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intelligence for the people

Ucraina: il panico europeo e la “guerra civile” d’Occidente

di Roberto Iannuzzi

Sebbene gli USA non puntino a una pace vera con Mosca, l’Europa vuole una prosecuzione della guerra. I russi lasceranno che il fronte occidentale si sfaldi sotto il peso delle sue contraddizioni

https substack post media.s3.amazonaws.com public images 41706ce9 4389 4b4c 964a 6ef8dced307e 1880x1160.jpegLa pubblicazione della nuova Strategia di Sicurezza Nazionale dell’amministrazione Trump, insieme all’ultimo piano di pace per l’Ucraina proposto dalla Casa Bianca, costituiscono solo gli ultimi due episodi che hanno inasprito le relazioni fra Washington e il vecchio continente.

Ma la spaccatura fra le due sponde dell’Atlantico è tutt’altro che netta, bensì frastagliata e trasversale, e le sue origini precedono l’arrivo di Donald Trump alla presidenza americana.

Al momento del suo insediamento, avevo scritto che anche il secondo mandato del magnate statunitense era destinato “a suscitare opposizione, resistenze, confusione e shock a livello politico ed economico, sia sul piano interno che all’estero”.

Avevo sottolineato però che una parte dell’oligarchia USA era ormai dalla sua parte, e che i principali venture capitalist della Silicon Valley si contendevano l’orecchio del presidente.

Aggiungevo che allo stesso tempo

“pezzi della magistratura sono determinati ad opporsi ai provvedimenti di Trump all’interno, mentre elementi del cosiddetto “Stato profondo”, come la comunità dell’intelligence, sono pronti a dar filo da torcere al presidente sulle questioni di politica estera”.

Già allora era facile prevedere che Trump era “destinato a spaccare ulteriormente l’Europa”, e a dare un’ulteriore spallata a “un ordine internazionale già abbondantemente picconato da Joe Biden e dai suoi predecessori alla Casa Bianca”.

Le ragioni erano molteplici:

“Trump ha detto di amare l’Europa ma non l’UE. Tuttavia i dazi e la richiesta di acquistare ancora più LNG americano rischiano di svuotare le tasche dei comuni cittadini europei prima ancora di danneggiare i tecnocrati di Bruxelles.

Mentre la sua pretesa che gli alleati oltreoceano aumentino le spese militari fino al 5% del PIL fa il gioco di quelle élite europee che sostengono ingiustificatamente l’esigenza che il vecchio continente si riarmi anche al prezzo di impoverire i suoi cittadini.

Allo stesso tempo, la scelta della Casa Bianca (con il sostegno di magnati della Silicon Valley come Elon Musk) di flirtare con i partiti della cosiddetta “destra populista” europea inasprirà inevitabilmente la dialettica politica nel vecchio continente e i rapporti transatlantici”.

Ma, come detto, Trump non è la causa della crisi, ne è solo un sintomo. Se si vuole individuare uno spartiacque nella crisi degli Stati Uniti e dell’Occidente, bisogna risalire al tracollo finanziario del 2008, seguito alle disastrose avventure militari di George W. Bush in Afghanistan e Iraq.

Dopo quella catastrofe, il successore Barack Obama ha clamorosamente fallito nel tentativo di rimettere gli USA in carreggiata.

Il famoso “pivot” verso l’Asia per contenere la Cina rimase sulla carta, mentre Washington si impantanò per l’ennesima volta in guerre mediorientali (questa volta per procura) dalla Libia alla Siria, dopo lo scoppio delle rivolte arabe.

Fallirono anche le due gigantesche aree di libero scambio – la Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) fra le due sponde dell’Atlantico, e la Trans-Pacific Partnership (TPP) – che avrebbero dovuto isolare ancora una volta Cina e Russia.

Con il sostegno della Casa Bianca, ebbe invece successo nel 2014 la rivolta di Maidan che avrebbe portato al potere un governo visceralmente antirusso a Kiev, avviando il processo di demolizione dell’integrazione economica euro-russa.

L’idea che ha accomunato tutte le amministrazioni succedutesi alla Casa Bianca dopo il 2008 è stata quella di smantellare progressivamente una globalizzazione nella quale gli Stati Uniti non erano più in grado di competere, per tornare a una logica di contrapposizione fra blocchi.

