale. Si spiega perché questo governo non lasci la ben minima speranza a qualsiasi pur vaga nostalgia per l’autarchia degli anni Trenta. Si spiega come mai la leader di Fratelli d’Italia non abbia dimostrato alcuna riserva critica rispetto alla fedeltà atlantista che il governo precedente, l’indecorosa ammucchiata attorno all’ineffabile Draghi, aveva eretto a suo vessillo principale. Si spiega perché nel prossimo avvenire nulla possa moderare l’adesione italiana alle politiche europee di sostegno sistematico, fatto di armi e soldi, al governo Zelensky. Si spiega fino a che punto la sottomissione italiana ed europea alle strategie di guerra americane sia confermata e proiettata ad oltranza, costi quel che costi[3].
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Il suprematismo USA alla prova
di Enrico Tomaselli
Negli ultimi decenni, negli Stati Uniti ha preso il sopravvento una strana alleanza tra l’elite globalista democratica ed i circoli neocon. Questo grumo di potere è unito dalla visione messianica degli USA come del paese eletto da dio a guidare il mondo; i primi apportano all’alleanza la visione ideologica, i secondi il cinismo politico. Sempre più scollegati dalla realtà degli states, appaiono accecati dalla propria stessa narrazione e stanno trascinando il mondo occidentale in una guerra senza fine, che per di più non possono vincere. La vera minaccia del conflitto nucleare viene da lì, non dalle steppe russe.
Una America accecata
Quando si pensa al suprematismo negli Stati Uniti, il pensiero va alle correnti di estrema destra che attraversano il paese, soprattutto fuori dalle grandi metropoli e lontano dalle sponde oceaniche: quel suprematismo bianco che va dal Ku Klux Klan alle milizie neonaziste. Ma, ancora più profondo, c’è un altro suprematismo che alligna in USA, e che ha le sue radici nella dottrina Monroe (1): l’idea dell’America First. Variamente declinata, e giustificata, l’idea della supremazia statunitense sul mondo si è via via andata delineando come una mission assegnata da dio (2), ma all’ombra della quale si sono poi annidati i corposi interessi materiali delle elites economiche. Già nella formulazione della locuzione è insita questa idea: come ha recentemente fatto notare il Presidente messicano, Andrés Manuel López Obrador, gli USA si pensano e si dicono l’America, laddove invece non ne sono che una parte. Anche solo il nord America, infatti, conta anche il Messico ed il Canada.
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Lucidità e tremore di Benedetto XVI, l’Inattuale
Eredità del “Papa della scelta”, che ha detto cose che andavano dette
di Gaspare Nevola
Ci sono molti che si dolgono della divina provvidenza perché lasciò peccare Adamo – sciocchi! Quando Dio gli diede la ragione, gli diede la libertà di scegliere, perché ragione non è altro che scelta, se no sarebbe stato solo un automa, un Adamo come appare nei teatri delle marionette
(John Milton, Areopagitica, 1644)
1. Ratzinger, il Papa della “scelta” e le sfide dell’iper o post modernità
La storia ricorderà Benedetto XVI come il Papa della clamorosa e inedita “rinuncia” di un pontefice al magistero pietrino e come il primo “Papa emerito” (forse destinato a restare unico). Il suo dell’11 febbraio del 2013 fu un gesto epocale: “inaudito”, senza precedenti. In un sol colpo, a saperlo leggere, quel gesto ha secolarizzato in profondità la Chiesa di Roma, forse più di ogni enciclica, tanto che mezzi di comunicazione ed esperti non sono riusciti a trovare la parola per definirlo. “Dimissioni”? No, perché non esiste una figura (terrena) alla quale un Papa possa inoltrarle: il Papa risponde solo al Signore Creatore. Il modo più appropriato per definire un simile gesto rimanda alla parola “scelta”. Una scelta maturata in dialogo con Dio e con la propria coscienza: la “scelta di Benedetto”. Questa la lezione.
Con quel gesto, annunciato urbi et orbi, il mondo (cristiano e non) apprende che anche un Papa può scegliere e scegliere, nella fattispecie, di rinunciare alla sua carica istituzionale (una lezione su cui molti dovrebbero riflettere). Eppure, per quasi un decennio quell’evento è rimasto a luci spente, nella dimenticanza dell’opinione pubblica.
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I dieci anni che sconvolgeranno il mondo? Prima parte
Appunti per una nuova teoria dell’imperialismo
di Raffaele Sciortino
Sullo sfondo della guerra in Ucraina e della recessione economica globale, l’urto possente che segnerà il prossimo futuro e sta già rimodellando il nostro presente: lo scontro tra Stati Uniti e Cina.
È su questo cambiamento di fase che, sabato 3 dicembre, abbiamo voluto ragionare con Raffaele Sciortino a Modena, per costruire un punto di vista e un’analisi approfondita che non si trovano nelle aule universitarie, sui podcast di Dario Fabbri o tra le infografiche di Instagram. Allargando il campo sull’epoca dei torbidi e di caos crescente che avevamo già cominciato a decifrare nel Mondo di domani, nella precedente iniziativa con Raf e Silvano Cacciari, di cui avevamo già riportato gli interventi su questo blog.
È questo scontro, oggi, il nodo cruciale del sistema-mondo capitalistico, imperniato su una globalizzazione giunta a un punto di non ritorno, tra equazioni impossibili e necessità di rilancio. Un conflitto che non si limit_a alle sfere alte della politica e dell’economia, ma inciderà sempre di più nella vita quotidiana di milioni di persone, e non in modo secondario a queste latitudini.
Che forma prenderà il caos internazionale da un punto di vista di classe? Da quali contraddizioni strutturali si darà il senso di marcia dello scontro? Quali scenari si apriranno per il ritorno del conflitto sociale?
«Gli dèi della fortuna favoriscono solo chi si prepara…», si chiude così il libro che abbiamo voluto presentare. Pertanto, partendo da queste domande, ma soprattutto da questa indicazione di metodo, pubblichiamo in tre puntate il ricco intervento e il proficuo dibattito della presentazione di Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenza, ultima, preziosa e non semplice fatica di Raffaele Sciortino. In questo prima tranche, un’introduzione alla crisi della globalizzazione capitalistica a trazione americana, sviluppata sul dollaro e sul ruolo di ordine/disordine di Washington nel sistema-mondo, che traccia fin da ora qualche appunto per una nuova, e necessaria, teoria dell’imperialismo ancora da scrivere.
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Sulla crisi del movimento comunista in Italia
di Carlo Formenti
Un anno e mezzo fa (maggio 2021) spiegavo su questa pagina le ragioni per cui, dopo qualche decennio in cui, pur non avendo mai smesso di professarmi comunista, non ho svolto militanza attiva, sentivo l'esigenza di impegnarmi concretamente in un progetto politico. A sollecitare tale scelta, scrivevo, era lo spettacolo degli effetti che quarant'anni di controrivoluzione liberale hanno prodotto in termini di degrado della qualità della vita e dei livelli di coscienza civile e politica di miliardi di esseri umani. Dopodiché esprimevo la convinzione che, per cambiare le cose , non occorresse ricostruire una "sinistra", termine che ha perso ogni valenza positiva agli occhi delle masse popolari, ma rilanciare l'obiettivo del superamento della società capitalista verso il socialismo.