Il nuovo confronto tra Russia e Occidente iniziato nel 2014 culminò con l’invasione russa dell’Ucraina otto anni dopo, la quale avrebbe scatenato una guerra per procura fra Mosca e la NATO, e favorito la creazione di una nuova cortina di ferro in Europa. A un prezzo altissimo per il vecchio continente.

Cedendo ai diktat e alle intimidazioni dell’amministrazione Biden, gli europei hanno compiuto un vero e proprio suicidio economico, rinunciando all’energia a basso costo proveniente dalla Russia e alla profondità strategica che gli avrebbe garantito il continente eurasiatico.

Essi hanno accettato la logica angloamericana dello scontro senza tentennamenti, abbracciando una prospettiva di impoverimento e progressiva militarizzazione dell’Europa.

 

Una strategia fallimentare

Questa logica si è dimostrata catastroficamente perdente.

Lungi dall’infliggere una sconfitta strategica alla Russia, lo scontro per procura fra Mosca e NATO sta dissanguando l’Ucraina e svuotando le casse e gli arsenali dell’Occidente, la cui industria bellica si è dimostrata incapace di tenere il passo con quella russa.

Avendo condotto interventi militari dispendiosi quanto inconcludenti su numerosi fronti mediorientali oltre che in Ucraina, gli Stati Uniti si trovano a gestire un esercito impegnato su troppi scacchieri, un’industria della difesa da rifondare, e un debito nazionale che ormai veleggia verso i 40 trilioni di dollari.

Ma l’esigenza americana di ridurre i costi, e di razionalizzare gli obiettivi strategici di politica estera disimpegnandosi da alcuni fronti, ha suscitato il panico nelle élite politiche europee le quali si trovano nell’impossibilità di fare marcia indietro.

Per esse, perseguire una soluzione negoziata del conflitto ucraino, che comporterebbe inevitabilmente concessioni dolorose per Kiev e una ridefinizione dell’architettura di sicurezza del continente, equivarrebbe ad ammettere un catastrofico fallimento.

Ciò a sua volta metterebbe a rischio la loro già fragile presa sul potere. Secondo l’Economist, la fine dei combattimenti in Ucraina significherebbe l’inizio delle lotte intestine in Europa. Per rimanere in sella, l’attuale classe politica europea ha ormai bisogno di un’emergenza permanente.

Essa ha bisogno di un nemico esterno per tenere a bada il dissenso interno, per giustificare l’austerità e l’aumento delle spese militari, e per mantenere Washington ancorata alle sorti del vecchio continente.

L’Unione Europea necessita anch’essa di un nemico esterno per continuare a giustificare il processo di accentramento del potere (incluso quello militare) portato avanti in questi anni, sottraendolo agli stati membri. Essa opera sempre più al di fuori del proprio mandato giuridico.

Analogamente, la NATO necessita di un nemico esterno per giustificare la propria rilevanza ed esistenza, anche a scapito degli stati membri.

Da qui la necessità di ripetere ossessivamente il mantra secondo cui la Russia attaccherà l’Europa, che Putin è un “orco”, secondo le parole del presidente francese Emmanuel Macron, “un predatore alle nostre porte”, sebbene non esista alcuna prova o ragione storica o strategica per cui Mosca intenda lanciarsi in una conquista del continente.

 

Perdita del primato

Ma ciò che realmente alimenta le paure degli attori politici europei è la perdita dell’egemonia. Come ha scritto Almut Rochowanski, ricercatrice presso il Quincy Institute, essi hanno da perdere forse ancor più degli Stati Uniti dal tramonto del primato americano:

“La reazione dei leader europei agli attacchi illegali di Israele e degli USA contro l’Iran a giugno ha ulteriormente chiarito le motivazioni alla base del neo-bellicismo europeo: il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha ringraziato Israele per aver fatto il ‘lavoro sporco’ per conto dell’Europa, e von der Leyen ha pontificato sul diritto di Israele all’autodifesa, criticando allo stesso tempo l’Iran. Due mesi dopo, gli E3 – Germania, Francia e Regno Unito – hanno reimposto le sanzioni all’Iran. Apparentemente motivata dal fatto che l’Iran non era tornato al tavolo dei negoziati, l’azione è stata in realtà una dimostrazione di obbedienza preventiva a Trump, volta ad adescarlo a proseguire la guerra in Ucraina”.

Rochowanski conclude che “il neo-bellicismo europeo è motivato dal predominio, non dalla protezione da una minaccia”, citando a supporto di questa tesi anche le deduzioni dell’esperto canadese Zachary Paikin, il quale ha affermato che “dietro l’inquietudine [europea] per ragioni di sicurezza si nascondono preoccupazioni più intime di status”.

In altre parole, le élite europee non temono un attacco ai loro rispettivi paesi quanto piuttosto una perdita del primato del quale hanno goduto per decenni in qualità di partner minori degli Stati Uniti, come del resto ha implicitamente ammesso il presidente finlandese Alexander Stubb dalle pagine di Foreign Affairs.

 

Giocare il tutto per tutto

Da tali paure, e dall’esigenza di queste élite di conservare il loro residuo potere, emerge il nuovo militarismo europeo, le politiche di riarmo di paesi come Germania e Polonia, l’ossessione dell’UE di implementare uno “Schengen militare” che favorisca la mobilità del materiale bellico sul territorio europeo (intaccando ancora una volta la sovranità dei paesi membri), l’insistenza di Francia e Gran Bretagna a schierare truppe europee in Ucraina.

Ma in questo momento la principale urgenza per i leader europei è trovare i fondi per finanziare lo sforzo bellico ucraino prima che gli attuali stanziamenti si esauriscano con l’inizio del nuovo anno.

L’opzione più gettonata per risolvere questo dilemma sembra essere quella di utilizzare i beni russi congelati presso le banche europee come collaterale per confezionare un prestito all’Ucraina.

Si tratta di un azzardo giuridico, criticato da numerosi esperti occidentali, che perfino la Banca Centrale Europea si è rifiutata di sostenere.

Malgrado ciò, un’offensiva diplomatica capeggiata dalla presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen e dal cancelliere tedesco Friedrich Merz è stata lanciata contro il Belgio, dove è depositata la quota maggiore degli asset russi congelati sul territorio europeo.

Di fronte alla strenua opposizione del primo ministro belga Bart De Wever, che non vuole esporre il proprio paese ai rischi giudiziari e finanziari derivanti da una simile operazione, Politico ha scritto che “l’UE è pronta a trattare il Belgio come l’Ungheria se non appoggerà il prestito all’Ucraina”.

Decisivo a tal proposito si preannuncia il vertice europeo del 18 dicembre.

Nel frattempo, la Commissione intende ricorrere all’articolo 122 per immobilizzare a tempo indeterminato i beni russi, evitando che essi vengano restituiti a Mosca qualora le sanzioni europee (che vanno approvate all’unanimità ogni 6 mesi) non fossero rinnovate.

Il premier belga ha obiettato che l’articolo 122 riguarda uno stato di emergenza: “Dov’è l’emergenza? C’è un’emergenza in Ucraina. Ma l’Ucraina non è nell’Unione Europea”.

 

Priorità divergenti

Critiche all’intransigenza europea provengono anche da oltreoceano. George Beebe, ex responsabile delle analisi sulla Russia presso la CIA, attualmente al Quincy Institute, improvvisamente parla di “urgenza morale” di giungere a un compromesso in Ucraina.

Se la sollecitudine per le sorti di Kiev è certamente una novità per la maggioranza degli analisti americani, le tesi di Beebe sull’insostenibilità delle posizioni europee sul conflitto sono tuttavia sensate.

Beebe giustamente osserva che, se gli europei, come gli Stati Uniti, non sono disposti a scendere direttamente in guerra con la Russia rischiando con ogni probabilità un conflitto nucleare, essi devono riconoscere che l’Ucraina è inevitabilmente destinata a una rovinosa sconfitta militare in assenza di un compromesso con Mosca.

Beebe non fa che riflettere le tesi della nuova Strategia di Sicurezza Nazionale (SSN) appena pubblicata dall’amministrazione Trump.

Tale documento sostiene che una “rapida cessazione delle ostilità in Ucraina” è un interesse primario degli Stati Uniti, non solo per garantire la sopravvivenza statuale dell’Ucraina, ma anche per stabilizzare l’economia europea, impedire un’escalation e ricostituire una stabilità strategica con la Russia.

Il documento è stato descritto da molti come un netto cambiamento di rotta rispetto al passato, e in Europa ha fatto scalpore poiché segna indubbiamente una rottura rispetto ai canoni tradizionali del rapporto transatlantico.

 

Elementi di rottura e di continuità

Ma la SSN dell’amministrazione Trump è più il riflesso della crisi del primato americano che non una reale ridefinizione degli abituali obiettivi strategici degli USA.

Essa cerca più che altro di adattare obiettivi, che per molti versi restano invariati nella loro sostanza, alla mutata realtà globale.