Nello stesso post analizzavo le ragioni del fallimento delle esperienze ascrivibili all'area dei populismi e sovranismi di sinistra, un'area che, per motivi che ho descritto in alcuni miei libri, mi era parsa più vitale delle formazioni neo/post comuniste residuate dal tracollo del PCI prima e di Rifondazione Comunista poi (1). Infine, interrogandomi su quali requisiti minimi avrebbe a mio avviso dovuto avere una formazione politica all'altezza delle sfide del nostro tempo, ne elencavo cinque:
1) un forte impegno nella ricostruzione dell’unità del proletariato distrutta da decenni di guerra di classe dall’alto, a partire dal lavoro teorico di ridefinizione del concetto stesso di classe finalizzato ad analizzare le nuove forme dell’oppressione e dello sfruttamento capitalistici, ma soprattutto non fine a sé stesso ma alla ricostruzione del partito di classe;
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Prefazione a “La teoria generale del diritto e il marxismo”
di Giso Amendola
Pubblichiamo la nuova prefazione di Giso Amendola che accompagna la ristampa della Teoria generale del diritto e il marxismo di E.B. Pašukanis. Il volume è uscito nella collana filorosso per le edizioni Pgreco, che sta riportando in libreria molti classici del marxismo da tempo non più disponibili. Da questa collana abbiamo pubblicato anche la nuova prefazione di Toni Negri a Stato e Rivoluzione di V.I. Lenin
1. Il diritto in transizione
La Teoria generale del diritto e il marxismo, che torna oggi disponibile alla lettura dopo essere stato a lungo testo amato e citato solo dal ristretto gruppo degli interessati alla critica marxista del diritto, è un testo per molti aspetti “datato”. Presentato nel 1923 all’Accademia delle scienze, e pubblicato nel 1924, è attraversato dal suo rapporto specifico con una precisa fase della Rivoluzione sovietica. Il 1924 è l’anno della morte di Lenin e dell’ascesa di Stalin. Tre anni prima, nel 1921, era iniziata la Nep, la Nuova Politica Economica, e con essa il tentativo leniniano di rivitalizzare spazi di mercato e di impresa all’interno del processo che si era aperto con la Rivoluzione. L’apparizione in questo anno decisivo segna in qualche modo il destino di questa Teoria generale: un testo che aspira a collocarsi a un alto livello di astrazione (astrazione del resto è una parola chiave di tutta l’impresa di Pašukanis) e, allo stesso tempo, è attraversato da cima a fondo dalla precisa contingenza postrivoluzionaria in cui nasce[1].
La stessa vita di Pašukanis esprime, portandola sino alla tragedia, questa tensione tra intensità dell’impegno teorico e il coinvolgimento intenso nelle vicende storiche postrivoluzionarie. Pašukanis è decisamente impegnato nella costruzione degli strumenti giuridici postrivoluzionari. Allo stesso tempo, proprio le posizioni elaborate negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione, ne segneranno, nonostante tutti i suoi ripetuti tentativi di riposizionamento, la sorte personale negli anni del consolidamento dello stalinismo, sino a scomparire nel 1937 nel gorgo delle purghe staliniane.
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Il marxismo secondo Bloch, una mappa del mondo che contiene il paese Utopia
di Fabio Ciabatti
Ernst Bloch, Speranza e Utopia. Conversazioni 1964-1975, Mimesis, Milano 2022, pp. 142, € 15,81
“Rompere l’assedio, tentare il futuro” è uno degli slogan scelti dal collettivo di fabbrica della GKN, impegnato nel difficile tentativo di salvare 300 posti di lavoro riconvertendo il sito produttivo in uno stabilimento “pubblico e socialmente integrato”. “Quanto stiamo tentando – sostengono i lavoratori della fabbrica fiorentina – è completamente nuovo e al contempo affonda pienamente le radici nella storia di questo nostro territorio”. L’accostamento potrebbe apparire eccessivo, ma in queste parole sembra di ascoltare la lontana eco del “principio speranza” di Ernst Bloch. Per il filosofo tedesco, infatti, il futuro autentico, l’avvenire propriamente utopico, è ciò che non è accaduto mai e in alcun luogo. Allo stesso tempo, “non tutto ciò che è scomparso è ciarpame, perché c’è del futuro nel passato, qualcosa che non è stato liquidato, che ci è dato in eredità”.1
Bisogna fare attenzione, però, perché in questa duplicità si apre anche lo sciagurato spazio per un futuro inautentico, quello rappresentato, per esempio, dalla traboccante retorica del “Führer che ci conduce a nuove imprese”; quello che si spaccia per un nuovo inizio ma risale fino alla notte dei tempi per riscoprire una patria concepita come “sangue e suolo”. In realtà, la vera patria è un luogo dove nessuno è mai stato, ma che dobbiamo cercare di raggiungere, ammesso che si intenda la categoria di Heimat nella sua vecchia accezione filosofica e mistica: “essere a casa”, trovarsi finalmente in un posto in cui cessa l’alienazione e gli oggetti non sono più estranei, ma prossimi al soggetto.
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Fusione – e confusione – nucleare
di Angelo Baracca e Giorgio Ferrari
Una campagna di stampa a livello internazionale ha esaltato l’esperimento fatto negli Stati Uniti verso la realizzazione delle fusione nucleare controllata, un sogno (una promessa) inseguito fin dai primi passi della tecnologia nucleare negli anni ’40-’50 del secolo scorso: periodicamente ogni decina d’anni veniva annunciato che la realizzazione sarebbe stata vicina.
Ma oggi questo pomposo annuncio richiede molte precisazioni e distinguo, che inevitabilmente sfuggono a chi è a digiuno di queste cose.
Fusione a confinamento inerziale, una scelta militare
Detto in parole semplici la realizzazione della fusione nucleare di nuclei leggeri (in un certo senso l’opposto della fissione di nuclei pesanti) richiede di riscaldare un plasma, tipicamente di deuterio e trizio, a milioni di gradi in modo che le energie cinetiche dei nuclei superino le barriere di repulsione elettrica.
La reazione di fusione nucleare è stata realizzata già nel 1949, ma in modo esplosivo; vale a dire nelle bombe termonucleari nelle quali un dispositivo primario a fissione genera la temperatura necessaria ad innescare un dispositivo secondario a fusione.
Da quel tempo è iniziata la ricerca per realizzare la fusione nucleare in modo controllato (non esplosivo) a scopi pacifici, ricerca che oggi si concentra su due metodi molto diversi: il confinamento magnetico di un “plasma” ottenuto dalla fusione di Deuterio e Trizio (DT) in macchine di grandi dimensioni del tipo Tokamak (l’esperimento più avanzato è l’impianto ITER, in costruzione a Cadarache in Francia) e il confinamento inerziale (FCI), concentrando su un corpo grande quanto un granello di pepe (pellet), composto sempre da D e T, enormi energie, tipicamente generate da superlaser, che comprimano e riscaldino il DT a milioni di gradi innescandone la fusione nuclearei.
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Il patto suicida
Lettere al futuro n. 8
di Marino Badiale
1. Il patto sociale nelle società premoderne e nella modernità.
In questo scritto espongo alcune riflessioni sulla situazione dello “spirito del tempo”. Il punto di partenza è la convinzione che la società attuale sia indirizzata verso un rovinoso crollo di civiltà, che sarà causato dal concorrere di una serie di crisi concomitanti, fra le quali la più significativa in questo momento è la crisi climatica. Ho argomentato tale mia convinzione in interventi passati [1] e non mi soffermerò su di essa in questo scritto, che è piuttosto dedicato ad esaminare le conseguenze di questa situazione sul piano della cultura e delle ideologie.
Il punto di partenza è una considerazione del tutto generale (e piuttosto banale): in ogni società umana che presenti un gruppo sociale dominante e uno o più gruppi sociali subalterni, esiste una qualche forma di “patto sociale”, non sempre chiaramente esplicitato, per il quale i ceti subalterni accettano il dominio dei ceti dominanti. Nessun dominio stabile può basarsi esclusivamente sulla forza bruta, ma deve prevedere un momento nel quale le istanze dei ceti subalterni sono considerate e almeno parzialmente soddisfatte; ovviamente questo avviene entro limiti ben precisi, compatibilmente cioè con la perpetuazione del potere e dei privilegi dei ceti dominanti [2]. Naturalmente, niente garantisce che il patto sociale funzioni: può succedere che i ceti dominanti falliscano nel tener fede al patto, per incapacità propria o per cause di forza maggiore (disastri naturali, sconfitte militari). Ma in tal caso il loro dominio è messo seriamente in pericolo, e se non viene ripristinato e reso storicamente efficace un patto sociale soddisfacente, i ceti dominanti vengono abbattuti e sostituiti da altri ceti dominanti.
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Sraffa, Marx e la primavera
di Paolo Di Marco
1- il quadrato magico
Il testo di Sraffa che oggi compare, l’ultimo delle Lezioni, completa il quadro della critica dei fondamenti della teoria economica: quadro in tutti i sensi, dato che abbiamo l’articolo di Sraffa del 26, queste Lezioni, Keynes visto attraverso gli occhi di Anna Carabelli nella edizione completa delle opere, e infine Graeber col suo ‘Debito, gli ultimi 5000 anni’.