La novità maggiore è rappresentata dalla speciale attenzione riservata all’emisfero occidentale, sul quale Washington sembra intenzionata a imporre una rinnovata egemonia. Ma ciò non implica necessariamente un disimpegno da altri scacchieri.

Le critiche espresse nel documento alle precedenti politiche egemoniche americane sono più apparenti che sostanziali, e costituiscono forse un maldestro tentativo di illudere gli avversari e di accontentare la base trumpiana.

La vera novità è che gli USA chiedono ai propri alleati di assumersi le responsabilità della difesa nelle rispettive regioni di appartenenza attraverso una meccanismo di “condivisione degli oneri”, in modo da consentire a Washington “di contrastare efficacemente le influenze ostili e sovversive, evitando al contempo un’eccessiva estensione e una focalizzazione diffusa che hanno compromesso gli sforzi passati”.

Evidentemente, le “influenze ostili” restano le solite: Cina, Russia, Iran, Corea del Nord, e così via. Ma gli Stati Uniti pretendono dagli alleati un impegno maggiore in termini di fondi e armamenti.

Pechino rimane certamente un avversario, visto che il documento americano sostiene la necessità di costruire “un esercito capace di respingere un’aggressione ovunque nella prima catena di isole [Giappone, Taiwan, Filippine, Borneo]”.

Ma anche Mosca resta un nemico. La SSN vuole infatti una “cessazione delle ostilità in Ucraina” (dunque un conflitto congelato, non una pace strategica), e allo stesso tempo chiede agli europei di prepararsi a “impedire a qualunque avversario di dominare l’Europa” (un evidente riferimento alla Russia).

Anche nella regione mediorientale il documento, dopo aver criticato le politiche americane del passato, ribadisce che gli USA sono determinati a “impedire a potenze avversarie di dominare il Medio Oriente, le sue forniture di petrolio e di gas, e i punti strategici attraverso cui passano” (anche in questo caso è chiaro il riferimento all’Iran).

 

Sfaldamento occidentale

Il cambio di tono più significativo si registra nei confronti dell’Europa, dove la SSN mostra un atteggiamento preferenziale nei confronti dei paesi dell’Est e delle cosiddette “forze sovraniste” nel vecchio continente.

In particolare, il documento condanna l’Europa occidentale a una prospettiva di “cancellazione della civiltà”, criticando aspramente le politiche dell’Unione Europea.

Esso dunque prospetta (o per certi versi semplicemente rileva) un vero e proprio scontro intestino, una sorta di “guerra civile” interna all’Occidente, che presenta tuttavia un fronte frastagliato e tutt’altro che netto sia in Europa che negli Stati Uniti.

Un relativo disimpegno americano dall’Europa non è malvisto solo dagli europei, ma anche da pezzi importanti dell’establishment statunitense, dalla lobby neocon, e da esponenti dello stesso partito di Trump.

Contemporaneamente, va sottolineato che non vi è nemmeno una completa omogeneità fra Trump e i sovranisti europei.

Vi è poi in questo momento un chiaro scontro fra l’amministrazione Trump e Londra, tradizionale alleato privilegiato di Washington in Europa. La Gran Bretagna infatti non condivide l’approccio “pacificatorio” della Casa Bianca nei confronti della Russia.

La SSN è dunque un documento pieno di aporie e apparenti contraddizioni, come il fatto di puntare a una cessazione delle ostilità in Ucraina ma anche al riarmo dell’Europa.

Evidentemente, esso non punta ad una risoluzione della contrapposizione strategica con la Russia.

Ciononostante, a Francia, Gran Bretagna e Germania la sola prospettiva di un congelamento del conflitto con Mosca non piace. Questi paesi vogliono la prosecuzione della guerra, e hanno posto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky sotto la propria “ala protettrice”.

D’altra parte, Mosca è del tutto consapevole dei limiti dell’offerta negoziale americana e dei reali messaggi insiti nel documento della SSN.

Pur mantenendo un canale aperto con Washington, i russi continueranno a puntare in primo luogo su una soluzione militare in Ucraina, dove le forze di Mosca stanno vincendo.

E nel frattempo lasceranno che il fronte occidentale continui a sfaldarsi sotto il peso delle sue contraddizioni, e in particolare dell’impossibilità americana di controllare tutti gli scacchieri e dell’incapacità europea di assumere nel vecchio continente il ruolo di sicurezza finora giocato dagli USA.

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