Da Sraffa vengono tre elementi di analisi della teoria marginalista: il primo (nell’articolo del 26) è che non necessariamente c’è un solo punto d’incontro tra la curve di domanda ed offerta, quindi un punto di equilibrio non è determinato con certezza, e con esso un saggio del profitto; il secondo che in generale tutte le curve che formano la parte analitica della teoria sono arbitrarie e provengono da sistemi di equazioni indeterminati; il terzo che l’ambito in cui possono avere applicazione pratica è ristretto a pochi casi marginali. Il tutto accompagnato dall’osservazione che la riscoperta della ‘economia volgare’ da parte dei marginalisti e la loro fortuna appare dovuta più alla voglia di abbandonare la teoria classica e con essa l’imbarazzante fardello del valore-lavoro, nonché lo spettro socialista che ad esso si era accompagnato, che non a meriti intrinseci.
Conviene aggiungere una nota matematica che non è sempre palese: quando si dice che in una teoria economica un sistema è sovradeterminato (come nel caso di Marx che aggiunge con l’uguaglianza somma-prezzi=somma-valori una condizione di troppo) o è indeterminato (come nel caso di Marshall- e con lui tutti i marginalisti per l’insieme delle curve di produzione) diciamo una cosa molto precisa: il sistema è sbagliato. Non è una soluzione. Se fosse uno studente che si presenta col compitino fatto gli diremmo: torna a casa e rifai da capo.
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La verità sulla guerra russo-ucraina
di Carlo Formenti
In un mondo ideale, quando scoppia una guerra come quella oggi in atto fra Russia e Ucraina, che minaccia di avere gravi conseguenze non solo per le popolazioni coinvolte ma per l'intero pianeta, la prima preoccupazione di chi è in grado - per cultura e competenze - di analizzare le cause reali del conflitto, dovrebbe essere quella di trasmettere le proprie conoscenze al largo pubblico dei non addetti, non solo per aiutarlo a farsi un'opinione corretta su quanto sta accadendo, ma anche per stimolarne l'impegno a fare il possibile, se non per porre fine alla strage, almeno per limitare i danni. Purtroppo non viviamo in un mondo ideale, bensì nell'Italia attuale, cioè in un Paese inglobato in due blocchi economici, politici e militari, l'Unione Europea e la Nato, asserviti agli interessi di una superpotenza come gli Stati Uniti che, oltre a essere la prima responsabile della guerra, è anche determinata a fare sì che essa si prolunghi il più a lungo possibile, nella speranza di rallentare il proprio declino, danneggiando non solo una delle nazioni belligeranti, quella Russia che assieme alla Cina è la sua maggiore controparte geopolitica, ma anche gli "alleati" europei, i quali, dovendo pagare un prezzo elevato ove il conflitto si prolungasse, vedrebbero ridursi la propria capacità competitiva nell'ambito del blocco occidentale. Non stupisce quindi che le classi intellettuali sopra evocate - giornalisti, accademici, esperti di storia, politica ed economia, ecc. -, invece di svolgere un ruolo di informazione obiettiva sui fatti e di analisi scientifica delle loro cause, siano impegnati in una forsennata campagna propagandistica contro una delle parti belligeranti, presentandola come l'unica responsabile della guerra, se non come l'incarnazione del male assoluto.
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Annuntio vobis gaudium magnum: habemus papam!*
Ratzinger, a Roma via Friburgo
di Roberto Fineschi
1. Il “pastore tedesco”
L’evento è stato mondiale, oggi più che in passato. L’esposizione mediatica cui la Chiesa Cattolica (d’ora in poi CC) è stata sottoposta sotto Giovanni Paolo II ha reso l’elezione pontificia un fatto più internazionale che mai. Chi gode della parabola o delle fibre ottiche avrà ammirato in varie lingue – dall’inglese al francese, passando per il tedesco – agonia e funerali del fu regnante, preparativi ed elezione del nuovo: una vera e propria ubriacatura eterea.
Della concezione politico-sociale di fondo – o della Dottrina Sociale che dir si voglia – della CC si è già detto in passato (vedi Contraddizione, n. 77), vediamo che riflessioni si possono fare oggi a proposito del nuovo pontefice: Joseph Ratzinger. Il “pastore tedesco”, come è stato beffardamente ma efficacemente battezzato dal quotidiano “Il manifesto”, ha sfatato la consuetudine per cui chi entra papa esce cardinale; dato per vincente dai bookmaker, ha pagato poco chi ha scommesso su di lui: entrato papa è uscito papa col nome di Benedetto XVI.
Nato in Baviera nel 1927 in una famiglia profondamente cattolica da padre gendarme, non è tuttavia filo-nazista – così si legge nella sua autobiografia1 – anzi vive con apprensione l’entrata in guerra e la politica espansionistica hitleriana. Non ancora diciottenne, Joseph prenderà parte al conflitto nella contraerea – ma lui non spara – quando l’esercito tedesco era arrivato ad arruolare perfino i ragazzini. Studia teologia e si fa la fama di “liberal”, tanto che, giovanissimo, partecipa al Concilio Vaticano II come consulente del cardinal-arcivescovo di Colonia Frings; i buontemponi in rosso lo battezzano bonariamente il “teenager” in quanto, allora poco più che trentenne, tale sembrava in mezzo a tante cariatidi.
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Il fascismo del XXI Secolo
di Fulvio Bellini*
La struttura in crisi: lo Stato in mano alla sola borghesia
In svariati passaggi delle opere di Karl Marx si parla di struttura e sovrastruttura, e in premessa del presente articolo, si desidera ricordare che questi concetti sono attuali, che abbracciano ideologie e politica, e che spiegano il titolo di questo scritto. Come noto, la descrizione sintetica ma limpida di struttura e sovrastruttura il filosofo di Treviri ce la pone nella prefazione del testo Per la critica dell’economia politica del 1859: “Nella produzione sociale delle loro esistenze, gli uomini inevitabilmente entrano in relazioni definite, che sono indipendenti dalle loro volontà, in particolare relazioni produttive appropriate ad un dato stadio nello sviluppo delle loro forze materiali di produzione. La totalità di queste relazioni di produzione costituisce la struttura della società, il vero fondamento, su cui sorge una sovrastruttura politica e sociale e a cui corrispondono forme definite di coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo generale di vita sociale, politica e intellettuale. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. Ad un certo stadio di sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in conflitto con le esistenti relazioni di produzione o – ciò esprime meramente la stessa cosa in termini legali – con le relazioni di proprietà nel cui tessuto esse hanno operato sin allora. Da forme di sviluppo delle forze produttive, queste relazioni diventano altrettanti impedimenti per le stesse. A quel punto inizia un’era di rivoluzione sociale. I cambiamenti nella base economica portano prima o dopo alla trasformazione dell’intera immensa sovrastruttura”.
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Il nodo politico dell’inflazione
di Claudio Gnesutta, Matteo Lucchese
Di fronte all’inflazione italiana, le politiche monetarie restrittive sono inadeguate, le questioni chiave sono il conflitto distributivo prodotto dall’aumento dei prezzi, le possibili politiche dei redditi, gli spazi per una politica che metta al centro la difesa dei redditi reali
Dalla seconda metà del 2021 l’economia italiana, come le altre economie occidentali, è stata colpita da un grave shock inflazionistico, partito dall’aumento dei prezzi dell’energia importata. Le tensioni che sono state messe in moto hanno effetti profondi – nel breve come nel medio periodo – sull’economia del Paese. Per comprenderne la portata e gli effetti occorre guardare ai fenomeni inflativi come processi di riaggiustamento (economico e sociale) in seguito ad uno shock dovuto all’improvviso trasferimento di reddito reale dall’interno all’estero, che si esaurisce quando l’assetto distribuivo (e produttivo) interno risulta socialmente “accettabile” nelle nuove condizioni interne e internazionali.
I termini della questione.
Lo shock inflazionistico che stiamo osservando origina dall’esterno del sistema economico nazionale – è dovuto essenzialmente all’aumento dei prezzi dei beni energetici importati, e solo in seconda battuta, di quelli alimentari (i dati sull’inflazione sono presentati nell’articolo di Giuseppe Simone e Mario Pianta https://sbilanciamoci.info/inflazione-e-salari-i-dati-e-le-politiche/). Si tratta cioè di uno shock che ha inizialmente aumentato i costi di produzione delle imprese, lasciando immutato il livello dei redditi interni. Sul piano macroeconomico, l’aumento del prezzo dei beni energetici implica – a parità di energia importata – un trasferimento netto di reddito reale dai paesi che subiscono l’aumento a quelli che forniscono la materia prima; un flusso di trasferimenti che si ripete fin tanto che dura la maggiore dipendenza del paese da tali importazioni.
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